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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

1 April 2025

RICERCA E DIVULGAZIONE IN AMBITO DI PSICHEDELICI: 10 LINK

di Raffaele Avico


Raccogliamo qui una decina di link “strategici” per avventurarsi in questa “età dell’oro” della ricerca e dello studio sugli effetti delle sostanze psichedeliche, e per capire come questo lavoro di riscoperta impatterà il mondo della nuova psicoterapia e della psichiatria.
Eccoli.

  1. una selezione di documentari video accurata ed esaustiva sulla psichedelia mondiale
  2. l’incredibile lavoro di Andrew Gallimore sulla DMT. Gallimore ha tentato di “mappare” il mondo “creato” dall’utilizzo di DMT attraverso diversi libri; in questi anni si sta in particolare dedicando allo studio della DMT infusa in modo prolungato (si veda questo studio). Qui un’intervista significativa
  3. un ricercatore e divulgatore che sta imponendosi sulla scena psichedelica italiana, lavorando però da Londra -con David J. Nutt-, Tommaso Barba
  4. l’ecosistema dei contenuti emanati dal lavoro dell’Associazione Luca Coscioni, dal podcast Illuminismo psichedelico ai cerchi di integrazione psichedelica (fortemente avanguardistici in Italia). In particolare questo video uscito di recente a proposito del fine vita. 
  5. un blog di nicchia di cui abbiamo già parlato: le impressioni di un ricercatore che su di sé sperimenta sostanze psichedeliche, riportando fedelmente le sensazioni e il suo vissuto; scritto in modo magistrale: Phenomenautics
  6. Jon Hopkins ha pubblicato un disco (“Music for Psychedelic Therapy”) di musica elettronica pensato per fare da sottofondo a un’esperienza con psilocibina, avventurandosi in luoghi “selvaggi” per campionare suoni; il risultato è impressionante, lo si recupera qui
  7. la Svizzera è vicina all’italia ed è attualmente in Europa il luogo più avanzato in termini di studio, ricerca e utilizzo di sostanze psichedeliche in ambito psichiatrico. Ne abbiamo scritto qui e in precedenza avevamo intervistato Federico Seragnoli che segue percorsi di PAP (Psicoterapia Assistita da Psichedelici) in Svizzera
  8. la (relativamente) neonata SIMEPSI, Società Italiana di Medicina Psichedelica, già molto attiva -e già molto autorevole
  9. negli anni ‘90 una coppia di ricercatori indipendenti californiani, i coniugi Shulgin, sintetizzarono e provarono su loro stessi centinaia di molecole psichedeliche: i risultati di questi studi sono raccolti in due libri contigui, PiHKAL e TiHKAL. Qui il profilo Wikipedia dei coniugi, qui invece un video pubblicato anni fa da Vice con un’intervista alla coppia, e qui archiviati i diari scritti a mano dallo stesso Alexander Shulgin
  10. in ultimo, il pezzo forte, una selezione di 10 articoli “fondamentali” e solidi in senso statistico a cura di Studio Aegle, per POPMed.

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Article by admin / Generale, Formazione / neuroscienze, psicoterapia

11 February 2025

PSICOGENEALOGIA: INTRODUZIONE AL LAVORO DI ANNE ANCELIN SCHÜTZENBERGER

di Raffaele Avico

Lavorare con la transgenerazionalità in psicoterapia significa andare a indagare le aree dell’esperienza del/la paziente in relazione alle generazioni di individui da cui questo/a proviene: si tratta dunque di porre delle domande “strategicamente orientate” riguardanti non solo la generazione dei suoi genitori, ma anche la generazione precedente, e quelle “sopra”, fino a dove sia possibile risalire nella sua storia familiare.

In questo articolo useremo il testo “La sindrome degli antenati” di Anne Ancelin Schützenberger come strumento di lavoro, e tenteremo di dare alcuni spunti per chi volesse cimentarsi in questo tipo di attività.

Come prima domanda, bisognerebbe chiedersi: perché? A quale fine eseguire un lavoro di questo tipo con un paziente in psicoterapia?

Proviamo ad articolare la risposta per punti:

  1. aspetti identitari: chiedersi da dove si proviene, equivale a fare un lavoro di rilettura di alcuni aspetti della propria identità di cui -forse- non si è pienamente coscienti. Parliamo di aspetti della propria personalità relativi a diverse aree, aspetti super-egoici, normativi, ma anche di molto altro. Aiutarsi in psicoterapia con le fotografie può aiutare a compiere quel lavoro di ricostruzione della “cultura familiare“, l’insieme di costumi e usanze che, condizionando i primi anni di vita di un bambino, forniscono un “priming” culturale in grado di influenzarlo anche nei successivi anni. Intendiamo qui non solo il “modo” di stare insieme, gli stili relazionali, ma anche le passioni, gli interessi, la mitologia familiare, le “regole non scritte” che “gocciolano” da una generazione all’altra.
  2. Come prima accennato, il libro “La sindrome degli antenati” di Schutzenberger esplora molto del tema, soprattutto a riguardo del trauma. Diversi studi hanno negli anni scorsi indagato la trasmissibilità del trauma per via genetica (si veda questo): qui se ne parla in termini maggiormente psicologici, come se il trauma fosse stato in grado di produrre “unità psicologiche“, contenuti emotivi poco simbolizzabili -e la cosa fosse passata alla generazione successiva, mutandosi in sintomi psicosomatici o coazioni a ripetere. La Schutzenberger parla di “inconscio familiare“, una sorta di via di mezzo tra inconscio collettivo e inconscio individuale, una serbatoio di elementi più o meno elaborati in grado di produrre degli effetti sulle generazioni successive a chi li abbia vissuti. Viene in mente ovviamente il tema olocausto, il problema della memorie e del “ricordare” relativo alle generazioni successive a quella che lo subì, il lavoro di rilettura e simbolizzazione degli spaventosi eventi vissuti da Primo Levi durante la sua prigionia, per esempio.  Ci si può anche riferire in questi casi ad aspetti più piccoli, ma non meno segnanti all’interno della storia di una famiglia, come la perdita di un lavoro, un periodo di miseria, lo spettro della “malora”. Lavorare in psicoterapia su questi aspetti, tentare di portare a galla gli elementi di questo contenuto inconscio “familiare”, potrebbe aiutare la persona a capire meglio la nascita -dentro di sé- di alcuni timori, di certe preoccupazioni, di un “modo di pensare”, collocando la propria forma mentis entro una prospettiva in primo luogo storica, famigliare, genealogica.
  3. La Shutzemberger, ne “La sindrome degli antenati”, spinge sull’importanza di indagare in sede di psicoterapia la presenza di suicidi, lutti non risolti, andando anche molto indietro nel tempo: parlando per esempio di suicidio, è importante che questo punto venga preso di petto e affrontato in modo chiaro in psicoterapia, essendo che la suicidalità ha una forte trasmissibilità, in senso sia genetico che psicologico. Il suicidio di due persone unite da un legame famigliare (per esempio padre e figlio) potrebbe essere letto, in alcune situazioni, come una forma paradossale di solidarietà o di lealtà, un gesto eseguito nel tentativo di prestare fede a un mandato di lealtà famigliare, il bisogno di “sentirsi soldiale” all’altro nel dolore. Lo psicoterapeuta Nagy ha nel secolo scorso improntato tutto il suo lavoro di ricerca su questi aspetti di “contabilità familiare“, e la Schutzenberger ha preso molto da lui (ChatGpt: “Il concetto di “lealtà familiare” sviluppato da Ivan Boszormenyi-Nagy è un principio centrale nella terapia familiare contestuale. Secondo Nagy, la lealtà è il legame emotivo che unisce i membri della famiglia attraverso un sistema di obblighi, aspettative e debiti morali che ciascuno accumula e mantiene all’interno delle relazioni familiari. La lealtà implica un senso di responsabilità reciproca e la necessità di “bilanciare” ciò che si riceve e ciò che si dà agli altri membri, creando una sorta di “contabilità invisibile”. Nagy ritiene che i problemi individuali spesso nascano da dinamiche di lealtà non bilanciate o irrisolte, e che molti conflitti familiari derivino da tensioni implicite in questo sistema. Nella sua terapia, l’obiettivo è aiutare i membri della famiglia a riconoscere e riequilibrare queste lealtà, per ottenere relazioni più sane e soddisfacenti.”)
  4. Seguendo questa linea di pensiero, lo stesso discorso potrebbe essere fatto per alcuni aspetti morali, la “legge” a cui l’individuo si sottopone, e che potrebbe essere utile, in psicoterapia, mettere o discussione o capire meglio. Parliamo di un lavoro sul Super-io, il tribunale occulto a cui l’uomo si assoggetta, regolato a sua volta da una legge morale che di volta in volta decreta la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato (che è la persona stessa). Si tratta di fare in questi casi un lavoro di ricostruzione “genealogica” della morale dell’individuo, come un percorso di risalita alla fonte, una ricerca dei paradigmi innervanti quella stessa morale -in primo luogo all’interno dell’ambiente familiare. Perchè per un individuo un certo evento è considerato disdicevole e moralmente “impossibile”, e per un altro no? Ragionare in termini transgenerazionali su questi aspetti e su come le “leggi” possano passare da una generazione all’altra, aiuta la persona a poterle mettere in discussione -eventualmente- oppure a renderle maggiormente adeguate al tempo presente, in cui è immerso, come una lotta all’estemporaneità dei precetti morali che la abitano.

Tendenzialmente le persone, messe di fronte a un lavoro di questo tipo, rispondono molto bene, e facilmente arrivano a identificare ed estrapolare aspetti di sé che facilmente riconducono al prima citato “inconscio familiare”. Un grosso tema è il confronto con miti familiari, con aneddoti ereditati e con cui ci si confronta, storie di progenitori, spesso idealizzati e in grado di attivare movimenti, facilitare scelte.

Anne Schutzenberger ha lavorato per tutta la sua vita su questi temi, avviando anche una scuola a tema, che ha formato molti psicoterapeuti italiani.

Tra i suoi libri, merita sicuramente una menzione il famoso e prima menzionato “La sindrome degli antenati”, e l’ultimo suo “quaderno operativo“, di fatto un agile manuale di utilizzo delle tecniche approfondite ne “La sindrome degli antenati”. 

Questo libro, breve e operativo, è stato pubblicato qualche anno prima della scomparsa della ricercatrice francese, e fornisce indicazioni molto pratiche ed esercizi per lavorare con la psicogenealogia e la transgenerazionalità.

Per esempio, tra gli altri:

  1. l’esercizio dell’atomo sociale, di derivazione moreniana, che l’autrice propone di allargare anche a concetti/luoghi/cose, come si osserva nella figura sotto riportata. La Schutzenberger ritiene l’atomo sociale uno strumento utile per avere una fotografia allargata della propria rete di “investimenti affettivi”, utile a produrre collegamenti e associazioni. Va notato che la natura dell’atomo sociale è cangiante, fluida, mutevole nel tempo.
  2. il famoso genosociogramma, sempre di derivazione moreniana, strumento molto conosciuto tra chi si occupi di lavoro con il transgenerazionale e le famiglie: si tratta di disegnare usando segni e simboli peculiari il proprio albero genealogico, arricchito però da eventi positivi o negativi che servono a meglio inquadrarne la “storia”, ponendo attenzione a eventi come traumi, lutti, separazioni, ma anche a segreti, matrimoni, etc. La Schutzenberger considera il tempo minimo per lavorare sul genosociogramma di un individuo, 3 ore. Per lavorare al genosociogramma, l’autrice consiglia in questo libro di ricercare informazioni a riguardo di quella che definisce “nicchia ecologica“, ovvero il contesto in cui i fatti si svolsero, e a partire da quel contesto, risalire a informazioni importanti per la propria storia famigliare, usando anche il potere evocativo di fotografie (qui ne avevamo già scritto).

Per tornare alla fonte e andare al libro “definitivo” della Schutzenberger, si veda anche questo volume.

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Article by admin / Formazione, Recensioni / psicoterapia, recensioni

3 January 2025

L’INTEGRAZIONE IN AMBITO PSICHEDELICO – IN BREVE

di Raffaele Avico

L’integrazione è un processo di “socializzazione” e ri-discussione dell’esperienza psichedelica in un contesto di gruppo, o almeno “alla presenza di” qualcun altro. L’idea è che i contenuti emersi durante il “viaggio psichedelico” possano essere ri-affrontati e discussi, così da trovare un loro posto nella quotidianità del soggetto, divenendo -appunto- integrati nella sua vita.

Abbiamo chiesto a Caterina Bartoli (aka Studio Aegle) un chiarimento a proposito del tema dell’integrazione in psichedelia (qui). Caterina aveva lavorato a un importante articolo introduttivo a tema psichedelici, con raccolti -e sintetizzati- 10 articoli “imprescindibili” della cultura psichedelica, che potete trovare qui. Qui invece li link al suo sito, e l’intero archivio degli articoli che per ora ha spiegato e diffuso.

Sempre a proposito di psichedelici, Phenomenautics.

A proposito del concetto di integrazione, per approfondire, elenchiamo qui di seguito alcune risorse di qualità:

  1. Workbook di MAPS
  2. Questi spunti per community led-integration circles
  3. Questo articolo: Psychedelic integration: An analysis of the concept and its practice
  4. infine, la “bibbia” sul tema.

NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale, Formazione / psicoterapia

2 December 2024

SISTEMI MOTIVAZIONALI, EMOZIONI IN CLINICA, LIOTTI: UN APPROFONDIMENTO (E UN’INTERVISTA A LUCIA TOMBOLINI)

di Raffaele Avico

Abbiamo intervistato Lucia Tombolini, psichiatra e docente, storica collaboratrice di Giovanni Liotti, a proposito dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI).

Quello che ne è emerso è un ottimo dialogo per chi voglia meglio comprendere questa “lente” interpretativa su diversi fenomeni clinici.

L’intervista è raggiungibile a questo link.

La Teoria dei Sistemi Motivazionali è potenzialmente in grado di “superare” (o almeno di affiancare) la prospettiva pulsionale che Freud aveva pensato come “basale” nel funzionamento psichico.
Per Freud le pulsioni erano “rappresentanti” del corpo entro il “reame” della mente, fenomeni psicologici direttamente derivanti dal corpo, elementi di “confine” tra il somatico e la psiche: la psicologia di un individuo sarebbe stata, per Freud, “determinata” dalla forma della loro “organizzazione”.
Parliamo invece, con i Sistemi Motivazionali, di un insieme di comportamenti a base innata che si sviluppano fin dalla vita intrauterina, “regali” dell’evoluzione in grado di muovere il soggetto a comportamenti e relazioni, fin dalla sua nascita. Per una introduzione generale alla Teoria dei Sistemi Motivazionali interpersonali, si veda qui.

Integriamo l’intervista a Lucia Tobolini con un riferimento al tema delle emozioni, viste alla luce della teoria degli SMI.

