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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

10 June 2025

Il trauma indotto da perpetrazione (“un altro problema, meno noto, dell’industria della carne”)

PREMESSA: riportiamo per intero un articolo apparso recentemente su Il Post, a proposito di una forma peculiare di disturbo post-traumatico, il “trauma indotto da perpetrazione“, sofferto per lo più da lavoratori inseriti nella filiera della grande distribuzione di carne, impiegati tutto il giorno nell’uccisione di animali. Il disturbo è peculiare e non così nuovo (l’articolo citato dal Post che per primo lo “introduce”, risale al 2002). Avevamo scritto in precedenza su questo blog a proposito del moral injury, l’auto-traumatizzazione generata dal calpestare valori morali profondamente radicati: questo tipo peculiare di disturbo sembra accostarcisi, essendo che l’individuo è in qualche modo attivamente coinvolto nel processo di traumatizzazione. (R.A.)

L’articolo originale è qui. Qui di seguito lo riportiamo.

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La produzione mondiale di carne è aumentata di oltre tre volte rispetto alla metà degli anni Settanta. Da allora è molto cambiato anche il modo in cui viene prodotta: è aumentata la distanza tra chi la mangia e chi, lontano da loro, si occupa di macellarla. In questo secondo gruppo ci sono persone che subiscono traumi psicologici anche molto gravi, perché esposte ogni giorno alla violenza di trattamenti spesso disumani sugli animali negli allevamenti intensivi.

Gli stimoli particolari a cui sono sottoposte le persone incaricate di controllare le varie fasi della macellazione industriale sono una delle possibili cause di un disturbo psicologico noto e studiato: il trauma indotto dalla perpetrazione (o PITS, acronimo di perpetration-induced traumatic stress). È un argomento oggetto di diversi racconti diretti ma di cui si tende in generale a parlare poco, per via delle reticenze dell’industria della carne e della riluttanza delle aziende a condividere dati e informazioni.

Definito nel 2002 dalla psicologa statunitense Rachel MacNair, è un sottotipo di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) in cui il trauma deriva dalla partecipazione attiva a una violenza anziché dall’esserne vittime o testimoni. I sintomi sono gli stessi: insonnia, flashback, ricordi intrusivi, ansia, depressione. È diffuso principalmente tra i militari e le forze dell’ordine, ma in generale il rischio di soffrirne è maggiore in qualsiasi ambiente in cui causare morte sia socialmente accettato e normale, come i macelli.

In un articolo recente il giornalista di Vox Kenny Torrella ha citato il caso di un uomo, Tom, a cui fu diagnosticato il trauma indotto dalla perpetrazione, dopo aver lavorato per anni nell’industria della carne in diversi paesi in Europa. Uno dei suoi compiti lungo la catena di produzione era scuoiare la mucche da macello dopo che erano state stordite e appese. Ma a volte lo stordimento non funzionava correttamente.

Una volta gli capitò di dover scuoiare una mucca che stava partorendo ed era arrivata ancora cosciente alla fase della macellazione di cui lui era responsabile. Non poté arrestare il processo per assicurarsi che venisse uccisa correttamente (il vitello non sopravvisse). Secondo Tom, che ha detto che all’epoca faceva uso di sostanze dopo il lavoro e nei weekend, è «molto difficile assistere all’uccisione degli animali», ma alla fine ci si fa l’abitudine.

L’industria della macellazione della carne è un settore con un numero alto ma probabilmente sottostimato di infortuni sul lavoro. Oltre a quelli causati da incidenti, molti sono dovuti in generale alla velocità delle linee di produzione negli stabilimenti, che possono portare a lesioni da movimenti ripetitivi. I traumi psicologici sono ancora più difficili da stimare, e non sono conteggiati nelle statistiche sugli infortuni. Di conseguenza anche gli studi di psicologia sono pochi, perché i ricercatori non hanno a disposizione dati specifici condivisi dalle aziende.

Diversi sondaggi condotti tra i lavoratori del settore mostrano però livelli di ansia, depressione e aggressività più alti rispetto ad altri settori e rispetto alla popolazione generale. Sulla base di questi dati è possibile ipotizzare che anche il trauma indotto dalla perpetrazione sia un disturbo relativamente diffuso.

L’esposizione ai traumi riguarda anche professionisti non direttamente coinvolti nella produzione negli stabilimenti, come per esempio gli ispettori. Uno di loro, David Magna, attivista vegano ed ex ispettore dei macelli per il governo canadese, ha raccontato a Vox i suoi problemi di salute mentale. Qualche anno fa ha ricevuto una diagnosi di PTSD e di disturbo bipolare: ha frequenti flashback, incubi e pensieri suicidi.

Per un periodo si occupò dell’industria del pollame: uno dei suoi compiti era rimanere in piedi alle spalle dei dipendenti per ispezionare le loro attività lungo la catena di produzione, che lavorava circa 180 polli al minuto. A volte centinaia di polli arrivavano morti dopo essere rimasti per troppo tempo esposti al caldo o al freddo durante il trasporto dall’allevamento intensivo.

In seguito Magna lavorò per anni ai rapporti sulle violazioni delle leggi a protezione degli animali negli stabilimenti dell’industria della carne. In un rapporto apprese il caso di un camion che trasportava mucche verso un macello, tra cui una che aveva partorito in viaggio un vitello poi morto schiacciato per l’affollamento di mucche nel rimorchio. Magna ha detto che, nonostante l’impegno, il suo lavoro gli procurava grandi frustrazioni: i regolamenti erano deboli, i trasgressori rischiavano perlopiù qualche multa, e i suoi superiori non prendevano sul serio le sue preoccupazioni.

È un problema peraltro destinato ad aumentare nel tempo, visto che secondo le previsioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) il consumo e quindi la domanda mondiale di carne continueranno a crescere.

Nel 2023 la rivista scientifica AMA Journal of Ethics dedicò un numero intero all’impatto delle pratiche dell’industria della carne sulla salute pubblica e sull’ambiente. MacNair, autrice di uno degli articoli, descrisse la complicità della società come un fattore rilevante nella diffusione dei disturbi psicologici. Scrisse che «la domanda pubblica di carne crea un’esposizione continua, presente e futura ai traumi»: traumi che secondo lei e altri non vengono eliminati dalla società, ma semplicemente appaltati a minoranze della popolazione.

A subire maggiori danni fisici e psicologici è spesso la popolazione con minori opportunità economiche: migranti e rifugiati, che sono una parte consistente dei lavoratori del settore dell’industria della carne. Questa è peraltro una delle ragioni per cui mancano dati sugli infortuni: chi li subisce tende a non denunciarli perché teme di mettere a rischio il suo lavoro e il suo sostentamento.

Lo sfruttamento delle comunità a basso reddito riguarda anche i territori in cui vivono, spesso scelti per l’agricoltura e per la costruzione degli allevamenti intensivi. La promessa di una probabile crescita economica è infatti una delle ragioni per cui gli abitanti di quelle aree sono più disposti ad accettare i disagi dovuti ai costanti cattivi odori e all’inquinamento dell’aria e dell’acqua.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile dal menù a tendina #TRAUMA.

Article by admin / Formazione / PTSD, raffaeleavico

15 April 2025

RECENSIONE DI “CONVERSAZIONI DI TERAPIA BREVE” DI FLAVIO CANNISTRÁ E MICHAEL F. HOYT

di Raffaele Avico

Il volume “Conversazioni di terapia breve” esplora i temi della psicoterapia breve e “a seduta singola” per via di una trascrizione di un serie di dialoghi, intrattenuti in momenti diversi, tra Flavio Cannistrà e uno dei suoi mentori, Michael Hoyt.

La forma intervista rappresenta un modo agevole per introdursi a un tema: in questo caso abbiamo la possibilità di sentire raccontata la teoria della psicoterapia breve e la teoria a seduta singola da parte di uno dei suoi originatori, a sua volta in debito verso altri della scuola di Palo Alto, che puntualmente troviamo citati nel testo.

Si ha così l’opportunità di scoprire molti nomi “minori” della teoria della psicoterapia breve, con la possibilità di approfondire i diversi approcci.

La Scuola di Palo Alto, e nello specifico un luogo che oggi esiste solo nella forma di fondazione, il Mental Research Institute, ha a partire dagli anni ‘60 introdotto sulle scena della psicoterapia mondiale moltissime innovazioni, che sarebbero state destinate a restare.
La psicoterapia sistemica, la psicoterapia breve, quella a seduta singola, la scuola di Nardone in Italia, devono tutto agli incredibili anni, fruttuosi, dei “maestri” originatori -che in questo libro troviamo citati più volte.
Un tratto peculiare di quel gruppo di individui e di coloro che ne hanno raccolto il testimone nella ricerca in psicoterapia, è un’incredibile umiltà intellettuale associata al pragmatismo americano, insieme al coraggio di mettere in discussione l’ortodossia (che in quegli anni era rappresentata dall’Europa e dalla psicoanalisi). Di quell’umiltà, di quell’apertura e di quel pragmatismo parla anche Andrea Vallarino in un suo volume recentemente pubblicato, in particolare rispetto alla figura di Paul Watzlawick.

Nel corso della lettura di “Conversazioni di terapia breve” si apprendono molti aspetti della psicoterapia a seduta singola, in primis l’idea che “a seduta singola” non vuol dire che il percorso con un “cliente” (come preferiscono chiamarlo) si limiti effettivamente a un singolo incontro: se mai, l’idea è che una singola seduta possa essere “autoconclusiva” e che si possa lavorare con la persona perché quest’ultima possa trarne giovamento -o un motivo di trasformazione. Viene data estrema importanza al concetto di empowerment del paziente, e che un buon parte del lavoro venga fatta dal paziente stesso, con risorse che tocca al terapeuta evocare e promuovere.

In generale troviamo riferimenti a pratiche comuni nelle diverse scuole di psicoterapia breve, con però alcune differenze di razionale di intervento, che Cannistrà (che su POPMed avevamo già intervistato, qui) non manca di esplicitare.

Il rischio di semplificare troppo la complessità del portato del paziente viene fugato qui da un approccio orientato a un “minimalismo clinico” che vuole intervenire con quello che funziona e dove serve, in modo strategicamente orientato.

Si tratta di coinvolgere attivamente il paziente nel lavoro clinico, muovendo da un’alleanza forte e procedendo per obiettivi, il più possibile aderenti alle risorse portate in seduta.
Altrove abbiamo più volte intervistato e coinvolto Andrea Vallarino, e chi avesse letto alcuni dei contenuti che lo riguardavano potrà riconoscere nell’approccio di Cannistrà e Hoyt un’uguale attenzione al presente e a quelle che universalmente (in terapia breve o breve/strategica) vengono chiamate “tentate soluzioni”, nell’idea che il paziente faccia di tutto per migliorare, spesso però complessificando il suo stesso vissuto, e bloccandosi in modalità di pensiero disfunzionale. Si pensi per esempio al modello sul controllo per il panico -problema diffusissimo e frequentemente incontrato dagli operatori della salute mentale- ingenerato da stratificazioni di storture cognitive, paradossalmente atte a controllare i sintomi stessi.

I clinici di Palo Alto, come leggiamo in questo libro, sono stati da sempre dei fini osservatori della psicologia umana, nel tentativo di estrarne “modalità patogene” con un approccio estremamente pragmatico: il concetto di tentata soluzione è solo uno dei tanti, ma pensiamo per esempio al problema del doppio legame, ai paradossi legati all’ipercontrollo, alla natura essa stessa paradossale (a volte) della psicologia umana.

Per Cannistrà e Hoyt si tratta di aiutare il paziente a stare meglio, e stare meglio in modo rapido, soprattutto quando fortemente sofferente.
La terapia a seduta singola o breve pare adattarsi meglio a situazioni cliniche peculiari, come quando esista un eccesso di ragionamento o la persona si trovi incastrata in schemi di pensiero disfunzionali; leggendo questo volume viene tuttavia complesso immaginare una terapia a seduta singola con un paziente fortemente depresso o melanconico, o ipotizzare un intervento su un disturbo grave di personalità, al di là delle “prescrizioni” che i terapeuti di questa scuola solitamente consegnano al paziente. Con pazienti affetti da disturbi di natura affettiva, ci si potrebbe chiedere il ruolo -come sappiamo centrale- della relazione (al di là della “semplice” alleanza).

A fine lettura si ha in ogni caso la sensazione che esista un’apertura degli autori a una messa in discussione e verso un apprendimento “continuo”, cosa di rado presente in libri provenienti da altre scuole di pensiero.

Molto interessante e bella la definizione di logica, e l’accento sulla distinzione dal concetto di strategia: il terapeuta breve e quello a seduta singola si avvarranno di “logiche” di intervento -più flessibili e indeterminate delle strategie, ma altrettanto efficaci- in grado appunto di adattarsi alla complessità portata dal cliente.

Pubblichiamo in toto un estratto dal volume, che raccoglie 9 logiche di intervento da applicare in vari casi, una variazione di un articolo già apparso qui.

Anche chi non fosse interessato al tema terapia breve, potrà trarne spunti di interesse e modalità pratiche di intervenire con uno dei suoi pazienti (o su se stesso).

Buona lettura!

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Continua su POPMED.

Article by admin / Formazione / raffaeleavico, recensioni

23 August 2023

DIFFUSIONE PATOLOGICA DELL’ATTENZIONE E SUPERFICIALITÀ DIGITALE. UN ESTRATTO DA “PSIQ” di VALERIO ROSSO

di Raffaele Avico

Abbiamo già parlato su questo blog (e ampiamente su PopMed) dei rischi connessi alla sovra-esposizione mediatica e alla dipendenza da smartphone, di come il tutto sia ampiamente sottovalutato e di come il fenomeno stia frammentando la possibilità di immergersi verticalmente in un task.

Sempre più diviene centrale per chi si occupa di salute mentale, ragionare sui rischi dell’overload cognitivo, sulla tossicità della sovra-esposizione e sul tema dell’ecologia della mente (ovvero il rispetto e la tutela dell’”ambiente mentale”).
Negli ultimi tempi sembra essere particolarmente complesso inoltre, per gli individui, soffermarsi con il pensiero entro quello che viene definito default mode, uno stato di assenza specifica di task cognitivi, funzionale però all’auto-narrazione e alla libera associazione a riguardo del Sè (tanto da essere stato definito il “centro di gravità del cervello”), tutti processi fondamentali per costruire narrative funzionali all’Io e complessificare la personalità, storicizzandola, dandole un senso narrativo. Ne abbiamo parlato qui.

In media controlliamo il nostro cellulare (questo negli USA, ma è plausibile pensare che in Italia la situazione sia simile) più di 350 volte al giorno. Spesso l’uso del telefono viene mosso dall’apertura di un qualche social network, alla ricerca di una gratificazione momentanea, che sia una notifica o un messaggio. Tutto questo ha da un lato un fortissimo potere dipendentogeno, dall’altro rischi per la salute mentale sempre più ricercati e studiati. Questo lavoro, particolarmente approfondito e commissionato da centri di eccellenza mondiali (MIT, Bocconi), rappresenta il lavoro più corposo finora prodotto sull’impatto dei social network sulla salute mentale osservato su un campione di studenti, ottenendo risultati impressionanti, in particolare relativamente a Facebook. Parliamo di un degradamento generale della qualità della salute mentale, indotto anche da “comparazioni tossiche” tra individui giovani.

Recentemente è stato inoltre pubblicato un articolo che indaga il concetto di “salienza” in relazione allo smartphone.
Il punto di questo studio era dimostrare come la semplice presenza del telefono nei pressi di un individuo, fosse in grado di assorbire una quota significativa delle sue capacità cognitive, di fatto diminuendole. Si tratta di uno dei primi studi che indagano l’effetto della semplice presenza dello smarphone sulle capacità cognitive e attenzionali di un individuo, senza che necessariamente vi sia un altro compito da svolgere o un’interazione fisica con il telefono. Inoltre, gli autori sottolineano che l’effetto pare presentarsi anche nella consapevolezza a riguardo dello spegnimento del telefono stesso, o con lo schermo non visibile, cosa che dovrebbe farci ragionare sul potere che questo oggetto ha nel contesto delle nostre vite quotidiane. Sembrerebbe esistere una sorta di bisogno “sub-cosciente” di “monitorarlo”. Concludono con un consiglio chiaro: “however, our data suggest at least one simple solution: separation”.

La dispersione di energia mentale, che fa da preambolo al senso di esaurimento/overload cognitivo, dipende da 3 processi principali:

  • il lavoro implicito di scrematura e differenziazione tra stimoli che costantemente facciamo per poter mantenere il focus. Il cervello, come sappiamo, è già di suo un filtro in grado di portare alla nostra attenzione pochi stimoli alla volta per ragioni di adattamento; bombardarlo in modo continuo di stimoli ridondanti e chiassosi, rende il lavoro di filtraggio ancora più faticoso e frustrante.
  • la fatica della scelta continua, dell’eccesso di stimoli tra cui scegliere, rappresenta un problema per ora sotto-soglia, non ancora pienamente indagato; ne scrive anche Pietro Minto in questo libro che abbiamo recensito di recente citando il concetto di FOMO (fear of better options), il timore relativo al fatto di aver fatto la scelta migliore in un mondo di possibilità di consumo pressoché infinite
  • tradire costantemente la nostra attenzione con altro (come durante la lettura, l’impugnare e sbloccare il telefono) ci condanna al continuo bisogno di ri-focalizzarci su ciò che stavamo facendo “prima” di distrarci; questo è di per sé uno sforzo cognitivo, un task mentale. Il tema qui è complesso poiché esistono aspetti emotivi implicati nel fenomeno, dato che siamo meno portati a distrarci tanto più il compito è per noi stimolante. Il problema è che, in questo senso, solamente i compiti per noi massimamente edificanti in termini emotivi saranno in grado di coinvolgerci al punto da impedirci movimenti di distrazione: il risultato è che tutto ciò che non è per noi “centrale” rischia di disperdersi, con meno possibilità da parte nostra di essere contaminati da qualcosa di altro. Se mettiamo questo fenomeno insieme a quello delle bolle informative create dagli algoritmi, capiamo facilmente come tutti noi si rischi di “radicalizzarci” sempre di più su isole di contenuto “nostre”, senza associazioni libere, contaminazioni e scoperta di “altro”. É come sottoporsi a una Cura ludovico con i nostri stessi contenuti, tutto il giorno, auto-bombandardoci il cervello con contenuti in grado di “fittare” benissimo con ciò che già sappiamo, radicalizzandoci appunto.

