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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

2 December 2024

SISTEMI MOTIVAZIONALI, EMOZIONI IN CLINICA, LIOTTI: UN APPROFONDIMENTO (E UN’INTERVISTA A LUCIA TOMBOLINI)

di Raffaele Avico

Abbiamo intervistato Lucia Tombolini, psichiatra e docente, storica collaboratrice di Giovanni Liotti, a proposito dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI).

Quello che ne è emerso è un ottimo dialogo per chi voglia meglio comprendere questa “lente” interpretativa su diversi fenomeni clinici.

L’intervista è raggiungibile a questo link.

La Teoria dei Sistemi Motivazionali è potenzialmente in grado di “superare” (o almeno di affiancare) la prospettiva pulsionale che Freud aveva pensato come “basale” nel funzionamento psichico.
Per Freud le pulsioni erano “rappresentanti” del corpo entro il “reame” della mente, fenomeni psicologici direttamente derivanti dal corpo, elementi di “confine” tra il somatico e la psiche: la psicologia di un individuo sarebbe stata, per Freud, “determinata” dalla forma della loro “organizzazione”.
Parliamo invece, con i Sistemi Motivazionali, di un insieme di comportamenti a base innata che si sviluppano fin dalla vita intrauterina, “regali” dell’evoluzione in grado di muovere il soggetto a comportamenti e relazioni, fin dalla sua nascita. Per una introduzione generale alla Teoria dei Sistemi Motivazionali interpersonali, si veda qui.

Integriamo l’intervista a Lucia Tobolini con un riferimento al tema delle emozioni, viste alla luce della teoria degli SMI.

Le emozioni potrebbero essere lette, usando questa lente, come “segnali” di attivazione di particolari SMI. Quando c’è un’emozione che si “staglia” dal fondo, è utile per uno psicoterapeuta chiedersi: “qual è il Sistema Motivazionale Interpersonale attivato in relazione ad essa”? Quando infatti questo stesso SMI avesse trovato un suo “compimento”, spesso osserveremmo un risolversi dell’emozione stessa, come se le emozioni avessero una “funzione di segnale” per qualcosa riguardante i Sistemi Motivazionali. Pensiamo per esempio all’ansia da separazione/paura nei bambini piccoli, che si attiva in concomitanza con la minaccia di un attaccamento interrotto, e si risolve quando l’attaccamento è (anche solo “virtualmente”) rispristinato: in questo caso l’emozione è un segnale, un segno dell’attivazione di un particolare SMI. E la stessa cosa vale anche per le altre emozioni.

Un approfodimento su questi temi lo troviamo proprio sul prima citato “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali” a cura di Liotti, Fassone e Monticelli: ne riportiamo qui di seguito un estratto, incentrato proprio sul tema emozioni e SMI (da pag. 162 a pag. 170), scritto da Giovanni Liotti -come sempre geniale.


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Sistemi motivazionali e psicopatologia dei disturbi emozionali

Per illustrare il contributo della TEM alla comprensione delle emozioni che caratterizzano la psicopatologia, ci soffermeremo sui casi in cui l’emozione appare sregolata per intensità e frequenza, esaminando i casi dell’ansia, della tristezza, della colpa, della vergogna e della collera.

[…]

Ansia

Se si esamina la più comune emozione che compare all’interno dei disturbi psicopatologici, l’ansia, alla luce della Teoria Evoluzionistica della Motivazione, si nota che la sua definizione elementare e classica – paura senza oggetto – appare discutibile. La TEM, infatti, induce a riconoscere sempre l’oggetto della paura in un ostacolo o una minaccia al conseguimento della meta di uno dei sistemi motivazionali. Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine. Pure riconducibili al sistema di attaccamento sono l’ansia generalizzata e l’ansia ipocondriaca, quando i problema cruciale sembra essere non soltanto la rappresentazione di un rischio (di un qualsiasi danno oppure di una malattia) ma anche o soprattutto la resistenza ad accettare il conforto che figure d’attaccamento (familiari, amici, medici) tentano di offrire nella forma di rassicurazione circa l’inesistenza o l’improbabilità del rischio temuto. Ben diverso è il caso dell’ansia sociale, dove l’ostacolo (l’oggetto della paura riguarda il conseguimento della meta di rango caratterizzante l’attivazione del sistema competitivo (agonistico). L’ansia sociale dovrebbe dunque essere meglio definita come paura di subire un giudizio negativo che compromette l’aspirazione a mantenere o incrementare il rango sociale percepito. Altri tipi di paura abnorme, come quelli che caratterizzano i disturbi correlati allo stress post-traumatico (fra i quali molti esperti considerano anche i disturbi borderline e dissociativi: Liotti, Farina, 2011) e quelli che possono apparire nel corso dei deliri di persecuzione, sono riconducibili soprattutto alle operazioni del sistema di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), non principalmente ai sistemi di attaccamento e di rango.

Non è infrequente che alcuni tipi di ansia abbiano come oggetto ostacoli al conseguimento delle mete di due o più sistemi motivazionali. Per esempio, il panico è non di rado riconducibile all’esperienza di paura senza soluzione tipica dell’attaccamento disorganizzato (Cassidy, Mohr, 2001). Nell’attaccamento disorganizzato esiste una tensione abnorme fra i sistemi di attaccamento e di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), tale che coesistono paura di danneggiamento da parte della figura di attaccamento e paura di perderne la vicinanza protettiva così che non è possibile né cercare prossimità né fuggire (Liotti, Farina, 2011). Nel conflitto fra questi due sistemi motivazionali si apre la possibilità di gravi processi dissociativi, nei quali il sistema di difesa per la sopravvivenza contribuisce in particolare alla depersonalizzazione (Liotti, Farina, 2011).

Tristezza

I tre sistemi motivazionali chiamati in causa per comprendere i tipi più comuni di paura abnorme sono anche quelli più spesso coinvolti nelle diverse forme di dolorosa angoscia, tristezza e malinconia che compaiono in numerosi disturbi psicopatologici. Quando è coinvolto principalmente il sistema di attaccamento, la forma assunta dall’esperienza emozionale è quella della tristezza per la perdita, ben diversa anche fenomenologicamente dalla tristezza per la sconfitta o il fallimento, caratteristica dell’implicazione prevalente del sistema agonistico. Un’analisi attenta delle posture e dei resoconti dell’esperienza soggettiva permette poi di differenziare da queste due la forma di accasciamento emozionale legata al sistema di difesa per la sopravvivenza. Quest’ultima si palesa come sentimento diffuso ed estremo d’impotenza, riconducibile all’attivazione progressiva del nucleo dorsale del vago nel processo che conduce alla finta morte (feign death: vedi capitolo 1; vedi anche Porges, 2007 e Seligman, 1975).

É degno di nota che paura e tristezza (ansia e depressione se si preferisce la terminologia corrente in psicologia clinica e psichiatria) sono spesso associate fra loro con emozioni esperite in maniera abnorme (soprattutto collera etero- o autodiretta, vergogna e colpa) in diversi disturbi psicopatologici. La TEM permette di studiare queste associazioni di emozioni in ogni sindrome clinica a partire dall’ipotesi che esse siano coordinate dallo stesso sistema motivazionale e ne riflettano la tipica sequenza operativa. Per esempio, si può prevedere che la tristezza per la perdita si coniughi più facilmente al timoroso sentimento di vulnerabilità conseguente alla solitudine percepita (sistema di attaccamento) in un dato paziente, mentre la tristezza per sconfitta o fallimento sia più probabilmente legata, in un altro, alla paura del giudizio sociale negativo e alla vergogna (sistema agonistico).

Vergogna e colpa

Vergogna e colpa, che sono entrambe presenti in molti disturbi psicopatologici, sono state e sono ancora oggetto di importanti indagini e di controversie negli studi teorici ed empirici riguardanti la psicopatologia. È ben nota la divergenza fra le teorie psicoanalitiche classiche che attribuiscono un ruolo cruciale alla colpa seguendo la concezione freudiana del Super-lo, e la Psicologia del Sé (Kohut, 1971) che tende a considerare più importante la vergogna almeno nella genesi dei disturbi psicopatologici più gravi (per una sintesi recente degli argomenti di questa controversia, si può consultare il terzo capitolo del libro di Aron e Starr, 2013). Kohut (1971) considera la vergogna come un sentimento diffusivo che può espandersi a tutto il Sé annichilendolo, mentre la colpa è un sentimento più maturo che si manifesta in fasi più avanzate dello sviluppo della personalità, ed è conseguenza di singole contravvenzioni a specifiche proibizioni morali. Secondo Kohut (1971) le personalità narcisistiche non hanno sviluppato una struttura superegoica adeguata, e quindi non sperimentano sentimenti di colpa anche se possono descrivere le loro esperienze di vergogna in termini di elevati ideali morali. La fondamentale idea che la vergogna tende a essere sperimentata come pervasiva dell’esperienza di sé mentre la colpa è contestualizzabile nell’ambito di specifiche trasgressioni trova un corrispettivo nella discriminazione fra le due emozioni suggerita cal cognitivismo clinico: la vergogna si basa sulla convinzione (belief) di essere globalmente “sbagliati” o “fatti male”, mentre la colpa è basata sulla credenza di aver fatto qualcosa di male o di sbagliato.
La ricerca empirica sulle differenze fra vergogna e colpa sembra offrire sostegno alla tesi di Kohut: una meta-analisi di numerosi studi (Kim, Thibodeau, Jorgensen, 2011) dimostra che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna è significativamente superiore rispetto a quella con la colpa. Tuttavia, nello stesso studio meta-analitico sono presenti considerazioni riguardanti il rischio che un’inadeguata discriminazione concettuale fra vergogna e colpa renda vano il tentativo di indagare sia sul diverso ruolo patogeno delle due emozioni, sia sui processi mentali che le rendono abnormi per intensità, durata e contesto

di comparsa. Nell’articolo di Kim, Thibodeau e Jorgensen (2011) si legge che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna cessa di essere significativamente diversa dall’associazione con la colpa quando si considerano due varianti di colpa disadattativa: la colpa causata da un esagerato senso di responsabilità per eventi incontrollabili, e la colpa generalizzata liberamente fluttuante (cioè non riferibile ad alcun contesto specifico). L’identificazione di diversi tipi di colpa crea problemi per la differenziazione fra vergogna e colpa negli studi empirici di psicopatologia, tanto più che sono state descritte, per lo più su basi cliniche, numerose varianti del sentimento di colpa: colpa edípica, colpa da separazione e slealtà, colpa del sopravvissuto, colpa da senso di responsabilità onnipotente e colpa maligna (self-hate guilt), colpa deontologica e colpa altruistica (definite in O’Connor, Berry, Weiss et al., 1997; Mancini, 2008). Il problema posto al ricercatore dalla difficoltà di discriminare fra la vergogna e alcune varianti della colpa può essere illustrato con un esempio. La colpa maligna e la colpa liberamente fluttuante potrebbero apparire difficilmente distinguibili dalla vergogna perché come quest’ultima sono emozioni diffusive che invadono ampiamente l’esperienza di sé e dunque, diversamente dalla colpa per trasgressioni a specifiche interdizioni morali, non sono facilmente contestualizzabili.

A nostro avviso, la TEM permette di discriminare sempre fra vergogna e colpa in modo particolarmente efficace, risolvendo il suddetto problema. Secondo la TEM, la vergogna è un’emozione tipica del sistema agonistico, anche se potrebbe manifestarsi nel sistema sessuale nella forma mitigata del pudore e, in forma estrema, nel sistema affiliativo come conseguenza dell’espulsione dal gruppo. La colpa, invece, non è tipica di alcun sistema motivazionale, e può manifestarsi in un buon numero di essi: nel sistema di accudimento (dove accompagna o segue il disattendere alle richieste di cura e stimola il rispondere), nel sistema cooperativo (dove frena la slealtà verso i partner con cui ci si è impegnati in un’impresa congiunta), nel meccanismo che inibisce la violenza intraspecifica (vedi la descrizione del MIV nel capitolo 3), e nel sistema affiliativo (dove scoraggia il persistere nella trasgressione alle norme del gruppo).
Nel normale funzionamento del sistema di attaccamento, la comparsa di colpa e vergogna non offrirebbe invece, almeno nei primi due anni di vita in cui il sistema è particolarmente attivo, alcun vantaggio evoluzionistico in termini di raggiungimento della meta adattativa. Per questa ragione, colpa e vergogna devono attendere la maturazione di sistemi diversi da quello di attaccamento per diventare facilmente osservabili nel bambino. Soltanto quando, durante il terzo anno di vita, si possono attivare, insieme a quello di attaccamento, altri sistemi motivazionali (nei quali colpa e vergogna rivelano le proprie finalità evoluzionisticamente adattative) le due emozioni si possono talora osservare, frammiste a quelle di attaccamento, durante le interazioni fra bambino e caregiver.