Le emozioni potrebbero essere lette, usando questa lente, come “segnali” di attivazione di particolari SMI. Quando c’è un’emozione che si “staglia” dal fondo, è utile per uno psicoterapeuta chiedersi: “qual è il Sistema Motivazionale Interpersonale attivato in relazione ad essa”? Quando infatti questo stesso SMI avesse trovato un suo “compimento”, spesso osserveremmo un risolversi dell’emozione stessa, come se le emozioni avessero una “funzione di segnale” per qualcosa riguardante i Sistemi Motivazionali. Pensiamo per esempio all’ansia da separazione/paura nei bambini piccoli, che si attiva in concomitanza con la minaccia di un attaccamento interrotto, e si risolve quando l’attaccamento è (anche solo “virtualmente”) rispristinato: in questo caso l’emozione è un segnale, un segno dell’attivazione di un particolare SMI. E la stessa cosa vale anche per le altre emozioni.

Un approfodimento su questi temi lo troviamo proprio sul prima citato “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali” a cura di Liotti, Fassone e Monticelli: ne riportiamo qui di seguito un estratto, incentrato proprio sul tema emozioni e SMI (da pag. 162 a pag. 170), scritto da Giovanni Liotti -come sempre geniale.


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Sistemi motivazionali e psicopatologia dei disturbi emozionali

Per illustrare il contributo della TEM alla comprensione delle emozioni che caratterizzano la psicopatologia, ci soffermeremo sui casi in cui l’emozione appare sregolata per intensità e frequenza, esaminando i casi dell’ansia, della tristezza, della colpa, della vergogna e della collera.

[…]

Ansia

Se si esamina la più comune emozione che compare all’interno dei disturbi psicopatologici, l’ansia, alla luce della Teoria Evoluzionistica della Motivazione, si nota che la sua definizione elementare e classica – paura senza oggetto – appare discutibile. La TEM, infatti, induce a riconoscere sempre l’oggetto della paura in un ostacolo o una minaccia al conseguimento della meta di uno dei sistemi motivazionali. Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine. Pure riconducibili al sistema di attaccamento sono l’ansia generalizzata e l’ansia ipocondriaca, quando i problema cruciale sembra essere non soltanto la rappresentazione di un rischio (di un qualsiasi danno oppure di una malattia) ma anche o soprattutto la resistenza ad accettare il conforto che figure d’attaccamento (familiari, amici, medici) tentano di offrire nella forma di rassicurazione circa l’inesistenza o l’improbabilità del rischio temuto. Ben diverso è il caso dell’ansia sociale, dove l’ostacolo (l’oggetto della paura riguarda il conseguimento della meta di rango caratterizzante l’attivazione del sistema competitivo (agonistico). L’ansia sociale dovrebbe dunque essere meglio definita come paura di subire un giudizio negativo che compromette l’aspirazione a mantenere o incrementare il rango sociale percepito. Altri tipi di paura abnorme, come quelli che caratterizzano i disturbi correlati allo stress post-traumatico (fra i quali molti esperti considerano anche i disturbi borderline e dissociativi: Liotti, Farina, 2011) e quelli che possono apparire nel corso dei deliri di persecuzione, sono riconducibili soprattutto alle operazioni del sistema di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), non principalmente ai sistemi di attaccamento e di rango.

Non è infrequente che alcuni tipi di ansia abbiano come oggetto ostacoli al conseguimento delle mete di due o più sistemi motivazionali. Per esempio, il panico è non di rado riconducibile all’esperienza di paura senza soluzione tipica dell’attaccamento disorganizzato (Cassidy, Mohr, 2001). Nell’attaccamento disorganizzato esiste una tensione abnorme fra i sistemi di attaccamento e di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), tale che coesistono paura di danneggiamento da parte della figura di attaccamento e paura di perderne la vicinanza protettiva così che non è possibile né cercare prossimità né fuggire (Liotti, Farina, 2011). Nel conflitto fra questi due sistemi motivazionali si apre la possibilità di gravi processi dissociativi, nei quali il sistema di difesa per la sopravvivenza contribuisce in particolare alla depersonalizzazione (Liotti, Farina, 2011).

Tristezza

I tre sistemi motivazionali chiamati in causa per comprendere i tipi più comuni di paura abnorme sono anche quelli più spesso coinvolti nelle diverse forme di dolorosa angoscia, tristezza e malinconia che compaiono in numerosi disturbi psicopatologici. Quando è coinvolto principalmente il sistema di attaccamento, la forma assunta dall’esperienza emozionale è quella della tristezza per la perdita, ben diversa anche fenomenologicamente dalla tristezza per la sconfitta o il fallimento, caratteristica dell’implicazione prevalente del sistema agonistico. Un’analisi attenta delle posture e dei resoconti dell’esperienza soggettiva permette poi di differenziare da queste due la forma di accasciamento emozionale legata al sistema di difesa per la sopravvivenza. Quest’ultima si palesa come sentimento diffuso ed estremo d’impotenza, riconducibile all’attivazione progressiva del nucleo dorsale del vago nel processo che conduce alla finta morte (feign death: vedi capitolo 1; vedi anche Porges, 2007 e Seligman, 1975).

É degno di nota che paura e tristezza (ansia e depressione se si preferisce la terminologia corrente in psicologia clinica e psichiatria) sono spesso associate fra loro con emozioni esperite in maniera abnorme (soprattutto collera etero- o autodiretta, vergogna e colpa) in diversi disturbi psicopatologici. La TEM permette di studiare queste associazioni di emozioni in ogni sindrome clinica a partire dall’ipotesi che esse siano coordinate dallo stesso sistema motivazionale e ne riflettano la tipica sequenza operativa. Per esempio, si può prevedere che la tristezza per la perdita si coniughi più facilmente al timoroso sentimento di vulnerabilità conseguente alla solitudine percepita (sistema di attaccamento) in un dato paziente, mentre la tristezza per sconfitta o fallimento sia più probabilmente legata, in un altro, alla paura del giudizio sociale negativo e alla vergogna (sistema agonistico).

Vergogna e colpa

Vergogna e colpa, che sono entrambe presenti in molti disturbi psicopatologici, sono state e sono ancora oggetto di importanti indagini e di controversie negli studi teorici ed empirici riguardanti la psicopatologia. È ben nota la divergenza fra le teorie psicoanalitiche classiche che attribuiscono un ruolo cruciale alla colpa seguendo la concezione freudiana del Super-lo, e la Psicologia del Sé (Kohut, 1971) che tende a considerare più importante la vergogna almeno nella genesi dei disturbi psicopatologici più gravi (per una sintesi recente degli argomenti di questa controversia, si può consultare il terzo capitolo del libro di Aron e Starr, 2013). Kohut (1971) considera la vergogna come un sentimento diffusivo che può espandersi a tutto il Sé annichilendolo, mentre la colpa è un sentimento più maturo che si manifesta in fasi più avanzate dello sviluppo della personalità, ed è conseguenza di singole contravvenzioni a specifiche proibizioni morali. Secondo Kohut (1971) le personalità narcisistiche non hanno sviluppato una struttura superegoica adeguata, e quindi non sperimentano sentimenti di colpa anche se possono descrivere le loro esperienze di vergogna in termini di elevati ideali morali. La fondamentale idea che la vergogna tende a essere sperimentata come pervasiva dell’esperienza di sé mentre la colpa è contestualizzabile nell’ambito di specifiche trasgressioni trova un corrispettivo nella discriminazione fra le due emozioni suggerita cal cognitivismo clinico: la vergogna si basa sulla convinzione (belief) di essere globalmente “sbagliati” o “fatti male”, mentre la colpa è basata sulla credenza di aver fatto qualcosa di male o di sbagliato.
La ricerca empirica sulle differenze fra vergogna e colpa sembra offrire sostegno alla tesi di Kohut: una meta-analisi di numerosi studi (Kim, Thibodeau, Jorgensen, 2011) dimostra che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna è significativamente superiore rispetto a quella con la colpa. Tuttavia, nello stesso studio meta-analitico sono presenti considerazioni riguardanti il rischio che un’inadeguata discriminazione concettuale fra vergogna e colpa renda vano il tentativo di indagare sia sul diverso ruolo patogeno delle due emozioni, sia sui processi mentali che le rendono abnormi per intensità, durata e contesto

di comparsa. Nell’articolo di Kim, Thibodeau e Jorgensen (2011) si legge che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna cessa di essere significativamente diversa dall’associazione con la colpa quando si considerano due varianti di colpa disadattativa: la colpa causata da un esagerato senso di responsabilità per eventi incontrollabili, e la colpa generalizzata liberamente fluttuante (cioè non riferibile ad alcun contesto specifico). L’identificazione di diversi tipi di colpa crea problemi per la differenziazione fra vergogna e colpa negli studi empirici di psicopatologia, tanto più che sono state descritte, per lo più su basi cliniche, numerose varianti del sentimento di colpa: colpa edípica, colpa da separazione e slealtà, colpa del sopravvissuto, colpa da senso di responsabilità onnipotente e colpa maligna (self-hate guilt), colpa deontologica e colpa altruistica (definite in O’Connor, Berry, Weiss et al., 1997; Mancini, 2008). Il problema posto al ricercatore dalla difficoltà di discriminare fra la vergogna e alcune varianti della colpa può essere illustrato con un esempio. La colpa maligna e la colpa liberamente fluttuante potrebbero apparire difficilmente distinguibili dalla vergogna perché come quest’ultima sono emozioni diffusive che invadono ampiamente l’esperienza di sé e dunque, diversamente dalla colpa per trasgressioni a specifiche interdizioni morali, non sono facilmente contestualizzabili.

A nostro avviso, la TEM permette di discriminare sempre fra vergogna e colpa in modo particolarmente efficace, risolvendo il suddetto problema. Secondo la TEM, la vergogna è un’emozione tipica del sistema agonistico, anche se potrebbe manifestarsi nel sistema sessuale nella forma mitigata del pudore e, in forma estrema, nel sistema affiliativo come conseguenza dell’espulsione dal gruppo. La colpa, invece, non è tipica di alcun sistema motivazionale, e può manifestarsi in un buon numero di essi: nel sistema di accudimento (dove accompagna o segue il disattendere alle richieste di cura e stimola il rispondere), nel sistema cooperativo (dove frena la slealtà verso i partner con cui ci si è impegnati in un’impresa congiunta), nel meccanismo che inibisce la violenza intraspecifica (vedi la descrizione del MIV nel capitolo 3), e nel sistema affiliativo (dove scoraggia il persistere nella trasgressione alle norme del gruppo).
Nel normale funzionamento del sistema di attaccamento, la comparsa di colpa e vergogna non offrirebbe invece, almeno nei primi due anni di vita in cui il sistema è particolarmente attivo, alcun vantaggio evoluzionistico in termini di raggiungimento della meta adattativa. Per questa ragione, colpa e vergogna devono attendere la maturazione di sistemi diversi da quello di attaccamento per diventare facilmente osservabili nel bambino. Soltanto quando, durante il terzo anno di vita, si possono attivare, insieme a quello di attaccamento, altri sistemi motivazionali (nei quali colpa e vergogna rivelano le proprie finalità evoluzionisticamente adattative) le due emozioni si possono talora osservare, frammiste a quelle di attaccamento, durante le interazioni fra bambino e caregiver.

Il vantaggio adattativo della colpa è evidente: essa muove alla riconciliazione e dunque contribuisce a salvaguardare relazioni sociali dotate di alto valore evoluzionistico. Il valore evoluzionistico della vergogna può sembrare a prima vista meno evidente, ma diviene chiaro se si considera la dinamica dei segnali di sottomissione e di dominanza durante le contese per il rango sociale. Quando la sfida e l’aggressività reciproca fra due contendenti, che caratterizzano le prime fasi operative del sistema agonistico, cominciano a dimostrare la forza superiore di uno dei due, nell’altro si attiva un automatismo psicobiologico che inibisce il comportamento aggressivo. Questo automatismo è noto come subroutine di resa, o di sottomissione, del sistema agonistico. Nella subroutine di resa il tono muscolare, fino a quel momento molto alto per permettere le condotte aggressive, si riduce bruscamente. Il sangue, che era stato richiamato nei muscoli per nutrirli durante lo sforzo competitivo, defluisce rapidamente verso i visceri e soprattutto verso la cute, donde il rossore tipico della vergogna. L’andare verso l’antagonista a testa alta e schiena dritta, per colpirlo, si arresta in una sorta di accenno di fuga (fuga invertita, nella terminologia degli etologi) e si trasforma in uno dei possibili segnali di resa. Lo sconfitto evita lo sguardo del vincitore a segnalare che cessa di attaccarlo, china il capo e persino si prostra, oppure si getta sul dorso e alza nel vuoto gli arti, a mitare la posizione di una preda sul punto di essere uccisa. Allo stesso tempo anche il vincitore cessa l’attacco, e pur mantenendo la postura dell’agressione vincente (spalle alzate, mento in alto) rivolge nel vuoto la tensione aggressiva residua: può emettere, per farlo, una sorta di urlo di trionfo rivolto verso il cielo, può correre brevemente sul terreno dell’agone, o colpire con i pugni il proprio torace invece dell’avversario sconfitto, come fanno i gorilla. E questa la subroutine di trionfo, detta anche di dominanza, del sistema agonistico che viene spontaneo collegare, quando la osserviamo in un animale, a un’emozione simile all’orgoglio umano. La vergogna, invece, è l’emozione che altrettanto spontaneamente colleghiamo all’incipiente subroutine di resa che apre la strada ai segnali di sottomissione.

L’essenziale valore evoluzionistico legato alla capacità di formare gruppi sociali coesi dipende dunque anche dalla capacità di manifestare vergogna, avviando con i corrispondenti comportamenti la costruzione di gerarchie sociali primordiali basate su rapporti di dominan-za-subordinazione (Trower, Gilbert, 1989). Tali tipi di gruppo sociale sommano in sé i vantaggi dell’orientamento univoco (indicato dal do-minante) e dell’unione delle forze di molti. L’esistenza di gerarchie di rango riduce la conflittualità interna fra i membri del gruppo, e apre la strada all’evoluzione di forme diverse di gruppo sociale, meno rigidamente gerarchiche e più orientate alla collaborazione (vedi il tema del sistema di affiliazione umano nel capitolo 4).

La TEM permette dunque una chiara distinzione fra le emozioni di colpa e vergogna attraverso l’analisi degli scopi finali che l’individuo persegue nel momento del loro manitestarsi (rispettivamente, riparazione di una relazione per la colpa, e riconoscimento della maggiore forza o competenza di un altro membro del gruppo per la vergogna).

Quest’analisi è facilitata dall’osservazione dei comportamenti e dei fenomeni corporei che accompagnano le due emozioni: posture chine, evitamento dello sguardo diretto, lieve allontanamento dall’altro e rossore nel caso della vergogna; avvicinamento benevolo con postura eretta e sguardo rivolto all’altro nel caso della colpa.