Valerio Rosso nel suo recente libro PSIQ (https://www.psiq.it) ne parla in modo diffuso, introducendo un concetto interessante, il DDPA (Disturbo da Diffusione Patologica Dell’Attenzione), approfondito ulteriormente da un video che riportiamo in calce all’articolo.
Con l’autorizzazione dell’autore, riportiamo un breve estratto da questo volume, un passo incentrato appunto sul tema “sequestro dell’attenzione”:

[..]

Bene, adesso vi spiegherò come gli Smartphone, i Social Network ed il Gioco d’Azzardo ci rubano il Tempo, l’Attenzione e diminuiscono la nostra Versatilità, allo stesso modo di come accade quando usiamo in maniera problematica una sostanza d’abuso come l’eroina o l’alcol (379).

Il Tempo a nostra disposizione e la capacità di direziona e mantenere l’Attenzione su attività produttive, che ci appassionano e che ci fanno crescere, è il vero punto cardine della nostra Vita.

Leggendo psiq penso che abbiate capito che esistono disturbi mentali particolarmente subdoli ed invalidanti che vanno a compromettere proprio la nostra attenzione (oltre ad altre funzioni) come l’ADHD e anche, in parte, il Disturbo Bipolare.

In realtà negli ultimi anni, con la diffusione di massa degli smartphone e dei social media, si sta facendo strada una condizione patologica della nostra mente che, in realtà, non ha ancora un nome su cui gli scienziati concordano, ma che io ho chiamato “Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione” (“DDPA”) (380).

In quest’era digitale siamo tutti a rischio di sviluppare un “Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione” (“DDPA”) perché intorno a noi si stanno sviluppando delle condizioni fortemente favorenti questo problema.

Infatti siamo tutti oggetto di Campagne di Marketing che cercano di attirare la nostra attenzione (nel Mondo Reale, sul web e sui Social Media) ed inoltre la crisi economica, le Guerre, i Cambiamenti Climatici e la perdita di spiritualità e di valori solidi stanno portando l’umanità ad una sorta di Depressione Esistenziale che necessita di essere lenita. Che cosa sta accadendo, quindi, nel nostro attuale Mondo, che si sta anche caratterizzando per una velocità eccessiva, richieste di performance elevatissime e dalla presenza del digital che è una fonte enorme di connessione, di contenuti accattivanti e di opportunità sensoriali?

Le conseguenze di tutto ciò sono state una moltiplicazione dei cosiddetti attrattori di attenzione che assorbono e diffondono la nostra attenzione con conseguenze non ancora completamente chiare sul piano psicopatologico.

Il concetto di diffusione patologica dell’attenzione, che poi, in termini pratici, si traduce in un sequestro del nostro limitato capitale attentivo, è un fenomeno noto da diverse decine di anni, in sostanza da quando l’Umanità ha iniziato ad utilizzare mezzi e media che hanno potenziato e facilitato la comunicazione, negli anni ’60 e ’70.

“Superficialità”, purtroppo è questa una delle conseguenza di una diffusione costante della nostra attenzione, sequestrata da mille attrattori digitali, reali ed intrapsichici, che a fatica ce la restituiscono.

Andando avanti in questo ragionamento possiamo affermare che la diffusione patologica della nostra attenzione nel mondo digitale ed in quello reale iper- accelerato, favoriscono la costante presenza di ansia e rimuginazione.

Perché tutto questo?

L’ansia e la rimuginazione, intese in senso “classico”, erano sostenute da processi psicopatologici di tipo implosivo, ovvero che spesso affondavano le loro radici in una sorta di deflessione dell’osservazione verso il nostro interno a scapito della realtà esterna; spesso rappresentano dei veri e propri bias interpretativi dei dati in nostro possesso.

Ansia e rimuginazione sono emersi e si sono diffusi tra le persone come entità psicopatologiche nel corso di tutto il ‘900.
Allo stato attuale ansia e rimuginazione sono ancora molto presenti tra le persone nel mondo occidentale iper- accelerato e digitalizzato, ma non più come entità patologiche ma come segni e sintomi del Disturbo da Diffusione Patologica dell’Attenzione. Inoltre queste forme di ansia e di rimuginazione assumono una valenza esplosiva, ovvero diretta completamente verso l’esterno (381).

Nel momento in cui il nostro capitale di attenzione è completamente depauperato la nostra mente subisce una sorta di Effetto “colapasta”, ovvero la dispersione dell’attenzione rende la nostra mente simile ad un “colapasta” che non trattiene le informazioni per il tempo sufficiente alla loro elaborazione e questo ci impedisce di soffermarci sulle memorie e sui dati sensoriali, generando sensazioni di incertezza, allarme e disagio scarsamente definibili (382).

Quali potrebbero essere, quindi, le conseguenze cliniche ed esistenziali del DDPA?

Di seguito riporto una tabella riassuntiva dei più probabili sintomi e segni che potrebbero caratterizzare un disturbo costante della capacità di portare attenzione secondaria ad una costante diffusione (leggi “depauperizzazione”) dell’attenzione stessa:

  • Ansia e Rimuginazione.
  • Attacchi di Panico.
  • Disturbi da desiderio sessuale, anorgasmia.
  • Difficoltàrelazionali.
  • Difficoltà di apprendere nuovi task.
  • Anedonia e Alessitimia.

Per poter provare sentimenti autentici, vivere le nostre passioni e scrivere il nostro futuro abbiamo bisogno di riuscire a soffermarci sulle cose, di focalizzare i nostri pensieri e le nostre azioni, in poche parole abbiamo bisogno di poter disporre della nostra attenzione. Se questa qualità della nostra cognizione ci viene sottratta, proprio perché diluita e diffusa in plurime direzioni, rischiamo di perdere il motivo per cui la vita vale la pena di essere vissuta: la nostra possibilità di autodeterminarci e di essere liberi.

[…]

PSIQ è disponibile al link www.psiq.it. Qui invece il video prima citato, per approfondire:

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NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti

Article by admin / Formazione / psicoterapia, raffaeleavico

26 July 2023

NASCE IL “GRUPPO DI INTERESSE SULLA PSICOPATOLOGIA” DI AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione)

di Raffaele Avico, Costanzo Frau

L’AISTED ha di recente promosso la creazione di un gruppo di ricerca e studio a proposito della psicopatologia, ispirato da e incentrato sull’opera e i concetti promossi da Henri Ey. Il gruppo di lavoro proporrà un lavoro di divulgazione e approfondimento sul tema della psicopatologia in chiave Neo-jacksoniana, coinvolgendo esperti in interviste, lavori, link ad articoli, etc,., che verranno resi disponibili all’interno della pagina di AISTED dedicata. Il primo incontro sarà con Giuseppe Craparo, in ottobre.

Ne pubblichiamo qui di seguito la presentazione.

Milano, luglio 2023

Questo gruppo di discussione e interesse nato in seno all’Associazione per lo Studio del Trauma e della Dissociazione (AISTED), si propone di raccogliere i contributi teorici ed esperienziali di un gruppo di individui interni ed esterni ad AISTED, a proposito del “problema” psicopatologico inerente il trauma e la dissociazione.

Cosa causa un evento dissociativo? Cosa causa una sindrome post-traumatica?

All’interno di questo gruppo di interesse cercheremo di mettere insieme e integrare alcuni aspetti teoretici, per tentare di ottenere una visione più chiara sulla teoria patogenetica della dissociazione e del trauma. 

Per fare questo coinvolgeremo esperti e studiosi del settore, e adotteremo riferimenti teorici d’avanguardia e più antichi (ma che riteniamo altrettanto attuali).

In particolare, adotteremo una prospettiva neo-jacksoniana, chiarificata in alcuni punti che qui elenchiamo:

  1. I punti teorici da cui muove la creazione di questo gruppo di lavoro, riguardano il modo di concepire la psicopatologia inerente il trauma; prima di arrivare al trauma, è opportuno tentare di comprendere come funzioni il complesso cervello-mente. Decidiamo di adottare una prospettiva neo-jacksoniana, pensando al complesso cervello-mente come regolato da logiche gerarchiche di funzionamento, con funzioni mentali superiori in grado di modulare e ricadere su quelle inferiori, aree cerebrali deputate a regolare altre aree, come nella concettualizzazione originaria formulata da John H. Jackson.
  2. Focalizzare l’attenzione sul complesso cervello-mente introduce la questione della necessaria integrazione tra interventi di tipo top-down, e gli interventi aderenti a una logica bottom-up. È possibile pensare che il complesso mente-cervello sia mosso da logiche di regolazione “dall’alto verso il basso” come appare, per esempio, quando in un lavoro di psicoterapia si lavora per dare un senso cognitivo a emozioni poco regolate in un paziente. É altrettanto plausibile osservare logiche di regolazione “dal basso verso l’alto”, quando attraverso esercizi mirati sul corpo (la respirazione, per esempio, o le tecniche di psicoterapia sensomotoria) si aiuti il paziente a modificare la forma dei propri pensieri a partire dallo stato del corpo. Entrambi gli interventi possono essere utilizzati nella psicoterapia.
  3. Le logiche di regolazione, si applicano anche a quelle di disregolazione: in senso top-down, una dominanza di cognizioni problematiche avrà una ricaduta sul corpo; una corporeità disregolata (pensiamo per esempio al corpo di un sopravvissuto a un trauma) avrà un effetto sulla forma dei pensieri, così come delle emozioni di un certo paziente. Promuovere, anche qui, un lavoro di bilanciamento e di auto-regolazione del complesso cervello-mente, non può che favorire il processo di benessere psicologico.

La prospettiva neo-jacksoniana, nel promuovere un certo modello di mente, è stata promossa dai lavori di Henri Ey, che questo gruppo di lavorò tenterà di mettere in luce e divulgare.

Qui per andare alla pagina dedicata al progetto.

Article by admin / Formazione, Editoriali / psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

30 May 2023

UN RICORDO DI LUIGI CHIRIATTI, STUDIOSO DI TARANTISMO

di Raffaele Avico

Ho avuto il piacere di incontrare Luigi Chiriatti due estati fa, in occasione di un periodo trascorso in Puglia; in quel frangente proposi a Luigi di vederci a casa sua. Mi trovavo in Valle D’Itria, Salento alto, per cui avrei dovuto fare un pezzo di strada in macchina, verso Calimera, suo luogo di residenza.

Avevamo già collaborato in passato soprattutto per una serie di articoli pubblicati su Psychiatry on Line (linkati più avanti) a tema tarantismo, e attraverso un’intervista fatta a distanza in tempi di pandemia, che si può recuperare qui.

Durante la visita a casa sua parlammo di diverse cose, per lo più riguardanti il “problema“ della preservazione della cultura salentina, il neo-tarantismo, il suo passato da “antropologo” incuriosito dai cantori locali (spesso, a detta sua, restii a farsi fotografare o in generale osservare durante i rituali di guarigione). Dopo quel momento, mi mostrò il suo ricco archivio, per fortuna recentemente acquisito dal comune di Melpignano.

Riporto alcune fotografie di quella visita al suo archivio privato in fondo all’articolo.

Luigi Chiriatti è venuto a mancare qualche giorno fa: mi piace ricordarlo riportando qui alcuni dei suoi contributi, qualche link di approfondimento per chi voglia approfondire il suo lavoro di ricerca sul tarantismo.
Va ricordato che Chiriatti è stato tra i fondatori del Canzoniere Grecanico Salentino, fondatore della casa editrice Kurumuny e direttore artistico dell’evento -ormai- internazionale La Notte della Taranta.

Qui alcuni spunti di approfondimento:

  1. Intervista Luigi Chiriatti Youtube
  2. In questa lunga e interessante intervista inviataci dallo stesso Chiriatti, accanto agli aspetti biografici, viene tracciata la storia del movimento di riscoperta delle radici della cultura salentina e del suo folklore, attraverso la creazione di nuclei di lavoro culturale come il Canzoniere Grecanico Salentino, l’Istituto Diego Carpitella e l’evento Notte della Taranta. Parte di quest’intervista confluì all’interno del volume “Interviste sul tarantismo”, scritto da Sergio Torsello. Arricchiscono il testo precisi riferimenti storici a luoghi, attori coinvolti e materiale culturale, per chi volesse approfondire l’argomento: intervista (scritta) a Luigi Chiriatti
  3. Sul tarantismo, di Luigi Chiriatti
  4. Sul tamburello e dintorni, di Luigi Chiriatti

Altro sul tarantismo su questo blog.

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Article by admin / Formazione / psicoterapia, raffaeleavico

7 March 2023

“UN RITMO PER L’ANIMA”, TARANTISMO E DINTORNI


di Raffaele Avico

Il DVD “Un ritmo per l’anima”, curato da Giuliano Capani, mette insieme un documento videofilmato e un libretto con raccolte le trascrizioni delle interviste agli autori coinvolti nel progetto.

Il DVD, della durata di 45’ circa, si apre con una costruzione romanzata di una storia di “tarantismo”, dove vediamo una ragazza salentina alle prese con una serie di problemi connessi alla questione del “morso” della taranta: la ragazza si aggira per un paese dove ogni finestra ha i suoi occhi, e in preda a una sorta di stato di transe, raggiunge il mare e batte, a ritmo, due pietre. Su questa scena compare quindi la voce narrante vera e propria, che racconta il fenomeno del tarantismo dalle sue origini, soffermandosi su come “il rito” fosse visibile in Salento fino alla fine degli anni ’60, e fornendone una descrizione nelle sue diverse fasi.

Già altri autori avevano tentato di scomporre il rituale nel suo svolgersi: dal momento “a terra”, in cui la tarantolata si contorce sul pavimento, passando per un momento di danza vera e propria e di armonizzazione crescente del corpo con la musica, fino al ritorno a terra, segno di un raggiunto stato di quiete.

Qui però si fa riferimento, in particolare, alla questione dello “scazzicare”. Cosa si intende con il termine scazzicare? La voce narrante ci spiega come i musicisti, prima di riuscire ad agganciare emotivamente la tarantata, spaziavano tra diverse sonorità cercando di capire quale fosse la più emotivamente coinvolgente, quella in grado di “toccare” o agganciare in senso emotivo la donna sottoposta al rituale. Il momento del “tocco”, o di aggancio, è il momento in cui la donna viene “scazzicata”, perturbata dal suono. I musicisti, osservando il comportamento della tarantata, adattano e modulano il suono, così da renderlo sempre più attivante e potenzialmente terapeutico, verso un’armonizzazione di tutte le parti (suonatori, tarantata, collettività che guarda), come in una sorta di cerchio terapeutico.

Il documentario prosegue poi con diverse interviste fatte a personaggi in qualche modo riconosciuti per il loro studio a riguardo del fenomeno:

  1. come primo intervistato, il Dr. Giuliano Guerra, medico psicoterapeuta e allora (si parla del 2001) presidente dell’Associazione Italiana di Ipnosi Terapeutica, spiega il suo punto di vista sulla questione: come prima ipotesi, parla di “quadro” isterico, ovvero, sarebbe stato l’elemento coreografico e corale a curare un disturbo conversivo di origine isterica, nel suo senso quindi più classico e in qualche modo teatralizzato; racconta però come, dal suo punto di vista, la questione potrebbe essere anche declinata in un altro modo: la compresenza di uno stato alterato di coscienza (elemento di sfondo) insieme a un certo potere del suono (e di alcune caratteristiche del suono stesso: la sua ritmica ipnotica, la forza del suono del violino), sarebbero dal suo punto di vista in grado di “agganciare” l’”onda vibratoria negativa” che a suo tempo produsse il “male” (la sofferenza psichica). Qui parliamo dunque, a suo dire, di una “potenzialità sciamanica” del suonatore, che entrando in un profondo stato di connessione interiore con il malato, lo guarisce usando un canale di accesso preferenziale, che in questo caso è il suono.
    É chiaro come in questo caso si vadano a mettere in discussione aspetti più complessi inerenti la cura delle turbe psichiche in generale e la loro natura: esistono in molte culture forme di terapia, e nella nostra ne osserviamo allo stesso modo un ritorno, che usano canali “altri” rispetto alla parola, con risultati quasi sempre positivi.
    Come se la sofferenza psichica avesse forma non solo di “discorso“ interiore in qualche modo distorto, ma possedesse una sua peculiare natura anche solamente incarnata, non vincolata alla questione delle parole, ma anzi in grado di prendere forme altre (suoni? immagini? sensazioni?) e in quanto tale fosse appunto curabile attraverso altri canali. Guerra fa infine notare che si tratta qui di una forma di cura del male “sintomatica”, e non risolutiva, tant’è vero che ciclicamente il “morso” ritornava e si doveva riprocedere a un altro rituale.
  2. Altro intervistato, Georges Lapassade, che focalizza la questione sulla questione bioenergetica esplorata da Reich, psicoanalista dissidente che introdusse una visione alternativa di male psichico, ovvero come di “energia bloccata nel corpo”. Tutto questo è molto simile a quello che oggi si fa in psicoterapia sensomotoria tentando di sbloccare “tendenze all’azione” rimaste congelate nel corpo – si veda per esempio il lavoro di Pat Odgen in ambito psicotraumatologico. Il ballo della tarantata, dal suo punto di vista, sarebbe stato in grado di sbloccare questa quota di energia psichica rimasta bloccata, liberandola e fluidificandola.
    Anche qui, teorie formulate in epoche differenti sembrano convergere in una concettualizzazione univoca (“idraulica”) inerente la dinamica della libido/energia psichica/tendenza all’azione. La questione, in fondo, seppur riformulata in termini differenti e in epoche diverse, ruota sempre intorno allo stesso cardine: qualcosa che voleva essere liberato o espresso, e non ha potuto farlo, qualcosa di solido che vuole tornare liquido.
  3. Viene quindi intervistato Antonio Fassina, medico milanese e direttore, al tempo, del centro “Nuove Terapie” a Milano (oggi rinominato Centro di Terapia Naturali), sulla questione relativa al fenomeno del tarantismo in generale: Fassina parla di competenze sciamaniche inconsapevoli possedute dai terapeuti/musici, compiendo un parallelismo tra le terapia del tarantismo e quelle della psicoterapia di oggi: “il paziente libera, lascia sul lettino del terapeuta quello che una volta lasciava sul pavimento della chiesa di Galatina”. Anche qui viene messo in luce il carattere sintomatico della terapia, in fin dei conti provvisorio: non andando a estirpare alla radice il male, questo poi si presentava, come ciclicamente, e quindi andava, nuovamente, bonificato
  4. Viene intervistato poi Tullio Seppilli, professore di Antropologia medica, che fa riferimento ad altre culture dove la danza e la possessione sembrino aver assunto valore o funzione catartica. La differenza forte, spiega Seppilli, è il fatto che per esempio nelle culture afro-americane brasiliane, in cui si ritrovano corrispettivi laici del nostro tarantismo, il fatto di essere “cavalli del dio”, di essere cioè “invasati”, era qualcosa visto positivamente e anzi considerato uno stato speciale di grazia; nello stato invece di transe indotta da una possessione prodotta dal “morso”, la cosa era vissuta con estrema preoccupazione vista la connotazione diabolica del fatto -com’è tipico della religione cristiana. Seppilli colloca nel lavoro di Ernesto Demartino la nascita dell’odierna etnopsichiatria, di fatto riconoscendo all’antropologo italiano ruolo di precursore di una visione più ”ampia” della psichiatria, che abbracci anche la soggettività umana in tutta la sua complessità e natura “sistemica”. Nel 1980 in Canada, a Montreal, venne organizzato un importante convegno chiamato “sciamanesimo ed endorfine”, in cui appunto venne discusso lo stato dell’arte intorno a questi aspetti che riguardavano la connessione tra pratiche di guarigione sciamanica e la psichiatria attuale; il tamburo suonato in modo ritmico -questo uno degli aspetti- è in grado di produrre un rilascio di endorfine con funzione anestetica del dolore psichico, questione appunto centrale se pensiamo a quanto il “tamburello” sia lo strumento cardine di ogni rito di tarantismo.