Il vantaggio adattativo della colpa è evidente: essa muove alla riconciliazione e dunque contribuisce a salvaguardare relazioni sociali dotate di alto valore evoluzionistico. Il valore evoluzionistico della vergogna può sembrare a prima vista meno evidente, ma diviene chiaro se si considera la dinamica dei segnali di sottomissione e di dominanza durante le contese per il rango sociale. Quando la sfida e l’aggressività reciproca fra due contendenti, che caratterizzano le prime fasi operative del sistema agonistico, cominciano a dimostrare la forza superiore di uno dei due, nell’altro si attiva un automatismo psicobiologico che inibisce il comportamento aggressivo. Questo automatismo è noto come subroutine di resa, o di sottomissione, del sistema agonistico. Nella subroutine di resa il tono muscolare, fino a quel momento molto alto per permettere le condotte aggressive, si riduce bruscamente. Il sangue, che era stato richiamato nei muscoli per nutrirli durante lo sforzo competitivo, defluisce rapidamente verso i visceri e soprattutto verso la cute, donde il rossore tipico della vergogna. L’andare verso l’antagonista a testa alta e schiena dritta, per colpirlo, si arresta in una sorta di accenno di fuga (fuga invertita, nella terminologia degli etologi) e si trasforma in uno dei possibili segnali di resa. Lo sconfitto evita lo sguardo del vincitore a segnalare che cessa di attaccarlo, china il capo e persino si prostra, oppure si getta sul dorso e alza nel vuoto gli arti, a mitare la posizione di una preda sul punto di essere uccisa. Allo stesso tempo anche il vincitore cessa l’attacco, e pur mantenendo la postura dell’agressione vincente (spalle alzate, mento in alto) rivolge nel vuoto la tensione aggressiva residua: può emettere, per farlo, una sorta di urlo di trionfo rivolto verso il cielo, può correre brevemente sul terreno dell’agone, o colpire con i pugni il proprio torace invece dell’avversario sconfitto, come fanno i gorilla. E questa la subroutine di trionfo, detta anche di dominanza, del sistema agonistico che viene spontaneo collegare, quando la osserviamo in un animale, a un’emozione simile all’orgoglio umano. La vergogna, invece, è l’emozione che altrettanto spontaneamente colleghiamo all’incipiente subroutine di resa che apre la strada ai segnali di sottomissione.

L’essenziale valore evoluzionistico legato alla capacità di formare gruppi sociali coesi dipende dunque anche dalla capacità di manifestare vergogna, avviando con i corrispondenti comportamenti la costruzione di gerarchie sociali primordiali basate su rapporti di dominan-za-subordinazione (Trower, Gilbert, 1989). Tali tipi di gruppo sociale sommano in sé i vantaggi dell’orientamento univoco (indicato dal do-minante) e dell’unione delle forze di molti. L’esistenza di gerarchie di rango riduce la conflittualità interna fra i membri del gruppo, e apre la strada all’evoluzione di forme diverse di gruppo sociale, meno rigidamente gerarchiche e più orientate alla collaborazione (vedi il tema del sistema di affiliazione umano nel capitolo 4).

La TEM permette dunque una chiara distinzione fra le emozioni di colpa e vergogna attraverso l’analisi degli scopi finali che l’individuo persegue nel momento del loro manitestarsi (rispettivamente, riparazione di una relazione per la colpa, e riconoscimento della maggiore forza o competenza di un altro membro del gruppo per la vergogna).

Quest’analisi è facilitata dall’osservazione dei comportamenti e dei fenomeni corporei che accompagnano le due emozioni: posture chine, evitamento dello sguardo diretto, lieve allontanamento dall’altro e rossore nel caso della vergogna; avvicinamento benevolo con postura eretta e sguardo rivolto all’altro nel caso della colpa.

Si potrebbe opinare che una tale scrupolosa discriminazione tra colpa e vergogna non è clinicamente indispensabile, argomentando che le due emozioni si manifestano spesso insieme in diversi disturbi psico-patologici, e sono riconducibili a percezioni negative di sé che hanno molti aspetti in comune. A queste argomentazioni, la TEM oppone solidi controargomenti. È vero che le percezioni di sé durante le manifestazioni congiunte di colpa e vergogna si sovrappongono e rendono difficile la discriminazione tre vedue emozioni, ma no os per ke rappresentazioni dell’altro, e quindi di sé-con-l’altro Nella colpa il Sè è rappresentato come responsabile di un danno che ha causato all’altro o alla relazione con l’altro, quindi come dotato di forze, competenze o risorse pari o superiori a quelle dell’altro, altrimenti non avrebbe potuto recargli danno. Nella vergogna, invece, la rappresentazione dell’altro è caratterizzata dalla riconosciuta superiorità, quanto meno sul piano etico, e la rappresentazione di sé da un’ inferiorità meritevole di giudizio morale negativo e persino di disprezzo. In altre parole, chi prova vergogna si sente inferiore e tendenzialmente impotente, mentre chi prova colpa si sente responsabile e abbastanza “forte” da poter-causare danno. Quanto poi al motivo per cui le due emozioni di colpa e vergogna e le due corrispondenti rappresentazioni tendono apparentemente a sovrapporsi, la TEM lo rintraccia nel confondersi quasi simultaneo di due contesti relazionali e motivazionali che però restano diversi fra loro. Per esempio, un paziente in psicoterapia che racconti di aver tradito qualcuno che ama, mentendogli, prova durante il racconto colpa verso la persona amata, e vergogna di fronte al giudizio negativo che si aspetta formarsi nella mente del terapeuta. E probabile che un terapeuta attento soprattutto alle dinamiche relazionali e motivazionali in cui è personalmente coinvolto durante lo scambio clinico noti soprattutto o soltanto la vergogna del paziente, e intervenga su quella. Un terapeuta portato a esplorare le narrazioni e le dinamiche intrapsichiche del paziente piuttosto che la relazione terapeutica in corso forse noterebbe, di fronte allo stesso racconto, soltanto la colpa. Un clinico che cerchi guida nella TEM noterebbe entrambe le emozioni, contestualizzate in due simultanee rappresentazioni di sé-con-l’altro: quella in corso e che coinvolge il terapeuta (dove affiora la vergogna), e quella con la persona amata e ingannata che il paziente sta rievocando (dove affiora la colpa). Il vantaggio clinico sta nella possibilità di esplorare, nella sequenza che appare più opportuna (di regola, prima la colpa e poi la più paralizzante vergogna), entrambi gli ambiti di esperienza e significato.

Collera

La collera compare normalmente nelle sequenze emozionali tipiche di diversi sistemi motivazionali. Nel sistema di attaccamento essa appare nella forma di protesta contro l’incipiente allontanamento della figura di attaccamento, ed è finalizzata a impedirlo. Nel sistema di accudimento il fine della collera è scoraggiare in modo rapido ed energico la persona che si vuole proteggere dal compiere azioni dannose o pericolose, come segnalato nello scritto di Bowiby (1984) di cui il capitolo 3 ha offerto una sintesi. La collera appare nel sistema agonistico durante le prime fasi della contesa per il rango, e si manifesta come aggressività ritualizzata il cui scopo è ottenere la resa dell’an-

tagonista senza danneggiarlo seriamente (vedi i capitoli 1e 3). Una

forma primordiale e violenta di collera accompagna la fase di attacco del sistema di difesa per la sopravvivenza, dove l’aggressività non è ri-tualizzata ma volta a danneggiare o uccidere. E importante ricordare che l’aggressività, altrettanto distruttiva, del sistema predatorio non è accompagnata da collera (vedi capitolo 3). Infine, stati mentali e condotte alla cui genesi contribuiscono i sistemi motivazionali di ordine superiore, inducendo modificazioni nella collera e nell’aggressività che caratterizzano le operazioni di sistemi più arcaici, sono la gelosia, l’invidia e il sarcasmo.

La causa più frequente di manifestazioni abnormi per intensità e durata della collera eterodiretta è certamente il deficit, transitorio e contesto-dipendente ovvero più stabile, della funzione regolatrice esercitata dai sistemi motivazionali di ordine superiore su quelli evoluzionisticamente più antichi. Tale deficit può conseguire a variabili genetiche e temperamentali, ma probabilmente è più spesso conseguente a tensioni dinamiche abnormi fra sistemi motivazionali come quelle fra attaccamento e ditesa per la sopravvivenza che caratterizzano l’attaccamento disorganizzato (capitolo 3; Liotti, 2014a).

Più complessa è la genesi della collera rivolta verso se stessi. Per rivolgere verso di sé collera e aggressività, è anzitutto necessario che esista la capacità di un dialogo interiore a sostegno della coscienza di sé estesa nel tempo (Damasio, 2010), ovvero a sostegno della descrizione narrativa dell’identità personale. Secondo la TEM, in assenza di tale capacità (che ovviamente manca negli animali e non è sviluppata nei piccoli umani fino al terzo anno di vita) collera e aggressività so-no, per regola di adattamento darwiniano, sempre eterodirette. Data l’esistenza della capacità di dialogo interiore, particolari contesi interpersonali e specifici processi mentali devono intervenire nel corso dello sviluppo della personalità perché collera e aggressività possano essere rivolte verso di sé, rompendo la regola evoluzionistica che le vuole eterodirette. Alcune ipotesi sui contesti interpersonali e sui processi mentali capaci di dirigere su di sé collera e aggressività sono stare discusse nella parte finale del capitolo 3 (pp. 85-86).

COMMENTO

Liotti era un bowlbiano convinto e aveva in mente, pensando alla clinica, la Teoria dell’Attaccamento, sapeva di come i bambini esprimono emozioni a partire da “mandati” evoluzionistici, pre-cognitivi, assolutamente innati. Una parte del suo lavoro è stata incentrata sul comprendere come questi mandati si attivano e funzionano nel rapporto di un paziente con il suo terapeuta, o all’interno della vita di un bambino che poi diventa uomo. Pressoché tutti i comportamenti di un bambino possono essere letti a partire dalla lente “sistemi motivazionali”: i problemi insorgono quando questi mandati non trovano “soddisfazione“, o non sono “attivabili”.

Un noto test proiettivo riguardante i bambini in età prescolare, l’MCAST, permette di simulare delle situazioni critiche per osservare quanto e in che modo il bambino attivi i suoi sistemi motivazionali (in particolare il sistema di attaccamento), e come questi trovino il loro compimento.

Nella vita di un adulto, di fronte a situazioni di minaccia, o in altri numerosi frangenti, i Sistemi Motivazionali si attivano e cercano una loro meta: le emozioni ci raccontano di come questa “traiettoria”, questa teleologia, si sviluppi e trovi una sua chiusura.

La cosa importante da tenere in considerazione è che molte delle emozioni portate da un paziente durante una psicoterapia, possono essere rilette a partire da questa prospettiva.
Come sottolinea Liotti, per esempio, un attacco di panico o una forte ansia a riguardo del corpo potrebbero essere riletti come un sistema di attaccamento attivato che non trova un suo compimento (avevamo qui scritto a proposito di una lettura del panico come ansia da separazione estrema, di fronte a una minaccia di “rottura di un attaccamento”): non sarebbe tanto il problema in sé l’oggetto della minaccia, quanto il terrore relativo al percepirsi -in questo- isolati (cito testualmente Liotti: “Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine”). Il passaggio è abbastanza importante, perché sposta l’attenzione dal sintomo a qualcosa di più relazionale e primevo, elemento causale che spesso viene facilmente accettato e riconosciuto dal paziente come plausibile e “naturale”. Inoltre ci fa riflettere su quanto gli aspetti relazionali, in clinica e fuori da essa, rappresentino un elemento centrale: non sarebbe tanto cosa dice una terapeuta a una suo paziente a fare la differenza, ma come risponda alle richieste implicite messe in atto dal paziente a livello dei sistemi motivazionali, quanto il terapeuta sappia rispondere a un sistema di attaccamento attivato in un paziente spaventato, quanto sappia porsi in modo cooperativo in altri frangenti, etc.

Su quest’ultimo punto convergono d’altronde molti filoni di studi in ambito psicoanalitico, il che ci racconta -ancora una volta-  di come Liotti abbia saputo integrare in sé visioni diverse, approcci teorici differenti, sempre più convergenti, alla ricerca di un “denominatore comune” in psicoterapia.

Su Liotti abbiamo qui tentato una sintesi del suo “modello di lavoro”.

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Article by admin / Formazione / interviste, psichiatria, psicoterapia

28 March 2024

GLI INCONTRI DI AISTED: LA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A GINEVRA (16 APRILE 2024)

di Raffaele Avico

Il 16 aprile 2024 alle 19 via Zoom e accessibile a tutti, AISTED ha organizzato un incontro con Federico Seragnoli, psicologo e dottorando presso Hôpitaux Universitaires de Genève (HUG), a proposito dell’uso terapeutico delle sostanze psichedeliche.

Attualmente in Svizzera (e in pochi altri luoghi in Europa) viene usata la psicoterapia assistita da psichedelici: come sappiamo l’MDMA è studiato da anni come possibile aiuto farmacologico nel contesto della cosiddetta “fase 2” del trattamento delle sindromi post-traumatiche, essendo in grado di predisporre la mente a un miglior lavoro di esposizione ai ricordi traumatici, mitigando le risposte di allarme.

