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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

25 March 2022

L’APPROCCIO “OPEN DIALOGUE”. INTERVISTA A RAFFAELLA POCOBELLO (CNR)

di Raffaele Avico

L’Open Dialogue è un modello di intervento in ambito di salute mentale, di derivazione scandinava. Viene usato con pazienti psicotici (ma non solo) coinvolgendo molte persone in contemporanea in una sola stanza, per un tempo di massimo un’ora e mezza. Può essere usato -come tipologia di colloquio- “al bisogno” o in modo maggiormente strutturato. Permette una trasparenza totale del “pensiero” dei curanti di fronte al paziente e alla sua famiglia, fornendo agli utenti un affaccio sul perchè si decida di adottare quale strategia terapeutica, e con quali obiettivi.

Raffaella Pocobello coordina un progetto di ricerca multicentrico internazionale focalizzato sull’efficacia dell’Open Dialogue per il CNR. Qui alcune sue riflessioni e indicazioni utili per chi voglia approfondire il tema.

Buongiorno Raffaella, ci dà una breve definizione dell’Open Dialogue, per comprendere meglio di cosa si tratti?

Il Dialogo Aperto è un approccio terapeutico centrato sulla rete sociale e familiare sviluppato nel contesto dei servizi psichiatrici pubblici della Lapponia, che si caratterizza per due aspetti:

  • Organizzativo: i servizi di salute mentale sono organizzati in modo garantire una risposta tempestiva, flessibilità dell’intervento e continuità terapeutica;
  • Clinico: incontri terapeutici di rete che coinvolgono tutte le persone significative fin dalla prima richiesta di aiuto hanno l’obiettivo di migliorare la comprensione e la risoluzione della situazione critica attraverso il dialogo.

A partire dagli anni ‘90 questo approccio è stato studiato in modo sistematico, sia nei suoi aspetti di processo che di esito. La valutazione di processo ha permesso di individuare sette principi chiave che descrivono il dialogo aperto:

  1. Aiuto immediato: l’intervento avviene entro le 24 ore dalla richiesta di aiuto in caso di crisi;
  1. Prospettiva orientata alla rete sociale: i membri della rete sociale della persona in difficoltà e tutti i professionisti dei servizi coinvolti nella crisi sono invitati a partecipare agli incontri;
  1. Flessibilità e mobilità della equipe: gli incontri sono pianificati in base ai bisogni unici di ogni persona, famiglia e contesto. Questo implica che l’equipe è disponibile e pronta a spostarsi sul territorio e che molti interventi sono domiciliari;
  1. Responsabilità: chi riceve la richiesta di aiuto che ha il compito di organizzare il primo incontro, fino al quale non sarà presa nessuna decisione relativa al trattamento. Inoltre, la responsabilità è condivisa all’interno del team;
  1. Continuità psicologica: la stessa equipe integrata segue la rete sociale nel tempo. Almeno alcuni componenti del team rimangono gli stessi, mentre altri professionisti possono intervenire occasionalmente, se utile;
  1. Tollerare l’incertezza: si costruisce uno spazio “sicuro” in cui discutere apertamente anche delle proposte di trattamento ed evitando decisioni affrettate;
  1. Dialogismo: nel facilitare gli incontri, i terapeuti invitano tutte le “voci” a contribuire al dialogo. Per voci si intende sia quelle delle diverse persone che partecipano all’incontro (polifonia orizzontale), sia le voci interne e multiple evocate dalla conversazione in ogni singolo partecipante (polifonia verticale). Per esempio, il terapeuta partecipa al dialogo attraverso le voci che derivano dalle sue competenze professionali (come essere un medico o un assistente sociale o uno psicologo, seguire un certo orientamento, etc.), ma anche con quelle relative alla sua vita personale e il suo mondo interiore. Non nel senso di raccontare la propria vita, ma nel modo in cui risponde alla situazione presente (per esempio nel tono, nella postura, nei commenti). Questo ultimo aspetto, il dialogismo, è quello su cui più si concentra la formazione degli operatori.

Il razionale clinico di intervento: per quale motivo viene applicato e ponendosi quali obiettivi?

La prima volta che ho ascoltato Jaakko Seikkula, il principale referente del Dialogo Aperto, mi hanno colpito due concetti della sua presentazione:

  • l’obiettivo principale del Dialogo Aperto non è produrre un cambiamento, né dirigerlo, ma promuovere il dialogo. Attraverso il dialogo, emergeranno e si mobilizzeranno le risorse della persona in crisi, della sua rete sociale e dei servizi di salute mentale a supporto. Questo obiettivo secondo me è alla base anche del clima partecipato ed egualitario che si crea negli incontri, e che è forse l’aspetto che più mi ha motivato a studiare questo approccio;
  • non c’è una selezione delle persone per cui il dialogo Aperto è adatto, né altri servizi ai quali inviare persone con questo o quel disagio. Quando la persona chiama, se nella conversazione emerge un problema specifico, per esempio uso di alcol, si chiede se il servizio può invitare professionisti che sono esperti di questo problema a unirsi al team. Non c’è mai qualcuno a cui viene detto di chiamare altrove. Ricordo lo stupore in aula dei colleghi che raccontavano quanto invece nei servizi di salute mentale si faccia l’opposto, e quanto l’intervento sia spesso frammentato.