Altro aspetto messo in luce dal documentario, il parallelismo tra le pratiche di tarantismo e le attuali discipline di meditazione “dinamica”, basate sulla messa in scena del dolore mentale sul teatro del corpo (creazione di uno stato di caos indotto per mezzo di una respirazione volutamente caotica – espressione del dolore per via corporea – riappropriazione dello stato di equilibrio). Anche qui si va idealmente da uno stato di disequilibrio a una condizione di calma, da uno stato di disgregazione a uno stato di integrazione e armonia.
Platone, nel suo simposio, parla della medicina come l’arte umana di cercare equilibrio tra gli opposti, e della musica come di un’invenzione umana che concretizza il mettere insieme l’alto con il basso, il veloce con il lento, il forte con il piano, etc.: strumento dunque elettivo dove si debba eseguire un’operazione di “sintesi” o di riequilibratura di istanze disarmoniche, o di unione di pezzi tra loro scollegati.

Luigi Chiriatti, in uno spezzone del film, racconta di come la pizzica-pizzica come genere musicale, sembri racchiudere in sè un potere liberatorio non solo connesso al contesto salentino: il successo planetario del genere racconterebbe di questo “potere” intrinseco e quindi transculturale (pensiamo al recente successo del Canzoniere Grecanico Salentino negli USA, o al lavoro di recupero di pezzi tradizionali fatto da Ludovico Einaudi nel suo bellissimo Taranta Project).

Insieme a questi intervistati, il documentario Un ritmo per l’anima, importante lavoro di raccolta di testimonianze, vede al suo interno altri noti studiosi sul tema: Caterina Durante -fondatrice teorica del Canzoniere Grecanico Salentino-, Anna Nacci, Daniele Durante (nipote di Caterina Durante e primo tamburellista del Canzoniere Grecanico Salentino) e Mauro Durante, giovane violinista nel film, ora frontman del gruppo co-fondato dal padre.

In sintesi, ciò che emerge dalla visione di questo lavoro e ne definisce l’attualità, è sintetizzabile per punti in due aspetti:

  1. il razionale terapeutico che vuole portare unità dove c’è disgregazione, flessibilità dove c’è rigidità (movente clinico sottoscrivibile da tutte le odierne scuole di pensiero psicoterapeutico)
  2. l’aspetto dello sforzo fisico come strumento di vero risanamento psichico. Nel libretto contenuto nel DVD, viene riportata una testimonianza di Gurdjeff, che scrive: “Per far sì che tutti i centri lavorino nel modo giusto e non si ostacolino tra loro c’è bisogno di un vero sforzo fisico, solo in questo modo si crea la possibilità per l’armonia. Alcune nostre capacità possono essere espresse solo quando sottoponiamo il nostro corpo ad uno sforzo che esige una grande attenzione e un enorme consumo di energia, cioè quando gli sforzi che si fanno sono al limite dell’esaurimento, dandoci così la possibilità di accedere ad un contenitore speciale di energia: il grande accumulatore […]”

Altri documenti relativi al tarantismo, alle sue origini, ai libri che ne parlano, presenti su Psychiatry on Line e su Il Foglio Psichiatrico:

  1. apporti video sul tarantismo parte 1
  2. apporti video sul tarantismo parte 2
  3. intervista a Luigi Chiriatti
  4. “Sul tarantismo”di Luigi Chiriatti
  5. “sul tamburello” di Luigi Chiriatti
  6. “recensione del film “latrodoectus, che morde di nascosto”
  7. recensione di “Il tarantolismo” di Francesco de Raho
  8. immagini del tarantismo: Chiara Samugheo

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9 January 2023

SUICIDIO: SPUNTI DAL LAVORO DI MAURIZIO POMPILI E EDWIN SHNEIDMAN

di Raffaele Avico

In questo post prendiamo alcuni spunti dal lavoro di ricerca a proposito del suicidio effettuato da Maurizio Pompili, a sua volta ispiratosi al padre della suicidologia moderna, Edwin Shneidman.

Esistono aree di sovrapposizione tra i contenuti dei due autori, e peculiarità mutuate dai singoli apporti. Da una scorsa generale del lavoro di entrambi, emergono due aspetti centrali:

  1. il suicidio è un tentativo estremo di riprendere il controllo, di fronte a un dolore mentale percepito come insopportabile. Il fine del suicidio in questo senso non sembra tanto il non vivere, quanto lo spegnere la coscienza e con essa il dolore. Può sembrare paradossale, ma può essere in questo senso pensato come un movimento di autoaffermazione liberatoria, un gesto affermativo.
  2. Il gesto del suicidio viene spesso eseguito in una condizione di “visione a tunnel”: è spesso un gesto impulsivo che libera il soggetto da uno stato mentale rigido, costrittivo e intollerabile.

Vediamo alcuni spunti dal lavoro di Pompili e Shneidman.

  • In senso psicologico, sono 3 le caratteristiche della persona suicida:
    1.  ambivalenza (fino alla fine il soggetto è combattuto nel suo intento suicidario: il dialogo a proposito del “sì o del no” permane fino al momento dell’attuazione)
    2. impulsività (di fronte alla prima citata ambivalenza, il gesto suicidario viene eseguito dando spazio a un impulso che sopravviene e porta il soggetto ad auto-annientarsi)
    3. rigidità e pensiero limitato/visione “tunnel” (lo stato mentale pre-suicidario viene spesso descritto come alterato/dissociato, in particolare nei momenti precedenti l’atto; durante invece il periodo temporalmente precedente il suicidio stesso, è stata osservata la presenza di una visione particolarmente limitata e rigida in senso cognitivo, con una concezione rigidamente pessimistica sulla realtà, e poca libertà di pensiero)
  • fino a due terzi delle persone che commettono suicidio, lasciano segnali che vanno presi sul serio, soprattutto in età adulta: si veda questo studio.
  • più che “depressivo”, si potrebbe definire lo stato mentale del suicida come caratterizzato da disperazione o hopelessness, un costrutto psicologico che si riferisce a quegli schemi cognitivi nei quali il comune denominatore è l’aspettativa negativa verso il futuro; gli individui ritengono che nulla si rivelerà a loro favore, che non avranno mai successo nel corso della vita, che i loro obiettivi importanti non saranno raggiunti e che i loro problemi non verranno risolti. Al senso di hopelessness si accompagna spesso il senso di helplessness, la convinzione di non poter essere aiutato e soprattutto di non potere aiutarsi, di non avere il controllo sugli eventi
  • Nel mondo occidentale attuale il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso alle prese con un problema, che considera il suicidio come la migliore soluzione.
  • La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in uno stato chiamato comunemente stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine dolore mentale/psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto che si suicida nel quale la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura, l’ansia sono caratteristiche facilmente identificabili. L’individuo ha dunque necessità di porre fine a tale stato; il rischio di suicidio diviene grave quando quel soggetto lo considera come la migliore ed unica soluzione per porre fine a quel grande dolore psicologico.
  • L’individuo sperimenta come prima accennato uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi: avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile.
  • Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni: il soggetto trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
  • C’è un dolore mentale che, quando risolto, allontana le idee suicidarie: Pompili dà molta più importanza alla presenza di dolore mentale (qui un approfondimento su questo) come elemento di diagnosi, che non ad altri fattori. La sua tesi è che proprio questo elemento, il “dolore mentale”, rappresenti il punto chiave, il sintomo da ricercare per eseguire una corretta formulazione del rischio suicidario. Si veda: The relationship between mental pain, suicide risk, and childhood traumatic experiences: results from a multicenter study.
  • Valutare il rischio di suicidio è un compito particolarmente arduo. Questa complessa meta-analisi della letteratura esistente sull’argomento ha portato alla constatazione che i fattori di rischio sono predittori deboli e imprecisi del comportamento suicidario: in questo studio gli autori concludono che la capacità predittiva dei fattori di rischio non è migliorata negli ultimi cinquant’anni e che, anzi, è rimasta modesta anche nei periodi di follow-up più frequenti rispetto alla norma. I segnali d’allarme vengono spesso raccolti in un acronimo utile a elencarli, per tenerli a mente: in inglese, IS PATHWARM?

Secondo Shneidman (1996) ci sono 10 elementi che sono presenti in almeno il 95% dei soggetti suicidi; egli li chiama Commonalities of Suicide:

  1. Lo scopo del suicidio è trovare una soluzione; non si tratta mai di un atto privo di fine. Si riferisce invece al voler uscire da una crisi, da una situazione insopportabile che genera il dolore psicologico;
  2. Il fine del suicidio è quello della cessazione della coscienza. Si può meglio comprendere il suicidio se lo si considera come un atto che abolisce la coscienza dell’individuo dove alberga il dolore mentale insopportabile e perciò si propone come la migliore soluzione per l’individuo. È questa la miscela esplosiva per il suicidio, ossia il momento in cui l’individuo, abbandonate altre possibilità di soluzione, inizia l’organizzazione dell’atto letale;
  3. Lo stimolo al suicidio è il dolore psicologico. Se la cessazione è ciò che l’individuo cerca di ottenere, il dolore psicologico è ciò da cui l’individuo cerca di fuggire. Nei suicidi si ritrova, ad un’attenta analisi, la combinazione tra volere la cessazione della coscienza e l’allontanamento dal dolore psicologico insopportabile. Il suicidio non esita mai dai momenti felici. I pazienti descrivono tale dolore in molti modi come “Sono morto dentro”, “Sentivo un dolore fortissimo dentro”; “Sentivo onde di dolore propagarsi nel mio corpo”. Il suicidio è una risposta ad appannaggio esclusivo dell’uomo nei confronti di un dolore psicologico estremo. Se si riduce il livello di sofferenza il suicidio non si verifica;
  4. Lo stressor comune nei suicidi si riferisce ai bisogni psicologici insoddisfatti. Paradossalmente, il soggetto suicida tenta la carta del suicidio per soddisfare bisogni psicologici vitali rimasti frustrati. Questo porta nuovamamente a concludere che possono esserci molte morti nelle quali manca la motivazione del soggetto (incidenti, morti naturali), ma ogni suicidio riflette alcuni bisogni psicologici non soddisfatti;
  5. Lo stato emotivo dei soggetti suicidi è riferibile all’hopelessness-helplessness. Questi soggetti affermano “Non c’è nulla che io possa fare (oltre al suicidio) e non c’è nessuno che possa aiutarmi (con il dolore che sto soffrendo);
  6. Lo stato cognitivo tipico del soggetto suicida è l’ambivalenza. I soggetti suicidi sono caratterizzati dall’ambivalenza tra la vita e la morte fino al compimento dell’atto letale. Sebbene si apprestino alla morte desiderano ardentemente essere salvati;
  7. I soggetti suicidi presentano uno stato di costrizione mentale. Il suicidio può essere compreso come uno stato di costrizione psicologica transitoria che coinvolge le emozioni e l’intelletto. I soggetti suicidi infatti affermano “Non c’era altro che potessi fare”, “L’unica via di uscita era la morte”, “L’unica cosa che potessi fare era uccidermi”. È questa la visione tunnel di cui spesso si parla, nella quale vi è un restringimento del campo delle opzioni disponibili; e nel quale la mente è sintonizzata su due sole possibilità: una soluzione lieta (quasi magica) oppure la cessazione, il suicidio. In questi casi vige la legge del tutto o del nulla.
  8. L’azione tipica dei suicidi è la fuga, un esodo da qualcosa di angosciante;
  9. L’atto interpersonale tipico dei soggetti suicidi è la comunicazione dell’intenzione. Dalle prime autopsie psicologiche è emerso che nelle morti equivoche, poi classificate come suicidi, veniva comunicato l’intento suicidario in modo più o meno esplicito. Questi soggetti, piuttosto che comunicare ostilità, rabbia o depressione, comunicavano verbalmente o con il loro comportamento il fatto che si sarebbero uccisi;
  10. I pattern del suicidio sono assimilabili agli schemi adattativi della vita dell’individuo suicida. In altre parole, osservando come una certa persona si è comportata in altri momenti difficili della propria vita si può prevedere come quella persona si approcci al suicidio. Probabilmente durante altre difficoltà quella persona ha sperimentato la tendenza al pensiero dicotomico e alla fuga dal dolore. Sebbene il suicidio, per definizione, sia un evento mai sperimentato in precedenza, possiamo indagare la mente dei soggetti nei confronti del gesto letale analizzando lutti, separazioni, perdite di vario genere.

SUGGERIMENTI PER LA GESTIONE DELLA CRISI SUICIDARIA

Come comunicare

  • ascoltare attentamente, con calma
  • comprendere i sentimenti dell’altro con empatia
  • emettere segnali non verbali di accettazione e rispetto
  • esprimere rispetto per le opinioni e i valori della persona in crisi
  • parlare onestamente e con semplicità
  • esprimere la propria preoccupazione, l’accudimento e la solidarietà
  • concentrarsi sui sentimenti della persona in crisi

Come non comunicare

  • interrompere troppo spesso
  • esprimere il proprio disagio
  • dare l’impressione di essere occupato e frettoloso
  • dare ordini
  • fare affermazioni intrusive o poco chiare
  •  fare troppe domande

Domande utili

  • Ti senti triste?
  • Senti che nessuno si prende cura di te?
  • Pensi che non valga la pena di vivere?
  • Pensi che vorresti suicidarti?

Indagine sulla pianificazione del suicidio

  • Ti è capitato di fare piani per porre fine alla tua vita?
  • Hai un idea di come farlo?

Indagine su possibili metodi di suicidio

  • Possiedi farmaci, armi da fuoco o altri mezzi per commettere il suicidio?
  • Sono facilmente accessibili e disponibili?

Indagine su un preciso lasso di tempo

  • Hai deciso quando vuoi porre fine alla tua vita?
  • Quando hai intenzione di farlo?

SUICIDIO ADULTO, ELEMENTI A CUI PRESTARE ATTENZIONE DURANTE IL COLLOQUIO CLINICO:

  • parlare del suicidio o della morte
  • dare segnali verbali come “Magari fossi morto” o “Ho intenzione di farla finita”
  • oppure segnali meno diretti come “A che serve vivere?”, “Ben presto non dovrai più preoccuparti di me” e “A chi importase muoio?”
  • isolarsi dagli amici e dalla famiglia
  • esprimere la convinzione che la vita non ha senso e non ha speranza;
  • disfarsi di cose care;
  • mostrare un miglioramento improvviso e inspiegabile dell’umore dopo essere stato depresso;
  • trascurare l’aspetto fisico e l’igiene
  • con riferimento, agli anziani, ma non esclusivamente ad essi:
  • mettere da parte farmaci
  • comprare armi
  • esprimere un improvviso interesse oppure perdere un interesse per la religione
  • trascurare attività quotidiane di routine
  • fissare un appuntamento medico anche per sintomi lievi

SUICIDIO GIOVANILE/ADOLESCENZIALE. ELEMENTI A CUI PRESTARE ATTENZIONE DURANTE IL COLLOQUIO CLINICO:

  • mancanza di interesse per le attività abituali;
  • generale calo delle qualità (attenzione, memoria etc.);
  • mancanza o diminuzione della forza di volontà;
  • comportamenti negligenti in classe;
  • inspiegabile assenza o ripetute assenze ingiustificate;
  • abuso di tabacco, alcool o droga (compresa la cannabis);
  • coinvolgimento in atti di violenza tra studenti o atti che richiamano l’intervento della polizia;
  • isolamento;
  • hopelessness, cioè l’atteggiamento di mancanza di speranza;
  • dichiarazioni scritte e verbali riguardanti la morte, l’intenzione di morire e la mancanza di voglia di vivere;
  • attrazione per la morte ed il morire;
  • disfarsi di beni o lasciare le proprie volontà;
  • drastici cambiamenti del comportamento o della personalità, come trascurarsi nell’aspetto e isolarsi dagli amici e familiari.

CHE FARE?

Eseguita una valutazione del rischio, e quando in presenza di idee suicidarie ricorrenti, la linea guida generica da seguire la troviamo su molteplici siti a tema, tra cui questo. Viene sempre consigliato il ricorso a personale formato (meglio psichiatri) e, se in presenza di un soggetto in evidente “stato mentale perturbato” e mosso da impulsività suicidaria, la soluzione può essere quella di chiamare soccorsi che possano raggiungere l’individuo dove si trova fisicamente (quindi chiamando, per l’Italia, il 118). Ciò su cui si può intervenire, di fatto, è l’impulsività suicidaria, dal momento che risulta pressochè impossibile interrompere le pianificazioni suicidarie “lunghe”, eseguite a mente fredda.