Federico ci racconterà della sua esperienza in Svizzera, delle sue osservazioni a riguardo, del suo lavoro come psicologo in quel contesto.

L’incontro verterà sulle seguenti domande:

  • Federico, ci racconti chi sei e di cosa ti occupi? Quali sono i progetti che porti avanti con il tuo gruppo di lavoro?
  • Parliamo del tuo lavoro in ambito psichedelico: Ginevra sembra essere l’unico luogo in Europa dove la psicoterapia assistita da psichedelici è erogata al pubblico. Ci spieghi com’è possibile e come funziona l’iter?
  • Come si svolge, nel concreto, una sessione? Ci racconteresti qualcosa di un caso da te seguito?
  • Quali sono i professionisti coinvolti in un percorso di psicoterapia assistita, e quali sono i razionali di intervento (disturbi-target, principio di funzionamento della PAP, e risultati attesi?)
  • Ci daresti un parere personale sulla psicoterapia assistita da psichedelici, e sul rinascimento psichedelico in generale?
  • Spunti di approfondimento (siti, film, libri, articoli, gruppi di lavoro in ambito di ricerca, etc.)?

Qui la pagina per iscriversi sul sito AISTED.


Altro su questo blog a proposito di psichedelia e psichedelici:

  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO)
  • VERSO L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL PTSD
  • RUBRICA: TERAPIE PSICHEDELICHE
  • PHENOMENAUTICS

Article by admin / Formazione / neuroscienze, psichiatria

27 February 2024

BRESCIA, FEBBRAIO 2024: DUE ESTRATTI DALLA MASTERCLASS “VERSO UNA NUOVA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE”

di Raffaele Avico

A febbraio 2024, a Brescia, Massimo Agnoletti ed Emiliano Toso hanno tenuto una masterclass che aveva come tema centrale la terapia espositiva, che abbiamo su questo blog approfondito in molteplici post.

Il corso si è svolto nel corso di un’intera giornata, e ha avuto come temi centrali la “visione” sulla psicoterapia portata da Agnoletti -ricercatore psicologo esperto di gestione dello stress e “psicoterapia d’avanguardia”-, insieme ad un approfondimento verticale sulla terapia espositiva portato da Toso, che su questo tema scrive e studia da molti anni.

Agnoletti ha parlato di microbiota, visione olistica della salute mentale ed epigenetica, citando molti studi di ricerca (attingendo anche dalla sua vasta produzione in letteratura, accessibile da qui).

Toso ha indagato invece il paradigma inibitorio dell’esposizione formalizzato da Michelle Craske, aggiungendo alcuni aspetti “suoi”: i fattori estrinseci ed intrinseci a una migliore implementazione della terapia espositiva in psicoterapia (si veda qui).

Qui di seguito due estratti del corso, visibili in chiaro sul canale di Psychiatry On Line.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale, Formazione / psichiatria, psicoterapia

29 January 2024

Camilla Stellato: “Diventare genitori”

di Raffaele Avico

Per chi fosse interessato al tema del parenting, consigliamo il lavoro di una psicoterapeuta romana, Camilla Stellato, autrice di Diventare genitori.

Diventare Genitori rappresenta un buon manuale introduttivo per chi voglia approcciarsi al tema del parenting senza avere già conoscenze pregresse in ambito di psicoterapia e psicologia infantile. La Stellato ha una formazione in psicoanalisi transazionale, e sta divulgando e approfondendo il tema del parenting integrando differenti visioni e approcci teorici, compresa la prospettiva metacognitiva interpersonale di DiMaggio, di cui ci siamo spesso occupati su POPMed.

Per introdursi al suo lavoro, mettiamo qui un link a un suo intervento sul ciclo della rabbia che spesso un genitore può sperimentare nei primi anni di accudimento di un bimbo o di una bimba, spiegato passo dopo passo e in modo molto chiaro.

All’interno del volume Diventare Genitori troviamo elencate alcune problematicità inerenti la “transizione alla genitorialità”, compresi alcuni spunti pratici per far fronte ai problemi più comuni.

La Stellato giustifica le sue affermazioni con evidenze scientifiche di livello alto, per esempio -parlando di come il legame di coppia cambi dopo l’inizio della genitorialità- il lavoro di una sociologa torinese, Manuela Naldini, a proposito di uno squilibrio tra i carichi dei due genitori una volta nat* il/la figli*, un ritorno a una modalità “anni ‘50”, per via di quello che la Naldini, sulla scia di altri autori, chiama ri-tradizionalizzazione.

A livello di letteratura scientifica, “ri-tradizionalizzazione” sembra essere un fenomeno non solo italiano, ma internazionale.

Eccone una definizione generica:

”La parola “ri-tradizionalizzazione” suggerisce un ritorno a pratiche o modelli più tradizionali. Nel contesto del parenting, potrebbe riferirsi a un movimento o a un approccio che cerca di abbracciare o ripristinare pratiche di genitorialità considerate più tradizionali o classiche. Le pratiche di genitorialità tradizionali possono variare da cultura a cultura e da epoca a epoca, ma spesso coinvolgono ruoli di genere più definiti, con aspettative specifiche per le madri e i padri, modelli familiari più conservatori e un’enfasi su valori culturali o religiosi tradizionali”.

  • Qui un lavoro italiano del 2014.
  • Qui un articolo tedesco sul tema.

NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Recensioni / psichiatria, psicoanalisi, psicologia

14 December 2023

UN APPROFONDIMENTO DI MAURIZIO CECCARELLI SULLA CONCEZIONE NEO-JACKSONIANA DELLE FUNZIONI MENTALI

di Raffaele Avico

Da poco è stato pubblicato sulla pagina di AISTED dedicata al gruppo di interesse sulla psicopatologia, un intervento approfondito e gratuito di Maurizio Ceccarelli a proposito della prospettiva neo-jacksoniana a riguardo della psicopatologia. Ceccarelli parte con una chiara introduzione teorica a proposito delle teorie di Jackson, Edelman, Damasio e di Bergson (autori tutti allineati nell’idea di una concezione “gerarchica e dinamica“ delle funzioni mentali umane), per poi spingersi verso aspetti più clinici, relativa alla concezione di psicopatologia in ottica neo-jacksoniana.

In precedenza il gruppo di interesse sulla psicopatologia aveva intervistato Giuseppe Craparo sull’attualità dei contributi teorici di Pierre Janet.

Il video è visibile qui:

Article by admin / Formazione / psichiatria, psicotraumatologia, PTSD

6 November 2023

10 ARTICOLI SUL JOURNALING E SUI BENEFICI DELLO SCRIVERE

di redazione POPMed

PREMESSA: Questo articolo è un estratto da POPMed, una newsletter a cadenza bi-settimanale a proposito di psichiatria, psicologia clinica, neuroscienze, avanguardie di ricerca, salute mentale. Il tema è il journaling, ovvero il “tenere un diario”.

Scrivere aiuta la mente a digerire percetti/contenuti complessi (come i traumi), consente di lavorare sulla propria identità, sulla propria storia, aiuta a mettere in fila i pensieri. Rappresenta una pratica virtuosa, ottima da integrare al lavoro di psicoterapia. 

Ma partiamo subito con i 10 consueti “item”. 

Dobbiamo anticipare che questi lavori non vogliono “aggiornare” ma “approfondire”: sono quindi non necessariamente “recenti” o di ultima pubblicazione.

1. Per cominciare con il journaling

Partiamo con un articolo generico riguardante gli effetti mentali e fisici della scrittura “espressiva”. Uno psicoanalista di origine indiana e naturalizzato inglese, Wilfred Bion, parlava di “apparato per pensare i pensieri”, intendendo con questo una funzione della mente utile a “simbolizzare” i percetti sensoriali/emotivi più “grezzi” (che chiamava elementi beta). Partendo da questo spunto teorico (qui maggiormente approfondito), è utile pensare alla scrittura come a uno strumento funzionale a un lavoro di simbolizzazione di elementi emotivi “beta” complessi da digerire, come appunto ricordi traumatici o semplicemente spiacevoli. Questo articolo racconta la storia del paradigma della Scrittura espressiva ideato e divulgato da Pennebaker (che ritroveremo nell’ultimo articolo citato, quello storico), il primo a pensare alla scrittura in questo modo (come strumento di simbolizzazione di eventi problematici). L’articolo esplora la letteratura a riguardo citando i maggiori lavori sulla scrittura espressiva, elencando anche le ipotesi più probabili necessarie a spiegarne il funzionamento (le due più probabili, gli autori concludono, sono il “processamento cognitivo derivato dal narrare” – e quindi mettere in ordine – i percetti/pensieri, e la funzione espositiva dello scrivere). Ottimo per iniziare.

Eccovi l’articolo:

Emotional and physical health benefits of expressive writing

2. Simbolizzare un trauma scrivendone pt.1

Esiste un sotto-filone di studi riguardanti il journaling che tenta di chiarire come la scrittura possa aiutare nelle esperienze traumatiche.
In psicoterapia breve strategica si utilizza il romanzo del trauma come strumento creativo da usare per ri-significare e sgonfiare gli eventi più indigesti in senso psichico. Scrivere può aiutare nel lavoro di esposizione all’evento traumatico (una sorta di EMDR ma in “versione scritta”). Per introdurci al tema “trauma e journaling”, partiamo da questo articolo del 2002.

Eccovi l’articolo:

Journaling about stressful events: Effects of cognitive processing and emotional expression.

3. Simbolizzare un trauma scrivendone pt.2

Sulla scia di questo filone di studi, è stato da poco pubblicato su Jama un lavoro di approfondimento sulla scrittura a proposito del trauma: i ricercatori si sono chiesti se la scrittura espressiva a riguardo degli eventi del trauma fosse paragonabile all’esposizione prolungata, che è una tecnica espositiva specifica per gli stati post-traumatici. In questo articolo, che vale la pena approfondire (qui ne troviamo un commento in lingua inglese), un gruppo di 178 veterani di guerra fu sottoposto a un esperimento di confronto tra le due tipologie di intervento: il gruppo fu “mescolato casualmente” e gli individui divisi e assegnati al gruppo di scrittura espressiva e al gruppo di terapia espositiva prolungata. Partendo dal presupposto che tutti i soggetti partissero da uno stato clinico uniforme, a 10 settimane dall’intervento si osservò come i pazienti sottoposti a scrittura espressiva sembrassero stare meglio come (o addirittura di più di) quelli dell’altro gruppo; inoltre, va considerato che il percorso di scrittura sembrava essere stato molto più rapido e con minori tassi di abbandono. Questo articolo è ottimo per cominciare, per chi fosse interessato, un lavoro di esplorazione della letteratura a riguardo degli “effetti benefici della scrittura sul trauma”. Questo libro potrebbe essere un altro elemento da tenere in considerazione (a proposito del prima citato romanzo del trauma)

Eccovi l’articolo:

Written Exposure Therapy vs Prolonged Exposure Therapy in the Treatment of Posttraumatic Stress Disorder

4. Journaling e meme

Il journaling può prendere diverse forme. Nel contenitore del journaling scritto, che implica l’atto dello scrivere, troviamo due tipologie di journaling principali: il journaling “guidato” e quello a “flusso libero”.
Il “journaling guidato” impiega domande o schemi predefiniti per favorire l’auto-consapevolezza emotiva e personale, mentre il “journaling a flusso libero” permette di scrivere liberamente i pensieri senza una struttura predefinita, favorendo l’espressione spontanea.
Esistono però altre forme di journaling, che troviamo riassunte nell’articolo che qui sotto linkiamo. Gli autori, nel presentare il loro lavoro di ricerca, intendono allargare l’ambito di studio inerente il journaling scritto ad altre forme di espressione (sempre però con una funzione riflessiva, per esempio quello inerente le foto con didascalia, di cui troviamo un approfondimento qui). Questo articolo ipotizza che l’uso dei meme possa essere uno strumento multimediale e interessante da integrare o sostituire al journaling. Molto attuale.

Eccovi l’articolo:

MEMEories: Internet Memes as Means for Daily Journaling

5. Lo specchio di carta

Un articolo interessante e dal titolo suggestivo: il Paper mirror, ovvero un approfondimento sul concetto di reflective journal, un tipo particolare di diario che dovrebbe aiutare a sviluppare la capacità metacognitive, simile per certi versi agli esercizi consigliati da alcuni psicoterapeuti CBT (CESPA).
Si tratta di elaborare un’azione (what), le sue conseguenze (so what) e i suoi sviluppi (what next).