Steve Pilling (UCL), che ora sta sperimentando il Dialogo Aperto in UK, per esempio dice che in Inghilterra hanno servizi per tutti e posto per nessuno.

Come si svolge, in concreto, un colloquio svolto con un paziente usando il metodo Open Dialogue?

Più che un metodo, il Dialogo Aperto è un approccio, complesso e a molti livelli. Queste le fasi di un incontro:

  1. In un tipico incontro di Dialogo Aperto, la persona in crisi, alcune persone della sua rete sociale e almeno due professionisti della salute mentale si siedono in cerchio.
  2. Di solito, comincia a parlare il professionista che ha risposto alla richiesta di aiuto e ha organizzato l’incontro, che racconta l’idea dell’incontro, chi ha chiamato e chi è stato invitato e (spesso) chiede ai presenti come propongono di usare il tempo dell’incontro.
  3. Chi facilita l’incontro (ci sono diversi approcci) fa in modo che tutti possano essere ascoltati, facendo domande prevalentemente aperte, invitando i partecipanti a parlare di ciò che ritengono più rilevante in quel momento. I professionisti non preparano alcun piano/agenda per l’incontro e il loro compito è quello di adattare le loro domande e affermazioni a quello che è stato detto, riprendendo le parole usate e promuovendone un approfondimento, evitando interventi su temi non emersi e interpretazioni. Durante l’incontro possono avvenire una o più conversazioni riflessive, in cui i professionisti discutono tra loro (anche su questo ci sono diversi approcci, più o meno strutturati), utilizzando un linguaggio semplice e rispettoso. Durante il dialogo tra gli operatori, il paziente e la rete sociale rimangono in ascolto.
  4. Sebbene le parole rivestano un ruolo importante, una parte significativa del dialogo avviene senza parole, nella espressione delle sensazioni e delle reazioni che emergono spontaneamente, in particolare quelle che precedono le parole. Per questo la ricerca più recente di Seikkula si è focalizzata sull’embodiment, e nell’insegnamento del Dialogo Aperto in alcuni programmi è presente una componente di mindfulness. Infatti, una delle sfide principali del terapeuta è quella di essere presente nel qui e ora, in ascolto e responsivo del dialogo che avviene ma anche del proprio dialogo interno.
  5. Prima di chiudere l’incontro, si chiede ai partecipanti se ci sono questioni importanti che vorrebbero che emergessero prima della fine e se, quando e dove fissare un nuovo appuntamento. A questo punto, i contenuti più significativi dell’incontro vengono sintetizzati, soprattutto se ci sono decisioni importanti che sono state prese o da prendere. La durata dell’incontro è variabile, anche se viene indicato che di solito 90 minuti sono un tempo adeguato.

Negli ultimi anni, la pandemia ci ha spinto a sperimentare il Dialogo Aperto anche online. Anche se non ci sono ancora studi a riguardo, chi ha fatto questa esperienza è sorpreso che l’approccio sembri adattabile, e i feedback sono positivi.

Quali sono i riferimenti teorici di questa pratica, e quali i testi dove, volendo, approfondire il tema?

Il Dialogo Aperto è caratterizzato da un certo eclettismo.

Alle sue origini c’è il Need-Adapted Approach (approccio adattato al bisogno), il cui principale referente è Alanen. Negli Settanta lui e il suo team a Turku si dedicarono in particolare alla esperienza psicotica, proponendo interventi che integravano diversi modelli terapeutici (psicologici, psicodinamici, sistemici e psichiatrici, sociali e riabilitativi) a seconda delle esigenze del paziente.

Anche la scuola sistemica, in particolare l’approccio di Boscolo e Cecchin, hanno avuto una influenza nello sviluppo del Dialogo Aperto.

Ma l’influenza a mio avviso più significativa è quella del norvegese Tom Andersen, che si ritrova in due pratiche fondamentali:

  • Il rispetto della regola semplice ma rivoluzionaria, che a partire dal 1984 è stata adottata anche in Lapponia, di non parlare del paziente e della famiglia in loro assenza.
  • dalla applicazione di questa regola, deriva la pratica della “conversazione riflessiva” (o gruppo riflessivo, reflective team), in cui i professionisti parlano tra loro durante gli incontri terapeutici, dando sempre la possibilità ai pazienti e alla famiglia di ascoltare e rispondere a quanto detto.