Altri spunti: https://www.prevenireilsuicidio.it e questa rubrica su Psychiatry On Line.


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25 October 2022

LA Q DI QOMPLOTTO

di Raffaele Avico

Questa poderosa inchiesta sul fenomeno di Qanon rappresenta un lavoro fondamentale per chiunque sia interessato ad approfondire il tema “complotti”, nel tentativo di capire come sia possibile che -in epoca attuale- fioriscano e divampino narrazioni così devianti e “diversive” (come le definisce Wu Ming 1, autore del libro), paranoidee e incentrate appunto su ipotesi e cospirazioni mondiali -con vari contenuti e sotto-narrazioni annesse.

Cos’è, prima di tutto, Qanon?

Su questa recensione dal portale Doppiozero ne viene data una definizione puntuale:

“QAnon è in estrema sintesi una fantasia distopica diffusa in rete (in particolare modo negli Stati Uniti e in Germania) nei network della destra radicale: un complotto immaginario secondo cui il mondo sarebbe segretamente governato da una setta di miliardari “di sinistra” e depravati, dediti a terribili misfatti (satanismo, pedofilia e torture ai danni di bambini) che avrebbero la funzione di dare sfogo alla loro avidità energetica, sessuale ed economica e di garantire loro privilegio e dissolutezza. Al netto delle diverse varianti, alcuni “veri patrioti” guidati da Donald Trump starebbero conducendo una guerra segreta contro i malvagi potenti della cosiddetta Cabal (di cui farebbero parte Hillary Clinton, Barack e Michelle Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, etc.) animando così una crociata dai tratti apocalittici che chiede adesione e coinvolgimento per porre fine a l’atroce situazione.”

Questo gruppo di pedo-satanisti userebbe per incontrarsi una serie di tunnel scavati al di sotto della superficie terrestre negli Stati Uniti, luoghi sicuri dove portare i bambini e compiere i rituali.

Le caratteristiche intrinseche del movimento sono riassunte ottimamente sulla pagina Wikipedia dedicata.

Da questo libro da più di 500 pagine, a opera di un membro del collettivo Wu Ming di Bologna, apprendiamo che il tema è molto antico, e troviamo fantasie complottiste già in epoca medioevale, a fare da sostrato “culturale” a persecuzioni sistematiche che si protrassero per molto tempo; leggendolo, scopriremo che le radici storiche del fenomeno Qanon sono da rintracciarsi nella forma di odio razziale più antico, quello verso la popolazione ebraica, a sua volta di antichissima origine, derivata dalle narrazioni diffuse dalla chiesa cattolica per secoli, originatesi da letture distorte dei testi sacri e mistificazioni cumulatesi nel tempo a proposito del popolo ebraico.

Leggendo La Q di Qomplotto osserveremo come il tema di una cospirazione montata da un gruppo ristretto di ricchi a danno di persone normali per un proprio vantaggio, sia storicamente ricorrente, costante, e che spesso la “messa a terra” delle fantasie cospirazionistiche si verificò in concomitanza di particolari contingenze storiche adatte al loro divampare.

Il libro si divide in due parti principali.

Nella prima parte viene cronologicamente descritto il fenomeno della nascita del movimento Qanon, fin dalle prime apparizioni sul web (su portali dedicati come 4chan o 8chan, portali aperti a ogni forma di contenuto, senza nessun tipo di censura) fino al suo culmine, ovvero l’invasione del campidoglio da parte di centinaia di persone, nel 2021, a fine mandato presidenziale di Donald Trump -divenuto nel frattempo leader simbolico del movimento stesso.

La seconda parte del libro è invece una ricostruzione filologica della storia del movimento, eseguita tentando di prendere in mano i “filamenti genetici” del movimento a partire dai suoi primordi, ovvero collegandosi a tutti i movimenti cospirazionisti generatisi in Europa (Qanon nasce, culturalmente, in Europa, per poi rimbalzare e divampare in USA) e tracciando la traiettoria storica di ognuno di questi fili; notiamo come Qanon abbia solamente messo insieme, e fatto convergere, molteplici movimenti culturali sotterranei, anche attraverso la mediazione fondamentale dei Social Network. Wu Ming 1 descrive Qanon come un mostro nato sui Social, grazie al potere di interconnessione totale creato da piattaforme così orizzontali e ubique.

L’inchiesta fatta per questo lavoro (a partire da un’impressionante raccolta di appunti, fonti e materiale, sistematizzata e organizzata in modo lineare in tre anni di scrittura, durante la pandemia Covid19) è di una meticolosità impressionante, e il libro rappresenta una pietra miliare nella letteratura sul tema “complotti”.

Procedendo nella sua ricostruzione filologica, chiarendo dunque la genealogia del fenomeno Qanon, Wu Ming 1 racconta di come alcuni autori cospirazionisti (spesso fortemente cattolici) abbiano -in precisi momenti storici che definisce “momenti di singolarità” – fatto convergere e sistematizzato alcune tematiche legate ai complotti, producendo dei punti di svolta nella letteratura sul tema, con pesanti ricadute nel “mondo reale”.

L’ultimo momento di singolarità, Wu Ming 1 osserva, lo rintracciamo nella storia recente: la sovra-interpretazione della comunicazione di Trump a seguito della sua destituzione come Presidente USA, accompagnata da una crisi pandemica e sociale a fare da corroborante, da tensioni sempre più accese in senso sociale negli Stati Uniti.. tutti elementi in grado di innescare -sui social- e dare vita a un fenomeno come il movimento Qanon.

Wu Ming 1, in questo lavoro, osserva come negli ultimi 2 anni, quelli di pandemia, diverse narrazioni “complottistiche” abbiano fatto irruzione sulla scena, mediate ancora una volta dai Social Network. Pensiamo per esempio alle fantasie di complotto sulla nascita della pandemia stessa, alla questione 5g, al problema con gli anti-vaccinisti: narrazioni in grado di convogliare -nel punto di vista dell’autore- una parte della tensione sociale, in questo modo salvaguardando i veri responsabili della crisi sistemica in atto ancora oggi, che l’autore sostiene essere i fautori delle politiche di sfruttamento ambientale e sociale degli ultimi decenni.

Al di là del libro a firma Wu Ming 1, traiamo dalla lettura alcune riflessioni:

  • i Social hanno un potere aggregativo e corroborante enorme, e questo si vede nella nascita di fenomeni come Qanon; sempre più osserviamo come la realtà “fattuale” (i fatti neutri, spogliati del loro significato) venga caricata e rivestita da narrazioni in grado di esplodere sulle piattaforme Social: lo avevamo osservato parlando di Social Dilemma, anche in questo caso osserviamo come questo fenomeno di mistificazione della realtà produca risultati reali, concreti, anche “offline”. In questo gioco, il giornalismo sembra avere un ruolo centrale, fondamentale: la realtà viene venduta alla popolazione usando toni necessariamente emozionali/caricati di emotività per ragioni di neuromarketing. Il risultato è il crearsi di una comunicazione Social sempre più emotiva, poco mediata, poco pensata, in grado di radicalizzare individui spesso isolati socialmente. Come non pensare che i due anni pandemici passati incollati sugli schermi degli smartphone, non abbiano costituito il terreno ideale perché potesse nascere un fenomeno come Qanon?
  • dibattere a voce, guardando in volto le persone, obbliga a una maggiore pacatezza, al produrre pensiero; diffondere notizie in tono troppo allarmistico, produce polarizzazione e risposte emotive del lettore/osservatore. Wu Ming 1, nel ricostruire i prodromi e la storia di Qanon, e i “precedenti” mediatici delle correnti cospirazioniste osservate di recente in Italia, effettua una critica spietata al lavoro fatto dal Resto del Carlino negli anni del caso “bambini di satana”, accusando il giornale di scarsa professionalità ed eccessiva ricerca dello scoop. Al tempo (parliamo degli anni’90), il collettivo Luther Blissett (poi Wu Ming) orchestrò una beffa mediatica proprio per mettere in evidenza la scarsa credibilità dell’impianto mediatico: è qui descritta
  • ciclicamente esistono movimenti sociali che prendono forme di natura paranoide: l’”altro” viene confinato ed espulso; ne parla molto bene Massimo Recalcati nel suo “La tentazione del muro”: la salvaguardia della tenuta identitaria è garantita attraverso l’espulsione dell’altro; questo fenomeno lo osserviamo sia nell’individuo singolo, che nel corpo sociale. Le fasi della “paranoicizzazione”, sono puntualmente descritte ne Il signore delle mosche: fa da sfondo sempre la paura, il senso di scarsa prevedibilità, e il bisogno di compattarsi intorno a elementi sociali percepiti “solidi”/forti.

Volendo provare a tracciare un “insegnamento” conclusivo mutuato dalla lettura di La Q di Qomplotto, lo troviamo nell’osservare un meccanismo che si ripete, con narrazioni inquinananti che fanno largo uso di meccanismi di paranoicizzazione, trovando ogni volta forme diverse/oggetti di odio differenti.

Come prima accennato, Wu Ming 1 in questo libro fa notare che c’è, sul fondo, una colpa non riconosciuta ed attribuita all’altro; il pensiero assume così una forma del tipo: “non riconosco come mia la responsabilità di un determinato fatto, la proietto sull’altro esterno da me, e lo perseguito”; pensiamo alle fantasie di complotto sulle cause della pandemia Covid: è più semplice pensare a un gesto deliberato che non tracciare la linea che collega l’ipersfruttamento ambientale, il cambiamento delle abitudini animali, un maggior contatto tra certi animali e l’uomo e il salto di specie di un virus come il Covid 19. Il vero nemico, in tutto questo, è l’antropocene, l’impatto dell’uomo sulla natura e il suo modellarla a fini economici. Wu Ming 1 questo lo sottolinea con forza, osservando come le fantasie complottiste in fondo difendano il sistema, dirottando le accuse non sui reali fautori del disastro, ma su target più facili, e spesso più deboli.

Su questi temi, si veda anche questo.


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27 July 2022

La depressione come auto-competizione fallimentare. Alcuni spunti da “La società della stanchezza” di Byung Chul Han

di Raffaele Avico

Nel libro “la società della stanchezza” del filosofo coreano Byung Chul Han (BCH), in uno dei capitoli finali (“la società del burn out”), vengono espressi alcuni pensieri che potrebbero aiutarci a leggere alcune forme di depressione odierna come depressioni da “performance”.

Avevamo qui introdotto il pensiero del filosofo coreano (naturalizzato tedesco) a proposito di alcune tematiche più ampie riguardanti la società dell’oggi e quella che chiama la “società della stanchezza e dell’autosfruttamento”.

Come osserviamo, la psicopatologia si adegua alla cultura: al cambio culturale, segue il presentarsi di nuove forme di psicopatologia. BCH parte da questo assunto: le patologie mentali sono figlie della cultura in cui si inseriscono, sono rappresentative di determinati eventi sociali in atto.

L’autore in particolare si sofferma su quattro tipologie di sofferenza mentale: 1) depressione 2) ADHD 3) burnout e 4) disturbo borderline di personalità.

Soffermandoci sul tema depressione, è opportuno fare alcune considerazioni a proposito della modalità con cui il filosofo coreano considera la post-modernità, e come colleghi questo periodo storico al nascere di nuove forme depressive:

  • l’epoca attuale vede un collasso del Super-io per come eravamo abituati a pensarlo, ovvero come istanza giudicante repressiva, un giudice interno in grado di schiacciare pulsioni e fornire “colpa”; il Super-io non sembra più esistere in questa forma, sostituito da un “‘Ideale dell’io” che si impone come standard da raggiungere, in questo modo spingendo gli individui a rincorrerlo auto-sfruttandosi costantemente, interpretando il tutto come “atto di libertà”. Il passaggio è quello da una società “disciplinare” a una società della prestazione
  • Da soggetto l’uomo diviene progetto, costantemente in competizione con se stesso al fine di auto-migliorarsi, come una piccola azienda a conduzione unica. Il soggetto pensa di “liberarsi” attraverso il narrarsi “progetto”: BCH descrive questo meccanismo come un auto-ingabbiamento pensato come atto di liberazione. Descrive invece il burnout come il risultato di una competizione assoluta con il proprio ideale dell’Io, una sclerotizzazione del meccanismo; BCH parla di una competizione esausta, impossibile da gestire, che si conclude solo con la morte del soggetto
  • BCH parla in più occasioni della depressione come “infarto psichico”, concettualizzando questo disturbo come svuotato dei suoi aspetti luttuoso/melanconici e generato dalla percezione di uno scarto impossibile da colmare nei confronti dell’ideale dell’Io -imperante.
  • Sempre parlando di depressione, BCH osserva come la depressione preveda un “lutto senza oggetto”, ovvero un senso di disconnessione e perdita senza che però vi sia stata effettivamente una qualche perdita oggettuale; l’autore collega questo senso di disconnessione all’iper-narcisismo attuale, con pochi legami reali e una “massa plaudente che dona attenzione all’Ego” compensando una povertà relazionale di fondo, una scarsità di libido investita sul “fuori”.

In generale, la lettura dei lavori di questo filosofo ci consente di inquadrare alcuni problemi di salute mentale attuale come strettamente collegati alla società che viviamo.

Qui il già citato articolo su questo blog in cui veniva recensito un altro libro di BCH, “Il profumo del tempo”.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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10 May 2022

PTSD: ALCUNE SLIDE IN FREE DOWNLOAD

di Raffaele Avico

Qui di seguito alcune slide a proposito della teoria del PTSD, in free download.

Consentono di farsi un’idea generale sugli sviluppi più attuali relativi alla teoria del trauma psichico.

Contengono molte delle tematiche indagate a tema “trauma” su questo blog (PTSD con o senza sintomi dissociativi, il modello a cascata di Ruth Lanius, l’approccio liottiano al problema, gli approcci psicoterapici, etc.).

É possibile scaricarle qui: PRESENTAZIONE PTSD.


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20 April 2022

“QUI E ORA” DI RONALD SIEGEL. IL LIBRO PERFETTO PER INTRODURSI ALLA MINDFULNESS

di Raffaele Avico

La mindfulness è una disciplina meditativa importata in Europa da un pioniere nell’ambito: Jon Kabat-Zinn, biologo statunitense (nato nel 1944) con una profonda conoscenza delle filosofie e psicologie orientali (per esempio la psicologia buddista) e autore del manifesto/”fiamma pilota” del fenomeno mindfulness, ovvero Vivere momento per momento.

La pratica quotidiana della mindfulness ha effetti positivi sulla capacità di regolazione neurofisiologica: ovvero, permette di sentirsi più in armonia con sè stessi e meno soggetti a sbalzi umorali (si abbassa l’intensità della rabbia sperimentata, ci si sente più “centrati”, più a contatto con il momento presente e meno depressi).

Viene usata in psicologia clinica nel trattamento del dolore cronico, per contrastare tendenze ansiose, per risolvere stati di iper-eccitazione nervosa che impediscono lo svolgimento dei normali compiti quotidiani, oppure per addestrare la mente a stare semplicemente nel presente o per contrastare gli effetti nefasti dell’overload cognitivo.

Il termine mindfulness significa letteralmente “pienezza di mente”, ovvero presenza a sè, “sensazione di mente piena”, etc. É uno strumento di educazione dell’attenzione, una sorta di modalità con cui impariamo a concentrare la nostra attenzione sul momento presente. É come voler educare la propria stessa mente a vivere, appunto, “momento per momento”, attraverso esercizi mirati rubati alle pratiche meditative più tradizionali.

La pratica della mindfulness ha l’obiettivo di farci dis-identificare dai nostri pensieri: noi NON siamo la nostra ansia, NON siamo la nostra tristezza: la tristezza ci passa attraverso, così come l’ansia, e poi se ne va. Per usare una metafora, è come se la nostra mente fosse un cielo blu, e i nostri pensieri e le nostre emozioni, le nuvole. Si tratta quindi di “de-fonderci” (cioè separarci, differenziarci) dalle nostre stesse emozioni (sia positive che negative) e dai nostri pensieri, considerandoli come graditi ospiti.

Per fare questo dobbiamo stare ancorati al momento presente, e per farlo, la mindfulness suggerisce di concentrarsi sul flusso del proprio respiro e di osservare i propri stessi pensieri avvicinarsi al proprio “cielo”, come dei testimoni oculari dei propri stessi pensieri.

La tecnica quindi propone di visualizzare il proprio respiro come un flusso dapprima inspirato, poi emesso, e di concentrare l’attenzione su di esso. Ogni qualvolta dovessero avvicinarsi pensieri negativi o ansie, lasciare che si avvicinino e poi gentilmente lasciarli andare, tornando a mantenere l’attenzione focalizzata sul respiro. Intanto si dovranno percepire i rumori ambientali, gli odori e gli stimoli visivi.

Un’altra immagine usata come metafora per chiarire lo stato mentale di mindfulness è quella del gatto impegnato a controllare l’uscio della tana del topo. Focalizzato sull’uscio nel muro, non eviterà tuttavia di percepire gli stimoli ambientali, e si volterà a osservare ciò che gi succede intorno, rimanendo però attento a eventuali movimenti del topo.

Questo, è per la mindfulness, stare nel presente in piena consapevolezza.

Ma da dove cominciare?

Un buon inizio può essere il libro “Qui e ora” di Ronald Siegel. Questo volume, corposo, rappresenta un compendio efficacissimo e scritto in maniera semplice per approcciarsi alla mindfulness.

È inoltre un manuale adatto sia a persone che vogliano introdursi al tema, sia a terapeuti che vogliano implementare la propria prassi clinica.