Si potrebbe opinare che una tale scrupolosa discriminazione tra colpa e vergogna non è clinicamente indispensabile, argomentando che le due emozioni si manifestano spesso insieme in diversi disturbi psico-patologici, e sono riconducibili a percezioni negative di sé che hanno molti aspetti in comune. A queste argomentazioni, la TEM oppone solidi controargomenti. È vero che le percezioni di sé durante le manifestazioni congiunte di colpa e vergogna si sovrappongono e rendono difficile la discriminazione tre vedue emozioni, ma no os per ke rappresentazioni dell’altro, e quindi di sé-con-l’altro Nella colpa il Sè è rappresentato come responsabile di un danno che ha causato all’altro o alla relazione con l’altro, quindi come dotato di forze, competenze o risorse pari o superiori a quelle dell’altro, altrimenti non avrebbe potuto recargli danno. Nella vergogna, invece, la rappresentazione dell’altro è caratterizzata dalla riconosciuta superiorità, quanto meno sul piano etico, e la rappresentazione di sé da un’ inferiorità meritevole di giudizio morale negativo e persino di disprezzo. In altre parole, chi prova vergogna si sente inferiore e tendenzialmente impotente, mentre chi prova colpa si sente responsabile e abbastanza “forte” da poter-causare danno. Quanto poi al motivo per cui le due emozioni di colpa e vergogna e le due corrispondenti rappresentazioni tendono apparentemente a sovrapporsi, la TEM lo rintraccia nel confondersi quasi simultaneo di due contesti relazionali e motivazionali che però restano diversi fra loro. Per esempio, un paziente in psicoterapia che racconti di aver tradito qualcuno che ama, mentendogli, prova durante il racconto colpa verso la persona amata, e vergogna di fronte al giudizio negativo che si aspetta formarsi nella mente del terapeuta. E probabile che un terapeuta attento soprattutto alle dinamiche relazionali e motivazionali in cui è personalmente coinvolto durante lo scambio clinico noti soprattutto o soltanto la vergogna del paziente, e intervenga su quella. Un terapeuta portato a esplorare le narrazioni e le dinamiche intrapsichiche del paziente piuttosto che la relazione terapeutica in corso forse noterebbe, di fronte allo stesso racconto, soltanto la colpa. Un clinico che cerchi guida nella TEM noterebbe entrambe le emozioni, contestualizzate in due simultanee rappresentazioni di sé-con-l’altro: quella in corso e che coinvolge il terapeuta (dove affiora la vergogna), e quella con la persona amata e ingannata che il paziente sta rievocando (dove affiora la colpa). Il vantaggio clinico sta nella possibilità di esplorare, nella sequenza che appare più opportuna (di regola, prima la colpa e poi la più paralizzante vergogna), entrambi gli ambiti di esperienza e significato.

Collera

La collera compare normalmente nelle sequenze emozionali tipiche di diversi sistemi motivazionali. Nel sistema di attaccamento essa appare nella forma di protesta contro l’incipiente allontanamento della figura di attaccamento, ed è finalizzata a impedirlo. Nel sistema di accudimento il fine della collera è scoraggiare in modo rapido ed energico la persona che si vuole proteggere dal compiere azioni dannose o pericolose, come segnalato nello scritto di Bowiby (1984) di cui il capitolo 3 ha offerto una sintesi. La collera appare nel sistema agonistico durante le prime fasi della contesa per il rango, e si manifesta come aggressività ritualizzata il cui scopo è ottenere la resa dell’an-

tagonista senza danneggiarlo seriamente (vedi i capitoli 1e 3). Una

forma primordiale e violenta di collera accompagna la fase di attacco del sistema di difesa per la sopravvivenza, dove l’aggressività non è ri-tualizzata ma volta a danneggiare o uccidere. E importante ricordare che l’aggressività, altrettanto distruttiva, del sistema predatorio non è accompagnata da collera (vedi capitolo 3). Infine, stati mentali e condotte alla cui genesi contribuiscono i sistemi motivazionali di ordine superiore, inducendo modificazioni nella collera e nell’aggressività che caratterizzano le operazioni di sistemi più arcaici, sono la gelosia, l’invidia e il sarcasmo.

La causa più frequente di manifestazioni abnormi per intensità e durata della collera eterodiretta è certamente il deficit, transitorio e contesto-dipendente ovvero più stabile, della funzione regolatrice esercitata dai sistemi motivazionali di ordine superiore su quelli evoluzionisticamente più antichi. Tale deficit può conseguire a variabili genetiche e temperamentali, ma probabilmente è più spesso conseguente a tensioni dinamiche abnormi fra sistemi motivazionali come quelle fra attaccamento e ditesa per la sopravvivenza che caratterizzano l’attaccamento disorganizzato (capitolo 3; Liotti, 2014a).

Più complessa è la genesi della collera rivolta verso se stessi. Per rivolgere verso di sé collera e aggressività, è anzitutto necessario che esista la capacità di un dialogo interiore a sostegno della coscienza di sé estesa nel tempo (Damasio, 2010), ovvero a sostegno della descrizione narrativa dell’identità personale. Secondo la TEM, in assenza di tale capacità (che ovviamente manca negli animali e non è sviluppata nei piccoli umani fino al terzo anno di vita) collera e aggressività so-no, per regola di adattamento darwiniano, sempre eterodirette. Data l’esistenza della capacità di dialogo interiore, particolari contesi interpersonali e specifici processi mentali devono intervenire nel corso dello sviluppo della personalità perché collera e aggressività possano essere rivolte verso di sé, rompendo la regola evoluzionistica che le vuole eterodirette. Alcune ipotesi sui contesti interpersonali e sui processi mentali capaci di dirigere su di sé collera e aggressività sono stare discusse nella parte finale del capitolo 3 (pp. 85-86).

COMMENTO

Liotti era un bowlbiano convinto e aveva in mente, pensando alla clinica, la Teoria dell’Attaccamento, sapeva di come i bambini esprimono emozioni a partire da “mandati” evoluzionistici, pre-cognitivi, assolutamente innati. Una parte del suo lavoro è stata incentrata sul comprendere come questi mandati si attivano e funzionano nel rapporto di un paziente con il suo terapeuta, o all’interno della vita di un bambino che poi diventa uomo. Pressoché tutti i comportamenti di un bambino possono essere letti a partire dalla lente “sistemi motivazionali”: i problemi insorgono quando questi mandati non trovano “soddisfazione“, o non sono “attivabili”.

Un noto test proiettivo riguardante i bambini in età prescolare, l’MCAST, permette di simulare delle situazioni critiche per osservare quanto e in che modo il bambino attivi i suoi sistemi motivazionali (in particolare il sistema di attaccamento), e come questi trovino il loro compimento.

Nella vita di un adulto, di fronte a situazioni di minaccia, o in altri numerosi frangenti, i Sistemi Motivazionali si attivano e cercano una loro meta: le emozioni ci raccontano di come questa “traiettoria”, questa teleologia, si sviluppi e trovi una sua chiusura.

La cosa importante da tenere in considerazione è che molte delle emozioni portate da un paziente durante una psicoterapia, possono essere rilette a partire da questa prospettiva.
Come sottolinea Liotti, per esempio, un attacco di panico o una forte ansia a riguardo del corpo potrebbero essere riletti come un sistema di attaccamento attivato che non trova un suo compimento (avevamo qui scritto a proposito di una lettura del panico come ansia da separazione estrema, di fronte a una minaccia di “rottura di un attaccamento”): non sarebbe tanto il problema in sé l’oggetto della minaccia, quanto il terrore relativo al percepirsi -in questo- isolati (cito testualmente Liotti: “Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine”). Il passaggio è abbastanza importante, perché sposta l’attenzione dal sintomo a qualcosa di più relazionale e primevo, elemento causale che spesso viene facilmente accettato e riconosciuto dal paziente come plausibile e “naturale”. Inoltre ci fa riflettere su quanto gli aspetti relazionali, in clinica e fuori da essa, rappresentino un elemento centrale: non sarebbe tanto cosa dice una terapeuta a una suo paziente a fare la differenza, ma come risponda alle richieste implicite messe in atto dal paziente a livello dei sistemi motivazionali, quanto il terapeuta sappia rispondere a un sistema di attaccamento attivato in un paziente spaventato, quanto sappia porsi in modo cooperativo in altri frangenti, etc.

Su quest’ultimo punto convergono d’altronde molti filoni di studi in ambito psicoanalitico, il che ci racconta -ancora una volta-  di come Liotti abbia saputo integrare in sé visioni diverse, approcci teorici differenti, sempre più convergenti, alla ricerca di un “denominatore comune” in psicoterapia.

Su Liotti abbiamo qui tentato una sintesi del suo “modello di lavoro”.

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30 July 2024

LA (NEONATA) SIMEPSI E UN INTERVENTO DI FABIO VILLA SULLA TERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A LOSANNA

di Raffaele Avico

La neonata SIMEPSI ha da poco pubblicato un video sul suo canale youtube in cui il direttivo presenta la Società Scientifica, e invita uno psichiatra italiano e formatosi in Svizzera e ora di ruolo a Losanna, Fabio Villa, a raccontare la sua esperienza in ambito di terapia assistita da psichedelici. Interviene anche, nella fase finale del webinar, Henrik Jungaberle della Mind Foundation di Berlino, a proposito della formazione in PAP (psicoterapia assistita da psichedelici) erogata da Mind.

Presenti anche Gjergj Cerri (che aveva già scritto questo su questo blog) e Matteo Buonarroti, vicepresidente di SIMEPSI che qui avevamo intervistato.

L’intervento di Fabio Villa si configura come il più formativo e ricco di spunti.

Interessanti le osservazioni che Villa porta a proposito del “livello” di intervento del farmaco psichedelico, che sembra riuscire a intervenire sugli aspetti pre-simbolici e pre-linguistici di alcuni disturbi.

Chi lavora con pazienti affetti da disturbi gravi di ansia o da PTSD, si rende perfettamente conto di come i sintomi del disagio psichico persistono nonostante il paziente abbia razionalmente compreso le cause e ogni aspetto del disturbo stesso. Nonostante il lavoro sulla metacognizione sia eseguito alla perfezione, non sembra sufficiente per scardinare le risposte “automatiche” e “autonomiche” che alcuni disturbi portano con sé. Il farmaco psichedelico sembra intervenire su un livello più emotivo o come direbbero gli strategici percettivo/reattivo, inerente le risposte del corpo, senza passare dal linguaggio o dal semplice “pensiero a proposito del disturbo stesso”. La differenza che esiste insomma tra il “parlare” di un disturbo dell’attaccamento  -per esempio-, e vivere un’esperienza correttiva con qualcuno che ci possa far sperimentare dal vivo un modo “diverso”, e farcelo interiorizzare.

Ci troviamo all’interno di un luogo, di un ambito di “intervento” della psicoterapia non necessariamente misurato dal linguaggio, che ricorda la “psicoterapia con l’emisfero destro” di Schore, le metafore/aneddoti “terapeutici” di Milton Erickson, le suggestioni degli strategici, gli interventi sul corpo per il PTSD. Non sempre infatti la razionalità aiuta nel rileggere in modo terapeutico i disturbi: il potere della cura passa a volte da altro, da altre esperienze, dallo sperimentare modalità nuove, dal rileggere la propria situazione per via di metafore e immagini potenti (pensiamo solo all’immagine/concetto del confine interpersonale), dall’esporsi a situazioni temute (e qui rimandiamo agli articoli a proposito del lavoro di Emiliano Toso che su questo blog abbiamo più volte citato). Avevamo scritto in precedenza a proposito dell’inconscio non rimosso, il luogo di “deposito” delle esperienze primarie inerenti l’attaccamento, non rimosse perché pre-cognitive e pre-linguistiche, “incarnate” senza passare dal pensiero. I farmaci psichedelici promettono di poter “arrivare” anche lì in senso psicoterapico, “bypassando” per certi versi il pensiero stesso.

Estremamente interessanti le osservazioni fatte dai relatori a proposito della “ego death”, e su come il disturbo venga – a volte- fatto proprio dal paziente, e diventi un aspetto della sua identità/personalità: il lavoro con gli psichedelici aiuterebbe -anche- a lasciarlo andare, o a promuovere una dis-identificazione dallo stesso.

Qui il video:

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29 May 2024

LA SVIZZERA, CUORE DEL RINASCIMENTO PSICHEDELICO EUROPEO

di Raffaele Avico

É stato da pochissimo pubblicato un documento che contiene le linee guida per la psicoterapia assistita da psichedelici in Svizzera, a cura del Gruppo di Interesse Svizzero Terapia Assistita da Psichedelici. 

Il Gruppo di Interesse Svizzero Terapia Assistita da Psichedelici si è formato nel 2023 dalla fusione di tre realtà svizzere già esistenti, l’Association Professionnelle Suisse pour les Psychédéliques en Thérapie (ASPT), la Société Suisse de Médecine Psychédélique (SSMP) e l’Associazione Medica Svizzera per la Terapia Psicolitica (SÄPT), che esiste dal 1985.

Sulla realtà svizzera avevamo qui intervistato Federico Seragnoli: al momento rappresenta -la Svizzera- uno dei 3 luoghi al mondo dove la psicoterapia può in effetti essere integrata con farmaci a base psichedelica. Gli altri due sono -per ora- il Canada e l’Australia.

Il documento rappresenta una buona introduzione alla realtà svizzera, essendo molto ben chiarito il contesto (anche storico) e le prospettive future del “rinascimento psichedelico” europeo; contiene inoltre le considerazioni provvisorie che gli addetti ai lavori si spingono a fare in senso clinico.

Viene anche ben sviluppato il tema “formazione” in ambito di psichedelia (qui per approfondire).

Riportiamo qui di seguito uno stralcio delle linee guida, tradotte in italiano da Christine Meier e Luigi Pintus, reperibili qui per intero: Raccomandazioni_di_trattamento_PAT

In fondo, un estratto dalle linee guido a proposito dell'”integrazione“, un processo di ri-lettura e “assunzione” delle esperienze fatte durante il “trip” psichedelico.

[…]

Uso terapeutico degli psichedelici in Svizzera

Tra il 1988 e il 1993, alcuni medici – tutti membri della SÄPT – sono stati autorizzati dall’UFSP a trattare i pazienti con LSD e MDMA (Gasser, 1996). Dopo una lunga pausa, nel 2014 la Svizzera è diventata l’unico Paese al mondo a consentire all’autorità sanitaria nazionale (Ufficio federale della sanità pubblica, UFSP) di autorizzare, caso per caso, il trattamento con LSD e MDMA e, dal 2021, anche con la psilocibina.

La base è costituita da un articolo di esenzione della legge sugli stupefacenti (articolo 8, comma 5 della NarcA), secondo il quale l’autorizzazione può essere concessa in casi eccezionali per le sostanze che rientrano nel livello di divieto più elevato (lista d), se si tratta di un “uso medico limitato” di malattie gravi. La PAT non è un trattamento di prima scelta, ma viene presa in considerazione solo per le persone che si sono già sottoposte a diverse altre terapie psicoterapeutiche o psicofarmacologiche senza successo duraturo.

In alcuni casi, per questi trattamenti, è stato utilizzato anche il termine “uso compassionevole”, in quanto vengono utilizzati solo dopo aver esaurito i metodi abituali e spesso in pazienti con malattie minacciose o terminali. In termini normativi, tuttavia, il termine uso compassionevole si riferisce all’uso temporaneo di un medicinale non ancora autorizzato in pazienti al di fuori di uno studio di autorizzazione parallelo. Per questo tipo di trattamento, lo sponsor dello studio (l’azienda farmaceutica) deve presentare la domanda di utilizzo a Swissmedic. Tuttavia, l’uso medico limitato degli psichedelici non avviene generalmente in parallelo a uno studio di autorizzazione parallela (in Svizzera) e non viene effettuato su richiesta di uno sponsor e approvato dall’UFSP.