Eccovi l’articolo:

Paper Mirror: Understanding Reflective Journaling

6. Il journaling durante il Covid

Durante la pandemia di COVID-19 fu creato un sito sperimentale chiamato “The Pandemic Project” per aiutare le persone a gestire la situazione emergenziale. Il sito offriva esercizi di scrittura espressiva e journaling, con domande a riguardo di vari aspetti dell’impatto della pandemia sulla salute mentale come la solitudine, i cambiamenti nei rapporti interpersonali e le preoccupazioni economiche. Gli utenti ricevevano feedback tramite e-mail dopo aver completato gli esercizi, molto brevi (5/10 minuti ciascuno). Tra le altre cose, nel board di creazione di questo sito compare proprio Pennebaker, coinvolto in prima persona, e Laura Vergani, una ricercatrice nostrana

Eccovi l’articolo:

Feeling overwhelmed by the Pandemic? Expressive Writing can Help

7. Remember the days: mail e journaling

Un commovente lavoro a proposito dell’implementazione del metodo “Pennebaker” attraverso l’utilizzo della mail, uscito nel 2004. A quel tempo la mail era usata per lo più attraverso computer fissi e rappresentava un modo ufficiale/professionale di comunicare, non essendo ancora stato sdoganato attraverso i primi blackberry (per lo più posseduti da manager progressisti/illuminati/molto ricchi) e infine dagli Iphone a partire dal 2007. Implementare il metodo Pennebaker, gli autori si chiedono in questo lavoro, potrebbe prendere una forma “epistolare” virtuale? Concludono: “Technology will both enable and restrict interactions in new ways.”

Eccovi l’articolo:

Emotional Expression in Cyberspace: Searching for Moderators of the Pennebaker Disclosure Effect via E-Mail

8. Altre applicazioni della scrittura pt.1: lutto

The Conversation riporta un articolo che mette insieme diversi altri lavori a riguardo della scrittura. L’autrice osserva come, a partire da una ricerca sommaria della letteratura inerente il journaling e la scrittura espressiva, possiamo renderci conto di come scrivere possa aiutarci nel diventare più consapevoli sul nostro mondo interno, possa fornirci efficacia, ci possa aiutare nel lutto.
A proposito del journaling relativo al lutto, sempre su The Conversation troviamo un rimando a un articolo scritto dalla stessa autrice (Christina Thatcher) che tuttavia si focalizza sul “lutto causato da droga e de-legittimato”, non esprimibile/espresso, e su come la scrittura possa aiutare nel portarne alla luce l’emotività e il senso. Affascinante osservare come la scrittura (non in termini quindi di “semplice” scrittura di un diario) possa prendere molteplici forme ed essere usata in contesti differenziati.

Eccovi l’articolo:

In Dialogue: How Writing to the Dead and the Living Can Increase Self-Awareness in Those Bereaved by Addiction

9. Altre applicazioni della scrittura pt.2: autobiografia e Duccio Demetrio

Duccio Demetrio si occupa da tempo di autobiografia, filosofia e scrittura espressiva.
Sull’autobiografia ha fondato un movimento e un’università in Toscana, la LUA, Libera Università dell’Autobiografia (qui il sito). Scrivere un’autobiografia richiede un processo di rilettura e di riprocessamento di eventi passati, letti con il senno dell’”oggi”: rappresenta di fatto un lavoro di riconferma e “scrittura” dell’identità stessa, molto simile a quello che un paziente fa in psicoterapia.
La LUA propone corsi di formazione, online e dal vivo, e ha aperto un centro di ricerca a nome Athe Gracci.
Da questo centro ricaviamo l’indicazione per un articolo che raccoglie e riassume il “pensiero narrativo” e la “visione” di Demetrio stesso. Dall’articolo:
“D’altra parte, se l’esercizio autobiografico porta alla scoperta della dignità e dell’autostima di sé, conduce anche a una consapevolezza della “soggettività personale illusoria” nella misura in cui appare legata a una storia, una famiglia e un mondo in cui è immersa. Il soggetto finisce per espandere il proprio giardino per scoprire di far parte di uno più ampio in cui ci sono altri esseri umani. La consapevolezza di appartenere al mondo fa sì che la prima volta in cui ci si guarda sia combinata con una dimenticanza di sé verso gli altri. In questo modo, l’autobiografia inizia con un potenziamento obbligato del soggetto e fluisce paradossalmente nell’apertura agli altri, nell’ascolto delle storie degli altri. Si potrebbe dire che la narrazione dell’alterità viene a dissipare ogni tentazione ingannevole di soddisfazione autobiografica.L’esercizio autobiografico appare quindi nella proposta narrativa di Demetrio come un atto trasformativo, ed è questa la sua connessione radicale con l’educazione. Infatti, su una base educativa, è presente la curiosità che stimola la cura di sé”

Eccovi l’articolo:

The biographical approach of Duccio Demetrio

10. L’inizio di tutto: Pennebaker nel 1986

ARTICOLO STORICO! Il primo articolo di Pennebaker a proposito del journaling, riguardante in particolare il tema del journaling usato per lavorare sugli eventi stressanti. L’inizio del filone di ricerche inerenti il journaling, almeno in ambito di psicologia clinica. Sempre su Pennebaker, si veda questo.

Eccovi l’articolo:

Confronting a traumatic event: Toward an understanding of inhibition and disease.

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26 October 2023

CONTRASTARE IL DECADIMENTO COGNITIVO: ALCUNI SPUNTI PRATICI

di Raffaele Avico

Questo articolo apparso su Carlat, ci fornisce una visione ampia sul tema inerente il declino cognitivo che, come leggiamo nell’articolo, ha il suo inizio a partire dal 45esimo anno di età.

Inizialmente viene fatta una riflessione sulla distinzione che un medico dovrebbe fare tra i problemi di declino cognitivo fisiologici, e quelli conseguenti a qualche particolare patologia neurodegenerativa, come a sottolineare l’importanza di una eccellente diagnosi differenziale.

Le aree maggiormente esposte, in termini cognitivi, a questo declino, sono:

  • memoria episodica (che ci consente di ricordare specifici eventi)
  • memoria di lavoro (che un tempo si sarebbe chiamata memoria a breve termine, che ci consente di ricordare per un breve tempo alcuni dati, provenienti dal senso della vista o dell’udito, per compiere operazioni utili alla vita quotidiana)
  • attenzione, con un calo della capacità di mantenimento focalizzato dell’attenzione

Carlat ci racconta quindi di una serie di elementi da tenere in considerazione quando si debba valutare come poter contrastare il declino cognitivo (che come dicevamo inizia intorno ai 45 anni, ma raddoppia la sua velocità tra i 60 e i 70 anni).

Nell’articolo viene fatto un distinguo tra differenti tipologie di declino cognitivo, come rappresentato nell’immagine sottostante:

Come si osserva dall’immagine, l’articolo distingue tre tipologie di problema: un normale declino correlato all’età, un disturbo neurocognitivo moderato, e un disturbo neurocognitivo maggiore. Che differenza intercorre tra un “semplice” declino cognitivo conseguente il processo d’invecchiamento e un “neurocognitive disorder”?

Come prima cosa viene osservato che un disturbo neurocognitivo non ha un andamento progressivo, ma avviene in tempi rapidi e richiede da parte del soggetto l’adozione di “strategie di compensazione” per garantirsi una mantenuta qualità della vita; un disturbo di questo tipo non è collegato all’età, e può presentarsi in conseguenza di differenti problemi intercorsi come lo sviluppo di sintomi negativi nel quadro di un disturbo psichiatrico, oppure a seguito di un grave trauma cranico, un infarto o un ictus. Nella tabella sopra riportata vengono distinti i tre livelli di disturbo in base a età e strategie di compensazione.

Come si interviene in questi casi?

Carlat è una rivista di psichiatria: gli interventi consigliati sono dunque a favore di personale sanitario; tuttavia, l’articolo promuove alcuni interventi potenzialmente a beneficio di tutti.

Quindi, per intervenire in questi casi nel migliore dei modi, occorre:

  1. diminuire il numero di farmaci assunti dal soggetto che non siano strettamente necessari, per evitarne gli effetti collaterali
  2. approcciare il problema per via laterale, ponendo attenzione agli aspetti metabolici e cardiovascolari (quindi valutando obesità, circolazione, pressione del sangue, dispnee notturne, etc.)
  3. attuare alcuni cambiamenti nello stile di vita

A proposito dello stile di vita, vengono qui riportati alcune modificazioni da fare, all’apparenza semplici, che tuttavia hanno nel tempo raccolto una vasta mole di evidenze a riprova del loro potenziale di “freno” del processo di decadimento cognitivo. In particolare, leggiamo:

  1. dieta
  2. esercizio
  3. training cognitivo

DIETA

Per quanto riguarda la dieta, viene consigliata l’adozione della dieta definita MIND, ovvero una combinazione tra una dieta definita DASH (qui approfondita) e una dieta mediterranea. Vi si incentiva il consumo di verdure (a foglia) e frutti di bosco, frutta secca e olio di oliva, pesce e pollo. Sconsigliato invece il consumo di carni rosse, junk food, zucchero raffinato, burro e formaggi. Per chi fosse interessato a tematiche di questo tipo, nell’articolo viene citato un libro a tema, questo.

ESERCIZIO FISICO

Molteplici evidenze ci raccontano di come l’esercizio fisico conduca a un miglioramento in tutte le aree di funzionamento dell’individuo, comprese le performance cognitive. L’attività fisica ha raccolto prove di efficacia anche in ambito psicopatologico, come qui approfondito. In questo articolo viene in particolare sottolineato come, tra i diversi risultati ottenuti dalla ricerca a proposito della prevenzione del declino cognitivo in persone sopra i 50 anni, sembri essere maggiormente efficace combinare esercizi di natura aerobica e di resistenza per almeno 4 o 5 giorni la settimana (con sessioni di 45/50 minuti l’una). Viene inoltre segnalato questo articolo, con ulteriori evidenze a riguardo.

TRAINING COGNITIVO

Il tema del training cognitivo riguarda sia persone che subiscono un declino cognitivo connesso all’età, sia persone che manifestino compromissioni del funzionamento connesse a particolari eventi “non naturali”. Gli autori di questo articolo ragionano sulla potenziale sopravvalutazione di interventi di questo tipo, in particolare a riguardo degli interventi digitali. In termini generali, vengono citati alcuni potenziali esercizi di training cognitivo con effetti almeno similari (se non superiori) a quelli digitali:

  • lumosity (debole in termine di ricerca effettuata a proposito, addirittura multato -gli autori riportano- per falsa pubblicità a proposito dei potenziali effetti positivi sulle performance cognitive)
  • giochi di carte, di parole, sudoku, puzzle
  • uso di strumenti musicali
  • interazioni sociali (in generale, quindi dialogo e ragionamento congiunto)
  • Brain HQ

Concludendo, gli autori ragionano sulla necessità generale, da parte degli individui, di prendere in carico la salute del cervello inteso come organo, nell’ottica di prevenire il declino cognitivo, cercando dunque di raggiungere una buona igiene del sonno, curare la dieta, svolgere attività fisica per quanto si riesca e, se necessario, implementare l’attività cognitiva attraverso uso di training specifici (anche digitali) per 2 o 3 volte a settimana, della durata complessiva compresa tra i 30 e i 60 minuti a sessione.

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NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti

Article by admin / Formazione / psichiatria, psicoterapia

25 September 2023

GLI INCONTRI ORGANIZZATI DA AISTED, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione

di Raffaele Avico

AISTED ha attivato da poco un gruppo di lavoro sulla psicopatologia in prospettiva neo-jacksoniana.
La prospettiva neo-jacksoniana, nel promuovere un certo modello di mente, è stata promossa dai lavori di Henri Ey, che questo gruppo di lavorò tenterà di mettere in luce e divulgare.

Per rendere vivo il lavoro del gruppo, AISTED ha organizzato degli incontri con esperti del settore. Il primo incontro sarà il 16 ottobre con Giuseppe Craparo, aperto a TUTTI previa iscrizione da qui. Sul lavoro di Craparo, si veda anche questo e questa rubrica su Psichiatry on line. Gli altri partecipanti agli incontri, per ora, saranno Antonio Onofri e Maurizio Ceccarelli (come in foto).

Article by admin / Formazione / psichiatria, psicologia, psicoterapia

18 May 2023

6 MESI DI POPMED, PER TORNARE ALLA FONTE

di redazione POPMed

Amicə, è passato tanto tempo da quando vi abbiamo parlato per la prima volta di POPMed.

Dove siamo arrivati in questo nostro tortuoso viaggio nell’oceano della letteratura scientifica?

Siamo qui per raccontarvi questi ultimi 6 mesi!

Come sapete, il fine di questo progetto resta quello di promuovere un giornalismo scientifico di qualità orientato al reale della pratica clinica, con una ricaduta diretta sulla dimensione professionale: raffinare quindi la presentazione di tutte quelle informazioni – complesse, insidiose, talvolta contraddittorie – presenti nella letteratura scientifica relativa alla macro-area della salute mentale e, come avevamo scritto qualche tempo fa, “essere delle lenti attraverso cui potervi affacciare con sicurezza a uno scorcio della letteratura scientifica esistente.”