Vediamone alcuni punti:

  1. Siegel ha una capacità comunicativa molto efficace, usando spesso immagini chiare ed esemplificative; a inizio libro descrive la mente come un “cucciolo da educare”, ponendo l’accento sulla distraibilità stessa della mente (alcuni usano la formula “mente-scimmia”, a indicare l’estrema volatilità del pensiero); l’obiettivo della mindfulness è quello di educare l’attenzione a riportarsi, momento per momento, al presente e allo stato “attuale” del corpo; si lavora per “assestare” la mente
  2. a proposito di questo, Siegel osserva come la nostra mente sia spesso in balìa di reazioni automatiche in risposta a pericoli spesso solo immaginati; il risultato di questi automatismi è una mente proiettata sempre altrove nel tentativo di “prepararsi al peggio”; questo meccanismo è alla base dell’ansia, e fino a una certa soglia ha valore adattativo, dato che rappresenta un esercizio di coping e di risoluzione dei problemi della mente; oltre a “quella “soglia, diviene dispersione energetica e stress.
  3. esistono tre modalità di praticare la mindfulness: informale (nei tempi morti della vita quotidiana, integrandola ad altri gesti quotidiani come mangiare o camminare), formale (con sessioni quotidiane strutturate) e attraverso esperienze di ritiro (per esempio i ritiri “in silenzio”, della durata di 7 giorni)
  4. uno degli obiettivi della pratica di mindfulness, è la dis-identificazione dal proprio vissuto: dis-identificazione quindi dai proprio pensieri (io non sono il mio pensiero ossessivo) e dalle proprie emozioni (io non sono questa rabbia che sento); per favorire questo processo, vengono usati degli esercizi di body-scan (scandagliare il proprio corpo con l’attenzione) e di “nomenclatura” emotiva (come una sorta di affect labeling, di cui abbiamo qui già scritto)
  5. la pratica della mindfulness va a braccetto con l’ACT – Acceptance and Commitment Therapy; entrambe queste pratiche tendono a portare l’individuo a sviluppare compassione per sé stesso (per esempio nella depressione, in cui spesso troviamo un dialogo interno auto-critico molto violento)

Siegel, in questo libro, esplora diversi ambiti di sofferenza, dall’ansia/paura, alla depressione clinica, alle separazioni difficili. L’intero volume è pieno di esercizi da svolgere in modo autonomo, anche in solitaria. Il punto centrale del volume, è un cambio di prospettiva a riguardo dei sintomi: la mindfulness non insegna tanto a risolverli, quanto ad attraversarli/accettarli (per questo viene spesso usata nei casi di disturbo ossessivo-compulsivo).

Occorre ricordare tuttavia che la mindfulness andrebbe appresa sul campo, facendola, magari nel contesto di un corso dal vivo; con l’ausilio di un istruttore, l’apprendimento risulterebbe più duraturo e “incarnato”. Tuttavia, “Qui e ora” di Ronald Siegel rappresenta una potenzialmente perfetta premessa teorica alla pratica.

Qui per il libro su Amazon.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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3 February 2022

INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD

di Raffaele Avico

Un evento traumatico pone l’individuo nella situazione di confrontarsi quotidianamente con il suo ricordo; la mente si impegna nel gestire le recrudescenze della sindrome post-traumatica, il rivivere il momento del trauma, l’oscillare dello stato di allerta, che come sappiamo percorre un andamento a cascata, o a dente di sega.

Si parla spesso di cognizione negativa, di pensieri negativi rivolti a sé, a seguito di un trauma. Su questo blog abbiamo intervistato Rossella Valdrè (link) nel tentativo di comprendere se e in che modo esista, a seguito di un evento traumatico, una tendenza a ricercarne il ricordo dentro di sé, come presi da una forza masochistica, o paradossalmente per tentare di risolvere il trauma stesso -ricercandone appunto la presenza.

Abbiamo anche osservato come il ricordo traumatico sembri riempire il vuoto mentale quando la persona sta attraversando un momento di relativa tranquillità. Come accade per una dipendenza, è come se il ricordo traumatico tendesse a riempire ogni momento di libertà sperimentato dall’individuo. Alcuni individui sembrano addirittura insospettirsi a riguardo del loro sentirsi liberi, cosa che alimenta il ritorno del pensiero, in un meccanismo mentale ossessivo, con un bisogno estremo di controllo -che in realtà produce il perdere il controllo stesso.

Un aspetto relativamente poco esplorato, è l’evento traumatico come “elemento” agonistico, in grado di produrre in chi lo subisca un sentimento di resa. Il ricordo del trauma diviene talmente pervasivo e potente da generare negli individui un senso di sconfitta, di arrendevolezza, cosa che ricade immediatamente sul corpo.

La psicoterapia sensomotoria lavora per riportare nella mente del soggetto un senso di empowerment, a partire dal corpo.

Pensiamo solamente al lavoro che viene fatto sulla postura, sulla posizione della testa, sul lavoro di rinforzo del “core” del corpo dell’individuo, cosicché questo possa recuperare, psicologicamente, un senso di potere. Sembra in altre parole che una parte del lavoro di terapia, sia restituire potere all’individuo nei confronti del “nemico” interiore -verso cui questo percepisce una sensazione di resa impotente.

Lo stesso potremmo osservarlo negli approcci al PTSD tramite lo sport. Abbiamo qui approfondito le varie ipotesi sull’approccio al PTSD tramite l’attività fisica; i punti centrali sono due:

  • lo sport, rinforzando il corpo, procura una sensazione di auto-contenimento e maggiore potere percepito a livello anche psicologico; questo aiuta il soggetto a contrastare il senso di impotenza appresa nella traumatizzazione
  • lo sport espone il soggetto a variazioni nel tono di attivazione dell’arousal, a tachicardia indotta dall’allenamento; questo rappresenta un elemento di terapia espositiva in soggetti che temono il loro stesso attivarsi: parlando in prima persona, nel momento in cui l’attività fisica sarà cessata e mi troverò in uno stato di allarme indotto dal presentarsi del ricordo traumatico, sarà per me più semplice gestire il momento dell’allarme a livello corporeo, dato che padroneggio meglio le mie stesse alterazioni. É una forma di terapia espositiva (d’altronde in questi casi si parla di fobia degli stati interni)

Spesso si ha la sensazione in questi casi che il paziente fuoriesca dalla spirale del PTSD quando acquisisca sufficiente forza mentale da gestire il confronto con il ricordo traumatico, quando senta di aver raggiunto una posizione di dominanza su questo, rendendolo non più invalidante. Pensare che il ricordo scompaia o non esista più, non è realistico; ci troviamo invece spesso a che fare con persone che a un certo punto riferiscono di sentirsi sufficientemente corazzati per affrontare il ricordo traumatico, con meno conseguenze.

In altre parole, è come se nello scontro con un’entità nei confronti della quale ci sente in una posizione sottomessa, si acquisiscono nuove risorse, e una posizione “gerarchicamente”, progressivamente superiore.

A proposito delle modalità di fronteggiamento della sindrome post-traumatica per via “bottom-up”, ovvero a partire dal corpo per andare verso i pensieri, diversi studiosi nell’ambito (tra cui Peter Levine e Pat Ogden) osservano come il trauma rimanga per così dire “memorizzato” in senso somatico all’interno del corpo, e sostengono come sia proprio attraverso questo che dovrebbe essere “dissipato”.

Usare lo sport o la psicoterapia sensomotoria, rappresentano in realtà uno stesso strumento che viene modulato in modo differente; l’idea di fondo è che esistano delle tensioni/energie/movimenti rimasti “inespressi” nel corso della traumatizzazione, che debbano essere svincolati e liberati attraverso il corpo stesso.

In un certo senso, la sindrome “post-traumatica” rappresenta una forma di apprendimento che necessita di essere disappreso; le conseguenze di questo senso di minaccia e impotenza “appresi”, li notiamo nei macro-ambiti della mente (con tutti i vari sintomi più tipici del PTSD, come la riesperienza dell’evento traumatico, le cognizioni negative e il senso di “mortificazione”, l’arousal aumentato e il senso minato di sicurezza) e del corpo (con cambio della postura, alterazioni dell’arousal con diversi effetti sul corpo, senso di accelerazione e stato protratto di allerta, tachicardie indotte dall’accesso al ricordo traumatico, reazioni “fobiche” e contratture del corpo da iperattivazione dei sistemi di difesa, disturbi gastrici da attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, etc.).

La direzione del lavoro sul trauma andrà dunque intesa come un lavoro integrato che metta insieme il lavoro di psicoterapia partendo dai contenuti di pensiero per andare sul corpo (top-down), e il lavoro sul corpo che possa impattare sullo stato mentale (bottom-up).

Peter Levine osserva come negli animali esistano dei meccanismi innati che inducono un senso di “release” del vissuto post-traumatico, per via di un tremore “neurogeno”: ne abbiamo scritto qui.

Sulla scia di osservazioni di questo tipo esiste una metodologia bottom-up di approccio a particolari condizioni psichiche (compreso il PTSD), chiamato metodo TRE, fondato sull’induzione volontaria di tremore corporeo con una funzioni di scarico corporeo. Ne parla diffusamente David Berceli in questo libro tradotto da Riccardo Cassiani Ingoni, di cui pubblichiamo di seguito un’intervista:

In questa intervista, Riccardo Cassiani Ingoni spiega il razionale del metodo TRE, allargandosi anche su aspetti laterali della questione, coerenti con linee di ricerca psicotraumatologica molto attuali; nel corso dello sviluppo, per come avviene la maturazione in senso “neuro” del bambino, in caso di trauma è maggiormente probabile che quest’ultimo utilizzi difese “dissociative” che non invece una risposta di attacco/fuga, non possedendone i mezzi. In età adulta, di fronte a uno stimolo minaccioso, sappiamo che la prima risposta a essere messa in atto è una iperattivazione, quindi una risposta di fuga e, dove questa non sia possibile, di attacco. Solo nei casi dove questa non sia possibile, si arriva a una risposta di “collasso” concomitante a una dissociazione mentale. Nei casi dunque più complessi di trauma, maturati in ambito famigliare, è necessario tenere presente come un bambino che si adatti a un contesto vissuto come traumatico opterà più frequentemente per reazioni dissociative che non per reazioni di attacco/fuga -elemento questo da tenere in considerazione quando quello stesso bambino passi a un’età più adulta, magari avendo mantenuto lo stesso “stile“ di risposta.

A proposito del metodo TRE, che prevede l’induzione di tremori fisici al fine di arrivare a uno stato di “release” di tensioni accumulate nel corpo a seguito di (anche) eventi traumatizzanti, abbiamo posto alcune domande a Riccardo.

Ecco l’intervista.

Buongiorno Riccardo, ci vuoi raccontare chi sei, qual è stato il tuo percorso di formazione e di cosa ti occupi?

Ho conseguito la laurea in Scienze Biologiche a Pisa e poi un dottorato di ricerca in neurofisiologia negli USA, dove per sei anni ho lavorato come ricercatore presso il National Institutes of Health (NINDS-NIH), uno dei principali centri statunitense di ricerca biomedica. Mi occupavo prevalentemente di progetti clinici e di ricerca nell’ambito delle malattie neurodegenerative e delle lesioni cerebrali traumatiche.

Durante il mio soggiorno statunitense, oltre al mio impegno nella ricerca di base nel campo della neuroimmunologia, ho potuto frequentare numerosi corsi di formazione nel campo delle tecniche di gestione dello stress post-traumatico con varie metodiche di medicina integrata, di riflessoterapia, di massaggio, e di bio-neurofeedback.

Successivamente sono stato impegnato nel progetto NeuroLab del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) e per cinque anni ho anche condotto a Roma una pratica privata incentrata sull’utilizzo del bio-neurofeedback e del tremore neurogeno nella preparazione atletica.

Negli USA, durante uno dei corsi da me frequentati, ho incontrato David Berceli e ho avuto modo di conoscere il suo metodo. Dal 2007, al suo fianco, il mio impegno è stato dedicato alla ideazione e alla realizzazione del programma didattico sul metodo TRE, di cui conduco laboratori pratici e corsi di formazione in numerosi paesi del mondo, generalmente nell’ambito dei percorsi formativi offerti da varie scuole di formazione, associazioni professionali ed enti per la promozione della salute e del benessere.

Mi appassiona formare i professionisti del settore, insegnando come integrare l’approccio del tremore neurogeno con le loro altre competenze specifiche. Trovo il TRE un approccio naturale alla salute, un metodo efficace, versatile e appassionante, capace di essere applicato in qualsiasi contesto e in tutti gli ambiti rivolti al benessere della persona. Ciò si sposa perfettamente con le mie altre competenze in ambito neurofisiologico e nelle terapie naturali.

Riccardo, ci vuoi raccontare brevemente il razionale che muove il metodo TRE? Molteplici studi relativi al trauma indagano la ricaduta sul corpo del trauma stesso; mi vengono in mente per esempio gli studi di Pat Ogden relativi alla psicoterapia sensomotoria, alle tendenze all’azione rimaste inespresse all’interno del corpo a seguito di un trauma. Il metodo TRE vuole indurre un tremore neurogeno, per aiutare il paziente a scaricare queste tendenze e queste tensioni intrappolate nel corpo. Ci dici qualcosa a riguardo?

Il metodo si sviluppa attraverso una serie di esercizi fisici che hanno il fine di attivare una risposta fisiologica di vibrazione muscolare. Una volta indotta, questa vibrazione tende a procedere in maniera autonoma e ad irradiarsi ai diversi distretti corporei: solitamente il tremore di prima istanza tende a manifestarsi nella zona iliaca e nelle gambe, ma successivamente l’attività muscolare involontaria si propaga anche nei distretti superiori (torace, spalle, collo, mandibola, muscoli facciali), zone nelle quali possono ristagnare le emozioni non espresse. Attraverso la vibrazione involontaria si sollecitano pertanto quelle aree di “blocco” che sono frequentemente soggette ad un controllo nervoso inconsapevole e che pertanto operano cronicamente in uno stato di iper- o ipotonicità.

Ogni individuo possiede un proprio schema corporeo e l’innesco della vibrazione muscolare può innanzitutto aiutare la persona a svilupparne consapevolezza. Frequentemente infatti accade che alcune parti del corpo inizieranno a vibrare con facilità mentre in altre la vibrazione sarà molto più lieve o anche del tutto assente; altre volte ancora la vibrazione magari sarà presente in maniera uniforme ma il soggetto invece si accorgerà di percepirla diversamente, o addirittura di non riuscire a percepirla affatto, in alcune parti rispetto alle altre. Magari sarà quella la prima volta che la persona si accorge di esercitare un controllo inconsapevole su alcune parti di se, e già questa diversa percezione dei vari distretti corporei sarà di aiuto affinchè il soggetto possa sviluppare un contatto più intimo con il corpo. Proseguendo potrà imparare a rilassare o ad attivare maggiormente determinati muscoli, e questo lo aiuterà via via a sviluppare una percezione più armonica di se.

Questo metodo è stato sviluppato anche in seguito all’osservazione che tutti i mammiferi, incluso l’uomo, dopo un trauma innescano meccanismi biologici di auto-riabilitazione basati sull’emergere di una reazione di vibrazione muscolare (es. il cavallo da corsa dopo una caduta; la gazzella dopo un inseguimento). Si ritiene che questa sia una reazione importante di scarica dell’eccitazione neurofisiologica e che, se o quando, ciò non accade completamente allora il soggetto diventa maggiormente suscettibile a sviluppare tensioni da accumulo e manifestare sindromi post traumatiche da stress. In casi simili si osserva che la pratica del TRE può permettere la completa scarica dell’eccitazione fin lì trattenuta nel corpo. Si cerca pertanto di mettere in atto – di “sbloccare” – una risposta naturale, fisiologica del corpo che può avvenire solo al di là del controllo cosciente dell’individuo. Al movimento autonomo di tali muscoli ne consegue un loro parziale rilassamento che è spesso accompagnato anche dal riemergere in maniera gestibile di immagini o di memorie legate alle esperienze emotivamente significative. La conseguente riduzione del livello di arousal porta a uno stato vigile e tranquillo percepito globalmente come un’esperienza piacevole, motivante e rinforzante.

Riccardo ci vuoi dare qualche informazione in più in termini neuroscientifici, relativamente a questo metodo?

Il trauma o lo stress ripetuto frammenta la mappa originale interna del nostro corpo, per cui il nostro cervello si riorganizzerà in una maniera non ottimale, anche disconoscendo alcune parti di se fino a creare l’esperienza di vivere in modo disgregato e disorganizzato il nostro corpo e le nostre emozioni. Quando si attiva la vibrazione miofasciale si produce un nuovo stimolo al cervello che permette una corretta riorganizzazione delle vie nervose.

Sono almeno tre i meccanismi neurologici che contribuiscono a tale processo:
L’attività propriocettiva dei fusi muscolari durante la vibrazione muscolare genera un importante flusso di informazioni dai recettori muscolari e tendinei, attraverso i nervi periferici, alla corteccia cerebrale nella zona associativa e somatosensitiva. La stimolazione delle terminazioni libere ampiamente rappresentate negli strati interconnettivali della fascia stimola ulteriormente e più a lungo le vie sensoriali ascendenti. Soprattutto quando lo scuotimento corporeo interessa la zona addominale e toracica si amplifica la stimolazione delle vie proprie della interocezione (si intende con questo termine la percezione delle informazioni “interne”, quali il respiro, la peristalsi gastrointestinale, il senso di fame e sazietà, ma anche la cognizione del dolore e delle altre emozioni). Infine, si presuppone che anche l’attivazione degli archi riflessi tra vie sensoriali e motorie dei muscoli striati, che si interfacciano nel midollo spinale, crei un ulteriore stimolo midollare che viene convogliato prontamente al tronco dell’encefalo e da li al resto del cervello.

Per mezzo di registrazioni elettroencefalografiche ho potuto misurare le modificazioni dei ritmi cerebrali stimolate dalla fase attiva della vibrazione muscolare involontaria; dimostrando anche che tali modificazioni perduravano nel tempo post-vibrazione. Il cambiamento di alcuni ritmi corticali (nello specifico incrementi significativi del ritmo alpha, gamma, e del ritmo sensorimotorio nelle cortecce e centrali e parietali) mi hanno permesso di validare come la pratica del metodo abbia un forte effetto di stimolazione a livello corticale in un senso che è contrario rispetto a quelle modificazione che solitamente si osservano nelle persone diagnosticate con il PTSD. Questa potrebbe essere una delle principali ragioni del successo del metodo. La vibrazione miofasciale indotta dagli esercizi rappresenta quindi un importante intervento di stimolazione endogena di gran parte del sistema nervoso centrale e specialmente di quelle aree la cui corretta funzionalità permette alla persona di percepire con maggior efficacia e accuratezza il proprio corpo. In questo modo si viene ad instaurare un maggiore senso di connessione tra mente e corpo, migliorando la stabilità emotiva del soggetto.