Infine, il riferimento filosofico principale è quello del filosofo russo Mikhail Bakhtin sulla polifonia e il dialogismo. Un altro riferimento importante è Dostoevskij: cosi come il narratore non può fare altro che mettersi in relazione con le voci dei diversi protagonisti, modificando la trama del romanzo in base al loro contributo, così il terapeuta ha la responsabilità di fare emergere risorse e soluzioni dai partecipanti all’incontro, rinunciando a dirigerlo e ad avere un piano predefinito.

Tra le letture consigliate per saperne di più ci sono due libri in italiano:

  • Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche, del 2016. Di Jaakko Seikkula e curato da Chiara Tarantino, edito da Fioriti
  • Metodi dialogici nel lavoro di rete, di Tom Arkil e Jaakko Seikkula, del 2013, edito da Erickson.

Presto ne uscirà anche un nuovo sull’utilizzo del Dialogo Aperto nel trattamento della psicosi, in lingua inglese edito da Routledge, che sarà edito in Italia da Fioriti.

Una bibliografia estesa in lingua inglese è consultabile sul sito del progetto internazionale HOPEnDialogue, a questo link.

HOPEnDialogue è il primo studio multicentrico internazionale sul Dialogo Aperto, coordinato dal CNR.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / interviste, psicoanalisi, psicologia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia

21 March 2022

IL CORPO, IL PANICO E UNA CORRETTA DIAGNOSI DIFFERENZIALE: INTERVISTA AD ANDREA VALLARINO

di Andrea Vallarino, Raffaele Avico


PER UNA CORRETTA DIAGNOSI DIFFERENZIALE (a cura di Andrea Vallarino)

La sindrome da attacchi di panico rappresenta la via finale di diverse condizioni patologiche.