In termini normativi, la PAT in Svizzera è un “uso medico limitato” di una sostanza altrimenti vietata, basato su un’autorizzazione eccezionale dell’UFSP. Dal punto di vista terapeutico utilizziamo il termine “terapia assistita da psichedelici” (PAT). Oltre alla sua adeguatezza in termini di contenuto, la PAT ha il vantaggio che questo termine si sta affermando a livello internazionale.

Attualmente (autunno 2023), la PAT legale al di fuori degli studi approvati è possibile nel mondo solo in Svizzera, Australia (dal 1° luglio 2023, terapisti selezionati, uso dell’MDMA per il PTSD e della psilocibina per la depressione) e Canada (terapisti selezionati, uso della psilocibina per il trattamento palliativo dei pazienti oncologici). In Messico e in Canada esistono anche cliniche specializzate nell’uso dello psichedelico atipico ibogaina per il trattamento della dipendenza da op- pioidi, e in alcuni Paesi del Sud America sono stati creati centri che combinano l’uso sciamanico- indigeno o sincretico legale dell’ayahuasca con approcci psicoterapeutici.

In Svizzera, dal 2014 sono state rilasciate più di 1000 licenze per uso medico limitato a circa 60 medici. Si stima che siano stati effettuati circa 2000-3000 trattamenti psichedelici con MDMA, LSD e psilocibina. Attualmente sono disponibili dati concreti per gli anni dal 2016 al novembre 2023 incluso: Durante questo periodo, ci sono state in totale 1051 autorizzazioni (autorizzazioni iniziali e prosecuzioni), di cui 351 per l’MDMA, 338 per l’LSD e, negli anni 2021-2023, 362 per la psilocibina (informazioni dell’UFSP, al dicembre 2023).

Le autorizzazioni sono valide per un paziente e per una sostanza specifica per un periodo di un anno, con possibilità di proroga se il processo terapeutico lo richiede e viene concessa una nuova autorizzazione. La decisione sul dosaggio della sostanza, sulla frequenza delle sedute psichedeliche, sul setting e sulla forma e intensità della psicoterapia di accompagnamento, spetta al titolare dell’autorizzazione eccezionale e al suo progetto terapeutico individuale.

Da quasi dieci anni l’UFSP rende possibile l’esecuzione di trattamenti assistiti da psichedelici in Svizzera su una scala non trascurabile. Nel 2019 l’UFSP ha commissionato un rapporto di esperti che fornisce informazioni sullo stato e sugli scenari di sviluppo del trattamento con psichedelici (Liechti, 2019).”

[…]

Integrazione

L’integrazione delle esperienze psichedeliche è stata oggetto di grande attenzione solo negli ultimi anni, e in alcuni casi le relative conoscenze vengono insegnate in seminari appositamente creati. In sostanza l’obiettivo è quello di utilizzare un’esperienza psichedelica approfondendone la comprensione e trasferendola nella vita quotidiana. In particolare, le esperienze difficili (talvolta definite colloquialmente “bad trip”), i processi emotivi incompiuti, l’intensificazione delle paure, la disperazione, la frustrazione, il dolore intenso, la rabbia, o simili, necessitano di un lavoro terapeutico per essere compresi e classificati. L’integrazione può essere intesa anche come un processo di cambiamento nel tempo, che a volte può avvenire in modo inconsapevole. I processi di integrazione e di elaborazione iniziano già durante l’esperienza psichedelica quando, verso la fine dell’effetto acuto, il pensiero razionale, analitico e categorizzante torna in primo piano rispetto al pensiero associativo, creativo e intuitivo precedentemente predominante. I pazienti iniziano a ricapitolare e a riflettere su ciò che hanno sperimentato. In determinate circostanze possono anche verificarsi conversazioni più brevi o più lunghe con il terapeuta o con altri partecipanti al gruppo.
Questo processo può essere sostenuto e reso consapevole, almeno in parte, dalla psicoterapia di accompagnamento e da vari metodi di centratura e di calma, come la meditazione, il tempo trascorso nella natura, o qualsiasi processo creativo (come dipingere, fare musica). I pazienti possono anche essere incoraggiati a scrivere un diario e un riassunto descrittivo subito dopo l’esperienza psichedelica, che potrà essere discusso in terapia.

[..]

Qui per il documento: PDF.


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9 May 2024

Un’alternativa alla psicopatologia categoriale: Hierarchical Taxonomy of Psychopathology (HiTOP)

PREMESSA: su questo blog avevamo già parlato di HiTOP qui. Qui invece un’intervista fatta a Simone Cheli a fine 2021, su questi temi e altro. (R. Avico)

di Simone Cheli (PhD; Department of Psychology, St. John’s University, Roma)

Tra tutti i tentativi di rispondere alla crisi dei modelli diagnostici in psicopatologia, il Hierarchical Taxonomy of Psychopathology (HiTOP) è uno dei più recenti.

HiTOP nasce infatti meno di 10 anni fa (Kotov et al., 2017: Cicero et al., 2024) come un gruppo di ricercatori interessati a supportare una prospettiva dimensionale. In breve, l’idea di fondo (che ritroviamo anche nel modello alternativo di diagnosi dei disturbi di personalità del DSM-5) è quella di soppiantare le diagnosi basate su un modello tradizionalmente medico con una prospettiva nuova

Prendiamo due esempi. La Corea di Hungtington è attribuibile ad un profilo sintomatologico preciso e confermata solo e soltanto dalla presenza di una mutazione del gene IT15. Queste caratteristiche permettono chiaramente di identificare una categoria diagnostica discreta (sì o no) e totalmente ripetibile (almeno da chiunque sia in grado di sequenziare il gene in questione). Se invece io devo formulare un profilo diagnostico di un paziente con prominenti sintomi depressivi, rischio di aprire il vaso di Pandora. Può sussistere una depressione maggiore conseguente ad un disturbo di adattamento alla fine di una relazione. Oppure i sintomi in questione (e la possibile diagnosi di depressione maggiore) corrispondono allo stato di vuoto di un paziente con disturbo narcisistico di personalità, ma al contempo quello stesso disturbo di personalità può essere in comorbidità con un disturbo evitante di personalità che esacerba tali sintomi attraverso meccanismi fobico-sociali…

Tutti noi che ci siamo progressivamente uniti ad HiTOP Consortium riteniamo che una prospettiva basata su dimensioni organizzate gerarchicamente sia non solo più utile al clinico, ma anche più coerente con i dati ad oggi raccolti.

Da un lato, molti clinici riconoscono sempre di più come esistano dei profili “macro” che possono spiegare l’eterogeneità e variabilità dei sintomi. Si pensi a come almeno un paziente su due con sintomi depressivi abbia anche sintomi ansiosi. Questo ha portato autori come David Barlow a sviluppare protocolli terapeutici transdiagnostici per i disturbi emotivi nel suo insieme e ad individuare un tratto di personalità trasversale e duraturo che corrisponde al nevroticismo (Sauer-Zavala & Barlow, 2024) Dall’altro lato, i numerosi studi meta-analitici condotti da HiTOP e altri gruppi di ricerca suggeriscono come esistano delle dimensioni latenti a tutti i sintomi psicopatologici e queste dimensioni sono organizzabili gerarchicamente in macro-fattori (definiti spectra o super-spectra).

Nel linguaggio di HiTOP abbiamo a che fare con lo spettro internalizzante (pazienti che internalizzano la sofferenza mostrando primariamente disturbi emotivi), lo spettro esternalizzante (pazienti che esternalizzano la sofferenza mostrando primariamente forme di disregolazione), i disturbi del pensiero o il super-spectrum psicosi (riferibili a disturbi in cui è a rischio l’esame di realtà) e simili.

Tutte queste dimensioni convergerebbero su quello che da molti è stato definito il fattor p, ovvero un generale rischio di manifestare psicopatologia.

Per quanto le analisi condotte lascino ancora spazio a numerose interpretazioni (e non siamo tutti concordi su queste!), è interessante notare come siano sempre di più le convergenze tra studi clinici e studi meta-analitici.

Gli spectra di HiTOP sono facilmente sovrapponibili alle dimensioni del modello alternativo del DSM-5, al Five Factor Model, nonché ai modelli di concettualizzazione e trattamento dei disturbi in età evolutiva. Non solo, sempre più clinici sviluppano protocolli spectrum-specifici come Barlow e colleghi per il nevroticismo, il nostro gruppo di ricerca per la schizotipia e tanti altri (Cheli & Lysaker, 2023).

Infine, il costrutto di fattore p è stato più volte ripreso da autori come Fonagy e Bateman e messo in relazione a fattori di funzionamento come la mentalizzazione o la fiducia epistemica.

In futuro è da augurarsi che la ricerca si concentri su due ambiti. Il primo è quello dello sviluppo di strumenti di assessment basati su modelli dimensionali come HiTOP (è in corso di validazione il protocollo HiTOP Self Report o HiTOP-SR). Il secondo corrisponde invece all’uso di HiTOP e altri modelli dimensionali e gerarchici nella pratica clinica a partire da protocolli validati sino ad uno uso pragmatico da parte dei singoli clinici nel loro quotidiano.

Bibliografia

Cheli, S. & Lysaker P.H. (2023). A dimensional approach to schizotypy. Conceptualization and treatment. Springer.

Cicero, D. C., Ruggero, C., Balling, C., Bottera, A. R., Cheli, S., Elkrief, L., … Thomeczek, M. L. (2024). State of the Science: The Hierarchical Taxonomy of Psychopathology (HiTOP). Behavior Therapy, Online publication. Qui il link

Sauer-Zavala, S., & Barlow, D.H. (2024). Nevroticismo. Una nuova concernice per i disturbi emotivi e il loro trattamento (A cura di S. Cheli). Fioriti Editore.

Kotov, R., Krueger, R. F., Watson, D., Achenbach, T. M., Althoff, R. R., Bagby,… Zimmerman, M. (2017). The Hierarchical Taxonomy of Psychopathology (HiTOP): A dimensional alternative to traditional nosologies. Journal of abnormal psychology, 126(4), 454–477. https://doi.org/10.1037/abn0000258

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18 April 2024

INTERVISTA A FEDERICO SERAGNOLI: IL VIDEO

di Raffaele Avico

Il gruppo di interesse sulla psicopatologia di Aisted ha organizzato un incontro con Federico Seragnoli, psicologo e dottorando a Ginevra, a proposito della psicoterapia assistita da psichedelici.

Seragnoli descrive la realtà di Ginevra, il rationale di intervento per i pazienti in cura, come accedere a un servizio di questo tipo (offerto solo ai cittadini svizzeri), le sue impressioni su questo tipo di pratica.

Offre inoltre molti spunti di riflessione e approfondimento sul tema.

Per chi volesse, il video è qui sotto disponibile.


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14 March 2024

Psicoterapia assistita da psichedelici: intervista a Matteo Buonarroti

di Raffaele Avico

Abbiamo intervistato Matteo Buonarroti, primo medico italiano – per ora – ad aver completato il training, organizzato dalla Mind foundation a Berlino, sulla psicoterapia assistita da psichedelici..

Matteo ci ha raccontato di aver deciso per una “svolta” in senso professionale in area salute mentale, dopo alcuni anni di pratica come Medico di Medicina Generale. L’interesse per l’area psichedelica e per la psichiatria d’avanguardia, lo hanno portato poi a frequentare un corso di due anni a Berlino, il cui programma può essere recuperato qui.

In Europa, al momento, non esistono altre realtà che erogano training certificato della durata di due anni: negli Stati Uniti sono più presenti, per esempio il corso organizzato da CIIS, o da NAROPA.

Buonarroti ci ha fatto notare che il corso è stato incentrato sugli aspetti teorici e “preparatori” inerenti l’uso di psichedelici in psicoterapia, tenendo conto che non è ancora previsto che la psychedelic therapy si possa applicare su pazienti al di fuori dei contesti di ricerca -tranne in pochi paesi come l’Australia, la Svizzera e qualche stato in USA.

Al momento, come prima accennato, l’unico luogo in Europa dove la psicoterapia assistita da psichedelici è praticata su soggetti umani, è la Svizzera, a Ginevra (si veda questa intervista a Federico Seragnoli).

Matteo ci ha inoltre fornito di alcuni spunti per poter introdurre alla questione e approfondire, tra cui Magic Medicine su Netflix, e il documentario La Sostanza – Storia dell’Lsd.

Ci ha inoltre raccontato dei più attivi e seri gruppi di ricerca sul tema, come il gruppo della John Hopkins University (il più antico) o quello del King’s College a Londra (documentato nel prima citato documentario Magic Medicine, in cui compare anche il “famoso”” tossicologo David J. Nutt, ci cui abbiamo già parlato qui su POPMed).

La puntata è riservata agli iscritti al servizio POPMed, e la si recupera qui.

Qui altro sul “rinascimento psichedelico”.


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27 February 2024

BRESCIA, FEBBRAIO 2024: DUE ESTRATTI DALLA MASTERCLASS “VERSO UNA NUOVA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE”

di Raffaele Avico

A febbraio 2024, a Brescia, Massimo Agnoletti ed Emiliano Toso hanno tenuto una masterclass che aveva come tema centrale la terapia espositiva, che abbiamo su questo blog approfondito in molteplici post.

Il corso si è svolto nel corso di un’intera giornata, e ha avuto come temi centrali la “visione” sulla psicoterapia portata da Agnoletti -ricercatore psicologo esperto di gestione dello stress e “psicoterapia d’avanguardia”-, insieme ad un approfondimento verticale sulla terapia espositiva portato da Toso, che su questo tema scrive e studia da molti anni.

Agnoletti ha parlato di microbiota, visione olistica della salute mentale ed epigenetica, citando molti studi di ricerca (attingendo anche dalla sua vasta produzione in letteratura, accessibile da qui).

Toso ha indagato invece il paradigma inibitorio dell’esposizione formalizzato da Michelle Craske, aggiungendo alcuni aspetti “suoi”: i fattori estrinseci ed intrinseci a una migliore implementazione della terapia espositiva in psicoterapia (si veda qui).

Qui di seguito due estratti del corso, visibili in chiaro sul canale di Psychiatry On Line.


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10 January 2024

MARCO ROVELLI, LA POLITICIZZAZIONE DEL DISAGIO PSICHICO E UN PODCAST DI psicologia fenomenologica

di Raffaele Avico

I redattori del blog psicologiafenomenologica.it hanno avviato da poco un podcast condotto da Gianluca D’Amico, chiamato Cosedapazzi.

Nell’ultima puntata viene intervistato Marco Rovelli a proposito di un suo libro uscito di recente, Soffro dunque siamo. Rovelli in questa intervista si mostra bravissimo nel portare una lettura della sofferenza psichica integrata agli aspetti più sociali, cosa che, oggi, risulta essere preziosa, vista la tendenza a concentrare la problematicità psicologico/psichiatrica solamente su elementi individuali. Rovelli pone l’accento su uno degli elefanti della stanza della sofferenza mentale del presente, la comparsa di forme di psicopatologia direttamente collegate alla cultura della performance dominante e al senso di frammentazione e di scarsa tenuta sociale in cui siamo immersi.