Riccardo, quali sono i punti di forza e limiti di questo approccio metodologico?

È un metodo particolarmente utile quando la persona desidera partecipare attivamente al processo di cura personale e sviluppare le proprie risorse interiori. Può essere proposto e utilizzato in modi diversi a seconda delle finalità e della fase del processo terapeutico. Una possibilità è quella di proporlo come esercizio di rilassamento per aiutare a risolvere o migliorare un determinato sintomo come l’insonnia o il dolore articolare. Il metodo può essere utilizzato, come gli esercizi di base della bioenergetica, anche per aumentare il radicamento a terra e per prendere coscienza e sciogliere la corazza muscolare. 

La sessione di tremore potrebbe poi offrire l’opportunità sia al paziente che al terapeuta di comprendere come la persona senta e si relazioni al proprio corpo e dunque, su un piano simbolico, come stia al mondo, con quali bisogni e modalità. Sentire il piacere o al contrario il timore di un movimento spontaneo nel corpo, osservare come, sotto forma di vibrazione, ci siano delle parti di esso nelle quali l’energia fluisce liberamente e altre in cui si blocca, imparare a gestire le pause nel corso della sessione o la sua durata complessiva, raccogliere i vissuti legati al passaggio dalle esperienze di tremore condotte dal terapeuta a quelle svolte in autonomia a casa, sono alcune delle esperienze che aprono territori di ulteriore approfondimento. 

Altri punti di forza ritengo siano il fatto non sia strettamente necessario un contatto fisico col il paziente, fattore importante nel caso si dovesse lavorare su traumi legati alla sfera sessuale. Inoltre il metodo può essere agilmente implementato in un contesto di gruppo rendendolo quindi uno strumento versatile anche di primo intervento sul campo, specialmente quando il trauma colpisce un ampio numero di persone, come ad esempio nel caso di un terremoto.

È frequente però che ad un osservatore esperto le prime esperienze di tremore indotte con il TRE appaiano meccaniche, “muscolari”: la persona è alle prese con una nuova espressione motoria, un pó riesce a lasciarsi andare e un pó sente la necessita di mantenersi saldamente in controllo. Il soggetto è come se fosse “combattuto”: appare così concentrato e desideroso di “eseguire il giusto modo di tremare” che invece di lasciarsi andare trattiene involontariamente tutto il corpo in una postura rigida, che faticosamente vibra per effetto di quello sforzo. Perdere il controllo, anche se solo per un breve istante, equivale a farci sentire privati di un supporto e di conseguenza a disagio. Pertanto, nonostante il TRE sia nato come metodo autosomministrato, specialmente nella fase iniziale di pratica è invece importante avere uno sguardo competente che sappia guidare e accompagnare anche al fine di evitare la sovrastimolazione del sistema nervoso, quindi contenendo il livello di stimolazione entro limiti appropriati.
Sensazioni ed emozioni eccessive non sono sempre utili al fine di rimodulare efficacemente le nostre risposte automatiche; solo riconducendo costantemente la persona ad una esperienza più focalizzata e profonda, assistendola nell’attivare un movimento spontaneo autentico, focalizzandone l’interocezione e calibrando i tempi con opportune pause di integrazione, si farà sì che la persona si senta accompagnata e al sicuro nell’esperienza di lasciarsi andare al tremore. Solo allora il suo sistema nervoso potrà veramente integrare le energie in eccesso e ripristinare in maniera duratura una condizione di rilassamento fisico e mentale.

Riccardo, quali sono i migliori autori e le fonti principali attraverso cui approfondire questa metodologia?

La vibrazione muscolare come meccanismo di reset psico-fisico è trattata esaustivamente nei testi di psicoterapia bioenergetica di Wilhelm Reich e di Alexander Lowen. Ci sono molti aspetti in comune con quanto applicato nel TRE e alcune delle differenze si identificano forse nella maggiore attenzione che nel TRE si pone sulla componente neurofisiologica rispetto a quella psicologica. Questa maggiore attenzione alla componente fisiologica è coerente con le metodiche sviluppate da Peter Levine, Pat Odgen, Bessel Van der Kolk. I libri di David Berceli (che si trovano online principalmente in lingua inglese) sono un buono strumento per iniziare a comprendere sia le basi applicative del metodo e sia la complessità della sua applicazione. Ulteriori informazioni si possono anche trovare sul nostro sito dedicato www.metodotreitalia.com

Qui una presentazione di Riccardo Cassiani Ingoni. Sul metodo TRE, questo libro rappresenta un ottimo punto di partenza.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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10 January 2022

24 MESI DI PSICOTERAPIA ONLINE

di Raffaele Avico

Questo articolo rappresenta una riflessione personale sulla psicoterapia e sullo stato mentale degli individui che mi è capitato di consultare, come psicologo clinico, in quasi 24 mesi di periodo pandemico. Premetto che per me è stato un privilegio in senso umano poter lavorare con così tante persone, ognuna all’interno del suo mondo, unico, e ho trovato in questa esperienza un’occasione di estrema crescita personale, vista la quantità di lavoro assegnatomi in un periodo così peculiare.

Come tutti sappiamo, le prime avvisaglie del “problema pandemico” arrivarono sul finire di gennaio 2020, quando la notizia di un virus cinese cominciò lentamente ad apparire sugli organi di informazioni in Italia, per poi diventare altamente preoccupante già poche settimane dopo con i primi focolai, le prime profilazioni del virus, l’isolamento del “paziente zero” e l’avvio dello stato di eccezione/emergenza che ancora oggi viviamo.

Ad oggi siamo all’incirca a due anni dallo scoppio della peggiore crisi sanitaria da cinquant’anni a questa parte a livello mondiale, cosa che ha ovviamente trasfigurato l’intera realtà, le modalità con cui lavoriamo e comunichiamo, gli scenari urbani con cui quotidianamente ci confrontiamo, la realtà della salute mentale degli individui.

Con questa riflessione cercheremo di concentrarci su quest’ultimo aspetto, cercando di rispondere alla domanda: qual è lo stato della salute mentale degli individui, dopo due anni di adattamento forzato a uno stato delle cose di questo tipo? Quanto è reale e presente un problema anche di salute mentale, negli individui, a due anni dall’avvio di uno stato eccezionale a livello mondiale? Quali strascichi lascerà questo periodo sulla salute mentale dei cittadini? Cercheremo inoltre di riflettere sul mestiere dello psicoterapeuta, e su quanto anche in questo caso sia stato forte l’impatto trasformativo della pandemia.

Per approcciare una tematica così ampia suddividiamo gli aspetti del problema in due tipologie, ovvero gli aspetti clinici (che riguardano la presenza o meno di sintomi di natura psicologica nella popolazione), e tutti gli altri aspetti, più sfumati, connessi ad altre questioni/tematiche, sempre però collegati in modo diretto al tema “salute mentale”.

É innegabile che chiunque di noi abbia osservato l’evolvere della pandemia e delle misure messe in atto per contenerla in questi due anni, si sarò reso conto che siamo di fronte a un balzo storico, a un “cigno nero” di fronte a cui la Storia ci ha voluti testimoni. Il mondo ha subìto cambiamenti enormi in brevissimo tempo, su molteplici fronti: questo non può non avere delle conseguenze sulla mente di individui, abituati alla relativa stabilità del “prima”. Questa pandemia produrrà un prima e un dopo -come tutti i traumi sanno fare- nella nostra memoria. Ricorderemo per anni i primi mesi del 2020, così come la “seconda ondata”; ci troveremo in bocca e in mente espressioni che fino a pochi mesi fa sarebbe stato inimmaginabile dover imparare: chi avrebbe mai detto che in poco tempo saremmo divenuti familiari con concetti come l’RT, l’indice di trasmissione, il tema del testing e del tracking legato al Coronavirus, la branca medica della virologia in generale? Chi avrebbe immaginato nella sua vita di essere obbligato a rispettare un coprifuoco, entro uno stato di eccezione con diverse restrizioni tipiche di un periodo di guerra, di dover adeguarsi a una “sanitarizzazione” massiva della società, paralizzata al cospetto di un virus?

Partiamo dagli aspetti clinici:

  • come era ovvio aspettarsi, coloro i quali prima del Covid sembravano propendere per uno stile di vita caratterizzato da comportamenti “fobici”, non hanno avuto vita facile. Lo stesso potremmo dire per coloro che facevano del mantenimento di un “ordine pulito”, il proprio goal di vita (soggetti caratterizzati da una strutturazione mentale che potremmo chiamare ossessiva, o sofferenti di varie forme di DOC). La presenza di un virus invisibile potenzialmente pericoloso e di fatto poco conosciuto, scuote alle fondamenta ogni tentativo razionale di controllare la realtà che ci circonda, obbligandoci a un passaggio fondamentale, quello dell introiezione di una quota di fatalismo e di rischio, non accessibile a tutti. Mi sono spesso confrontato con persone che sentivano crescere il senso di allarme nei confronti della realtà esterna e del proprio comportamento finendo per auto-emarginarsi ancora di più di quanto prima già non facessero. Parliamo di un aggravarsi di forme di ritiro sociale e di evitamento, con persone chiuse in casa per mesi, eventualmente con brevi aperture all’esterno con l’approssimarsi dell’inizio della campagna vaccinale a inizio dell’ormai concluso 2021. La possibilità di lavorare da casa -ma questo è un tema molto vasto- può aver in questi casi legittimato comportamenti di auto-reclusione, rendendo socialmente accettabile qualcosa che prima del Covid non lo era. Abbiamo assistito dunque a una fase iniziale in cui chi si isolava già da prima, sembrava alleviato dall’idea che gli “altri” potessero comprendere il suo punto di vista, e in qualche modo legittimato nella propria risposta “difensiva” verso la società all’esterno; il senso di sollievo ha però rappresentato in questi casi solo la parte iniziale di un problema in realtà pregresso e più vasto, che in questo senso ha fatto solo incancrenire situazioni di isolamento sociale sviluppatesi prima dell’inizio della pandemia.
  • In relazione a questo primo punto, mi è spesso capitato di constatare un diffuso disinvestimento da tutto ciò che è esterno, indotto dalle restrizioni sanitarie in un primo tempo, poi cronicizzato in forme sfumate e differenti per ognuno. Quello che intendo dire è che -nel prossimo futuro- non è automatico che la fuoriuscita da una condizione di restrizione sociale, produca un naturale ritornare all’esterno come conseguenza ovvia; molte persone in questi 24 mesi hanno riscoperto l’ambiente di casa loro, guardandolo con occhi diversi, forzati dall’obbligo di farlo, come bambini costretti a non uscire e in grado di rendere il piccolo mondo entro il quale fossero chiusi un luogo nuovo, un teatro di sperimentazione. La casa ha assunto una rappresentazione differente, è passata per qualcuno da essere house a essere home, per dirla in senso psicodinamico è stata oggetto di maggiore attenzione, di maggiore investimento libidico; al ritorno della possibilità di vedere persone ed eventualmente viaggiare, molti individui hanno realizzato quanto fosse mortificata la parte di sé che in altre epoche li avrebbe spinti a esporsi fuori, a uscire dalla propria zona di comfort. Parliamo di una sorta di mortificazione della parte esplorativa, un po’ come effetto post-traumatico, un po’ come conseguenza di un restringimento dei confini della propria realtà operato in modo dapprima coatto, poi in qualche modo attivamente mantenuto tale.
  • un altro problema di questi 24 mesi, indubbiamente, è stato il sonno. L’insonnia è divenuta qualcosa di normale, di endemico; ci sarebbe da chiedersi se già prima non fosse così e se la pandemia non abbia solo fatto uscire allo scoperto alcuni aspetti finora rimasti per così dire nascosti. Le cause dell’insonnia sono le più variegate; quando non dipendono da cause mediche, le cause di origine psicologica vanno ricercate nei problemi correlati alla gestione dello stress. L’insonnia si manifesta quando la mente non conceda un abbandono reale, in presenza di uno stato protratto di allarme o di minaccia percepita. Su questo blog abbiamo più volte parlato di fear response, di post-trauma, di disturbo dell’adattamento; possiamo immaginare l’insonnia come il risultato di una mente che non possa concedersi il lusso di uno stato di ristoro completo nel contesto di un luogo (mentale) non sperimentato come sicuro. Per certi versi è come se il cervello fosse impegnato in una risposta di difesa anche quando non ce ne sarebbe la reale necessità. La risposta di difesa accade in concomitanza con una risposta autonomica del sistema nervoso simpatico, completamente slegato dalla nostra volontà cosciente, al di fuori del nostro controllo. Un sistema nervoso che non può spegnersi ci impedisce di abbandonarci a un sonno ristoratore. A questo punto bisognerebbe aprire il grosso capitolo delle cause di questa ipereccitazione del sistema nervoso; qui è forse più importante sottolineare come in questi ultimi 24 mesi tutti noi si sia stati esposti a continui, dalla mattina alla sera, stimoli potenzialmente traumatici e nocivi per la salute mentale. Non che questo non fosse per certi versi obbligatorio o evitabile; è opportuno però ricordarci quanto negli ultimi due anni le informazioni passate di prima mano attraverso il passaparola, o per via mediatica, siano state per lo più allarmanti. La mente di ognuno di noi si è confrontata per due anni con micro-minacce costanti relative a possibili contagi, all’instabilità del Paese, ai continui cambi di scena difficilmente prevedibili; è più che probabile che questo abbia avuto conseguenze anche sulla qualità del sonno; parliamo di un’insonnia procurata, in realtà, da un problema di adattamento a una realtà percepita come non prevedibile per troppo tempo, un disturbo cioè dell’adattamento (come vedremo nel prossimo punto). La nostra mente ha bisogno di prevedibilità e routines; in assenza di queste, alle prese con situazioni troppo caotiche, tende a sviluppare forme di adattamento di vario tipo, e con diversi livelli di “successo”, lungo un continuum che va dalla paralisi pseudodepressiva (si veda su questo l’esperimento dei cani depressi di Pavlov, apparentemente depressi, in realtà post-traumatizzati), a una condizione di crescita post-traumatica (questo lo vedremo in seguito in questo articolo). Sappiamo che in condizioni di prevedibilità scarsa e trauma, la mente tende per prima cosa ad attivarsi in senso difensivo, per poi in alcuni casi collassare in forme simili-depressive che in realtà sono dei comportamenti di resa. Lo spiega molto bene il modello a cascata che qui abbiamo più volte approfondito
  • collegato a questo punto, il disturbo dell’adattamento. Giovanni Tagliavini ne scrive in questo post pubblicato su questo blog, e ne ha parlato di recente in modo efficace Valerio Rosso. Il punto centrale del disturbo dell’adattamento, è la presenza di micro-stressor diluita nel tempo per un periodo non definibile o non prevedibile. Pensiamo a chi debba convivere con la gestione psicologica di una malattia invalidante, o alla pandemia in atto. Ci troviamo ogni giorno di fronte a possibili cambi di scenario a cui dobbiamo adattarci di volta in volta. Il disturbo dell’adattamento si struttura come una risposta inefficace di fronte a eventi esterni non prevedibili. È la forma più sottile e allo stesso più attuale e importante di risposta post-traumatica. Parliamo non tanto di un singolo evento traumatico in grado di toccare la mente di un individuo creando un prima e un dopo; la cosa difficile in questi casi è creare delle isole di controllo in un contesto esterno percepito come totalmente imprevedibile o pericoloso. Una parte della responsabilità, in questi due anni, abbiamo purtroppo constatato essere da attribuire al lavoro dei media, iatrogeno nei suoi effetti, spinto da interessi economici venduti come “necessità di informare”, in realtà impulsivo e tossico -con ovviamente eccezioni importanti, come il Post o singoli divulgatori come Enrico Bucci, moderati nei toni e poco impulsivo/emotivi.
    Il disturbo dell’adattamento è un adattamento non riuscito a una realtà percepita come non prevedibile, con diverse conseguenze sul piano psicofisico; il senso di impotenza che procura diviene rapidamente somatico, generando spesso un senso di sconforto non raramente confuso con depressione. Parliamo in realtà di un problema di “empowerment” e di gestione dello stress.
  • negli ultimi due anni ci siamo dovuti adattare a diverse restrizioni e cambi di abitudine; adattarci a una regime di costruzione e rinunce, non è stato semplice anche in termini di psicologia della coppia. Sono venuti improvvisamente a mancare i punti di fuga funzionali alla tenuta del “sistema coppia”, gli sfoghi necessari alla tenuta della coppia stessa. Il lockdown ha improvvisamente generato un obbligo di convivenza estremamente ristretta, per lo più a fronte di una realtà esterna allarmante; il clima famigliare ne è stato obbligatoriamente alterato, con conseguenze sui singoli elementi della coppia, e a cascata sui figli.
  • Tornando alla questione post traumatica, c’è da sottolineare il problema di coloro che hanno sperimentato in prima persona un ricovero per Covid, magari in una terapia intensiva. Qui troviamo individui con un PTSD conclamato, netto. Il PTSD inteso in senso più “normale”, rappresenta la risposta a un singolo trauma acuto, arrivato a creare uno spartiacque nella vita di chi lo subisca. Al di là dunque del periodo storico, troviamo qui persone realmente minacciate nella propria sicurezza dal Covid. L’esperienza di un ricovero in una condizione di isolamento sociale, o ancora peggio un’esperienza di intubazione e di fame d’aria, rappresentano esperienze altamente traumatiche in grado di procurare PTSD con tutti i sintomi annessi, anche per molto tempo dopo il loro accadere. Qui lo abbiamo spesso ripetuto: il trauma si produce nella compresenza di immobilità e terrore estremo, due elementi presenti insieme in un’esperienza di ricovero con intubazione da Covid. Su questo si vedano gli studi di Delfina Janiri per approfondire, tra cui questo.

Andando invece sugli aspetti meno evidentemente clinici, quali conseguenze hanno avuto questi 24 mesi sulla mente degli individui? Quali aspetti “sfumati” o poco evidenti hanno invece saputo impattare sulle nostre abitudini, sul nostro stile di vita?