Le fobie, i disturbi ossessivi, i disturbi ossessivi compulsivi, le paranoie, ma anche i disturbi alimentari come il vomiting, molto spesso, hanno come sintomatologia principale o di accompagnamento o come evento finale del percorso patogeno l’attacco di panico. Questo pone quindi molti problemi di diagnosi differenziale, complicati anche dal fatto che, nel gergo comune, l’attacco di panico ha preso il posto del cosiddetto esaurimento nervoso ed anche della depressione. I pazienti, anni fa, si presentavano dicendo che soffrivano da tempo di un “po’ di esaurimento nervoso”, o più recentemente si presentavano parlando di depressione; ora l’attacco di panico è il modo prevalente da parte dei pazienti di presentare i propri disagi.
Occorre quindi fare molta attenzione a discriminare i segnali di patologia dei pazienti, anche perché la logica dei vari disturbi che possono presentare panico è molto differente da problema e problema; e la logica della patologia è quella che deve guidare la logica della terapia.Per fare questo in terapia strategica diventa fondamentale individuare il Sistema Percettivo Reattivo della persona da cui parte la patologia.
Il Sistema Percettivo Reattivo è appunto un sistema ridondante di relazione tra la sensazione di base della persona e le soluzioni per gestirla. Nel caso ad esempio del panico tra la sensazione della paura e le soluzioni di gestione della paura che nel caso del panico sono il controllo che fa perdere il controllo, creando un circolo vizioso tra la paura e il tentativo di controllarla, creando ancora più paura che verrà ancora di più controllata in modo rigido, creando ancora più paura fuori controllo, con reazioni legate al panico contraddistinte da sudorazione fredda, tremore alle gambe, tachicardia, dispnea, senso di depersonalizzazione.
Di fronte ad un attacco di panico sperimentato dalla persona una prima volta, ci può essere la tentata soluzione dell’evitamento costante delle situazioni in cui si potrebbe ricreare il panico. La tentata soluzione prevalente diventa l’evitamento oppure l’affrontare la situazione con l’aiuto di un “angelo custode”: la moglie, il fidanzato, una figura costante di riferimento. Evitamento e richiesta di aiuti diventano le tentate soluzioni che configurano la patologia come una fobia pura. Molto spesso in queste persone l’attacco di panico resta uno solo, il primo ed unico. Con le tentate soluzioni dell’evitamento e dell’aiuto non sperimentano altri attacchi, ma costruiscono una vita sempre più ritirata e bloccata. Queste situazioni di fobia pura sono ormai delle rarità, in quanto la società e la patomorfosi delle sindromi psichiatriche è andata e va sempre più verso la soluzione del controllo.
La reazione verso il primo attacco di panico diventa quindi il controllo delle reazioni del panico. La persona non è tanto spaventata dalla paura di una situazione ma si spaventa per le sue stesse reazioni. La tachicardia, la dispnea, il tremore alle gambe, la sudorazione fredda diventano oggetto di controllo rigido talvolta in via preventiva, scatenando quello che definiamo il controllo che fa perdere il controllo. Controllando il cuore, la respirazione, la sudorazione ottengono in modo paradossale di alterare queste fondamentali reazioni altrimenti fisiologiche. Come dire che l’attacco di panico se lo portano da casa e lo mettono paradossalmente nelle situazioni percepite come paurose. Il controllo paradossalmente produce la perdita di controllo. In questo caso si produce un patologia che definiamo fobico ossessiva, laddove all’evitamento descritto prima si aggiunge il controllo oppure anche ossessivo fobica laddove il controllo reiterato nel tempo conduce ad un successivo incremento delle perdite di controllo tale per cui la persona in seguito arriverà ad evitare le situazioni percepite come pericolose.
Queste due situazioni sono le classiche situazione che descrivono la sindrome da attacco di panico, che però interviene anche in altre sindromi governate da altri sistemi percettivi reattivi.
É il caso dei disturbi ossessivi compulsivi che si caratterizzano per la presenza di rituali compulsivi. Pensiamo ai rituali di pulizia o a quelli scaramantici propiziatori o preventivi o di controllo come quelli di ripetere costantemente azioni per verificare di averle fatte bene. Il controllo dei rubinetti del gas per controllare che siano bene chiusi, la chiusura di porte e finestre ripetute ossessivamente che precludono una normale esistenza per le continue perdite di tempo causate dall’invasività dei rituali. Molto spesso, al termine di un esaurimento psicofisico legato al logorio causato dalle ritualità, può comparire l’attacco di panico. In questo caso il lavoro va fatto sui rituali e sulla credenza che sostiene i rituali. L’attacco di panico viene risolto in questo caso in maniera indiretta.
Similmente occorre lavorare se il panico è legato ad una paranoia. La paranoia, come la compulsione è legata ad un controllo, ma non è il controllo che fa perdere il controllo del classico attacco di panico, un controllo che fa ottenere qualcosa di meno. É il controllo dell’incontrollabile che crea un qualcosa di più, un nemico. Si pensi alla paranoia di gelosia in cui il marito, contrariamente alla realtà, è convinto che la moglie lo tradisca. Comincerà a cercar i segni del tradimento e li troverà anche in dettagli di nessuna importanza, comincerà a chiedere conto alla moglie dei movimenti e delle azioni producendo nella moglie l’idea di dover nascondere al marito anche le più innocenti azioni, confermando al marito che la moglie è reticente e che quindi gli sta nascondendo qualcosa. Il controllo dell’incontrollabile. Nessuna persona altra da noi è da noi controllabile al cento per cento, per cui qualunque controllo produrrà un qualcosa di inaspettato: un nemico. Il controllo produce qualcosa in più: la credenza di avere un nemico, un nemico a sua insaputa, che non vuole essere nemico, ma che noi consideriamo tale, una costruzione paranoica che creerà paura e panico, ma con una logica di credenza, diversa dalla logica dell’evitamento fobico e dal controllo ossessivo che fa perdere il controllo.
Queste distinzioni, che appaiono sottili, sono importanti perché guidano in modo chirurgico la terapia seguendo logiche differenti.
Nel caso degli evitamenti fobici occorrerà bloccare la tentata soluzione dell’evitamento attraverso ristrutturazioni che creeranno percezioni differenti che a cascata creeranno azioni differenti. Si dovrà mettere la paura dell’evitamento al posto della paura della situazione.
Nel caso del controllo del reazioni della paura che paradossalmente creano il panico si dovrà usare un contro-paradosso.
Nel caso dei rituali ossessivi compulsivi o della paranoia si dovrà con gradualità rompere la credenza del controllo perfetto o del nemico da combattere.
Nel caso dei disordini alimentari, in particolare il vomiting sia compulsivo che isterico, oltre alle tentate soluzioni cambia anche la sensazione di base che non è più la paura, ma il piacere e si dovrà lavorare in terapia per costruire piaceri normali al posto di piaceri perversi come appunto il mangiare per poi vomitare.


IL PANICO E IL CONTROLLO

In questa puntata del podcast del Foglio Psichiatrico, abbiamo chiesto alcuni chiarimenti ad Andrea Vallarino a proposito del tema del panico e a riguardo del tema del controllo.

Il problema del panico, così come delle altre tipologie di disturbo che Vallarino cita nel corso della conversazione, riguarda anche il rapporto con il proprio corpo, come ben sottolineato nelle parole sopra riportate di Andrea Vallarino.

Facciamo alcuni chiarimenti riassuntivi a riguardo di diverse problematiche:

  • Nel panico, a seguito di un attacco di forte ansia iniziale, il soggetto comincia a controllare ossessivamente il corpo e i suoi segnali, per scongiurare un successivo attacco. L’attenzione si rivolge in questo modo verso l’interno, in modo costante, nel tentativo di “controllare” reazioni in realtà spontanee del corpo (diventando per questo un “controllo che fa perdere il controllo”, come su questo blog abbiamo già approfondito)
  • nell’ipocondria, il soggetto vive ogni segnale proveniente dal corpo come un “prodromo”, un segnale cioè indicativo di un disturbo di gravità molto maggiore che starebbe per accadere
  • nel disturbo post-traumatico, il corpo diviene il teatro delle ripercussioni post-traumatiche, con molteplici livelli di compromissione, compresi cambi posturali, disturbi da iper-attivazione protratta e altri

In questi casi i problemi di natura psicologica trovano nel corpo il loro terreno di sviluppo.