Possiamo estrarre da questa intervista alcune riflessioni e spunti.

[continua su POPMed]

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8 January 2024

La terapia espositiva enterocettiva (per il disturbo di panico) – di Emiliano Toso

PREMESSA: sempre in tema “esposizione” e intorno al lavoro di Emiliano Toso, si vedano anche:

  • TRATTAMENTO INTEGRATO DELL’ANSIA: INTERVISTA A MASSIMO AGNOLETTI ED EMILIANO TOSO
  • LE FRONTIERE DELLA TERAPIA ESPOSITIVA. INTERVISTA A EMILIANO TOSO
  • TERAPIA ESPOSITIVA: INTERVISTA A EMILIANO TOSO (PARTE SECONDA)
  • TERAPIA ESPOSITIVA (IN PODCAST)
  • VERSO UNA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE: PREFAZIONE
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE

Come si nota dalla lettura del caso clinico, il punto centrale dell’esposizione (per come la intende Toso) è la violazione delle aspettative, tanto da rendere controproducente lavorare con il paziente in senso psicoterapico prima dell’esposizione stessa. Il caso clinico mette insieme diversi temi e aspetti collaterali all’esposizione stessa, come il sonno, l’alimentazione, l’interferenza dei farmaci nella psicoterapia (con il rischio che inibiscano l’apprendimento inibitorio). É opportuno ricordare che quando si abbia a che fare con disturbi psichici incentrati sulla paura patologica, la terapia espositiva è LA terapia elettiva, e molte forme di terapia “altra” (compresi alcuni interventi di psicoterapia psicodinamica, l’EMDR o gli esercizi di scrittura o incentrati sulla peggiore fantasia degli strategici, etc.) sono forme di terapia espositiva “sotto mentite spoglie”. (R. Avico)

VERSO UNA NUOVA ESPOSIZIONE ENTEROCETTIVA DI PRECISIONE PER IL DISTURBO DI PANICO

di Emiliano Toso (emiliano_toso@yahoo.it)

Il disturbo di panico è dato da esperienze di attacchi di panico inaspettati e ricorrenti, cui fanno seguito, per un periodo non inferiore ad un mese, persistenti preoccupazioni di poter avere nuovi attacchi e significative alterazioni del proprio comportamento in rapporto a detta preoccupazione.

I modelli eziopatogenetici del disturbo di panico non si differenziano nella sostanza da quelli che riguardano lo sviluppo di paure e fobie secondo l’approccio delle teorie dell’apprendimento. Il modello di Goldstein e Chambless (1978) si basa sulle teorie dell’apprendimento ed enfatizza il ruolo della “paura della paura”, simile al condizionamento enterocettivo di Razran (1961), in cui le sensazioni somatiche divengono stimoli condizionati di panico capaci di elicitare ansia.

I trattamenti che risultano efficaci per il disturbo di panico enfatizzano proprio  l’esposizione a tutte quelle sensazioni somatiche  che, a causa di apprendimento per condizionamento classico, cominciano ad essere temute ed evitate. Questi interventi sono attualmente molto diffusi presso i terapeuti cognitivo – comportamentali, poichè mirano direttamente al cuore del problema, ossia all’associazione tra la sensazione fisica e l’ansia, riducendo così la paura della paura e il rischio di agorafobia.

Da un punto di vista pratico gli esercizi espositivi mirano a indurre nel paziente le sensazioni corporee temute come, ad esempio l’aumento del battito cardiaco o della temperatura corporea. Gli esercizi espositivi prevalentemente utilizzati sono quelli di iperventilazione e le diverse prove di Andrews.

L’esposizione enterocettiva, così com’è stata usata sino ad oggi, si basa prevalentemente su due meccanismi di funzionamento: 1) favorire l’abituazione nei confronti dell’ansia associata alle sensazioni corporee; 2) confutare le convinzioni catastrofiche nei confronti delle sensazioni corporee. Entrambe le ipotesi hanno un denominatore comune ossia che sia possibile cancellare l’apprendimento eccitatorio alla base del disturbo.

Negli ultimi due decenni la ricerca ha evidenziato però (Toso, 2021, 2023) che la terapia di esposizione,  non comporterebbe una vera e propria cancellazione della memoria di paura bensì “darebbe vita” ad un nuovo apprendimento, capace di interferire con essa e con la sua espressione: un apprendimento, dunque, “inibitorio”- (Fig.1).

Nello specifico, sintetizzando, sta emergendo che durante il sistematico confronto con uno stimolo condizionato eccitatorio, sia esso esterno o interno (come nel caso delle sensazioni somatiche nel disturbo di panico), l’innesco del processo di “creazione inibitoria” dipenderebbe oltre che da aspetti intrinseci al processo stesso (errore predittivo, dipendenza dal contesto e ricompensa gratificante), anche da aspetti estrinseci ad esso, (capaci di modulare i primi, come ad esempio il sonno, l’attività fisica, il benessere del microbiota intestinale ). Sulla base di talI novità concettualI stanno nascendo nuove modalità operative, molto più articolate, intense, ricche e precise, che sembrano rendere l’intervento espositivo più parsimonioso ed efficace rispetto al passato (fig, 2).

Studi clinici pionieristici stanno evidenziando questi entusiasmanti risultati per numerosi tipi di disordini d’ansia, compreso il disturbo di panico (ad es. Diacono et al. 2013 – Massimizzare l’efficacia dell’esposizione interocettiva ottimizzando l’apprendimento inibitorio: uno studio randomizzato controllato).

Caso clinico esemplificativo

(fonte Toso 2023)

Ermanno è un quarantacinquenne, sposato e con due figli rispettivamente di 4 e 7 anni. Lavora come impiegato in una famosa azienda da circa 10 anni e finalmente, circa tre mesi fa, gli è stata proposta l’offerta di responsabile dell’ufficio amministrativo. Se da una parte la promozione è stata molto gradita e quindi accettata, dall’altra ha comportato sin da subito una “bella” dose di stress, sia per quanto riguarda l’enorme mole di lavoro (e la conseguente responsabilità) sia per quanto concerne il rapporto con i diversi impiegati che sembravano non gradirne la presenza al posto del precedente responsabile. “In particolare, ci sono due persone, che poi sono quelle in grado di influenzare anche tutti gli altri, che fanno in modo di farmi sentire sempre inadatto al mio ruolo. Questa cosa mi sta facendo soffrire molto, anche perché io sono una persona che ha difficoltà nell’esprimere le emozioni e dunque non riesco a chiarirmi con loro”. Il primo segno serio del suo malessere si è manifestato con l’insonnia, dapprima solo qualche notte a settimana ma poi quasi tutte le notti. A causa del senso continuo di stanchezza Ermanno ha smesso di andare a correre, come era solito fare due/tre volte alla settimana, e nonostante l’aumento della sedentarietà ha cominciato a mangiare molto cibo spazzatura e a bere alcol più del solito. In breve tempo anche la salute e la regolarità del suo intestino sono peggiorate con un senso di gonfiore costante e stitichezza.

All’interno di questo vortice di disagio interpersonale, insonnia, stanchezza, e malessere fisico una sera, mentre stava rientrando dal lavoro in auto Ermanno ha accusato un improvviso e duraturo capogiro, accompagnato da mancanza di respiro e tachicardia. A questo punto, spaventatissimo, accostò immediatamente con l’auto e chiamò la moglie con il cellulare. Accompagnato d’urgenza al pronto soccorso venne subito assistito dai sanitari con tutte le dovute indagini del caso; nel frattempo, vista l’agitazione, gli venne somministrato un tranquillante. Alla fine gli venne spiegato che il suo era stato un forte attacco di panico e che molto probabilmente esso era la conseguenza di un periodo di stress. Gli venne consigliato dunque di ridurre la mole dei suoi impegni e di assumere per una decina di giorni i tranquillanti benzodiazepinici che gli vennero prescritti. Nonostante avesse preso qualche giorno di riposo e assumesse i farmaci, dopo quell’esperienza, le cose andarono peggiorando ed Ermanno continuò ad avere altri attacchi con una frequenza di una o due volte alla settimana, intervallati da una forte ansia anticipatoria. “Ero sempre più preoccupato e temevo che questi sintomi fossero la spia di un grave problema di salute”. Iniziò così a far visita a vari medici e, nonostante gli esiti negativi delle loro indagini, si convinse che tali malesseri potessero essere di natura cardiaca. Viveva continuamente con l’ansia e la paura di avere l’attacco decisivo e questo stava stravolgendo completamente la sua vita. Smise completamente di praticare attività fisica, anche la più leggera, spesso non andava al lavoro e chiedeva continuamente rassicurazioni alla moglie e al proprio medico. Quest’ultimo, visto l’aggravarsi delle condizioni emotive del suo assistito, gli consigliò vivamente di intraprendere un trattamento psicologico.

Le prime due sessioni sono consistite in una fase di psicoeducazione e di pianificazione del trattamento. Il terapeuta ha discusso circa le origini ed i fattori di mantenimento del disturbo di panico, in particolare del fatto che per il paziente, le specifiche sensazioni fisiche avevano acquisito capacità predittiva di un possibile attacco di cuore. Inoltre, ad Ermanno venne spiegato che i numerosi comportamenti di protezione ed evitamento usati, non permettevano la violazione delle aspettative temute, mantenendo il disturbo, e per tali motivi è emersa l’importanza di eliminarli. Prima di procedere con i vari esercizi di esposizione ad Ermanno sono state evidenziati due aspetti rilevati durante la fase di assesment; il primo era l’insonnia ed il secondo il suo stato di malessere intestinale. Dopo avergli spiegato l’importanza di questi due fattori nei confronti del processo di creazione inibitoria, è stato invitato a consultare gli opportuni specialisti i quali avrebbero agito con interventi adeguati promuovendo un buon sonno e ripristinando il benessere dell’intestino. Considerando inoltre che anche le benzodiazepine prescritte al paziente avevano la capacità di ostacolare il processo di creazione inibitoria, in questa fase il terapeuta ha consultato il medico per concordarne la sospensione. Le sessioni dalla 3 alla 15 (eseguite due volte a settimana) si sono concentrate prevalentemente sulle esposizioni enterocettive mediante l’utilizzo di esercizi fisici capaci di indurre rispettivamente vertigini, mancanza di respiro e tachicardia. Per indurre i capogiri (primo sintomo percepito nella sequenza del panico), Ermanno doveva posizionarsi al centro dello studio del terapeuta e girare in cerchio su se stesso. Poiché egli credeva che ci fosse una probabilità dell’90% di avere un infarto dopo 30 secondi di esposizione a tali sensazioni, venne concordato con lui di prolungare l’esercizio per una durata di almeno un minuto. Questo aumento temporale aveva il fine di massimizzare la probabilità percepita di pericolo e quindi la violazione delle aspettative. Nelle sessioni dalla 5 alla 10 per indurre la mancanza di respiro il paziente è stato invitato a respirare attraverso una cannuccia tenendo contemporaneamente chiuso il naso oppure trattenendo il respiro. Anche queste esposizioni sono state progettate in modo da oltrepassare il punto in cui il paziente credeva di avere un attacco cardiaco, ossia 20 secondi. Infine, per provocarsi le palpitazioni, egli fu invitato nelle successive 5 sessioni a correre sul posto oppure a salire e scendere su di un cubo predisposto in studio. Al fine di amplificare il sintomo tachicardia e aumentare l’aspettativa temuta, ad Ermanno fu chiesto di assumere della caffeina (bevendo un caffè), poco prima degli esercizi, e di guardare assieme al terapeuta alcuni documentari sull’ infarto. Tale strategia ebbe un effetto immediato sulle aspettative del paziente, aumentando la sua ansia e paura ma massimizzando, al contempo, l’errore predittivo e la sorpresa. Come compiti per casa (tra una seduta e l’altra), il paziente è stato invitato a esercitarsi con gli stessi esercizi svolti in studio con l’aggiunta dei seguenti: frequentare ambienti affollati (per le vertigini), usare un colletto stretto ed entrare in ambienti caldi (senso di soffocamento) e riprendere a fare running (tachicardia). Gli è stato inoltre raccomandato di eseguire le esposizioni variando i contesti (spazio/tempo e interni/esterni). Le esposizioni dovevano quindi essere eseguite in vari momenti della giornata, e nel maggior numero di luoghi da lui solitamente frequentati. Questo avrebbe permesso di favorire il recupero di ciascun nuovo apprendimento inibitorio svincolandolo dal contesto specifico. Al termine di ogni sessione di esposizione Emanuele è stato invitato a compilare una scheda finalizzata a consolidare il lavoro svolto mettendo in evidenza l’errore di predizione e la gratificazione che ne consegue. In questa fase è risultata utile anche una discussione con il terapeuta sull’esperienza fatta, sulle domande della scheda (ad es. Hai dei pensieri che tendono a sminuire i risultati ottenuti? Se si quali?) e sulle difficoltà incontrate. Come è possibile notare le esposizioni enterocettive usate con Ermanno e basate sul modello di apprendimento inibitorio, differiscono da quelle finalizzate all’abituazione. Nel primo caso, infatti, ogni esercizio non ha lo scopo di ridurre l’ansia nel paziente bensì il fine è quello di aumentare la probabilità dell’aspettativa temuta e dunque l’ansia e la paura. Questo approccio differisce anche dai modelli cognitivi che enfatizzano la messa in discussione di errate interpretazioni e l’attenzione ai possibili segnali di sicurezza prima o durante l’esposizione. Tali interventi, eseguiti nei tempi solitamente indicati, riducendo significativamente l’aspettativa di minaccia comprometterebbero l’errore predittivo e di conseguenza anche la gratificazione. Per tali ragioni l’azione sui pensieri relativi alla minaccia sono sempre stati eseguiti alla fine di ogni esposizione in modo da consolidarne gli effetti. Le sessioni dalla 15 alla 20 sono state focalizzate sulla strategia di estinzione approfondita, che è consistita in esposizioni a diversi stimoli combinati dopo che essi erano stati estinti isolatamente. Tale strategia agisce prevalentemente ostacolando il naturale processo di abituazione allo stimolo temuto, mantenendo elevata l’aspettativa di minaccia. Dal punto di vista pratico per il paziente questo ha comportato il compito di unire nella stessa sessione esercizi di esposizione alla mancanza di respiro con altri per affrontare il battito cardiaco accelerato, dopo averli eseguite separatamente. Una volta completata questa combinazione, il terapeuta ha proposto esposizioni aggiungendo le vertigini. In questo modo, tutti e tre i sintomi temuti da Ermanno, dopo essere stati affrontati singolarmente, sono stati inclusi in un’unica esposizione per massimizzare la violazione delle aspettative. In questa fase il terapeuta ha preferito distribuire il carico di lavoro in più incontri, piuttosto che eseguire esposizioni in poche sedute. Tutto questo al fine di favorire un maggior consolidamento di quanto veniva appreso durante ogni esposizione. In un’ottica di prevenzione delle ricadute, considerando infine le difficoltà riferite dal paziente in fase di assessment, ossia quelle relative alla sue abilità assertive (“Questa cosa mi sta facendo soffrire molto anche perché io sono una persona che ha difficoltà nell’esprimere le emozioni e dunque non riesco a chiarirmi con loro”), al fine di ridurre lo stress con i colleghi e prevenire un recupero delle memorie eccitatorie ad Ermanno è stato proposto di partecipare ad un training di gruppo sull’assertività.