Proviamo a raggruppare qui alcune osservazioni:

  • la realtà e le abitudini quotidiane hanno subìto negli ultimi due anni profonde trasformazioni; ci siamo abituati a immagini perlomeno inquietanti progressivamente divenute normali: le immagini di una società adattata a un periodo eccezionale, pandemico; mascherine, distanziamento; vedere persone dopo molto tempo e trovarle cambiate, fuoriuscite dal proprio personale percorso di adattamento al periodo pandemico, magari dopo anni. Questo ha un impatto, anche se difficilmente misurabile, in termini di qualità della vita percepita, di minacciosità della realtà esterna.
  • Il fatto che la realtà esterna imponga un adattamento coatto, produce delle reazioni di sovra-compensazione: questo lo spiega molto bene Nassim Taleb nel libro Antifragile. I sistemi complessi (come siamo noi, e come lo è la società) rispondono spesso in modo attivo a uno stressor, iper-compensando e in realtà attivandosi, evolvendo. Taleb la chiama proprietà di antifragilità, un concetto molto simile a quello di crescita post-traumatica. Abbiamo avuto negli ultimi mesi sentore di qualcosa in procinto di accadere, o un senso di “niente sarà più come prima”. Non sappiamo tuttavia -nel momento in cui dovesse calare il senso di urgenza o di paura, o l’adattamento alla realtà pandemica si spingesse troppo in là in termini di tempo- quanto una “reazione positiva” o “antifragile” possa continuare senza lasciare il posto in realtà a un senso di collasso, a un’implosione sia a livello di energie del singolo individuo che in termini di società presa nella sua interezza. Quello che intendo dire è che l’adattamento alla realtà della pandemia ha generato delle difficoltà nella gestione dell’energia individuale, da un lato spingendo le persone a muoversi per compensare, dall’altro svuotandole, con poco equilibrio generale in termini, appunto, di “management” energetico.
  • Un aspetto non troppo dibattuto o osservato, è il senso di precarietà esistenziale. Già prima del Covid il tema “precariato” era dibattuto e se ne parlava spesso a livello sociale; potremmo partire per tracciarne la traiettoria forse dal 2001, con l’evento dell’11 settembre, passando per il 2008 e l’inizio simbolico di un periodo di crisi economica, per arrivare al 2020 e la pandemia. Questi eventi hanno minato alla base diversi assunti che la generazione dei nati negli anni ’80 (che oggi rappresenta -in teoria- la classe dirigente e insieme una nuova leva di genitori) portava con sé, ereditata dalla generazione precedente; alcune convinzioni sono state messe progressivamente in discussione, dall’idea che la laurea portasse un lavoro sicuro nel contesto di una crescita economica infinita, per arrivare a una generale messa in discussione del senso di sicurezza sociale, minato dal terrorismo. Mettiamoci insieme anche il tema emergente della crisi climatica. Tutto questo rientra quotidianamente nei pensieri dei cittadini, parallelamente ai temi prima riportati, connessi alla pandemia, alimentando ulteriormente il senso di allarme.
  • 24 mesi di pandemia hanno coinciso con molto tempo passato in una condizione di reclusione. Per comprendere il vissuto di chi sia obbligato a stare in casa in modo forzato, abbiamo mesi fa approfondito alcuni aspetti della psicologia della carcerazione. Qua è possibile trovare i due articoli. Il tema del senso da attribuire all’esperienza della reclusione (“pur sempre tempo di vita”) così come un certo aiuto ottenuto dalle routines e dall’attività fisica, sono i punti centrali della questione.
  • Uno dei temi più importanti ultimamente, è stata la gestione dell’energia individuale connessa alle abitudini legate allo smart working. Come psicologo clinico mi sono confrontato quotidianamente in questi mesi con molte persone alle prese con un cambio praticamente totale delle abitudini di vita; giornate passate interamente a casa, soprattutto in città, trascorse lavorando e alternando tempo libero a tempo trascorso in rete; il tempo trascorso online è stato ovviamente aumentato dalle restrizioni; le persone si sono ritrovate per molto più tempo quotidianamente esposte a tutto ciò che proveniva dalla propria rete virtuale, compresi i Social. I rischi dell’uso smodato di Social sono sempre più evidenti, sia per lo sviluppo di addiction, che per il rischio di overload cognitivo (ne abbiamo scritto qui), che per il rischio di una radicalizzazione “ricorsiva” del pensiero. Se i software e gli algoritmi sono progettati appositamente per profilare e proporre agli utenti cose che già sanno, al fine di agganciarli con più forza a fini commerciali, è naturale che noi si osservi una radicalizzazione sempre più estrema del pensiero, soprattutto all’interno di certe fasce della popolazione -meno equipaggiate di pensiero critico. Tutto questo è, presa molto alla larga, un rischio per la tenuta sociale.
    Le giornate trascorse online e lavorando hanno creato diversi punti problematici: la reperibilità continua, la difficile separazione vita lavorativa/vita privata, un difficile “time boxing“, l’assenza di privacy durante le ore di lavoro; ultimamente le aziende sembrano aver introdotto maggiore regolamentazione con un più esplicito “diritto alla disconnessione”. È la vita liquida nella sua forma più estrema, senza nessun tipo di struttura o infrastruttura a salvaguardare lo stato mentale di individui in balia di pressioni lavorative rimaste inalterate, quando non aumentate. Dopo due anni osserviamo posizioni diverse, individui che hanno reagito in modo assolutamente personalizzato, in un continuum con da un lato i lavoratori finiti in burn-out, dall’altro gli entusiasti del lavoro da casa, a detta loro maggiormente produttivi e con più tempo per sé, di fatto con meno stress percepito. Tutto questo è arrivato per restare, e lo porteremo nella nostra vita quotidiana anche quando la pandemia sarà conclusa.

Oltre a questi aspetti riguardanti gli individui, è interessante fare alcune osservazioni a riguardo del lavoro da psicoterapeuta.

In questi 24 mesi ho personalmente cambiato ogni abitudine riguardante il lavoro da terapeuta. Dopo due anni mi rendo conto di come il lavoro online si presti a un lavoro di psicoterapia altrettanto efficace, ma di tipo diverso. Il lavoro di psicoterapia online ha regole e modalità diverse; voler rimanere aderenti a una concettualizzazione classica del setting, rischia di farci perdere le possibilità che questa tipologia di lavoro porta con sé.

Nei primi sei mesi del 2020 abbiamo osservato una reticenza ad accettare l’avvento di una tipologia di sedute fatte online, da parte della comunità più ortodossa del gruppo degli psicologi clinici, spesso di derivazione psicoanalitica. Da parecchio tempo la comunità psicoanalitica tenta di mantenere vivo il fuoco sacro del setting freudiano, di fatto chiudendosi a contaminazioni che le sarebbero vitali, visto il suo lento scomparire progressivo a favore di approcci più moderni (anche se non necessariamente più efficaci). In seguito, dopo i primi mesi di pandemia, anche tra questi colleghi sembrò farsi strada l’idea che qualcosa si potesse fare, e che il lavoro di supporto dovesse continuare anche durante la pandemia -anzi, soprattutto durante la pandemia.

Alcune osservazioni sul tema:

  • il lavoro degli psicologi clinici è in questi due anni aumentato in modo vistoso, essendosi moltiplicata la domanda di ascolto da parte delle persone, per lo più rinchiuse in casa. Personalmente collaboro con il Centro Medico Santagostino di Milano, che come qui approfondito ha aumentato in modo esponenziale il lavoro di psicoterapia online, arrivando ad aprile del 2020 a erogare più di 17000 colloqui di psicoterapia mensili (con un’equipe di più di 300 psicoterapeuti); questo ci dà una prima impressione di quanto il lavoro di supporto sia stato necessario, soprattutto in quella fase di emergenza; attualmente, la “curva” delle richieste di terapia sembra crescere in modo continuativo
  • negli ultimi due anni (e in particolare nelle prime fasi della pandemia) sembra esserci stato uno sdoganamento delle tematiche legate alla salute mentale, anche a partire dalle istituzioni, con la conseguenza di avvicinare persone che mai avrebbero pensato di chiedere una consultazione con uno specialista, all’ambiente della psicoterapia. Questo è stato possibile anche grazie ai prezzi calmierati delle piattaforme che hanno cominciato a erogare ed erogano psicoterapia (con costi intorno ai 40 euro -teniamo presente che per una città come Milano i costi superano spesso gli 80€).
  • le piattaforme di psicoterapia (Centro Medico Santagostino, Serenis) hanno popolarizzato la psicoterapia, raccogliendo un bisogno che il sistema sanitario pubblico, al momento, non è in grado di soddisfare, vista la situazione degradata in cui versa, con pochissimi psicologi assunti in Asl e psicoterapie necessariamente brevi (qui un approfodimento su questo).
  • il setting del lavoro dello psicoterapeuta online, è un setting differente dagli altri. Vi sono vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono rappresentati dalla comodità di fruizione del servizio e dalla minore intrusività di un incontro mediato dal device tecnologico, che permette un contatto oculare meno diretto, più mediato appunto. Da molte parti è arrivata l’osservazione che una seduta di psicoterapia fatta di fronte a uno schermo, sembri essere stata in grado di favorire la riflessione e la libera associazione, un po’ come quando, dal vivo, si usa un lettino (che evitando il contatto oculare, lascia il paziente in compagnia del suo pensiero, libero di ragionare e associare). Come vantaggio/svantaggio, potremmo indicare la possibilità di evitare di esporre il proprio corpo: non a tutti i pazienti piace, pur rappresentando una fonte di informazione notevole per il terapeuta.
    Questo tipo di colloqui, introducono il terapista all’interno dell’ambiente quotidiano del paziente, come fosse un colloquio a domicilio, riportando il “contesto” del paziente all’interno del lavoro di esplorazione psicoterapica, fornendo insomma informazioni ed elementi in più. Resta da capire quanto in realtà al paziente possa essere di giovamento non staccarsi dal suo ambiente di appartenenza: la psicoterapia dovrebbe rimanere un luogo protetto, “altro”, uno spazio che, per interferire con la vita nella sua quotidianità, dovrebbe essere percepito appunto come un “altrove”, spesso rappresentato dallo studio dello stesso terapeuta.
    In breve, ci sono vantaggi e svantaggi. La psicoterapia online dovrebbe essere considerata un modo della terapia, una modalità di esplicarsi del lavoro del terapeuta, con caratteristiche peculiari, da declinare a seconda del problema portato dal paziente (per esempio un paziente gravemente traumatizzato che necessiti di EMDR, troverebbe più benefici da un percorso effettuato dal vivo). Consideriamo infine i vantaggi generali della comodità fisica, e del minore costo.

ASPETTI CONCLUSIVI

Viste le questioni prima elencate, mi sembra interessante poter aggiungere alcuni punti di riflessione intorno al tema “psicoterapia e salute mentale” relativamente a questo periodo, ormai “eccezionale” da due anni a questa parte:

  • la salute mentale rappresenta un punto centrale della vita di un Paese: la pandemia ce lo ha ricordato, e ce lo ricorderà soprattutto quando l’”iper-compensazione” da evento traumatico avrà lasciato definitivamente il posto alle reazioni simil-depressive, cosa che sta già avvenendo; il fatto che gli organi di governo non colgano come centrale questo aspetto, è purtroppo un segnale nefasto; mi riferisco con questo al taglio del “bonus psicologo”
  • la socialità, la cura della propria salute psicofisica, le sindromi da reclusione, sono aspetti eclatanti di questo periodo, ma non sono gli unici; difficili da “misurare” ma altrettanto importanti, gli aspetti sfumati, la difficoltà di staccare da un lavoro estremamente richiedente, lo stress da iper-reperibilità e il disturbo dell’adattamento, il disinvestimento dall’esplorazione; di questo ci si dovrà occupare centralmente nei prossimi mesi, in termini di salute mentale, oltre ai “macro-temi” del post-trauma e delle generiche “sindromi ansioso-depressive”
  • la cura della comunicazione e del modo in cui viene fatta, è un punto importante; si spera che questa pandemia produca una crescita in questo senso, verso uno stile comunicativo che metta al centro la qualità dell’esperienza del fruitore anche in senso emotivo; l’impressione è che il giornalismo attuale sia sempre più condizionato da logiche di tipo economico, finendo per diventare entertainment: personalmente mi chiedo sempre più di frequente quanto un articolo sia scritto in un certo modo per raccontare il “vero”; o invece non voglia solo vendermi un trigger per un’emozione che mi spinga ad acquistare qualcosa o a reagire di pancia concedendo altro tempo e attenzione alla piattaforma che me lo propone. Per fortuna è in atto anche in questo settore uno sfoltimento in un certo modo “darwiniano”, con testate premiate o meno dal livello di qualità e valore prodotto.

Qui un approfondimento ulteriore.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.

Article by admin / Editoriali / psicotraumatologia, raffaeleavico

7 January 2022

LA TOSSICODIPENDENZA COME TENTATIVO DI AMMINISTRARE LA SINDROME POST-TRAUMATICA

di Raffaele Avico

Se la lotta quotidiana dei pazienti con PTSD si gioca nel tentativo di evitare l’affiorare e il ripresentarsi delle memorie traumatiche, nel comportamento di evitamento osserviamo anche il ricorrere compulsivo a comportamenti che diviene simile a un comportamento di (tossico)dipendenza.

Nel momento in cui il “vuoto” mentale o la noia divengono il territorio entro il quale c’è il rischio che riaffiorino pensieri disturbanti e ricordi negativi, evitare quello stesso vuoto diviene mandatorio, inevitabile. É il caso dei pazienti che preferiscono uno stato costante di alterazione o narcosi indotte da una sostanza, o lo stato simil-dissociativo indotto -per esempio- da un uso continuo, magari blando, di alcol, ai fini di evitare la lucidità di chi “capisce troppo”.

Evitare la lucidità equivale a voler evitare quello che quella lucidità porta con sé. Meglio per questi pazienti permanere in uno stato leggermente, costantemente dissociato.

Questo porta con sé due vantaggi:

  1. da un lato il paziente sente di meno il presentarsi delle memorie traumatiche, che affiorano ma hanno un diverso impatto sulla coscienza (sono meno taglienti: consideriamo come l’emergere stesso di un ricordo troppo vivido possa costituirsi, in sé, come ulteriore esperienza traumatica, che riapre la ferita originaria e per così dire la alimenta)
  2. permanere in uno stato simil-dissociativo sembra essere diventato coerente con la struttura di personalità del paziente: paradossalmente questi soggetti trovano la loro “integrazione”, il loro momento di realizzazione, nell’auto-indursi uno stato volutamente dissociato; questo stato mentale di lucidità “ridotta” appare come luogo confortevole entro cui vivere il presente, non più soggetto ai continui attacchi di una lucidità post-traumatica. Pazienti con dipendenza da eroina descrivono la “bolla” come uno schermo che consente loro di sentire meno, di ferirsi meno a causa degli attacchi inferti dalle memorie traumatiche.

In questi casi la sostanza elettiva (scelta dal paziente), diviene psicofarmaco auto-somministrato al bisogno, a cui nel tempo si diviene dipendenti.

Permanere in uno stato di lucidità protratta potrebbe portare questi pazienti al presentarsi di sintomi dissociativi e panico: per contrastare la forte attivazione neurovegetativa la sostanza diviene “pharmacon”, cura e veleno in assenza di altre possibilità terapeutiche.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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21 December 2021

PSICHEDELICI: LA SCIENZA DIETRO L’APP “LUMINATE”

di Raffaele Avico

Su questo blog abbiamo già parlato di psichedelici: qui alcuni link ad articoli precedenti che introducono all’utilizzo di MDMA nel trattamento della sindrome post traumatica.

Negli ultimi tempi sono frequenti i riferimenti in letteratura a un presunto rinascimento psichedelico, un’ondata di rinnovato interesse per l’utilizzo di sostanze psichedeliche in voga già negli anni ‘60, ora reintrodotte o in procinto di essere introdotte nella farmacopea psichiatrica.

Si veda inoltre:

  1. mdma per ptsd
  2. sul rinascimento psichedelico
  3. Lucid (news in tema psichedelici)

L’idea è che, sostanzialmente, le sostanze psichedeliche possono offrire un ingresso velocizzato al mondo interno del paziente nel contesto di una psicoterapia strutturata.

Un aspetto non nuovo, ma relativamente meno dibattuto, è l’utilizzo di strumenti alternativi per indurre stati alterati di coscienza non mediati da sostanze psicotrope, come le esperienze di deprivazione sensoriale e la luce stroboscopica come induttore di stati di pseudoallucinazione.

Vice ha recentemente pubblicato un articolo a proposito di una nuova applicazione per telefoni cellulari, scaricabile sia in ambiente apple che android, che promette induzione di stati alterati di coscienza e potenziali effetti ansiolitici e rilassanti: Luminate.

L’applicazione è scaricabile qui.

A proposito dei suoi effetti e del suo utilizzo rimandiamo all’articolo di Vice, da leggere per meglio comprendere il seguito di questo post.

Tentiamo ora qui un approfondimento per punti degli aspetti scientifici che ne possano giustificare l’utilizzo.