In particolare nel panico e nell’ipocondria, l’aspetto centrale risulta essere il rapporto con il proprio corpo, la mente focalizzata costantemente sul corpo e il grado di controllo che su questo il soggetto intenda esercitare. Come abbiamo altrove approfondito, sono la memoria dell’evento e il controllo stesso (nel panico) e la credenza di essere destinati a sviluppare malattie gravi (nell’ipocondria) a mantenere in vita il problema.

Il risultato finale è, da parte del soggetto, il vivere in una realtà sempre più piccola, limitata dal “problema” onnipresente e pervasivo nella mente, estremamente invalidante.

Nel caso della terapia del disturbo di panico si giova di molteplici strumenti di intervento:

  1. l’abbandono del controllo e gli strumenti mutuati dalla terapia strategica e dalla psicoterapia CBT
  2. le tecniche comportamentali con funzione di doppio compito in grado di distrarre il paziente dallo stesso pensiero del panico, e insieme naturalmente calmanti, come la respirazione lenta
  3. la terapia espositiva: fare “come se” il problema non esistesse e fare quindi cose che fino a poco prima sembravano impossibili, così da creare dei precedenti positivi in grado di aumentare per il soggetto la fiducia nelle sue stesse possibilità di azione
  4. farmaci somministrati con diversi razionali clinici (tra cui anche l’effetto placebo)

Il rapporto con il rischio e con l’idea della morte rappresenta un elemento ulteriore da tenere in considerazione, dato che introiettare una quota di fatalismo e accettare il rischio rappresenta spesso un movimento liberatorio, sbloccante

Qui altro in collaborazione con Andrea Vallarino sui temi “controllo” e “panico”.

Qui l’intervista ad Andrea Vallarino, buon ascolto!

Article by admin / Formazione / interviste, panico, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale

1 March 2022

FOTOTERAPIA: JUDY WEISER e il lavoro con il lutto

di Raffaele Avico

La psicoterapia online negli ultimi due anni ha trovato un boom mai visto prima; nell’aprile del 2020, il centro medico Santagostino di Milano arrivava a erogare quasi 18000 colloqui di psicoterapia mensili, numero oggi presumibilmente aumentato, se non raddoppiato.

Lavorare online presenta punti di differenza dal Setting tradizionale, con aspetti per certi versi “implementati” rispetto al normale “ambiente” di lavoro: ne abbiamo scritto diffusamente qui.

Uno degli strumenti che lo psicoterapeuta può adottare nel lavorare online, è il lavoro tramite fotografie.

In questo articolo cercheremo di raccogliere alcuni spunti che possano aiutarci a capire in che modo e perché adottare questo strumento terapeutico con pazienti online (ma non solo).

Come primo punto da notare, occorre distinguere tra fotografia terapeutica e fototerapia:

  • Nel caso della fotografia terapeutica parliamo di uno strumento di espressione di un individuo che desideri usare la fotografia come “strumento” di espressione di sé, e usi le sue stesse fotografie come modo per comprendere meglio aspetti della propria personalità. Qui un esempio. La fotografia terapeutica pone interrogativi su due piani: come la persona usa la macchina fotografica, e cosa fotografa. Lo stile di fotografia, così come il contenuto della foto in sé, può portare alla luce parti del mondo interno dell’individuo non necessariamente simbolizzabili solamente attraverso la parola. L’arte, per dirla attraverso il lavoro di Massimo Recalcati, lavora con i “resti”, quella parte cioè dell’esperienza dell’individuo non simbolizzabile per via verbale. In questo senso, possiamo interpretare l’atto artistico creativo, come appunto quello della fotografia, come un puro “esprimersi” della parte più nascosta della personalità di un individuo, che la parola non riuscirebbe a rappresentare/simbolizzare in modo efficace.
  • La fototerapia, invece, è uno strumento da integrare al lavoro di psicoterapia solamente verbale. In questo caso, le fotografie vengono usate come spunto per riflettere su aspetti lasciati “fuori” dal normale lavoro di psicoterapia.

Qui di seguito prenderemo alcuni spunti trovati in rete a proposito della fototerapia, basandoci sul lavoro di Judy Weiser, la personalità più conosciuta al mondo in questo ambito.

Judy Weiser lavora da moltissimi anni con le fotografie (il primo lavoro a sua firma risale al 1975) , e ha creato un centro di ricerca/sperimentazione sull’uso delle fotografie in ambito clinico, raggiungibile qui:https://phototherapy-centre.com/.