“Tornare alla fonte” non sono quindi solo parole: sono un progetto, una direzione, una strada da percorrere costantemente nell’affacciarsi alla cosa scientifica. L’invito resta quello di poterla percorrere insieme.

Proprio con questo spirito – oltre alla newsletter, cuore del progetto, con i suoi 10 articoli scientifici contortati da sinossi introduttiva e approfondimenti specifici – abbiamo voluto lasciarvi anche qualche dritta su come navigare in quel tempestoso oceano della letteratura scientifica. Ricordatevi: non siamo qui solamente per darvi in pasto qualche articolo già addentato, masticato, digerito. Siamo qui soprattutto con l’intento di creare, insieme, un discorso complesso e co-partecipato sull’importanza del ritornare alla scienza e della sua connessione con la clinica.

Per chi non lo sapesse, qualche giorno fa abbiamo presentato, con un po’ di emozione, Per tornare alla fonte, la nostra prima micro-rivista digitale interattiva; una rivista da consultare quando nell’incertezza sentite, letteralmente, il bisogno critico di tornare alla fonte, di ripercorrere la storia di un articolo a partire dal suo concepimento fino alla pubblicazione. Essenzialmente vuole essere una sorta di manifesto per promuovere una prospettiva critica nell’avvicinarsi alla cosa scientifica; un breve manuale introduttivo per permettere a tutti – professionisti e non – di riscoprire la letteratura scientifica nel suo stesso intricato, complesso, incoerente e incerto farsi. Riscoprire quindi la scienza stessa, con uno strumentario adatto, capace di conferirvi la sicurezza –  o consapevolezza – necessaria per non perdervi.

Si tratta di una rivista digitale – ossia scaricabile in formato pdf e facilmente consultabile sui diversi dispositivi mobili (computer, tablet e smartphone) – e interattiva, in quanto all’interno sono presenti numerosi approfondimenti a cui potrete accedere direttamente e senza ulteriori costi nel corso della lettura tramite dei link esterni. Tra questi, riflessioni/contenuti di associazioni e professionisti con cui ci sembra di condividere, seppur in forme e spazi differenti, lo stesso fine, ossia la valorizzazione di una comunicazione qualitativamente orientata della cosa scientifica: potrete trovare – per esempio – organizzazioni quali il CEST (Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari) e personaggi come Barbascura X.

Se invece non ci conoscete ancora, ma siete rimasti attratti da tutto questo e volete avere un assaggio delle precedenti newsletter o degustare la letteratura scientifica in maniera inedita, immediata, interattiva e graficamente accattivante, potete iscrivervi e ricevere la rivista The Best of POPMed 2022-2023 in cui sono stati raccolti quelli che, secondo noi, sono i 20 articoli scientifici più rappresentativi – in termini tanto contenutistici quanto valoriali – del nostro progetto. Anche in questo caso si tratta di una micro-rivista digitale interattiva.

Che tu sia quindi unə giovane interessato alla macro-area della salute mentale o unə professionista della cura, confidiamo questo progetto possa essere per te! Ti va di venirci a trovare? Se tutto questo ti interessa e vuoi supportarci, iscriviti e aiutaci a crescere! Ti aspettiamo per tornare, insieme, alla fonte! Se verrai, ci ritroveremo in mare, buon viaggio!

Raffaele, Francesco, Andrea

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Article by admin / Editoriali, Formazione / psichiatria, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale

31 March 2023

L’eredità teorica di Giovanni Liotti

di Raffaele Avico

Gianni Liotti è considerato uno dei padri della psicoterapia cognitiva in Italia, insieme a Vittorio Guidano.

Nel suo  “Sviluppi Traumatici” tentò di approfondire la questione relativa alle problematiche post-traumatiche fornendo moltissimi spunti di riflessione e una lettura estremamente plausibile di alcune comuni forme di psicopatologia nel paziente post-traumatico.

Liotti parte dal presentare la diagnosi di PTSDc, ovvero Stress Post Traumatico Complesso, costrutto diagnostico utilizzato per indicare situazioni di stress post traumatico in caso di abusi cumulativi e ripetuti, con le relative ripercussioni in termini psichici.

Lo stress Post Traumatico complesso differisce dal semplice Stress Post Traumatico per la qualità dei traumi subìti dal paziente: non singoli e devastanti traumi, ma traumi relazionali multipli e protratti nel tempo. Liotti porta come esempio lo stile di attaccamento di tipo D (disorganizzato) come ambiente naturale di sviluppo di un PTSDc. Cosa vuol dire, secondo l’autore, sviluppare un PTSDc in ambito di uno stile di attaccamento disorganizzato?
Gli attaccamentologi descrivono lo stile di attaccamento D come disorganizzato/disorganizzante. Questo vuol dire avere a che fare costantemente con uno o più figure di attaccamento imprevedibili o spaventanti verso le quali il bambino impara a rapportarsi in modo confuso e ambivalente, senza mantenere una reale linearità nel comportamento di attaccamento.

Nei famosi esperimenti di Mary Ainsworth relativi alla strange situation, osserviamo come i bambini con un attaccamento insicuro D manifestino verso la figura di attaccamento comportamenti ambivalenti e contraddittori, come spinti da pulsioni opposte (ricerca di attaccamento vs paura).

Crescere in un ambiente traumatico in modo continuativo conduce secondo Liotti a sviluppare un certo tipo di personalità post-traumatica, con tratti peculiari. Quello che riteniamo importante in questa sede approfondire è la questione relativa a quelle che Liotti chiamava strategie di controllo. La questione potrebbe essere sintetizzata, per punti, come segue:

  1. Crescere in ambienti traumatici vuol dire sperimentare profonde delusioni in senso relazionale. Spesso chi cresce in ambienti problematici si trova a vedersi rifiutato/a nei propri slanci di attaccamento: immaginiamo per esempio un bambino che tenti di aggrapparsi al collo della madre vedendosi rifiutato o umiliato in questo bisogno: imparerà a inibire, in sé, questa pulsione, o a manifestarla in particolari circostanze.
  2. I vissuti di umiliazione e i bisogni frustrati porteranno il bambino a evitare tutto ciò che potrebbe ri-attualizzare queste fratture relazionali; l’evitamento diventerà un tratto del carattere, che contrasta con i potenti bisogni di protezione e accudimento
  3. Crescendo, il bambino imparerà a disattivare i comportamenti di attaccamento pur sentendone il bisogno (sono stati a questo proposito effettuati interessanti esperimenti su bambini con atteggiamenti di evitamento, osservando come il bisogno di un contatto relazionale permanga, ma sia osservabile solo attraverso la modificazione di indici corporei come tachicardia, variazione del ritmo del respiro, etc. Questo dimostrerebbe come anche in bambini con uno stile di attaccamento evitante permanga a livello preconscio il bisogno di lanciarsi in movimenti di attaccamento).
  4. Nel corso dello sviluppo, e così come accade nei casi di stress post-traumatico, la gestione della rievocazione delle memorie traumatiche, così come la gestione del rapporto con le figure atte al caregiving, avverrà attraverso la messa in atto di quelle che l’autore chiama strategie di controllo, strategie cioè funzionali a mantenere il controllo (mastery) nel corso dell’attivazione del sistema di attaccamento, che muove emozioni veementi e collegate a vissuti traumatici e di rifiuto.
  5. Le strategie di controllo avvengono per mezzo di una distorsione del normale comportamento di attaccamento da parte del bambino: il bambino diviene eccessivamente accudente verso il genitore (genitorializzazione), o al contrario punitivo/autoritario/tirannico o ancora seduttivo (in senso non sessualizzato) verso la figura di attaccamento. Questo fa sì che non si trovi mai in balia e nella posizione di dipendere dal caregiver.
  6. Crescendo, le strategie controllanti precocemente sviluppate diverranno nei casi migliori tratti di personalità stabili e in qualche modo adattativi. Altre volte invece, quando non ben compensate o mal regolate, troveranno spazio nelle più comuni griglie diagnostiche in senso psicopatologico. A proposito di questo Liotti sottolinea come andrebbero ripensate alcune sindromi in relazione alla messa in atto di queste strategie (per es. un disturbo oppositivo/provocatorio, o quella che potrebbe essere definito un disturbo “isterico” in senso classico, potrebbe essere ripensato attraverso questa lente, cioè la messa in atto di strategie di controllo in un quadro post-traumatico).

Quest’ultimo punto è particolarmente degno di nota e rappresenta un punto di novità rispetto alla comune considerazione della psicopatologia.

Secondo Liotti cioè la presenza di un disturbo post-traumatico è grandemente sottovalutata e andrebbe ricercata nella storia di qualunque paziente arrivi all’ascolto di uno psicoterapeuta/psichiatra. Se si sospetta la presenza di un PTSDc, andrà indagata la presenza di strategie controllanti nello stile di attaccamento del paziente e nella gestione della sua emotività.

Per esempio, quando arrivi in seduta un paziente con un disturbo simil-depressivo, è utile cercare di capire se dietro questo disturbo primario non si nasconda un disturbo post-traumatico originario a cui il paziente, nel tempo, abbia imparato ad adattarsi attraverso al messa in atto di strategie di controllo. Quella che Janet aveva definito “stanchezza mentale” o “declino post-traumatico”, è spesso riscontrabile nei casi di stress post-traumatico cronico precipitato in una forma simil-depressiva, quello che in tempi non lontani dal nostro veniva chiamata –non a caso- “esaurimento nervoso”.

L’importanza del lavoro di Liotti è quindi quello di aver spinto sulla messa in discussione delle procedure consuete di diagnosi. Occorre quindi indagare se al di là dei sintomi eclatanti portati dal paziente non esista un disturbo primevo con caratteristiche di stress post-traumatico. Vivere uno stress post-traumatico significa d’altronde incorrere in una serie di sintomi fisici non indifferenti (come vampate di iper-arousal, sudorazione sregolata, etc.) e spesso in disturbi inerenti la qualità del sonno, che minano quella che è stata genericamente definita “forza dell’Io” e conducono a un generale senso di impotenza e debolezza psicologica.

Abbiamo su questo blog pubblicato in precedenza alcuni approfondimenti sul lavoro di Liotti:

  1. LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti)
  2. PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  3. IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  4. Qui un audio (puntata podcast) sul modello Liottiano

Qui di seguito invece riportiamo un estratto da un articolo di Camilla Marzocchi (AISTED) su un libro recentissimo pubblicato sul lavoro di Liotti.

Recensione: “Conversazioni con Giovanni Liotti su Trauma e Dissociazione“, a cura di Cristiano Ardovini, Cecilia La Rosa, Antonio Onofri (Edizioni ApertaMenteWeb 2023)

di Camilla Marzocchi, Consigliera AISTED

Ultimo arrivato nella nostra Bibliografia Essenziale di Psicotraumatologia, “Conversazioni con Giovanni Liotti su trauma e dissociazione” risulta un dono speciale per tutti i terapeuti esperti o che vogliano avvicinarsi alla psicotraumatologia, un dono perché gli autori si sono dedicati con perizia e cura ad un corposo lavoro di raccolta di materiali personali, appunti, interviste, trascritti di lezioni e supervisioni, per offrire al lettore un dialogo diretto con Giovanni Liotti, a ormai cinque anni dalla sua morte, rendendo fruibile il suo pensiero e soprattutto la sua dialettica e apertura inconfondibili.

Per chi ha avuto l’onore di assistere alle lezioni di Liotti, la lettura scorre veloce e appassionata proprio come le sue lezioni, con qualche sorriso e molta nostalgia, ma lasciando l’attenzione incollata alle parole che affiorano dalla sua viva voce, insieme alla consueta e inarrestabile velocità del pensiero e delle riflessioni di ampio respiro che permettono di spaziare dalle neuroscienze alla letteratura, dalla fisiologia alla pittura, mantenendoci però ben saldi allo sguardo clinico sempre centrato alla chiave di lettura a lui cara: identificare la psicopatologia della dissociazione attraverso le più svariate e complesse esperienze di umana sofferenza. Per chi non avesse mai avuto la possibilità di un incontro diretto con Giovanni Liotti, questo libro è certamente un’occasione preziosa da cogliere, ricca di spunti storici e riflessioni sulla nascita del suo pensiero, digressioni sulle diverse fasi storiche che la ricerca sulla psicopatologia del trauma e della dissociazione ha attraversato, il tutto arricchito da molti inserti e note degli autori che permettono anche ai lettori meno esperti di orientarsi nel testo e di integrare le informazioni e le citazioni essenziali che scorrono densissime nel dialogo-intervista.

Il testo è organizzato in tre parti tra loro complementari e interconnesse.