  • l’applicazione prevede che il soggetto che ne voglia fare uso si “somministri” il ciclo di emissioni di luce dinnanzi agli occhi chiusi a una distanza variabile dai 10 cm ai 30 cm, a seconda di quanto intensa voglia sperimentare la sensazione di stimolazione (con il telefono vicino alle palpebre chiuse degli occhi, la stimolazione luminosa risulta molto intensa)
  • i pattern luminosi e le forme evocate dalla luce stroboscopica a cui il soggetto viene sottoposto, producono l’impressione graduale che alla vista, su sfondo nero -dato che ovviamente la si usa a occhi chiusi-, si sviluppino forme geometriche e frattali luminosi e che questi si manifestino in una sorta di sequenza fluida, guidata dal variare della frequenza della luce proiettata dal flash dello smartphone sul quale la si utilizza
  • le sensazioni riportate dalla maggior parte dei fruitori riguardano non tanto esperienze realmente allucinatorie (dato che l’app non è in grado di procurarle) quanto un’alterazione dello stato di coscienza propedeutico alla “dissoluzione” identitaria spesso ricercata dai fruitori, nell’idea di un possibile accesso a una realtà “altra”, interiore, dis-intermediata dai consueti strumenti cognitivi (il linguaggio e le immagini). In altre parole, la stimolazione luminosa sembra in grado di indurre uno stato “ipnagogico” in condizioni di sicurezza, o uno stato pseudo-dissociativo nel corso del periodo di immersione nell’esperienza
  • nei crediti dell’applicazione e sul sito che la vuole presentare, viene citata la mission degli sviluppatori, nonché descritta la fase iniziale di sviluppo dell’app, partita dallo studio di “centinaia di articoli scientifici inerenti lo sciamanesimo, la deprivazione sensoriale, l’ipnagogia”[..]”per poi, unendo i puntini” arrivare al concetto-chiave di “sincronizzazione” sensoriale. In fisica è noto il fenomeno dei due pendoli che, posti uno di fianco all’altro, arrivano a sincronizzare il loro movimento. Fino a poco tempo fa, come qui approfondito, sembrava difficile spiegare il fenomeno; ora sappiamo che l’evento è da imputare all’emissione di onde sonore da parte dei due pendoli, che modellano i rispettivi movimenti oscillatori portandoli a sincronizzarsi. In molteplici altri ambiti in natura accadono fenomeni di “sincronizzazione” spontanea. In questo caso, gli sviluppatori del software sostengono che attraverso la stimolazione effettuata sui neuroni -per via delle vie nervose afferenti al cervello dagli occhi- fatta a una certa frequenza, si possa indurre gli stessi neuroni a sintonizzarsi nella loro “attività” con la luce stroboscopica erogata dall’app, con diversi effetti neurobiologici e “psichedelici”/psicotropi, elencati qui di seguito:
  • 1) aumento della “variabilità” del funzionamento neuronale, un parametro questo in grado idealmente di spiegare un livello più o meno “alto” del funzionamento della coscienza. Si veda questo articolo per un approfondimento. A grandissime linee, un aumento della complessità nell’interazione reciproca dei neuroni in alcune aree cerebrali è in grado di elevare lo stato di coscienza. Qui avevamo parlato di un indice potenzialmente in grado di misurare il grado di complessità e di “presenza” dello stato di coscienza, indagato in particolare dal gruppo di lavoro di Giulio Tononi (per un approfondimento).
  • 2) diminuzione dell’attività cerebrale relativa al “default mode network”. Del DMN avevamo scritto qui. Il Default mode ci aiuta a mantenere la concezione soggettiva di un Sé unitario, e ci consente di narrare noi stessi a noi stessi. Esercita in altre parole un lavoro di coordinamento narrativo, tale per cui noi si ha l’impressione di essere sempre le stesse persone nel tempo. Una riduzione del suo funzionamento, produce una dissoluzione identitaria, una perdita in qualche modo dell”io”, fenomeno ricercato attivamente dagli psiconauti attraverso l’assunzione di sostanze psichedeliche, e che questa app promette di produrre. Per un approfondimento su questo aspetto si veda il modello teorico Rebus
  • 3) aumento della connettività funzionale. La connettività funzionale riguarda la correlazione temporale fra due eventi neuronali spazialmente distanti; la si studia osservando “cosa fa” il cervello in risposta a determinati stimoli sensoriali o processi cognitivi; è un indicatore che ci racconta di come le varie parti del cervello comunichino tra di loro, e sotto l’effetto di allucinogeni subisce delle variazioni (come qui approfondito). Gli sviluppatori dell’app sostengono di garantire un effetto di incremento della connettività funzionale (che si verifica sensibilmente sotto effetto di sostanze psichedeliche, come qui largamente approfondito), anche attraverso l’uso di Luminate.
  • 4) riduzione delle onde Alfa cerebrali durante la stimolazione stroboscopica. Questo effetto è stato documentato anche in altre circostanze di ricerca, con altre sostanze (per esempio si veda qui); il collasso delle onde cerebrali Alfa lascia spazio a un funzionamento cerebrale più simile a quello osservato durante il sonno, cosa che si osserva in concomitanza con la sensazione di entrare in una dimensione “altra”, come si sognasse.

LUCIA N. 03

Cercando materiale in rete, scopriamo che anni fa un esperimento del genere era già stato fatto, nel progetto austriaco Lucia N.03; uno degli articoli citati sul sito di Lucia N.03 è questo, in effetti molto mirato.

L’allucinazione indotta da luce stroboscopica è stata qui indagata usando lo strumento prima citato (Lucia N.03), che sostanzialmente ha un funzionamento sovrapponibile a Luminate con alcuni punti di varazione. Lo studio ha raccolto un campione di 19 giovani universitari che sono stati sottoposti a un trattamento con Lucia N.03 (modulando diverse frequenze nell’erogazione dell’impulso luminoso, ovvero 0 Hz -cioè il buio-, 3 Hz e 10 Hz, ogni volta per 10 minuti) e indagati con EEG. 1 Hz corrisponde a un impulso luminoso al secondo.

Ne ricaviamo quanto segue:

  • la somministrazione di luce stroboscopica produce un’alterazione del funzionamento cerebrale simile a quella osservata assumendo sostanze psicotrope; in particolare è in grado di far crollare la presenza di onde cerebrali alfa (come prima accennato).
  • Sottoposti a questo test, le analisi statistiche indicano la percezione da parte degli intervistati di uno stato di coscienza soggettivamente esperito come alterato (“​​The subjective intensity of experience for both stroboscopic conditions was substantially higher than for the Dark condition”), e in modo differenziato a seconda dell’intensità della somministrazione (“While there were some commonalities in experience between 3 Hz and 10 Hz, they also differed in terms of intensity and across many ASCQ dimensions, indicating that each stimulation frequency produced distinct phenomenal states”)
  • sempre riferendosi al test prima citato, i ricercatori paragonano i risultati ottenuti con Lucia N.03 a quelli ottenuti assumendo psilocibina (funghi allucinogeni), trovando risultati simili (“Together, these results suggest that the changes in experience and phenomenal content – as reflected by the ASCQ – reported during 3 Hz and 10 Hz stroboscopic stimulation showed some similarities to those following the ingestion of psilocybin, but also a number of differences. These results support stroboscopic stimulation as a novel non-pharmacological method of inducing ASC, phenomenologically similar in some respects to the psychedelic state.”)
  • Per quanto riguarda le forme/visioni percepite durante l’esperienza, i soggetti esaminati testimoniano di epifenomeni coerenti con altri report effettuati in precedenza. Parliamo di “allucinazioni visive indotte da luce stroboscopica” (Stroboscopically induced visual hallucinations) con pattern geometrici, spirali, “griglie” e forme caleidoscopiche colorate; alcuni di questi soggetti (a intensità più basse di stimolazione, paradossalmente) osservarono il manifestarsi di forme più strutturate “dal buio”, come riportato in queste testimonianze:
  • approfondendo i risultati ottenuti all’EEG, gli autori osservarono variazioni sensibili all’indice Lempel-Ziv (qui un approfondimento), usato per rilevare il grado di complessità del funzionamento cerebrale preso nel suo insieme. Questo punto appare importante perché rafforza la tesi degli sviluppatori di Luminate a proposito degli effetti dell’applicazione sulla “diversity” neuronale, qui dimostrata (di nuovo, paradossalmente a bassa frequenza dell’impulso luminoso, 3 Hz, situazione di stimolazione tra l’altro a maggiore intensità di “allucinazioni”)
  • nella discussione finale, gli autori osservano come il rilevare un’aumentata diversità del funzionamento cerebrale rilevato tramite EEG potrebbe segnalare la presenza di uno stato alterato di coscienza caratterizzato dal susseguirsi rapido di scenari mentali prodotti dall’esperienza stessa, una forma “iper-associativa” del pensiero rilevata anche nel contesto di sperimentazioni con psichedelici naturali come la psilocibina (qui un approfondimento).
  • per quanto riguarda le onde cerebrali, gli autori osservano -come prima accennato- una consistente alterazione delle onde alfa (“The most pronounced spectral alteration, which appears to be consistent across different psychedelic compounds -LSD, psilocybin and ketamine- is the marked decrease in alpha power”), a sua volta correlata a una maggiore disinibizione della corteccia, a una maggiore eccitabilità della stessa e quindi ad un’attività interna tale da generare le forme pseudo-allucinatorie prima citate (“During psychedelic ASC a reduction in alpha power marks decreased cortical inhibition, facilitating the spread of spontaneous internally generated patterns of neural excitation over the visual cortex, leading to the experience of visual hallucinations”).
  • Questi ultimi due punti ci dicono come, con Lucia N.03, gli effetti prodotti dimostrati siano in parte sovrapponibili a quelli citati dagli sviluppatori di Luminate. Il decrescere dell’intensità delle onde alfa, viene citato sia in questo studio che dagli sviluppatori di Luminate come in grado di produrre una dissoluzione dell’Io (“Following from this model, decreases in alpha power during psychedelic ASC have also been linked to the formation of complex visual hallucinations. For example, the magnitude of the reduction in alpha power during psychedelic ASC -LSD- has been shown to predict the extent of both simple and complex visual hallucinations, as well as more profound changes in consciousness, such as ego-dissolution”).
  • Viene evidenziato chiaramente come la frequenza a più alto effetto sia 3 Hz. Gli autori osservano inoltre che un elemento utile a potenziare l’effetto allucinatorio del macchinario Lucia N. O3 fosse l’intensità della luce, in questo caso più alta rispetto a Luminate (“Stimulus luminance is known to increase the magnitude of neural evoked responses at early stages of visual processing. The high luminance used in this study may therefore have led to stronger effects on inhibitory processing on visual cortex, which may account for the emergence of CVH”)
  • sempre 3 Hz viene descritta come la frequenza maggiormente in grado di indurre uno stato simil ipnagogico (si veda qui per un articolo sullo stato ipnagogico)
  • Gli autori così concludono: “By combining stroboscopic stimulation with EEG, we found that stimulation at 3 Hz and 10 Hz generates subjectively striking changes in experience (as measured by the ASCQ), which were accompanied by increases in EEG signal diversity (as measured by Lempel-Ziv complexity (LZs)) compared to wakeful rest. These subjective reports and increases in signal diversity show similarities to those observed during psychedelic states engendered by LSD, ketamine, or psilocybin41, indicating that spontaneous signal diversity provides a robust signature of ASC. Using surrogate data, we demonstrated that increases in signal diversity under stroboscopic stimulation depended on changes in both the power spectrum and the phase spectrum of the underlying EEG. Although stroboscopic and psychedelic ASC differ in many respects, our findings of substantial changes in experience, along with both ‘simple’ and ‘complex’ visual phenomena, demonstrate that stroboscopic stimulation offers a powerful non-pharmacological means of inducing ASC, as well as providing a possible adjunct to psychedelic therapies. Overall, our results provide further evidence that EEG signal diversity reflects the diversity of subjective experiences that are associated with different states of consciousness.”

In generale, lo studio prima citato ci riporta un risultato, ai test, simile a quello ottenuto usando altre sostanze psichedeliche come la psilocibina. Un aspetto da considerare è che il questionario sottoposto al campione dello studio tendeva (e questo gli autori lo riconoscono) a indagare l’esperienza degli individui in modo bidimensionale, senza curarsi degli aspetti realmente trasformativi, profondi e talvolta addirittura mistico/spirituali dell’esperienza stessa (aspetto cercato attivamente, spesso, dai “frequentatori” di stati alterati di coscienza). In questo caso abbiamo a che fare con un’esperienza di alterazione più leggera, in un certo senso superficiale, ma allo stesso modo psichedelica.

Tornando a Luminate, è possibile mettere in parallelo le ricerche effettuate prendendo in considerazione Lucia N. 03 e l’applicazione in oggetto, immaginando una parziale sovrapponibilità dei risultati (pur non essendo esplicitate nel sito di Luminate le esatte frequenze degli impulsi luminosi -che tra l’altro in Luminate variano costantemente-, così come l’intensità della luce -che si desume tuttavia corrisponda all’intensità del flash del proprio telefono, che per un Iphone è sotto i 100 lumen -usando Lucia N.03 i lumen al massimo flusso erano più di 5000). Aspetto da considerare è che Luminate eroga, insieme alla stimolazione visiva, musica da viaggio psichedelico.

Per chi volesse effettuare un approfondimento sull’uso della luce stroboscopica (“flickering”), anche questi articoli rappresentano una buona risorsa:

  1. 1
  2. 2

Per come viene venduta l’app, nella sua versione a pagamento l’esperienza psichedelica dovrebbe produrre un effetto calmante o esplorativo. Esplorativo è qui da intendere come in grado di permettere all’individuo di “vagare” per i contenuti interiori della sua coscienza in modo facilitato.

Sono inoltre previste delle esperienze mirate che dovrebbero facilitare il sonno, o aiutare l’individuo nella focalizzazione e nella creazione di obiettivi. É probabile che ciò che cambi siano solamente il sottofondo musicale e la durata dell’esperienza, essendo improbabile che gli sviluppatori siano stati in grado di costruire sequenze luminose/sonore mirate agli obiettivi che l’app propone: quale dovrebbe essere la sequenza luminosa/sonora adatta a conciliare il sonno, e in che modo differirebbe da quella adatta al focusing?

Al di là degli aspetti neurobiologici, un ultimo aspetto da sottolinare è che, per come viene usata, l’app Luminate distrae i nostri sensi in modo non traumatico e continuativo, creando un effetto doppio-compito simile a quello ipotizzato per spiegare il meccanismo di funzionamento dell’EMDR. L’esplorazione “interiore” avviene più facilmente quando l’attenzione selettiva della mente sia convogliata su uno stimolo continuo, come un rumore bianco; questo crea una sensazione di assenza di ansia, migliorando la stessa esplorazione dei contenuti di pensiero.

Qui per provare l’app.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)


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  • RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE” 8 July 2021
  • I VIRUS: IL LORO RUOLO NELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE 7 July 2021
  • LA PLUSDOTAZIONE SPIEGATA IN BREVE 1 July 2021
  • COS’É LA COGNITIVE PROCESSING THERAPY? 24 June 2021
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE 19 June 2021
  • É USCITO IL SECONDO EBOOK PRODOTTO DA AISTED 15 June 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche -con il blog Psicologia Fenomenologica. 7 June 2021
  • PSICHIATRIA DI COMUNITÁ: LA SCELTA DI UN METODO 31 May 2021
  • PTSD E SPAZIO PERIPERSONALE: DA UN ARTICOLO DI DANIELA RABELLINO ET AL. 26 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI 22 May 2021
  • MDMA PER IL PTSD: NUOVE EVIDENZE 21 May 2021
  • MAP (MULTIPLE ACCESS PSYCHOTHERAPY): IL MODELLO DI PSICOTERAPIA AD APPROCCI COMBINATI CON ACCESSO MULTIPLO DI FABIO VEGLIA 18 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO GRATUITO ONLINE (21 MAGGIO) 13 May 2021
  • BALBUZIE: COME USCIRNE (il metodo PSICODIZIONE) 10 May 2021
  • PANICO: INTERVISTA AD ANDREA IENGO (PANICO.HELP) 7 May 2021
  • Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP) 4 May 2021
  • SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO. Liberalizzare come terapia: il problema dell’autocontrollo in clinica 30 April 2021
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO” 25 April 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche 25 April 2021
  • 3 STRUMENTI CONTRO IL TRAUMA (IN BREVE): TAVOLA DISSOCIATIVA, DISSOCIAZIONE VK E CAMBIO DI STORIA 23 April 2021
  • IL MALADAPTIVE DAYDREAMING SPIEGATO PER PUNTI 17 April 2021
  • UN VIDEO PER CAPIRE LA DISSOCIAZIONE 12 April 2021
  • CORRELATI MORFOLOGICI E FUNZIONALI DELL’EMDR: UNA PANORAMICA SULLA NEUROBIOLOGIA DEL TRATTAMENTO DEL PTSD 4 April 2021
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE IN ETÁ EVOLUTIVA: (VIDEO)INTERVISTA AD ANNALISA DI LUCA 1 April 2021
  • GLI EFFETTI POLARIZZANTI DELLA BOLLA INFORMATIVA. INTERVISTA A NICOLA ZAMPERINI DEL BLOG “DISOBBEDIENZE” 30 March 2021
  • SVILUPPARE IL PENSIERO LATERALE (EDWARD DE BONO) – RECENSIONE 24 March 2021
  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE 22 March 2021
  • 8 LIBRI FONDAMENTALI SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 14 March 2021
  • VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA 7 March 2021
  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD 2 March 2021
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA 25 February 2021
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1) 21 February 2021
  • FLOW: una definizione 15 February 2021
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD) 8 February 2021
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI 3 February 2021
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA 1 February 2021
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION? 25 January 2021
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA) 15 January 2021
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO 11 January 2021
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT 6 January 2021
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO 2 January 2021
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum) 28 December 2020
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI 18 December 2020
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti 14 December 2020
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO 10 December 2020
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino 8 December 2020
  • COME GESTIRE UNA DIPENDENZA? 4 PIANI DI INTERVENTO 3 December 2020
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP 28 November 2020
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA 20 November 2020
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO) 16 November 2020
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm) 12 November 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento 7 November 2020
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING 2 November 2020
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING) 28 October 2020
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al. 24 October 2020
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO 21 October 2020
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO 18 October 2020
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè 13 October 2020
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 6 October 2020
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI 30 September 2020
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix 28 September 2020
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico 21 September 2020
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura” 15 September 2020
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI 27 August 2020
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza 26 August 2020
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO 7 August 2020
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO 31 July 2020
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia 27 July 2020
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO 20 July 2020
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF) 14 July 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI 2 May 2020
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE” 30 April 2020
  • FOBIE SPECIFICHE IN BREVE 25 April 2020
  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
  • LO STATO DELL’ARTE INTORNO ALLA DIMENSIONE SOCIALE DELLA MEMORIA: SUL MODO IN CUI SI E’ ARRIVATI ALLA CREAZIONE DEL CONCETTO DI RICORDO CONGIUNTO E SU QUANTO LA VITA RELAZIONALE INFLUENZI I PROCESSI DI SVILUPPO DELLA MEMORIA 25 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI! 22 April 2020
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA? 21 April 2020
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI 17 April 2020
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO 13 April 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3 10 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF! 6 April 2020
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI 4 April 2020
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO? 31 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2 27 March 2020
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT 25 March 2020
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO 16 March 2020
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI 12 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1 6 March 2020
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN 29 February 2020
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD 13 February 2020
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET 3 February 2020
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM 17 January 2020
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO 15 January 2020
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO 30 December 2019
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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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