Vediamo alcuni aspetti su come le fotografie possano essere integrate al lavoro di psicoterapia:

  1. come primo punto, nel sito di Judy Weiser leggiamo come le due modalità di lavoro (fotografia terapeutica e fototerapia) possano essere usate anche insieme, una in modo complementare all’altra; il lavoro di fototerapia fatto in seduta, per esempio, potrebbe spingere un individuo a effettuare in autonomia degli scatti fotografici per esprimere parti di sé o rappresentazioni relative alla propria storia, anche al di fuori del contesto della psicoterapia.
  2. il sito contine numerosi riferimenti a persone che, nel mondo, lavorano con la fototerapia e con la fotografia terapeutica; scopriamo una moltitudine di fotografi o psicologi impegnati su molteplici ambiti della clinica, dal lutto, ai DCA, alle malattie gravi
  3. la fototerapia è da considersi una variante dell’arte-terapia, come qui argomentato, con alcuni vantaggi peculiari, per esempio il mantenimento di una certa “oggettività” nell’uso di fotografie (per esempio anche relativamente all’immagine di sè in foto), cosa che nella “semplice” arteterapia non sarebbe possibile (essendo totalmente soggettiva, direttamente in contatto con la parte più creativa e pre-cognitiva, non verbale di sè); in entrambi i casi si tratta di pescare nella realtà metaforica, ricca di immagini del mondo interno non mediato dalla parola. La fototerapia, inoltre, non richiede nessuna particolare preparazione iniziale, cosa che invece accade nell’ambito generale dell’arteterapia
  4. come osservato dalla stessa Weiser nel sito, lavorare con le foto significa tracciare una linea immaginaria a collegare i diversi momenti vissuti dalla persona, ritratti dalle fotografie; allo stesso modo, è possibile che le fotografie parlino anche degli “scopi” dell’individuo, delle sue “traiettorie” di vita; nell’introduzione al suo sito (https://phototherapy-centre.com/italian/), la Weiser osserva come ciò che un soggetto trae da una fotografia, è in realtà soggettivo, “estremamente” proiettivo; è come se, in un certo senso, la fotografia si ponesse come uno stimolo ambiguo e ricco, da cui l’individuo trarrà considerazioni sue personali, in grado di raccontarci qualcosa a proposito del suo mondo interno, in modo estremamente personale e intimo. Nei suoi workshop, Judy Weiser usa un set di fotografie molto vecchio, in bianco e nero, tra le quali chiede ai partecipanti di isolare una o più fotografie per lui/lei rappresentativa: passa poi all’”analisi della scelta”, per capire insomma per quale motivo e su cosa sia stata basata la scelta stessa, nell’idea appunto che sia un’azione totalmente proiettiva, basata su “eventi interni” (si veda qui per approfondire)
  5. altro elemento importante da cogliere nel sito, la questione dell’autoscatto, da intendere come “evento” in grado di raccontarci a riguardo dell’auto-rappresentazione del soggetto che lo esegue.

Immergendoci nei riferimenti del sito di Judy Weiser, e effettuando ricerche su google, troviamo un articolo di Dario Castellaneta (qui scaricabile per intero) che sintetizza in modo efficace le modalità con cui in psicoterapia si possa lavorare con le fotografie, in particolare categorizzando 5 tipologie di fotografia da usare in terapia. Leggiamo dall’articolo di Castellaneta:

  • Le immagini adoperate dalla tecnica di fototerapia sono di cinque tipi diversi, così come li ha definiti Weiser. Per prima cosa al cliente viene chiesto di mostrare le foto che fanno parte di una sua selezione personale. Quasi tutti custodiscono album di famiglia o piccole raccolte di immagini fotografiche, dalle foto di classe ai ricordi di viaggio ecc. Questo primo gruppo di fotografie funziona come un rapido innesco del processo di rievocazione. Davanti a queste immagini ci viene chiesto normalmente di descriverne l’occasione, di ricordare gli eventi che le hanno accompagnate, di esprimere giudizi sulle persone e le cose rappresentate, stimolando l’apertura di un racconto autobiografico a cui ci si lascia andare con facilità. Mostrare le proprie foto di famiglia può servire alla ridefinizione della propria identità, permettendo di includere interpretazioni che vadano al di là della posa e della facciata. Spesso infatti le foto di famiglia sono costruite secondo criteri che esprimono spazialmente le relazioni sociali e di potere interne alla struttura della parentela: la coppia dei genitori e i membri più anziani in centro con ai lati i figli maggiori e in basso quelli più piccoli, collocate più in disparte, o distanti sullo sfondo, le persone che non fanno parte della famiglia biologica. Questa attività di descrivere le proprie foto è anche un gioco abbastanza comune nella vita quotidiana, dove tuttavia si addice più felicemente a chi ha intenzione di trasmettere un particolare messaggio, di tipo storico generazionale, oppure di costume e di appartenenza sociale. Pure, una tale attività presuppone negli altri una notevole capacità di ascolto il più delle volte simulata. Quello dell’album di famiglia è a tutti gli effetti un gioco linguistico che funziona bene entro limiti precisi, e cioè che i partecipanti siano effettivamente imparentati. La richiesta di giocare questo gioco di fronte all’analista farà emergere parole e atmosfere diverse.
  • Un secondo gruppo di foto che vanno selezionate sono quelle scattate di propria mano. Queste serviranno a sollecitare interrogativi in direzione introspettiva e potranno chiarire i motivi inconsci che hanno portato a scattare una foto in quel particolare istante, o far luce sull’esigenza inconscia soddisfatta da una certa inquadratura. Il semplice fatto di avere avuto con sé la macchina fotografica quel giorno e non un altro, il semplice gesto di portare l’obiettivo agli occhi, sono già di per sé elementi significativi. In questo tipo di foto il coinvolgimento emotivo può essere più o meno alto e variamente ricco di contenuti simbolici che sarà compito dell’analista portare in superficie. A questo livello comincia a divenire importante l’interpretazione di istanze di censura e di controllo, che però si rivelano cruciali in un terzo tipo di scatti: quelli che ritraggono la persona del cliente.
  • Questo terzo gruppo includerà autoscatti, fotoritratti e fototessere, in cui il volto è in primo piano e l’atteggiamento di chi è in posa comunica il sentimento destato davanti all’obiettivo. Roland Barthes ha così descritto nel suo libro La camera chiara quel senso di ansia e di timore che lo coglie allorché subisce una fotografia: «in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte».5 Dall’osservazione di foto in cui il soggetto è ripreso a sua insaputa emergono i tratti di sé più nascosti, espressioni e gesti che, non essendo controllati al momento dello scatto, offrono indizi e appigli per l’interpretazione. Il fatto che questi ritratti accidentali siano piuttosto rari aggiunge un carattere di sorpresa e di fascinazione verso la propria immagine. In essi non si manifesta quella resistenza narcisistica implicata dal primo piano. È noto che quando un fotografo va in cerca di un’espressione il più possibile naturale sul viso dei suoi modelli, spesso lo fa scaricando numerosi rullini. Questo senz’altro aumenta la possibilità di buona riuscita, perché quando il soggetto si abitua alla macchina fin quasi a dimenticarsene allora le sue difese cadono. In questi casi la naturalezza è un effetto ottenuto a prezzo di artifici messi in atto dal fotografo: se riesce a distrarre i suoi modelli, a farli pensare ad altro, a metterli a proprio agio, è anche in grado di dirigerli come farebbe un regista con i propri attori.
  • Un quarto genere di fotografie utilizzato durante le sedute analitiche è costituito da foto scattate su indicazione del terapista. Si tratta di foto il cui tema può venir imposto oppure concordato, ma sempre scelto all’interno di un ventaglio offerto dall’analista. Le fotografie fatte seguendo questo ordine avranno valore di prove, l’analista ne ricaverà elementi di discussione mettendo in rilievo figure ricorrenti, suggerendo motivi e esplicitando altre eventuali linee di indagine, più difficilmente percorribili attraverso la sola verbalizzazione. La foto supera facilmente le difese di un soggetto che rifiuta il dialogo, permettendo al terapista di rivolgere domande intorno alle foto scattate dal paziente evitando di farlo sentire sotto esame. In questi casi ciò che più conta è l’aderenza a un tema predefinito, e non tanto la padronanza di una tecnica. Prioritario è l’interessamento verso un particolare problema, la focalizzazione dell’attenzione verso un aspetto del mondo e la possibilità di esprimersi attraverso un canale che non richiede più di tanto impegno o manualità. Questo rapporto di committenza tra l’analista e il suo cliente comprende l’uso attivo della fotografia, trasforma lo spettatore in autore, e spesso si conclude con il lavoro in camera oscura e con l’esposizione delle foto al pubblico – cosa che in qualche caso può risultare un avviamento alla fotografia professionale. Va anche detto che la fototerapia incoraggiando un uso artistico della macchina fotografica, mentre ottiene una preziosa testimonianza sulla personalità dell’autore, d’altra parte stuzzica la sua vanità e ne aumenta l’autostima.
  • La quinta e ultima tecnica di fototerapia si basa sulle foto facenti parte di una collezione ad hoc. Questo lavoro è supportato dalla convinzione comportamentista nell’impossibilità di un accesso ai fatti psichici se non tramite un’interfaccia. L’uso delle immagini fotografiche come test proiettivo presuppone l’esistenza di una sorta di codice e di un sistema di corrispondenze tra le immagini e il loro significato. Le fotografie sono qui usate per formare le lettere di un alfabeto aperto, in cui le immagini si scartano via via fin che si trova quella giusta, come in una selezione naturale dei simboli. La volontà di formalizzare un insieme di segni trova nella fotografia un nuovo terreno, e rappresenta una sfida alle possibilità comunicative dell’uomo oltre il linguaggio

Un aspetto peculiare del lavoro con le foto, riguarda il lavoro con il lutto.