La Prima parte si focalizza su Psicopatologia e Dissociazione, offrendo un’ampia riflessione sulle basi del pensiero liottiano: la definizione di trauma dello sviluppo, la disorganizzazione del sistema di attaccamento legato all’esposizione ad eventi sfavorevoli e traumatici nella prima infanzia, il sistema di difesa come organizzatore centrale dell’esperienza del bambino, in assenza di aiuto e protezione, e la dissociazione come effetto di questi fallimenti nel ripristino di condizioni sufficienti di sicurezza. La disgregazione della coscienza che ne consegue configura la dissociazione come un effetto diretto (e non difesa!) del collasso di tutte le altre risposte di sopravvivenza. Questa inaccessibilità al sistema di attaccamento/accudimento è per Liotti sempre la causa primaria alla base di tutta la psicopatologia post-traumatica e in particolare della psicopatologia legata ai traumi cumulativi (trauma complesso), poiché per un bambino non c’è trauma se intervengono protezione e salvezza da parte delle figure di riferimento e non c’è disorganizzazione della coscienza se quel bambino, pur esposto a condizioni di pericolo di vita, può accedere tempestivamente alle cure e al sistema di accudimento di almeno un adulto centrato e capace di sintonizzarsi con i suoi bisogni primari. Per ogni bambino un evento di minaccia seguito immediatamente da un’esperienza efficace di sintonizzazione e sicurezza resta un brutto ricordo di un pericolo scampato, ma non necessariamente un trauma. In estrema sintesi questi assunti guidano tutto il pensiero di Liotti, orientato a valorizzare – nella ricerca come nella clinica – la necessità di riparare alla frattura originaria della coscienza, che non è mai determinata (solo) dal trauma, inteso come evento di minaccia alla vita, ma dalla concomitante assenza di una connessione sicura e protettiva capace di offrire aiuto e supporto. Questa assenza può manifestarsi a causa di un caregiver spaventoso/spaventante o trascurante (neglect), ma anche di un caregiver presente ma abdicante, condizione quest’ultima particolarmente dolorosa e difficile da riconoscere poiché il caregiver c’è ma è assorbito da altro, dalle sue stesse emozioni o sopraffatto da altri problemi all’interno e non è emotivamente disponibile.  Liotti definisce “la solitudine in presenza” come una condizione irredimibile, peggiore dell’assenza in cui è ancora possibile e accessibile il tentativo di raggiungere l’altro.

Ognuna di queste condizioni relazionali è foriera, in ogni bambino che si trovi a sperimentarla, di un blocco del naturale sistema di attaccamento di fronte a quella che si configura come una situazione emotiva “senza via di uscita” (paura senza sbocco): il bisogno di protezione attiva naturalmente il sistema di attaccamento verso il caregiver, che si rivela del tutto inadeguato – se non addirittura minaccioso – nell’offrire cura e conforto. Dunque nell’impossibilità fisiologica di lottare o fuggire quel bambino dovrà sopperire alla mancanza di protezione con strategie controllanti verso il caregiver – accudenti o punitive – che gli consentiranno (forse) di avere quel minimo di contatto sufficiente a garantirsi la sopravvivenza in un ambiente ostile e per recuperare un senso di padronanza di sé (appena) sufficiente a non scivolare nel collasso generale delle strategie di difesa (crollo dorso vagale), che significherebbero altrimenti svenimento (morte apparente) e quindi dissociazione. Queste ultime manifestazioni potranno restare silenti nel sistema nervoso, inibite dall’attivazione delle strategie di controllo, ma prima o poi tenderanno a manifestarsi, spesso anche a distanza di anni, di fronte al fallimento delle stesse strategie controllanti (as esempio: in caso di lutto, malattia, separazioni).

Da qui la nascita dei presupposti clinici che aprono alla Seconda parte del testo: Clinica della Dissociazione, in cui l’alleanza terapeutica e la stabilizzazione costituiscono i meccanismi centrali del lavoro terapeutico proposto, preliminari ad un lavoro solo successivo sull’Elaborazione delle memorie traumatiche e possibilmente poi di Integrazione.

–>CONTINUA SUL SITO DI AISTED.


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7 March 2023

“UN RITMO PER L’ANIMA”, TARANTISMO E DINTORNI


di Raffaele Avico

Il DVD “Un ritmo per l’anima”, curato da Giuliano Capani, mette insieme un documento videofilmato e un libretto con raccolte le trascrizioni delle interviste agli autori coinvolti nel progetto.

Il DVD, della durata di 45’ circa, si apre con una costruzione romanzata di una storia di “tarantismo”, dove vediamo una ragazza salentina alle prese con una serie di problemi connessi alla questione del “morso” della taranta: la ragazza si aggira per un paese dove ogni finestra ha i suoi occhi, e in preda a una sorta di stato di transe, raggiunge il mare e batte, a ritmo, due pietre. Su questa scena compare quindi la voce narrante vera e propria, che racconta il fenomeno del tarantismo dalle sue origini, soffermandosi su come “il rito” fosse visibile in Salento fino alla fine degli anni ’60, e fornendone una descrizione nelle sue diverse fasi.

Già altri autori avevano tentato di scomporre il rituale nel suo svolgersi: dal momento “a terra”, in cui la tarantolata si contorce sul pavimento, passando per un momento di danza vera e propria e di armonizzazione crescente del corpo con la musica, fino al ritorno a terra, segno di un raggiunto stato di quiete.

Qui però si fa riferimento, in particolare, alla questione dello “scazzicare”. Cosa si intende con il termine scazzicare? La voce narrante ci spiega come i musicisti, prima di riuscire ad agganciare emotivamente la tarantata, spaziavano tra diverse sonorità cercando di capire quale fosse la più emotivamente coinvolgente, quella in grado di “toccare” o agganciare in senso emotivo la donna sottoposta al rituale. Il momento del “tocco”, o di aggancio, è il momento in cui la donna viene “scazzicata”, perturbata dal suono. I musicisti, osservando il comportamento della tarantata, adattano e modulano il suono, così da renderlo sempre più attivante e potenzialmente terapeutico, verso un’armonizzazione di tutte le parti (suonatori, tarantata, collettività che guarda), come in una sorta di cerchio terapeutico.

Il documentario prosegue poi con diverse interviste fatte a personaggi in qualche modo riconosciuti per il loro studio a riguardo del fenomeno:

  1. come primo intervistato, il Dr. Giuliano Guerra, medico psicoterapeuta e allora (si parla del 2001) presidente dell’Associazione Italiana di Ipnosi Terapeutica, spiega il suo punto di vista sulla questione: come prima ipotesi, parla di “quadro” isterico, ovvero, sarebbe stato l’elemento coreografico e corale a curare un disturbo conversivo di origine isterica, nel suo senso quindi più classico e in qualche modo teatralizzato; racconta però come, dal suo punto di vista, la questione potrebbe essere anche declinata in un altro modo: la compresenza di uno stato alterato di coscienza (elemento di sfondo) insieme a un certo potere del suono (e di alcune caratteristiche del suono stesso: la sua ritmica ipnotica, la forza del suono del violino), sarebbero dal suo punto di vista in grado di “agganciare” l’”onda vibratoria negativa” che a suo tempo produsse il “male” (la sofferenza psichica). Qui parliamo dunque, a suo dire, di una “potenzialità sciamanica” del suonatore, che entrando in un profondo stato di connessione interiore con il malato, lo guarisce usando un canale di accesso preferenziale, che in questo caso è il suono.
    É chiaro come in questo caso si vadano a mettere in discussione aspetti più complessi inerenti la cura delle turbe psichiche in generale e la loro natura: esistono in molte culture forme di terapia, e nella nostra ne osserviamo allo stesso modo un ritorno, che usano canali “altri” rispetto alla parola, con risultati quasi sempre positivi.
    Come se la sofferenza psichica avesse forma non solo di “discorso“ interiore in qualche modo distorto, ma possedesse una sua peculiare natura anche solamente incarnata, non vincolata alla questione delle parole, ma anzi in grado di prendere forme altre (suoni? immagini? sensazioni?) e in quanto tale fosse appunto curabile attraverso altri canali. Guerra fa infine notare che si tratta qui di una forma di cura del male “sintomatica”, e non risolutiva, tant’è vero che ciclicamente il “morso” ritornava e si doveva riprocedere a un altro rituale.
  2. Altro intervistato, Georges Lapassade, che focalizza la questione sulla questione bioenergetica esplorata da Reich, psicoanalista dissidente che introdusse una visione alternativa di male psichico, ovvero come di “energia bloccata nel corpo”. Tutto questo è molto simile a quello che oggi si fa in psicoterapia sensomotoria tentando di sbloccare “tendenze all’azione” rimaste congelate nel corpo – si veda per esempio il lavoro di Pat Odgen in ambito psicotraumatologico. Il ballo della tarantata, dal suo punto di vista, sarebbe stato in grado di sbloccare questa quota di energia psichica rimasta bloccata, liberandola e fluidificandola.
    Anche qui, teorie formulate in epoche differenti sembrano convergere in una concettualizzazione univoca (“idraulica”) inerente la dinamica della libido/energia psichica/tendenza all’azione. La questione, in fondo, seppur riformulata in termini differenti e in epoche diverse, ruota sempre intorno allo stesso cardine: qualcosa che voleva essere liberato o espresso, e non ha potuto farlo, qualcosa di solido che vuole tornare liquido.
  3. Viene quindi intervistato Antonio Fassina, medico milanese e direttore, al tempo, del centro “Nuove Terapie” a Milano (oggi rinominato Centro di Terapia Naturali), sulla questione relativa al fenomeno del tarantismo in generale: Fassina parla di competenze sciamaniche inconsapevoli possedute dai terapeuti/musici, compiendo un parallelismo tra le terapia del tarantismo e quelle della psicoterapia di oggi: “il paziente libera, lascia sul lettino del terapeuta quello che una volta lasciava sul pavimento della chiesa di Galatina”. Anche qui viene messo in luce il carattere sintomatico della terapia, in fin dei conti provvisorio: non andando a estirpare alla radice il male, questo poi si presentava, come ciclicamente, e quindi andava, nuovamente, bonificato
  4. Viene intervistato poi Tullio Seppilli, professore di Antropologia medica, che fa riferimento ad altre culture dove la danza e la possessione sembrino aver assunto valore o funzione catartica. La differenza forte, spiega Seppilli, è il fatto che per esempio nelle culture afro-americane brasiliane, in cui si ritrovano corrispettivi laici del nostro tarantismo, il fatto di essere “cavalli del dio”, di essere cioè “invasati”, era qualcosa visto positivamente e anzi considerato uno stato speciale di grazia; nello stato invece di transe indotta da una possessione prodotta dal “morso”, la cosa era vissuta con estrema preoccupazione vista la connotazione diabolica del fatto -com’è tipico della religione cristiana. Seppilli colloca nel lavoro di Ernesto Demartino la nascita dell’odierna etnopsichiatria, di fatto riconoscendo all’antropologo italiano ruolo di precursore di una visione più ”ampia” della psichiatria, che abbracci anche la soggettività umana in tutta la sua complessità e natura “sistemica”. Nel 1980 in Canada, a Montreal, venne organizzato un importante convegno chiamato “sciamanesimo ed endorfine”, in cui appunto venne discusso lo stato dell’arte intorno a questi aspetti che riguardavano la connessione tra pratiche di guarigione sciamanica e la psichiatria attuale; il tamburo suonato in modo ritmico -questo uno degli aspetti- è in grado di produrre un rilascio di endorfine con funzione anestetica del dolore psichico, questione appunto centrale se pensiamo a quanto il “tamburello” sia lo strumento cardine di ogni rito di tarantismo.

Altro aspetto messo in luce dal documentario, il parallelismo tra le pratiche di tarantismo e le attuali discipline di meditazione “dinamica”, basate sulla messa in scena del dolore mentale sul teatro del corpo (creazione di uno stato di caos indotto per mezzo di una respirazione volutamente caotica – espressione del dolore per via corporea – riappropriazione dello stato di equilibrio). Anche qui si va idealmente da uno stato di disequilibrio a una condizione di calma, da uno stato di disgregazione a uno stato di integrazione e armonia.
Platone, nel suo simposio, parla della medicina come l’arte umana di cercare equilibrio tra gli opposti, e della musica come di un’invenzione umana che concretizza il mettere insieme l’alto con il basso, il veloce con il lento, il forte con il piano, etc.: strumento dunque elettivo dove si debba eseguire un’operazione di “sintesi” o di riequilibratura di istanze disarmoniche, o di unione di pezzi tra loro scollegati.

Luigi Chiriatti, in uno spezzone del film, racconta di come la pizzica-pizzica come genere musicale, sembri racchiudere in sè un potere liberatorio non solo connesso al contesto salentino: il successo planetario del genere racconterebbe di questo “potere” intrinseco e quindi transculturale (pensiamo al recente successo del Canzoniere Grecanico Salentino negli USA, o al lavoro di recupero di pezzi tradizionali fatto da Ludovico Einaudi nel suo bellissimo Taranta Project).

Insieme a questi intervistati, il documentario Un ritmo per l’anima, importante lavoro di raccolta di testimonianze, vede al suo interno altri noti studiosi sul tema: Caterina Durante -fondatrice teorica del Canzoniere Grecanico Salentino-, Anna Nacci, Daniele Durante (nipote di Caterina Durante e primo tamburellista del Canzoniere Grecanico Salentino) e Mauro Durante, giovane violinista nel film, ora frontman del gruppo co-fondato dal padre.