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Fig. 1 (sotto) La figura rappresenta la sintesi del processo di apprendimento inibitorio. Viene descritta la formazione di un nuovo apprendimento (SC – no SI) come conseguenza di un sistematico confronto con lo SC. Viene evidenziata la sua azione competitiva e bloccante nei confronti dell’associazione eccitatoria (SC – no SI). Infine viene descritta l’azione “frenante” della corteccia prefrontale ventromediale rispetto all’amigdala (PFCVM). I nuovi schemi di connessioni sinaptiche, tra i vari neuroni forgianti il metaforico freno, rappresentano la nuova memoria inibitoria (fonte Toso 2023).

 

Fig. 2 (sotto) Nella figura troviamo in grigio, in alto a destra, la rappresentazione del nuovo meccanismo ritenuto alla base del processo di estinzione della paura definito come “apprendimento inibitorio”. Nei riquadri blu, sono elencati gli aspetti modulatori intrinseci al processo stesso (errore predittivo, dipendenza dal contesto e ricompensa gratificante) e le strategie proposte per sfruttarli al meglio.Nei riquadri in rosso, invece i principali fattori estrinseci al processo (biologici, psicologici e ambientali) ed altrettante strategie d’intervento. Fattori intrinseci ed estrinseci agiscono sinergicamente durante il confronto con lo SC eccitatorio (Fonte Toso e Chiaravalle 2023);

Bibliografia

Toso E., Craske M.G., Treanor M., Conway C., Zbozinek T., Vervliet B. (2016). Massimizzare la terapia di esposizione: Un approccio basato sull’apprendimento inibitorio. Cognitivismo Clinico 13, 2, 103-133. Tr. it. Craske M.G., Treanor M., Conway C., Zbozinek T., Vervliet B. (2014). Maximizing exposure therapy: an inhibitory learning approach. Behaviour Research and Therapy 50, 10 – 23.

Toso, E. (2021). La seconda giovinezza dell’esposizione. Modello concettuale e modalità operative. Giovanni Fioriti Editore, Roma.

Toso, E. (2023). Verso una terapia espositiva di precisione. Dalla scienza dell’estinzione della paura alla clinica. Giovanni Fioriti Editore, Roma.

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27 December 2023

INTRODUZIONE A VIKTOR FRANKL

di Raffaele Avico

Viktor Frankl è stato uno psichiatra austriaco di origine ebraica, internato per più di 3 anni ad Auschwitz. Frankl affrontò gli anni della prigionia con uno spirito da ricercatore, un po’ come il nostrano Primo Levi, con un approccio però più incentrato sugli stati interni dei deportati, come traiamo dalla lettura del suo famoso “Uno psicologo nei lager”.
Frankl, nel riferirsi alla sua logoterapia (una terapia basata sul senso), cita la famosa massima di Nietzsche “Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come”. Negli anni del secondo dopoguerra la logoterapia trovò tantissimi seguaci, ed è ancora oggi viva e vitale (pensiamo all‘Alaef – Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana, qui il sito).
Nel saggio “Uno psicologo nei lager” Frankl descrive la reazione degli individui alle condizioni di vita estreme del campo, traendone importanti conclusioni in termini di psicologia individuale (soprattutto relative alla ricerca e al bisogno di senso e significato, e alla possibilità di trascendere il quotidiano).

L’intelligenza artificiale ci aiuta a elencare i 7 principi fondanti della logoterapia, come segue:

  1. Volontà di significato (Will to Meaning): Il principio fondamentale della logoterapia è che la forza motivante primaria nella vita umana è la ricerca di significato. Frankl afferma che anche nelle circostanze più difficili, gli individui possono trovare un senso e un significato alla propria esistenza.
  2. Libertà di volontà (Freedom of Will): La logoterapia sottolinea la libertà individuale di scelta. Gli individui hanno la capacità di scegliere la propria attitudine nei confronti delle circostanze, anche quando non possono controllare gli eventi stessi.
  3. Volontà di potenza (Will to Power): Frankl non si riferisce al concetto di “volontà di potenza” come una ricerca di dominio sugli altri, ma piuttosto come una spinta interiore a realizzare il proprio potenziale e a perseguire obiettivi significativi nella vita.
  4. La triade noetica (Noetic Triad): Frankl distingue tre dimensioni del significato: il significato creativo (realizzare il proprio potenziale), il significato esperienziale (trarre significato dalle esperienze della vita) e il significato attitudinale (affrontare la sofferenza con una prospettiva positiva).
  5. Sofferenza inevitabile e sofferenza senza significato (Inevitable Suffering and Meaningless Suffering): Frankl riconosce che la sofferenza fa parte della vita, ma sottolinea che anche nella sofferenza più profonda, è possibile trovare significato. La sofferenza diventa insensata solo quando non viene accompagnata dalla ricerca di un significato 
  6. Attitudine nei confronti della sofferenza (Attitude Toward Suffering): Gli individui hanno il potere di scegliere la propria attitudine nei confronti della sofferenza. La logoterapia promuove la resilienza e la crescita personale attraverso la scelta di affrontare le sfide con una prospettiva positiva.
  7. Realizzazione attraverso l’amore e il servizio (Achievement Through Love and Service): La logoterapia sottolinea l’importanza dell’amore e del servizio agli altri come vie significative per realizzare il proprio scopo nella vita.

In questo articolo troviamo altri punti che riguardano la logoterapia: vi si introduce il concetto frankliano di nevrosi noogena, ovvero inerente l’aspetto noetico, derivante “dallo spirito”, cioè dagli aspetti più alti dell’esperienza umana, concernenti il senso e il significato. Frankl, in quanto psichiatra, sembra confrontarsi con problematiche ai limiti dell’esperienza umana, soprattutto quando alcuni fattori contingenti all’uomo nel suo vivere siano spinti agli estremi: come trovare un senso alla propria vita dopo la perdita di 6 figli nelle camere a gas (nel caso di un rabbino seguito come psichiatra dallo stesso Frankl)? Come arrivare a un significato e a un senso di pienezza esistenziale, quando sia soddisfatta ogni pulsione alla sopravvivenza e quando si permanga in una zona di assoluto comfort, evento pressoché quotidiano per ogni cittadino europeo moderno? Frankl risponde consigliando l’auto-trascendenza e il lavoro sul significato; non tutte le sofferenze umane devono essere quindi spiegate in termini di pulsioni da scaricare, o da conflitti difficilmente integrabili: alcune forme di sofferenza deriveranno da un’assenza di tensione al significato, tensione in grado di giovare ad altre “aree di vita” del paziente stesso. Lo stesso Frankl usa il termine noodinamica per indicare quel gioco di spinte inerenti il significato in grado di influenzare l’esperienza dell’individuo.

FRANKL PSICOTERAPEUTA

Frankl diede però anche molti altri spunti alla psicoterapia, prendiamo per esempio questo articolo, scritto a proposito di quella che Frankl chiamò intenzione paradossa, di fatto parente (parliamo di 100 anni fa) delle moderne tecniche controparadossali della psicoterapia strategica nardoniana.

Il principio che sta alla base di questa metodologia psicoterapeutica è più volte chiamato da Nardone “saturazione transmarginale“, che Nardone stesso riferisce essere un principio cardine della psicologia, anche se in effetti non se ne trova traccia in rete. L’idea è che esista un meccanismo di “implosione” delle emozioni, e in particolare della paura patologica, in effetti molto simile a quello che su questo blog abbiamo più volte citato, il modello a dente di sega o a cascata (in riferimento però al trauma), differente però nella sua espressione (dato che nella formulazione di Nardone non vengono citati i sintomi dissociativi, frequenti nel trauma). Dicevamo, il principio che sta alla base di questo esercizio terapeutico, è quello di portare l’espressione di un’emozione a un livello più alto di quanto la sua stessa espressione, di per sé, implichi. Si tratterebbe di autoprescriversi uno stato di sofferenza superiore rispetto a quello che già non si sperimenti, con il fine paradossale di procurare una saturazione e un successivo collasso dell’emozione stessa. Queste tecniche sono chiamate da Nardone e dagli psicoterapeuti strategici “paradossali”, e sono mutuate da vecchi (ma attuali) principi della psicologia aderente alla scuola di Palo Alto (dove usavano appunto la “prescrizione del sintomo”).

Ma: perchè funzionano? Per tre ordini di motivi:

  1. auto-prescriversi un sintomo sposta il paziente dalla posizione di voler controllarlo: si passa da una logica di conflitto, a una logica di scelta. Molti disturbi sono mantenuti in vita dal tentativo che fa il paziente di controllare le emozioni a esso soggiacenti. Pensiamo per esempio al panico. È il tentativo di controllare la paura e le sensazioni corporee a essa connesse, che aumenta la paura stessa, proprio perché stiamo tentando di controllare razionalmente qualcosa che fisiologicamente è alle “dipendenze” del sistema nervoso autonomo, che non risponde alla volontà cosciente dell’individuo. Aumentare di proposito un sintomo, porta il paziente a smettere istantantaneamente di controllarlo, e questo toglie potere al sintomo stesso
  2. auto-evocare il sintomo, porta il paziente a passare attraverso l’oggetto che più teme: parliamo dunque di un atto di esposizione estrema, una sorta di terapia d’urto. Il fatto che questo esercizio di esposizione avvenga nel contesto di un rapporto solido con il terapeuta, entro un protocollo “regolamentato”, crea quello spazio “sicuro” utile al paziente per esporsi. Nelle parole di Robert Frost: “la via d’uscita è attraverso”.
  3. predisporsi al sintomo, auto-evocando scenari di fallimento o di rischio, produce una ristrutturazione cognitiva che permette al paziente di relativizzare il rischio stesso, mettendolo maggiormente in prospettiva, de-assolutizzandolo

Riprendendo l’articolo prima citato, Frankl definisce così l’intenzione paradossa: “Bene, questo è precisamente quello che deve fare l’intenzione paradossa, la quale può essere definita come e un processo dal quale il paziente è incoraggiato a fare o a desiderare le cose di cui egli ha paura (la prima cosa si applica a paziente fobico, la seconda quello ossessivo-compulsivo)”.

Frankl continua citando due ulteriori aspetti correlati al tema dell’interazione paradossa, che in effetti rappresentano due dei punti centrali della logoterapia stessa:

  1. auto-distanziamento, che Frankl definisce come la capacità di prendere distanza dai propri contenuti di pensiero e comportamento, per mezzo  -anche- del senso dello humor
  2. auto-trascendenza, che l’autore definisce come la capacità di trovare uno scopo superiore. Nel suo famoso “uno psicologo nei lager”, Frankl diverse volte cita la possibilità di trascendere dall’esperienza quotidiana, in quel caso rappresentata dal terribile periodo di internamento: il suo scopo divenne quello di testimoniare e di indagare, come -di nuovo- il nostro Primo Levi.

Nel 1947 Frankl propone una visione “strategica” della psicoterapia, assolutamente moderna:

“Tutte le psicoterapie di orientamento psicoanalitico sono principalmente interessate a scoprire le condizioni originarie del «riflesso condizionato », in base al quale è possibile capire anche il tipo di nevrosi e, cioè, la situazione, interna ed esterna, in cui un dato sintomo nevrotico è insorto la prima volta. Chi scrive sostiene, tuttavia, che la nevrosi, ormai giunta a piena maturazione, è causata non soltanto dalle condizioni originarie, ma anche da condizionamenti secondari. Questo rinforzo a sua volta, è causato dal meccanismo di feedback, chiamato ansietà anticipatoria. Perciò, se vogliamo condizionare ulteriormente un riflesso condizionato, dobbiamo scardinare il circolo vizioso formato dall’ansia anticipatoria ed è questo il vero lavoro compiuto dalla nostra tecnica dell’intenzione paradossa.“

Se pensiamo all’origine di un attacco di panico e a come quest’ultimo venga mantenuto vivo e vitale da un processo di feedback, possiamo facilmente comprendere come la sua visione sia di fatto la stessa che oggi viene adottata contro la paura patologica nella scuola di Nardone, come esposto nel video seguente:


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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12 December 2023

3 MODI DI INTENDERE LA DISSOCIAZIONE: DA UN INTERVENTO DI BENEDETTO FARINA

di Raffaele Avico

Qualche mese fa FCP ha organizzato un incontro corale per tracciare i confini dell’eredità teorica di Giovanni Liotti.

Durante questo incontro sono stati interpellati diversi studiosi del lavoro di Giovanni, di cui abbiamo spesso scritto su questo blog e che è senza dubbio stato uno dei più grandi terapeuti che l’Italia abbia conosciuto, in particolare in relazione agli studi sull’origine traumatica della dissociazione.

Liotti è stato un vero punto di riferimento per la teoria sulla dissociazione traumatica. In questo incontro corale vediamo Bruno Bara (purtroppo anche lui mancato pochi giorni fa), Lucia Tombolini (allieva di Liotti, curatrice di questa rubrica su Psychiatry on Line), Antonio Onofri, Monticelli: tutti nomi conosciuti da chi frequenti gli ambienti della psicoterapia cognitivo costruttivista/evoluzionista di “terza onda”; in particolare vogliamo qui riprendere l’intervento di Benedetto Farina, autore insieme a Liotti del famoso Sviluppi traumatici.

L’intervento di Farina lo si può ascoltare qui, in formato podcast.

Cerchiamo di estrapolare alcuni punti di interesse:

  • Farina distingue nel percorso di Liotti due grandi fasi, due periodi del suo lavoro di ricerca: prima e dopo il 2007/2008. Farina fa notare come nella prima fase del suo lavoro di ricerca, Liotti si spese per diffondere una delle sue idee più centrali e illuminanti, l’origine cioè traumatica dei disturbi dissociativi in seno al tema dell’attaccamento. Come su questo blog già approfondito (si veda per esempio qui), Liotti sosteneva (per esempio nel suo La dimensione interpersonale della coscienza) che la compresenza di sistemi motivazionali opposti e tra di loro incompatibili nel corso dei primi anni della vita di un individuo in relazione al suo caregiver (attaccamento + difesa, nei casi in cui il caregiver si dimostrasse spaventante), fosse la causa prima della creazione di modelli operativi interni incompatibili e multipli nella mente del bambino, che in seguito avrebbe sviluppato una dissociazione strutturale della personalità, la compresenza di aspetti di sé inconciliabili e riproposti all’interno delle relazioni per lui/lei significative. Nel secondo periodo di Liotti, Farina ci insegna, questo si spese per ampliare e complessificare il concetto di dissociazione, arrivando insieme ad altri autori a ipotizzare la presenza di una dimensione dissociativa, un gradiente relativo alla dissociazione, con modi di esprimersi diversi, e diversi approcci clinici
  • Farina a proposito di questo parla della complessità del costrutto teorico dissociativo, e porta un modello triplice della dissociazione, una tripla modalità di concettualizzare la “patogenesi dissociativa”.