Il “lavoro del lutto” contempla un lavoro di disinvestimento libidico progressivo, che il soggetto esegue su “oggetti di memoria” relativi a persone decedute/che ha perso. Nel suo celebre “Lutto e melanconia“, Freud spiega come per compiere il lavoro del lutto debba essere effettuato uno spostamento di investimento libidico su un altro oggetto che non sia l’oggetto perso. Una sorta di ricollocazione libidica. Strutturalmente, tuttavia, l’uomo pare essere portato a mantenere per più tempo possibile l’adesione libidica verso l’oggetto (“gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica”), e quindi il lavoro del lutto prende tempo e richiede dei passaggi (per esempio, Freud sottolinea, il sovra-investimento di tutti i ricordi e le aspettative connesse all’oggetto perduto, che devono essere uno per uno abbandonati). Solo allora, Freud scrive, “l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito”. Ne abbiamo scritto qui. La fotografia di una persona che ci ha lasciati, in questo senso, diviene essa stessa uno strumento con cui possa essere promossa una “riattivazione“ del lavoro del lutto quando questo sia bloccato o complicato. I piani su cui può essere attivato un lavoro di elaborazione di questo tipo, sono 3: il contenuto della fotografia e gli individui in essa raffigurati quando presenti, la fotografia come oggetto in sè, il paziente in rapporto alla fotografia stessa.

Le domande da usare in psicoterapia, potrebbero essere, per esempio:

LUI/LEI:

    1. OSSERVIAMO LA FOTO, E DESCRIVIAMOLA IN MODO GENERICO
    2. IN CHE OCCASIONE E DA CHI É STATA SCATTATA?
    3. OSSERVIAMO LA POSA ASSUNTA DAI PARTECIPANTI DELLA FOTO: COSA CI RACCONTA? PERCHÉ LE PERSONE HANNO ASSUNTO QUELLA POSIZIONE, TRA DI LORO?
    4. COSA CI RACCONTA, DELLA PERSONA, LA FOTOGRAFIA? QUALE PARTE DELLA PERSONALITÁ DELLA PERSONA ESPRIME?
    5. COSA SUCCESSE PRIMA O DOPO LO SCATTO? COSA CONTINUA A SUCCEDERE DOVE É STATA SCATTATA?

LA FOTO:

    1. LA STORIA DELLA FOTOGRAFIA, IL PASSAGGIO DI MANO IN MANO DELLA FOTOGRAFIA

IO:

    1. IL PERIODO IN CUI LA FOTOGRAFIA É STATA SCATTATA: CHE PERIODO ERA PER ME? COME STAVO IN QUEL PERIODO?
    2. SE HO SCELTO QUESTA FOTO É PERCHÈ MI RAPPRESENTA: COSA C’É DI ME IN QUELLA FOTO?
    3. DI QUELLO CHE MI ESPRIME LA FOTOGRAFIA, COSA VORREI TENERE?

Come si osserva, la fotografia diventa uno catalizzatore di pensiero, uno strumento in grado di portare la persona a lavorare su aspetti di sé e riguardanti la persona perduta, non facilmente raggiungibili attraverso il “solo” lavoro di associazione verbale.

Uno degli aspetti più complicati del “lavoro del lutto”, riguarda il difficile rapporto del paziente con un’immagine della persona deceduta cristallizzata in una forma stereotipata, parziale; spesso questo ha a che fare con la tipologia di rapporto che il paziente deteneva con la persona quando questa era ancora in vita. Il lavoro fotografico aiuta in questo senso a completare la rappresentazione della persona che si è persa, verso un’ideale “risoluzione” del rapporto -nell’idea che il lutto “complicato” sia dovuto a un difficile rapporto del paziente con la rappresentazione della persona estinta, in ragione spesso di un rapporto consumatosi in maniera difficoltosa, o insoddisfacente, quando la persona fu in vita.

Molteplici progetti fotografici indagano il lutto; oltre agli aspetti sopra citati, riguardanti l’uso delle fotogafie come “oggetto di transizione” in grado di evocare e aiutarci a elaborare un oggetto solamente interno, alcuni progetti riguardano il tentativo di esprimere eventi interiori di natura emotiva difficilmente esprimibili a parole. Pensiamo per esempio cosa possa significare fotografare il “vuoto” lasciato da una persona cara scomparsa, o i particolari riguardanti lui/lei quando fu ancora in vita: si tratta di usare in questo caso il mezzo fotografico come strumento in grado di simbolizzare e in un certo senso elaborare elementi emotivi poco traducibili, riguardanti la perdita, l’angoscia di separazione, la morte come limite al e del pensiero.

Una bibliografia esauriente consigliata dalla stessa Judy Weiser.

Qui per un approfondimento.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale

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  • IL CESPA
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  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
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  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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