In sintesi, ciò che emerge dalla visione di questo lavoro e ne definisce l’attualità, è sintetizzabile per punti in due aspetti:

  1. il razionale terapeutico che vuole portare unità dove c’è disgregazione, flessibilità dove c’è rigidità (movente clinico sottoscrivibile da tutte le odierne scuole di pensiero psicoterapeutico)
  2. l’aspetto dello sforzo fisico come strumento di vero risanamento psichico. Nel libretto contenuto nel DVD, viene riportata una testimonianza di Gurdjeff, che scrive: “Per far sì che tutti i centri lavorino nel modo giusto e non si ostacolino tra loro c’è bisogno di un vero sforzo fisico, solo in questo modo si crea la possibilità per l’armonia. Alcune nostre capacità possono essere espresse solo quando sottoponiamo il nostro corpo ad uno sforzo che esige una grande attenzione e un enorme consumo di energia, cioè quando gli sforzi che si fanno sono al limite dell’esaurimento, dandoci così la possibilità di accedere ad un contenitore speciale di energia: il grande accumulatore […]”

Altri documenti relativi al tarantismo, alle sue origini, ai libri che ne parlano, presenti su Psychiatry on Line e su Il Foglio Psichiatrico:

  1. apporti video sul tarantismo parte 1
  2. apporti video sul tarantismo parte 2
  3. intervista a Luigi Chiriatti
  4. “Sul tarantismo”di Luigi Chiriatti
  5. “sul tamburello” di Luigi Chiriatti
  6. “recensione del film “latrodoectus, che morde di nascosto”
  7. recensione di “Il tarantolismo” di Francesco de Raho
  8. immagini del tarantismo: Chiara Samugheo

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5 December 2022

SUPERHERO THERAPY. INTERVISTA A MARTINA MIGLIORE

di Raffaele Avico

Abbiamo intervistato la Dott.ssa Martina Migliore, psicoterapeuta CBT, a proposito di Superhero Therapy e ACT.

La Superhero Therapy è un approccio psicoterapico pensato per il lavoro con ragazzi (ma non solo), mutuato dall’Acceptance and Commitment Therapy, compreso negli strumenti di intervento appartenenti alla cosiddetta “terza onda” dell’approccio cognitivo comportamentale.

Per integrare i contenuti di questa intervista, si veda anche questo.

Buona visione!



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15 November 2022

FUGA DI CERVELLI

di Raffaele Avico

Sul podcast di questo blog abbiamo caricato diversi interventi, per lo più inerenti il trauma e la psicoterapia delle sindromi post-traumatiche. Nel corso dei mesi del primo lockdown (prima metà del 2020) abbiamo intervistato diversi professionisti emigrati all’estero (per lo più psichiatri), nel tentativo di fare un confronto tra “modelli” diversi nei termini di presa in carico della malattia mentale.

Come viene preso in carico un paziente in Belgio? E in Svizzera? Come si lavora con pazienti psichiatrici a Chicago?

La serie si chiama Fuga di Cervelli, e qui di seguito alleghiamo le varie interviste fatte fino ad ora. C’è anche un approfondimento sul “modello triestino”, qui approfondito.

  1. FUGA DI CERVELLI EP.1 Modello italiano e modello statunitense a confronto, con Fernando Espi Forcen!
  2. FUGA DI CERVELLI EP.2 Modello italiano e modello svizzero a confronto, con Omar Timothy Khachouf!
  3. FUGA DI CERVELLI EP.3 Modello italiano e modello belga a confronto, con Giovanna Jannuzzi!
  4. FUGA DI CERVELLI (SPECIALE TRIESTE) Modello triestino, PARTE 1, con Roberta Balestra!
  5. FUGA DI CERVELLI (SPECIALE TRIESTE) Modello triestino, PARTE 2, con Mariagrazia Cogliati Dezza!
  6. FUGA DI CERVELLI EP.6 Modello italiano e modello statunitense a confronto, con Matteo Respino!

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1 September 2022

LA TEORIA SULLA NASCITA DEL PENSIERO DI WILFRED BION

di Raffaele Avico

PREMESSA: abbiamo già in precedenza introdotto il pensiero di Wilfred Bion qui, recensendo un libro corale sul pensiero del grande psicoanalista indiano (naturalizzato inglese). In questo articolo vengono introdotti alcuni concetti di base sulla teoria metapsicologica bioniania, ovvero il “modello” attraverso cui Bion tentava di spiegare il funzionamento della mente, dalla nascita all’età adulta.

Il pensiero di Bion ci fornisce una spiegazione di quelli che sono i meccanismi alla base dei processi pensiero.

Secondo l’autore il pensare risulterebbe da una corretta trasformazione di impressioni sensoriali, gli elementi β, in elementi di maggiore complessità che definisce elementi α.

Nel caso in cui esista una difficoltà a metabolizzare (“digerire”) queste informazioni sensoriali, ne risulterà alterata la capacità del paziente di costruire pensieri; una difficoltà del progetto trasformativo, cioè da β a α (Bion, 1962) produce l’impossibilità di creare immagini mentali dotate di senso e fondamentali per la salute mentale del paziente, nonché di creare un “testo narrativo” comprensibile agli altri.

Scrive Antonino Ferro:

“Secondo Bion è centrale l’attività di metabolizzazione che noi facciamo di qualunque afferenza percettiva: questa attività consiste nella formazione a partire dalle afferenze sensoriali di un pittogramma, o ideogramma visivo: una immagine poetica che sincretizza la risultante emotiva di quell’afferenza o di quella sommatoria di afferenze: l’elemento α”.

Gli elementi β

Bion teorizza che all’origine dei processi di pensiero vi sia una quota di elementi derivati dagli organi di senso che viene “digerita” dalla mente per creare pensieri sani e gestibili.

Questi elementi, che il famoso psicoanalista chiama elementi β, sono definiti in termini di protoemozioni e protosensorialità.

Esiste cioè un livello primitivo di modalità di rapportarsi al mondo esterno basato su sensazioni ed emozioni non ancora gestite e non gestibili.

Si può parlare in un certo senso di materiale emotivo alla stato grezzo che ha un grande impatto nel caso in cui arrivi alla coscienza non metabolizzato: Bion attribuisce la causa scatenante di molte patologie all’ “evacuazione” e ad un’ “iperpresenza” di elementi β.

Secondo questo modello è possibile per esempio pensare all’attacco di panico come ad un’evacuazione (eruzione) di elementi β o aggregati di elementi β non digeriti (i betalomi) che inondano in modo devastante la mente.

In quest’ottica le sindromi ipocondriache andrebbero pensate come un continuo bisogno da parte del soggetto di “tenere sotto controllo” un substrato psichico ritenuto pericoloso poiché composto principalmente da elementi β non digeriti.

Antonino Ferro, tra i maggiori studiosi del pensieri di Bion in Italia, paragonerà l’ondata devastante di elementi β che caratterizza l’attacco di panico alla:

“[…] Massa gelatinosa dello straordinario film The Blob di Yerworth del 1958, nel quale per l’appunto una massa gelatinosa caduta sulla terra da un frammento di asteroide inizia a divorare tutto aumentando sempre più di dimensioni”.

Tornando al pensiero di Bion, è fondamentale riprendere il concetto di accensione mentale; secondo lo psicoanalista è necessario che la capacità di metabolizzare elementi β venga accesa attraverso la relazione con un’altra mente:

“[…] Solo così è consentito l’innesto del meccanismo elementi β evacuati in elementi β accolti e restituiti trasformati in elementi α, ma soprattutto arricchiti da quote di “alfità”, che in sequenza consentiranno l’accendersi della funzione α autonoma“

Gli elementi α

Nella definizione di Roche Barnos (2000), l’elemento alfa potrebbe essere pensato come “l’elemento protovisivo del pensiero che indica l’avvenuta trasformazione di ciò che urgeva come β in pittogramma visivo”.

In altre parole quando un elemento protoemotivo allo stato grezzo viene digerito dalla funzione α assume finalmente una forma comprensibile al soggetto e quindi comunicabile. Il processo di trasformazione che porta l’elemento β a essere “comunicato” in quanto elemento α è graduale: termina nel momento in cui viene scelto un particolare derivato/dispositivo narrativo per poterlo “leggere”.

Secondo la teoria di Bion la difettosità del processo di pensiero può essere riscontrata in due loci patologici: può esservi una carenza nella capacità della mente di produrre elementi α (la funzione α), oppure, nel caso in cui quest’ultima risulti integra, può mancare la capacità di leggere e riconoscere in modo corretto gli elementi α prodotti.

In questo secondo caso gli elementi β vengono trasformati in α ma poi sono difettuali gli elementi che su questi devono lavorare.

In una mente “sufficientemente sana” (va ricordato che per Bion una mente sana è stata “creata” dalla relazione con un’altra mente-madre) gli elementi protoemotivi vengono assimilati e digeriti fino a diventare gestibili e chiari al soggetto, insomma si trasformano in pensieri.

Nel momento in cui gli elementi α sono stati creati devono essere riconosciuti dalla mente per la loro forma ed elaborati fino a diventare ciò che Antonino Ferro definirà derivati narrativi.

L’elaborazione dell’elemento α può essere rappresentata come una progressiva raffinatura a partire dall’elemento β: si pensi a un vissuto primordiale di rabbia e vendetta (β) che trovi la sua prima elaborazione nel pittogramma narrativo “piscina piena di sangue”. Da qui l’elemento α subirà ulteriori trasformazioni fino a poter essere narrato attraverso “film differenti”, i derivati narrativi.

Se l’apparato per elaborare e leggere gli elementi α, definito da Bion apparato per pensare i pensieri , è difettoso, ci saranno situazioni cliniche

“[…] Borderline, narcisistiche in cui c’è una funzione α adeguata ma i cui prodotti non sono poi gestibili e l’interpretazione classica genera spesso più persecuzione che crescita”.

Esistono patologie quindi dovute a una difettosità della funzione α, quella cioè deputata a metabolizzare gli elementi β, oppure a una difettosità della lettura del prodotti di questa funzione.

Un terzo fattore patogenetico può derivare tuttavia da una sovrabbondanza di elementi β rispetto alla capacità lavorativa della funzione α.

Esistono cioè situazioni in cui la quantità di stimolazioni sensoriali ed estero-propriocettive supera la quantità solitamente gestibile dalla mente; queste situazioni sono definite “da accumulo” o più comunemente situazioni traumatiche.

Nel momento in cui esista una quota di elementi β che non può essere gestita vengono messi in atto dei meccanismi difensivi volti a salvaguardare l’integrità psichica della mente. É possibile che una certa quantità di elementi β venga messa in attesa di una funzione α che li elabori: questi sono stati definiti da Ferro elementi balfa, oppure è possibile che vengano messi in atto meccanismi di difesa più comuni, come il diniego, la negazione o la scissione (la quota di elementi β viene scissa e proiettata via).

Secondo la teoria di Bion elementi α vengono prodotti di continuo e in sequenza: durante il sonno si renderanno accessibili attraverso le immagini del sogno, durante la veglia come si vedrà emergeranno attraverso pittogrammi, flash visivi o derivati narrativi.

Per chiarificare il concetto bioniano di trasformazione β -> α Ferro utilizzerà una metafora suggestiva:

“Se usassimo delle tesserine tipo quelle del Memory, una sequenza potrebbe essere fiore-ciliegia-zanzara e, ad esempio, starebbe a pittografare una esperienza gradevole quindi gustosa per divenire poi vagamente irritante”

L’elemento α che viene prodotto è accessibile nella sua forma primaria (non elaborato né “derivato”) solo in due particolari situazioni:

  1. nel caso in cui esso fuoriesca dall’apparato che deve contenerlo e venga visto all’esterno del soggetto (per esempio il paziente vedrebbe un fiore o una ciliegia che esprimerebbero come si sente in quell’istante). Questo fenomeno è descritto come flash visivo.
  2. nel caso in cui il soggetto sia capace di entrarvi in contatto grazie alla sua capacità di rêverie.

La capacità di rêverie è stata definita da Bion come la capacità caratteristica della madre di introiettare gli elementi β del bambino e di metabolizzarli per lui restituendogli elementi α (in questo modo si accende la mente del bambino).

Tale capacità, se introiettata dal bambino, gli garantirà un adeguato funzionamento mentale poiché gli sarà concesso di visualizzare negli elementi a la parte più autentica di sé. Si può notare quindi come la formazione della mente sia pensata da Bion in chiave fortemente relazionale.

L’apparato per pensare i pensieri

Facendo riferimento allo schema che riassume le basi concettuali del pensiero di Bion, si noterà che l’autore ha teorizzato la presenza di un apparato volto a elaborare gli elementi α già metabolizzati: lo definisce apparato per pensare i pensieri.

Si tratta di un secondo livello nel processo di produzione del pensiero narrativo, cioè del pensiero che può essere espresso e narrato a sé e agli altri.