Farina, riprendendo Liotti, parla di 3 processi patogenetici in grado di innescare sintomi dissociativi: 1) la disintegrazione post-traumatica, 2) i fenomeni di distacco/detachment (che di solito chiamiamo depersonalizzazione e derealizzazione) e 3) la dissociazione vera e propria, caratterizzata da fenomeni di segregazione di contenuti e modi del pensiero, affine al concetto di dissociazione strutturale della personalità per come la intende Van Der Hart.

Su questo è di recentissima pubblicazione questo articolo, che illustra e approfondisce i 3 “modi” di espressione della dissociazione.

Vediamoli un po’ più nel dettaglio.

  1. Desagregation / DISINTEGRAZIONE POST-TRAUMATICA: la disaggregazione o disgregazione post traumatica rimanda al concetto janettiano di desagregation, un deficit delle funzione mentali superiori atte a sintetizzare i contenuti di pensiero e le emozioni veementi, in particolare quando il soggetto sia colpito da una sindrome post traumatica. I sintomi dissociativi si presentano in questo caso come increspature, discontinuità dello stato della coscienza, oppure prendono una forma somatica non collegata a un problema medico di origine organica. Il punto centrale in questo primo aspetto relativo alla patogenesi dissociativa, è che la disaggregazione interviene ad alterare in modo generico le funzioni integrative del cervello, diffondendosi in modo dimensionale in molti altri quadri clinici, e prendendo forme diverse (Farina elenca: “disregolazione delle emozioni e del comportamento, discontinuità del sé, fallimenti del monitoraggio metacognitivo, emersione di memorie traumatiche non controllate”).
  2. REAZIONI DI DISTACCO: come introdotto da Farina nel suo intervento, esiste una seconda forma dissociativa, che conosciamo comunemente come depersonalizzazione/ derealizzazione, che riguarda lo schema corporeo e la percezione. Nell’intervento prima citato di FCP, Farina le chiama “reazioni di distacco“. Farina le spiega come reazioni “comuni” volte a “minimizzare gli effetti emotivi nelle situazioni di minaccia estrema”. Per capire come possa intervenire una reazione di distacco, è utile rifarsi al “modello a cascata” di cui abbiamo qui scritto, che spiega l’andamento delle reazioni dissociative “peri-traumatiche”. L’idea è che la mente tenti di elaborare i percetti post-traumatici o “difficili” fino a una certa soglia, e che in seguito produca una reazione di “collasso” (da qui l’immagine della cascata o del “dente di sega”, nel senso che c’è un innalzamento della soglia dell’arousal, e un collasso seguente, uno “spegnimento” del sistema di difesa o una sua “implosione”, che nell’esperienza del soggetto equivale appunto all’esperienza di “distacco”/ depersonalizzazione/ detachment).
  3. VERA E PROPRIA DISSOCIAZIONE (STRUTTURALE DELLA PERSONALITÁ): Liotti () ipotizzò che la compresenza “nefasta” di sistemi motivazionali antagonisti e attivati contemporaneamente nei confronti della figura di attaccamento, porterebbe alla creazione di sotto-personalità e modelli operativi interni separati, “compartimentalizzati” all’interno della psicologia dell’individuo. Questo equivale ad una spaccatura verticale della personalità, e porta a una compresenza di “modi” del Sè, modalità di pensiero ed emozioni diversificate, così come teorizzato da Liotti stesso e in seguito da Van Der Hart (teoria della dissociazione strutturale della personalità).

Il fatto che esistano delle modalità differenti di sviluppare ed esprimere sintomi dissociativi, ci invita a riflettere sul fatto che debbano esistere tre processi patogenetici distinti alla base della dissociazione, e diverse modalità di intervenire in senso clinico, come illustrato nella seguente immagine.

Altro su trauma e dissociazione.

Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, PTSD

23 November 2023

Il burnout oltre i luoghi comuni (DI RICCARDO GERMANI)

PREMESSA: su concessione dell’autore, pubblichiamo questo lavoro di approfondimento sul concetto di burnout. Riccardo Germani si occupa di benessere aziendale e psicoterapia, qui il suo sito, e qui il link all’articolo originale. Come approfondito di seguito, il burnout è una risposta problematica a uno stato di stress protratto, che si manifesta come una condizione mentale di esaurimento energetico. Potremmo definirla una forma di disturbo dell’adattamento (si veda per esempio questo approfondimento sulla vicenda dei cani depressi di Pavlov). Al di là degli aspetti strettamente “lavorativi”, gli elementi di disturbo, chiamati microstressor, sono ovunque intorno a noi: la tecnologia li sta facendo aumentare in modo esponenziale, sottoponendo il nostro sistema nervoso a sollecitazione insostenibili, proponendoci continue distrazioni, forzandoci alla necessità continua di re-indirizzare il focus, con un carico cognitivo invisibile ma sempre più pesante da reggere. Ne abbiamo scritto qui a proposito del concetto di “diffusione patologica dell’attenzione”. Nell’articolo qui di seguito, Riccardo Germani si focalizza sul tema burnout in ambito lavorativo. Buona lettura! (R. Avico)

Il burnout oltre i luoghi comuni

di Riccardo Germani

Ho paura che l’argomento burnout stia diventando l’ennesimo trend linguistico che ha coinvolto le “relazioni tossiche”, i “narcisisti tossici”, gli “ambienti di lavoro tossici” e via dicendo. Quindi ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa per mettere in ordine le idee (le mie, le vostre, le nostre) su questo tema, perché penso possa essere utile.

Spesso utilizziamo la parola “burnout” come sinonimo di stress, anche se in realtà i due concetti sono nettamente diversi. Se lo stress rappresenta una risposta fisiologica e può essere positivo, infatti, il burnout è sempre una risposta negativa alle richieste di adattamento, perché degrada il benessere psicofisico e interpersonale, sul lavoro e fuori da esso.

Potreste trovare questo episodio della newsletter un po’ didascalico e “alla Wikipedia”, ma credo possa essere utile in questa fase di diffusione popolare di questo concetto. Nelle righe finali aggiungo qualche considerazione un po’ più personale.

Cos’è il burnout

La “sindrome da burnout” è una risposta individuale allo stress lavorativo, che si sviluppa progressivamente e può diventare cronico, causando alterazioni della salute. Da un punto di vista psicologico, questa sindrome provoca danni a livello cognitivo, emotivo e attitudinale, che si traducono in comportamenti negativi nei confronti del lavoro, dei colleghi, degli utenti e del ruolo professionale stesso. Non si tratta però (solo) di un problema personale di tolleranza allo stress e gestione di questo, ma anche e soprattutto di una conseguenza di alcune caratteristiche dell’attività lavorativa e quindi della responsabilità dei manager e delle aziende su un tema fondamentale di salute del personale.

Le teorie sul burnout

Dalla comparsa del termine nella letteratura scientifica sono emersi diversi approcci che hanno tentato di spiegare in che modo il burnout nasce e si sviluppa. Le teorie empiricamente supportate sono principalmente 6:

  1. teoria cognitiva sociale;
  2. teoria dello scambio sociale;
  3. teoria organizzativa;
  4. teoria strutturale;
  5. teoria del rapporto richieste-risorse lavorative
  6. teoria del contagio emotivo.

Senza entrare nel dettaglio di ognuna, fornirò qui una panoramica sintetica di queste teorie, perché ognuno può capire meglio la propria situazione (o quella dell’azienda) grazie a una o più di queste ipotesi esplicative.

1. Teoria Cognitiva Sociale: Concentrandosi sui processi cognitivi disfunzionali, questa teoria suggerisce che il burnout si sviluppa in risposta a pensieri negativi, come il pensiero catastrofico legato al lavoro. Immaginiamo ad esempio un insegnante alle prese con una classe molto difficile. Questo insegnante ogni giorno pensa che non sia in grado di gestire la situazione e che i suoi sforzi siano inutili. Di conseguenza, i pensieri negativi e catastrofici si accumulano generando un senso di disperazione e distacco dal lavoro che porta l’insegnante a sentirsi demoralizzato e logorato.

2. Teoria dello Scambio Sociale: In questa prospettiva, il burnout emerge dalla mancanza di equità nella relazione tra l’organizzazione e i dipendenti, dove il lavoro fornito non viene adeguatamente ricompensato. Supponiamo un dipendente che lavora molte ore straordinarie senza ricevere una compensazione adeguata o il riconoscimento del suo sforzo. Questo squilibrio tra sforzo e ricompensa potrebbe portare a un sentimento di ingiustizia e contribuire al suo burnout.

3. Teoria Organizzativa: L’organizzazione stessa gioca un ruolo chiave nel causare il burnout secondo questa teoria. Le strutture organizzative stressanti e la cultura aziendale possono contribuire al suo sviluppo. In un’azienda in cui la gerarchia è molto rigida e le decisioni vengono prese dall’alto senza consultare i dipendenti, ad esempio, questi ultimi potrebbero sentirsi sopraffatti e impotenti, in alcuni casi arrivando al burnout.

4. Teoria Strutturale: Qui, i fattori strutturali come il carico di lavoro e la mancanza di controllo sul lavoro sono identificati come le principali cause del burnout. Pensiamo a un infermiere che lavora in un reparto con carenza di personale. Ogni giorno è sovraccaricato di pazienti e non ha il controllo sulla sua carica di lavoro. Questa situazione strutturale può portare al suo burnout.

5. Teoria del Rapporto Richieste-Risorse Lavorative: Questa prospettiva enfatizza il disequilibrio tra le richieste del lavoro (stress) e le risorse a disposizione per farvi fronte, come il supporto sociale, come un fattore chiave nel determinare il burnout. Un impiegato che lavora in un ambiente altamente competitivo potrebbe essere costantemente sotto pressione per raggiungere obiettivi irrealistici senza alcun supporto da parte dei colleghi o del datore di lavoro. Questo squilibrio tra richieste e risorse può portare al burnout.

6. Teoria del Contagio Emotivo: Secondo questa teoria, il burnout può diffondersi tra i membri di un gruppo o un’organizzazione attraverso l’influenza delle emozioni negative degli altri. In un team di lavoro, un membro che è costantemente stressato e frustrato potrebbe influenzare negativamente l’umore degli altri colleghi. Il loro contagio emotivo potrebbe portare a un aumento complessivo del burnout nel gruppo.

I fattori comuni del Burnout e la loro incidenza nella vita lavorativa

La letteratura scientifica ha evidenziato la presenza di diversi fattori comuni nello sviluppo del burnout e il suo manifestarsi nella routine lavorativa. Questi fattori rappresentano anche segnali che possono essere utilizzati per monitorare sé stessi, i colleghi e persone a cui teniamo. Vediamoli.

Stress e Sovraccarico

Immagina di lavorare in un ufficio dove i progetti sembrano accumularsi senza tregua. Ogni giorno, ti senti sopraffatto da scadenze serrate, riunioni interminabili e responsabilità in continua crescita. Questo è uno scenario comune in cui lo stress e il sovraccarico lavorativo possono gettare le basi del burnout. Quando il tuo lavoro quotidiano inizia a pesare come un macigno, è facile sentirsi esausti e demotivati.

Mancanza di Risorse

Un altro aspetto rilevante è la mancanza di risorse. Immagina di lavorare in un ambiente in cui ti senti isolato/a e senza supporto. I tuoi superiori sembrano disinteressati alle tue preoccupazioni, e i colleghi non collaborano. Questo deficit di risorse sociali può alimentare il burnout, poiché ti trovi a gestire le sfide lavorative in solitaria, senza una rete di supporto adeguata.

Disconnessione Sociale

Nella vita lavorativa quotidiana le dinamiche sociali sono di fondamentale importanza. Immagina di lavorare in un team in cui il contagio emotivo negativo è all’ordine del giorno. Anche se all’inizio hai un’elevata motivazione, l’energia negativa dei tuoi colleghi può trascinarti giù.

Differenze Individuali

Le persone reagiscono in modo diverso allo stress e al burnout. Immagina due colleghi che affrontano lo stesso carico di lavoro intenso. Mentre uno sembra gestirlo con calma, l’altro mostra segni evidenti di stress. Queste differenze individuali sono cruciali e dimostrano che non esiste una misura unica per il burnout. Le tue caratteristiche personali, la tua capacità di adattamento e le risorse che possiedi possono influenzare la tua suscettibilità al burnout.

Mancanza di Controllo

La mancanza di controllo sul lavoro è spesso un fattore chiave. Immagina di dover seguire procedure e regole rigidamente, senza poter esprimere le tue idee o prendere decisioni. Questo può far sentire le persone impotenti e frustrate, contribuendo ad aumentare la vulnerabilità al burnout.

Mancanza di Significato

Infine, considera la mancanza di significato nel tuo lavoro. Se ogni giorno vai al lavoro senza sentirlo come una parte significativa della tua vita o se i compiti non si allineano ai tuoi valori personali, potresti sentirti svuotato emotivamente. Questo è un esempio di come la mancanza di significato può contribuire al burnout.

Questi fattori sono solo alcuni degli ingredienti che compongono il complesso fenomeno del burnout. Nell’affrontare il burnout nella tua carriera, è essenziale riconoscere come questi elementi possono manifestarsi nel contesto lavorativo e imparare a gestirli in modo proattivo per mantenere il tuo benessere e la tua soddisfazione sul lavoro.

Conseguenze del Burnout

Il burnout può avere un impatto profondo sulla vita delle persone, manifestandosi attraverso conseguenze psicologiche, emotive, fisiche e comportamentali. Ecco come queste conseguenze si sviluppano:

1. Conseguenze Psicologiche

Il burnout può minare la salute mentale. Le persone colpite possono sperimentare:

  • Ansia e depressione: Le continue pressioni sul lavoro possono scatenare ansia e depressione.
  • Riduzione dell’autostima: Il senso di inefficacia e la mancanza di successo possono erodere la fiducia in sé stessi.

2. Conseguenze Emotive

Il burnout può rendere difficile il controllo delle emozioni, portando a:

  • Irritabilità: Le persone bruciate possono diventare facilmente irascibili.
  • Carenza di empatia: La capacità di comprendere gli altri può diminuire a causa del crescente stress.

3. Conseguenze Fisiche

Le conseguenze fisiche del burnout possono includere:

  • Affaticamento cronico: La stanchezza persistente è comune tra coloro che soffrono di burnout.
  • Problemi di salute: L’indebolimento del sistema immunitario può aumentare il rischio di malattie fisiche.

4. Conseguenze Comportamentali

Il burnout può influenzare il comportamento in modi diversi:

  • Isolamento sociale: Le persone possono ritirarsi dal lavoro e dalla vita sociale.
  • Problemi lavorativi: La perdita di interesse e motivazione può influenzare negativamente le prestazioni sul lavoro.

Oltre ai problemi di salute fisica e psicologica, in generale, il burnout è direttamente correlato anche all’insoddisfazione lavorativa, al basso impegno organizzativo, all’aumento dell’assenteismo, all’intenzione di dimettersi e alle riduzioni delle prestazioni. D’altro canto, alcuni dipendenti con sindrome da burnout possono giustamente lasciare il lavoro, mentre altri decidono di continuare a lavorare. Ciò può portare al presenzialismo lavorativo (vale a dire, le persone vanno a lavorare anche se non adempiono realmente alle proprie responsabilità a causa di problemi di salute). Inoltre, il burnout può portare a comportamenti devianti e controproducenti nei lavoratori come il quiet quitting, aggressività tra colleghi e verso gli utenti, uso di alcol e sostanze psicotrope, uso improprio di materiale aziendale o addirittura furti.

Queste conseguenze possono variare in intensità da persona a persona, ma è fondamentale riconoscerle e affrontarle per prevenire un ulteriore peggioramento del burnout.

Come si affronta il burnout

La letteratura scientifica distingue gli interventi per la gestione e la prevenzione del burnout su due livelli:

  1. Interventi gestiti dall’azienda per il benessere dei dipendenti;
  2. Misure individuali di gestione del lavoro e dello stress.

Interventi per il Benessere dei Dipendenti

In un contesto aziendale, è fondamentale promuovere interventi finalizzati a migliorare il benessere dei dipendenti, con l’obiettivo di gestire lo stress sul lavoro e prevenire il burnout. Questi interventi possono essere suddivisi in diverse categorie:

Formazione

La formazione rappresenta un mezzo efficace per consentire ai dipendenti di acquisire nuove competenze e conoscenze, aumentando così le loro risorse per far fronte alle sfide del lavoro. Oltre alle abilità tecniche, è essenziale offrire formazione finalizzata allo sviluppo di competenze personali e sociali che aiutino i lavoratori a promuovere il proprio benessere e ad adattarsi al contesto lavorativo.

Interventi Basati sui Punti di Forza

Questo tipo di intervento parte dal presupposto che ogni individuo possieda risorse personali che possono essere sfruttate per superare le avversità. L’uso dei punti di forza è intrinsecamente motivante e gratificante, e questi interventi si sviluppano tipicamente in tre fasi.

Coaching e Orientamento

Il coaching e l’orientamento sono approcci non direttivi che incoraggiano i dipendenti a riprendere il controllo del proprio benessere emotivo. In questo caso, il coach o il consulente guida il dipendente nel processo di elaborazione di strategie di coping personali.

Creazione di Gruppi di Supporto

Il supporto dei colleghi è fondamentale per affrontare le sfide quotidiane. La creazione di gruppi di supporto, sia formali che informali, offre un ambiente in cui i professionisti possono condividere esperienze, ricevere riconoscimento per il loro lavoro e affrontare insieme le sfide.

Iniziative Individuali per il Benessere

Alcuni interventi per migliorare il benessere possono essere avviati direttamente dai dipendenti al di fuori dell’ambiente di lavoro. Questi includono l’attività fisica, la pratica della consapevolezza, l’autovalutazione e, in casi appropriati, la psicoterapia.

Esercizio Fisico

L’attività fisica è stata dimostrata come un modo efficace per moderare gli effetti del burnout sulla salute dei lavoratori.

Allenamento alla Consapevolezza

La pratica della consapevolezza è efficace nel ridurre la sindrome da burnout, migliorando l’empatia, la concentrazione e mitigando gli effetti negativi della sindrome.

Autovalutazione

L’autovalutazione prevede la registrazione dei sintomi dello stress e dei modi per affrontarli. È importante misurare il grado di burnout con strumenti validati e confrontare i risultati nel tempo.

Psicoterapia

La psicoterapia è una risorsa per i casi più gravi di burnout, in cui la sindrome è già presente. Questo trattamento mira a sviluppare competenze emotive, risoluzione dei problemi e autostima ed è basato sulla terapia cognitivo-comportamentale.

Questi interventi, quando adeguatamente applicati, possono contribuire a promuovere il benessere dei dipendenti e prevenire il burnout, migliorando la loro qualità di vita sia sul piano professionale che personale.

Considerazioni più personali per te, che sei rimasto fino alla fine

O magari hai saltato tutti i paragrafi precedenti per venire a leggere queste righe. Va bene lo stesso.

Allora, io credo che l’aspetto più insidioso del burnout al di là di tutti i fastidiosi sintomi manifesti, è che a volte non lo vedi arrivare. Mi spiego. Di solito una persona mediamente coscienziosa si impegna molto e tende a impegnarsi ancora di più quando ci sono problemi o bisogna raggiungere un obiettivo ambizioso. Quindi la nostra tolleranza allo stress aumenta sempre di più e in modo sempre più graduale. Questo fino a che improvvisamente si rompe qualcosa. Teniamo duro fino a quando all’improvviso non ce la facciamo più e scoppiamo in lacrime per la disperazione. Il burnout nasce e viene analizzato innanzitutto in ambito sanitario tra medici e infermieri. Queste figure professionali si trovano spesso di fronte a dilemmi morali, situazioni di vita o di morte, disorganizzazione e conflitti di potere. I carichi di lavoro sono alti e si cerca di fare del bene alle altre persone. È un contesto in cui è molto facile finire in burnout. Il burnout è tanto più probabile quanto più alti sono gli standard interni morali e/o di prestazioni e performance. Paradossalmente colpisce quindi molto più le persone che si impegnano molto e ci tengono particolarmente al lavoro che fanno. Le persone che vedono il lavoro come un mezzo sono – da questo punto di vista – forse un po’ più protette. Comunque dicevo, il burnout a volte non lo vedi arrivare perché quando ti impegni tendi a dissociare, ad allontanare ciò che non va. Come quando entri in trance agonistica durante una partita di qualsiasi sport che ti piace. L’adrenalina ti protegge dal dolore, ma appena torni a casa a rilassarti senti tutte le botte che hai preso. Il punto a cui voglio arrivare è che dobbiamo essere attenti ai segnali del corpo e della mente. È troppo importante intervenire prima che il forte stress faccia il tuffo nell’esaurimento, in modo da dover scontare minori conseguenze sul proprio benessere, sul rapporto con il lavoro e nelle relazioni interpersonali.

———————–

Fonte (newsletter di Riccardo Germani su Linkedin)

Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia

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  • GARBAGE IN, GARBAGE OUT.  INTERVISTA FIUME A ZIO HACK 21 May 2022
  • PTSD: ALCUNE SLIDE IN FREE DOWNLOAD 10 May 2022
  • MANAGEMENT DELL’INSONNIA 3 May 2022
  • “IL LAVORO NON TI AMA”: UN PODCAST SULLA HUSTLE CULTURE 27 April 2022
  • “QUI E ORA” DI RONALD SIEGEL. IL LIBRO PERFETTO PER INTRODURSI ALLA MINDFULNESS 20 April 2022
  • Considerazioni sul trattamento di bambini e adolescenti traumatizzati 11 April 2022
  • IL COLLASSO DEL CONTESTO NELLA PSICOTERAPIA ONLINE 31 March 2022
  • L’APPROCCIO “OPEN DIALOGUE”. INTERVISTA A RAFFAELLA POCOBELLO (CNR) 25 March 2022
  • IL CORPO, IL PANICO E UNA CORRETTA DIAGNOSI DIFFERENZIALE: INTERVISTA AD ANDREA VALLARINO 21 March 2022
  • RECENSIONE: L’EREDITÁ DI BION (A CURA DI ANTONIO CIOCCA) 20 March 2022
  • GLI PSICHEDELICI COME STRUMENTO TRANSDIAGNOSTICO DI CURA, IL MODELLO BIPARTITO DELLA SEROTONINA E L’INFLUENZA DELLA PSICOANALISI 7 March 2022
  • FOTOTERAPIA: JUDY WEISER e il lavoro con il lutto 1 March 2022
  • PLACEBO E DOLORE: IL POTERE DELLA MENTE (da un articolo di Fabrizio Benedetti) 14 February 2022
  • INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD 3 February 2022
  • SPIDER, CRONENBERG 26 January 2022
  • LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti) 17 January 2022
  • 24 MESI DI PSICOTERAPIA ONLINE 10 January 2022
  • LA TOSSICODIPENDENZA COME TENTATIVO DI AMMINISTRARE LA SINDROME POST-TRAUMATICA 7 January 2022
  • La Supervisione strategica nei contesti clinici (Il lavoro di gruppo con i professionisti della salute e la soluzione dei problemi nella clinica) 4 January 2022
  • PSICHEDELICI: LA SCIENZA DIETRO L’APP “LUMINATE” 21 December 2021
  • ASYLUMS DI ERVING GOFFMAN, PER PUNTI 14 December 2021
  • LA SINDROME DI ASPERGER IN BREVE 7 December 2021
  • IL CONVEGNO DI SAN DIEGO SULLA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI (marzo 2022) 2 December 2021
  • PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA E DEEP BRAIN REORIENTING. INTERVISTA A PAOLO RICCI (AISTED) 29 November 2021
  • INTERVISTA A SIMONE CHELI (ASSOCIAZIONE TAGES ONLUS) 25 November 2021
  • TRAUMA: IMPOSTAZIONE DEL PIANO DI CURA E PRIMO COLLOQUIO 16 November 2021
  • TEORIA POLIVAGALE E LAVORO CON I BAMBINI 9 November 2021
  • INTRODUZIONE A BYUNG-CHUL HAN: IL PROFUMO DEL TEMPO 3 November 2021
  • IT (STEPHEN KING) 27 October 2021
  • JUDITH LEWIS HERMAN: “GUARIRE DAL TRAUMA” 22 October 2021
  • ANCORA SU PIERRE JANET 15 October 2021
  • PSICONUTRIZIONE: IL LAVORO DI FELICE JACKA 3 October 2021
  • MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI: LE STRATEGIE DI CONTROLLO IN INFANZIA (PTSDc) 30 September 2021
  • OVERLOAD COGNITIVO ED ECOLOGIA MENTALE 21 September 2021
  • UN LUOGO SICURO 17 September 2021
  • 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD 13 September 2021
  • UN LIBRO PER L’ESTATE: “COME ANNOIARSI MEGLIO” DI PIETRO MINTO 6 August 2021
  • “I fondamenti emotivi della personalità”, JAAK PANKSEPP: TAKEAWAYS E RECENSIONE 3 August 2021
  • LIFESTYLE PSYCHIATRY 28 July 2021
  • LE DIVERSE FORME DI SINTOMO DISSOCIATIVO 26 July 2021
  • PRIMO LEVI, LA CARCERAZIONE E IL TRAUMA 19 July 2021
  • “IL PICCOLO PARANOICO” DI BERNARDO PAOLI. PARANOIA, AMBIVALENZA E MODELLO STRATEGICO 14 July 2021
  • RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE” 8 July 2021
  • I VIRUS: IL LORO RUOLO NELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE 7 July 2021
  • LA PLUSDOTAZIONE SPIEGATA IN BREVE 1 July 2021
  • COS’É LA COGNITIVE PROCESSING THERAPY? 24 June 2021
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE 19 June 2021
  • É USCITO IL SECONDO EBOOK PRODOTTO DA AISTED 15 June 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche -con il blog Psicologia Fenomenologica. 7 June 2021
  • PSICHIATRIA DI COMUNITÁ: LA SCELTA DI UN METODO 31 May 2021
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  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI 22 May 2021
  • MDMA PER IL PTSD: NUOVE EVIDENZE 21 May 2021
  • MAP (MULTIPLE ACCESS PSYCHOTHERAPY): IL MODELLO DI PSICOTERAPIA AD APPROCCI COMBINATI CON ACCESSO MULTIPLO DI FABIO VEGLIA 18 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO GRATUITO ONLINE (21 MAGGIO) 13 May 2021
  • BALBUZIE: COME USCIRNE (il metodo PSICODIZIONE) 10 May 2021
  • PANICO: INTERVISTA AD ANDREA IENGO (PANICO.HELP) 7 May 2021
  • Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP) 4 May 2021
  • SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO. Liberalizzare come terapia: il problema dell’autocontrollo in clinica 30 April 2021
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO” 25 April 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche 25 April 2021
  • 3 STRUMENTI CONTRO IL TRAUMA (IN BREVE): TAVOLA DISSOCIATIVA, DISSOCIAZIONE VK E CAMBIO DI STORIA 23 April 2021
  • IL MALADAPTIVE DAYDREAMING SPIEGATO PER PUNTI 17 April 2021
  • UN VIDEO PER CAPIRE LA DISSOCIAZIONE 12 April 2021
  • CORRELATI MORFOLOGICI E FUNZIONALI DELL’EMDR: UNA PANORAMICA SULLA NEUROBIOLOGIA DEL TRATTAMENTO DEL PTSD 4 April 2021
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE IN ETÁ EVOLUTIVA: (VIDEO)INTERVISTA AD ANNALISA DI LUCA 1 April 2021
  • GLI EFFETTI POLARIZZANTI DELLA BOLLA INFORMATIVA. INTERVISTA A NICOLA ZAMPERINI DEL BLOG “DISOBBEDIENZE” 30 March 2021
  • SVILUPPARE IL PENSIERO LATERALE (EDWARD DE BONO) – RECENSIONE 24 March 2021
  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE 22 March 2021
  • 8 LIBRI FONDAMENTALI SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 14 March 2021
  • VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA 7 March 2021
  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD 2 March 2021
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA 25 February 2021
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1) 21 February 2021
  • FLOW: una definizione 15 February 2021
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD) 8 February 2021
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI 3 February 2021
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA 1 February 2021
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION? 25 January 2021
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA) 15 January 2021
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO 11 January 2021
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT 6 January 2021
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO 2 January 2021
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum) 28 December 2020
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI 18 December 2020
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti 14 December 2020
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO 10 December 2020
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino 8 December 2020
  • COME GESTIRE UNA DIPENDENZA? 4 PIANI DI INTERVENTO 3 December 2020
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP 28 November 2020
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA 20 November 2020
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO) 16 November 2020
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm) 12 November 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento 7 November 2020
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING 2 November 2020
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING) 28 October 2020
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al. 24 October 2020
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO 21 October 2020
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO 18 October 2020
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè 13 October 2020
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 6 October 2020
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI 30 September 2020
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix 28 September 2020
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico 21 September 2020
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura” 15 September 2020
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI 27 August 2020
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza 26 August 2020
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO 7 August 2020
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO 31 July 2020
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia 27 July 2020
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO 20 July 2020
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF) 14 July 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
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  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
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  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI! 22 April 2020
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA? 21 April 2020
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI 17 April 2020
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO 13 April 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3 10 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF! 6 April 2020
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI 4 April 2020
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO? 31 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2 27 March 2020
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT 25 March 2020
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO 16 March 2020
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI 12 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1 6 March 2020
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN 29 February 2020
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD 13 February 2020
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET 3 February 2020
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM 17 January 2020
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO 15 January 2020
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO 30 December 2019
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI 27 December 2019
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA 19 December 2019
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER 12 December 2019
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  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRI EY 15 November 2019
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  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE 29 October 2019
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO” 18 October 2019
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  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO 22 June 2018
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  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO 11 June 2018
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO 7 June 2018
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI 4 June 2018
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI? 31 May 2018
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA 28 May 2018
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE 24 May 2018
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ 21 May 2018
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK 17 May 2018
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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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