Questo apparato è caratterizzato da una negoziazione continua a livello di significato attribuito agli elementi α in entrata: i suoi prodotti sono i derivati narrativi (Antonino Ferro sosterrà che da uno stesso elemento a possono originarsi più derivati narrativi – “racconti” – che a livello di significato emotivo hanno la stessa valenza).

I derivati narrativi, che assumono come si vedrà in seguito forme diverse (derivati narrativi ludici, grafici, etc.) sarebbero per Bion i pensieri nella loro forma normale e al loro stato più “raffinato”.

É impossibile pensare che all’interno del campo d’analisi il terapeuta non metta in gioco la sua capacità di elaborare o trasformare in un certo modo il materiale psichico che lo coinvolge in quel frangente; nella seduta l’analista utilizzerà il suo apparato per pensare i pensieri nel modo in cui gli sarà congeniale partendo da quanto gli proviene da altre fonti emozionali significative.

Può accadere che le capacità elaborative del paziente superino quelle dell’analista e questo ne risulti influenzato a livello di apparato per pensare i pensieri (situazione di inversione del flusso degli elementi α): secondo Ferro “questo fa parte a pieno diritto delle regole del gioco psicoanalitico“.

L’apparato per pensare i pensieri funziona a livello cosciente, le aperture a significati differenti dipendono da situazioni di oscillazione tra momenti schizoparanoidi e depressivi in termini kleiniani (PS↔D) e oscillazioni tra momenti di contenimento e momenti di fuoriuscita delle emozioni (♀-♂). Da queste oscillazioni dipende la scelta di un significato narrativo da attribuire all’elemento a, secondo un meccanismo vicino ai concetti piagetiani di assimilazione e accomodamento (nel senso di ridefinizione del significato e accostamento a un senso nuovo: l’“irrompere del fatto prescelto” secondo Bion).

Il sogno della veglia

Si delinea così per Bion una modalità di funzionamento della mente con risvolti altamente creativi, per cui da un elemento emotivo grezzo possono prendere vita molte differenti immagini mentali ognuna con un suo “dialetto”.

É questo ciò che l’autore definisce pensiero onirico della veglia, intendendo che l’attività di produzione di elementi da parte della funzione α può essere accostata a quella di produzione di immagini oniriche durante il sonno; vi è quindi un onirico della veglia, e un onirico nel sonno.

É da sottolineare che già la concezione di sogno per Bion era differente da quella classica freudiana, poiché se Freud considerava il pensiero onirico come una trasformazione di materiale inconscio, secondo Bion anche il materiale conscio viene elaborato dal lavoro-del-sogno, per poter venire immagazzinato e selezionato.

Quindi, secondo l’autore, il lavoro-del-sogno (pensiero onirico) lavora incessantemente durante la veglia come durante il sonno.

L’inconscio nel pensiero di W. Bion

Il concetto bioniano di inconscio si differenzia da quello teorizzato nella letteratura classica: è grande l’attenzione data dall’autore alla lettura relazionale delle dinamiche psichiche anche a livello inconscio. Freud teorizzava l’inconscio come costituito da materiale rimosso durante l’infanzia, o a seguito di avvenimenti fortemente traumatici. Durante la seduta psicoanalitica era necessario riportare alla luce questa verità “sepolta e preesistente” al fine di rendere chiara al paziente l’origine storica della sua nevrosi. L’inconscio era visto quindi come fortemente condizionato dal passato e accessibile solo attraverso l’analisi del sogno o la lettura analitica dei sintomi (paraprassie, lapsus, conversioni isteriche, etc.).

La visione che ne dà Bion invece considera l’inconscio come frutto della trasformazione operata dalla funzione α: l’inconscio è per l’autore formato da sequenze di elementi α non accessibili alla coscienza (va ricordato che l’elemento α nella sua forma pura è visualizzabile solo nel flash visivo o attraverso la rêverie). Anche qui è d’aiuto per la comprensione la metafora delle carte Memory utilizzata da Antonino Ferro:

“[…] Man mano che vengono costruiti questi elementi possono rimanere, come in immaginario Memory, scoperte e formano il sistema della coscienza, o capovolti e formano il sistema inconscio. Cioè, l’inconscio di Bion non è un a-monte, ma è un a-valle dell’incontro dell’elemento β con la funzione α”.

Com’è intuibile questo mette in crisi il concetto classico di analista come “archeologo”, che dalla nascita del concetto di campo d’analisi bipersonale era risultato vacillante: si parla in questo caso di un inconscio creato dal soggetto attraverso la funzione α, non di un soggetto pilotato nelle sue scelte dal suo inconscio, in modo “quasi” deterministico.

Per approfondire il lavoro di Bion, un autore italiano che lo ha approfondito nei suoi risvolti metapsicologici e narrativi, è il già citato Antonino Ferro, di Parma:


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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10 August 2022

NEUROFEEDBACK: INTERVISTA A SILVIA FOIS

di Raffaele Avico

Qui un’intervista a Silvia Fois, presidente della Società SINQ (https://sinq.org/), a proposito dell’utilizzo di neurofeedback nella pratica clinica.

La neuro-regolazione mediata da strumenti “a feedback” assume valore terapeutico in molteplici ambiti, dall’ADHD allo stress post-traumatico; fornire infatti al soggetto feedback chiari sul suo stato di funzionalità neuronale, gli o le consente di apprendere, per prove ed errori, migliori modalità di auto-regolazione.

Questa intervista fa parte della rubrica CONNETTOMA, incentrata sul neurofeedback, qui raggiungibile.

Buona lettura!

1) Silvia, chi sei e come ti sei avvicinata al neurofeedback?

Ciao, io sono una Psicoterapeuta con formazione di base Costruttivista. Già dai tempi della scuola di specializzazione ho avuto un enorme interesse per tutto quello che riguarda il rapporto mente-corpo. Stiamo parlando di oltre un decennio fa e non fu facile all’epoca formarmi sul Neurofeedback. Non c’erano formazioni specifiche in Italia e dovetti formarmi a distanza, inizialmente con un terapeuta Americano che viveva a Milano. Ebbi inoltre la fortuna di fare un tirocinio al Centro Prescrittore per l’ADHD qui a Bologna, dove mi diedero la possibilità di seguire tanti bambini con il Neurofeedback, per i loro problemi attentivi.

Attualmente seguo prevalentemente adulti. Da allora ho integrato ulteriormente con i cosiddetti approcci bottom-up, terapia Sensomotoria, EMDR, e con l’utilizzo di tecniche ipnotiche. Le varie formazioni psicocorporee mi hanno portata a seguire in larga parte pazienti affetti da traumi e da disturbi psicosomatici.

Il Neurofeedback rimane una grande passione, che utilizzo sia da solo che soprattutto integrato all’interno dei percorsi di Psicoterapia, trovandone enorme vantaggio.

2) Silvia, cos’è il neurofeedback e in quali ambiti clinici si usa?

Il Neurofeedback è una metodologia che si è dimostrata in grado di modificare l’equilibrio tra i ritmi cerebrali, attraverso un feedback in tempo reale dei parametri indicativi della funzionalità neuronale. In pratica la persona riceve informazioni, attraverso suoni o immagini, di quello che accade nel proprio cervello, ed impara così a regolarlo.

Il Neurofeedback è una tipologia specifica di Biofeedback che lavora direttamente sul Sistema Nervoso Centrale, utilizzando i parametri tipici dell’EEG.

Un aspetto molto affascinante è che la mente impara ad autoregolarsi. Non è dunque una tecnica invasiva perché non ci sono percorsi obbligati che la mente debba seguire: quando trova un assetto che è a lei più funzionale, semplicemente lo segue.

É di provata efficacia su patologie come l’epilessia e l’ADD/ADHD ma c’è ormai un enorme corpus di ricerca per quanto riguarda diverse aree cliniche o ambiti di applicazione (disturbi d’ansia, disturbo da stress post-traumatico, dolore cronico, depressione, insonnia etc.).

Le applicazioni non sono unicamente di tipo clinico, essendo il Neurofeedback utilizzato anche per aumentare le performance nello sport, le prestazioni in determinate professioni, per il miglioramento della qualità della vita. In questi ambiti viene impiegato per migliorare la concentrazione, la tollerabilità allo stress, la memoria, la creatività..

3) Silvia, come si svolge una seduta di Neurofeedback e come può essere utile usare questo strumento – in senso di salute mentale?

Una sessione di Neurofeedback tipicamente comincia valutando lo stato di benessere della persona in quel momento, ed eventualmente passando in rassegna le manifestazioni notate successivamente alla seduta precedente (con eventuali check list o annotazioni manuali). Si prepara il paziente mettendolo a suo agio nella relazione con noi e nell’ambiente (regolando la temperatura, la posizione sulla poltrona ecc.). Eventualmente si può promuovere un maggiore contatto della persona con se stessa e un maggiore rilassamento attraverso l’uso ad esempio della Mindfulness o del Biofeedback, prima del training di neurofeedback vero e proprio.

Vengono poi collocati i sensori. Si può utilizzare il cosiddetto full-cap (cuffia che utilizza almeno 19 canali) se si lavora con tecniche 3D, oppure si possono posizionare alcuni sensori contemporaneamente, o ancora con un unico sensore posizionato sulla zona da regolare. Le aree da trattare vengono scelte precedentemente sulla base delle manifestazioni sintomatologiche da migliorare (e quindi delle aree cerebrali tipicamente associate a quelle funzioni) e sulla base di una mappatura iniziale, la brainmap. Si tratta di una registrazione eseguita ad occhi aperti e ad occhi chiusi, a riposo o durante un compito.

Una volta posizionati i sensori la persona prova in modo più o meno consapevole a modificare un determinato parametro, del quale è informata attraverso feedback visivi o uditivi. É un processo piacevole nella maggior parte dei casi, che può assumere la forma di un gioco soprattutto per i bambini. A fine seduta si possono vedere insieme le modificazioni ottenute rispetto ai valori iniziali (baseline) con l’ausilio di grafici che mostrano le variazioni nel tempo del parametro su cui si è lavorato.

Un valore aggiunto, che massimizza le potenzialità della tecnica, è senz’altro la qualità della relazione con il clinico, che diventa di enorme importanza con persone molto sofferenti, come ad esempio i pazienti affetti da trauma complesso.

4) Silvia, sappiamo che è da poco nata SINQ, la prima società scientifica italiana sul Neurofeedback, e che tu sei la presidente. Vuoi presentarla? Di cosa si occupa?

Certo con piacere. Con un gruppo di colleghi stiamo lavorando a SINQ da alcuni anni e finalmente siamo partiti con le attività.

SINQ è nata con l’esigenza di promuovere la diffusione del Neurofeedback e del qEEG (elettroencefalografia quantitativa) in Italia.

Chi si vuole avvicinare a questa meravigliosa disciplina al momento può trovarsi smarrito di fronte a una miriade di proposte, corsi di base, senza la possibilità di seguire dei percorsi che accompagnino verso un approfondimento progressivo delle competenze e delle conoscenze. Una volta completati questi corsi, spesso le persone si trovano un po’ abbandonate a se stesse, con dispositivi e software da padroneggiare e con conoscenze insufficienti per trattare casi articolati e complessi. Vorremmo invece favorire lo scambio e il sostegno reciproco. Stiamo lavorando per rendere SINQ una società viva, che promuova lo scambio tra colleghi attraverso attività di gruppo nelle quali possano via via coinvolgersi portando le loro preziose esperienze.

Vorremmo lavorare sulla qualità dei percorsi formativi e per questo stiamo promuovendo le certificazioni internazionali come via per garantire degli standard formativi. Siamo a contatto con i più importanti organismi internazionali: siamo unici affiliati Italiani di ISNR (International Society of Neuroregulation & Research) e siamo in continuo dialogo con gli altri affiliati internazionali.

Vorremmo inoltre che chi si occupa di questa materia possa essere facilitato al contatto con i colleghi esteri. Le Neuroscienze progrediscono in modo estremamente veloce ed è molto importante poter accedere alla ricerca e alle nuove metodiche direttamente.

Ci tengo particolarmente a citare gli altri membri del Consiglio Direttivo e del Comitato Scientifico che con me stanno portando avanti questo progetto. Sono tutto colleghi di enorme spessore e competenza, con background e formazioni diverse; chi vorrà unirsi a noi potrà conoscerli personalmente! Il Vice Presidente è il Dott. Marco Rotonda, Segretario e Tesoriere il Dott. Giulio Tarantino, sempre nel Comitato Direttivo la Dott.ssa Emanuela Russo e la Dott.ssa Luciana Lorenzon. Il Comitato Scientifico vede come Presidente il Prof. Giuseppe Augusto Chiarenza e come membri il Dott. Marco Congedo, la Dott.ssa Emanuela Russo, il Prof. Vilfredo de Pascalis.

Qui il sito della Società SINQ: https://sinq.org/.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / interviste, psichiatria, psicoterapiacognitivocomportamentale

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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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