di Raffaele Avico
Il volume “Conversazioni di terapia breve” esplora i temi della psicoterapia breve e “a seduta singola” per via di una trascrizione di un serie di dialoghi, intrattenuti in momenti diversi, tra Flavio Cannistrà e uno dei suoi mentori, Michael Hoyt.
La forma intervista rappresenta un modo agevole per introdursi a un tema: in questo caso abbiamo la possibilità di sentire raccontata la teoria della psicoterapia breve e la teoria a seduta singola da parte di uno dei suoi originatori, a sua volta in debito verso altri della scuola di Palo Alto, che puntualmente troviamo citati nel testo.
Si ha così l’opportunità di scoprire molti nomi “minori” della teoria della psicoterapia breve, con la possibilità di approfondire i diversi approcci.
La Scuola di Palo Alto, e nello specifico un luogo che oggi esiste solo nella forma di fondazione, il Mental Research Institute, ha a partire dagli anni ‘60 introdotto sulle scena della psicoterapia mondiale moltissime innovazioni, che sarebbero state destinate a restare.
La psicoterapia sistemica, la psicoterapia breve, quella a seduta singola, la scuola di Nardone in Italia, devono tutto agli incredibili anni, fruttuosi, dei “maestri” originatori -che in questo libro troviamo citati più volte.
Un tratto peculiare di quel gruppo di individui e di coloro che ne hanno raccolto il testimone nella ricerca in psicoterapia, è un’incredibile umiltà intellettuale associata al pragmatismo americano, insieme al coraggio di mettere in discussione l’ortodossia (che in quegli anni era rappresentata dall’Europa e dalla psicoanalisi). Di quell’umiltà, di quell’apertura e di quel pragmatismo parla anche Andrea Vallarino in un suo volume recentemente pubblicato, in particolare rispetto alla figura di Paul Watzlawick.
Nel corso della lettura di “Conversazioni di terapia breve” si apprendono molti aspetti della psicoterapia a seduta singola, in primis l’idea che “a seduta singola” non vuol dire che il percorso con un “cliente” (come preferiscono chiamarlo) si limiti effettivamente a un singolo incontro: se mai, l’idea è che una singola seduta possa essere “autoconclusiva” e che si possa lavorare con la persona perché quest’ultima possa trarne giovamento -o un motivo di trasformazione. Viene data estrema importanza al concetto di empowerment del paziente, e che un buon parte del lavoro venga fatta dal paziente stesso, con risorse che tocca al terapeuta evocare e promuovere.
In generale troviamo riferimenti a pratiche comuni nelle diverse scuole di psicoterapia breve, con però alcune differenze di razionale di intervento, che Cannistrà (che su POPMed avevamo già intervistato, qui) non manca di esplicitare.
Il rischio di semplificare troppo la complessità del portato del paziente viene fugato qui da un approccio orientato a un “minimalismo clinico” che vuole intervenire con quello che funziona e dove serve, in modo strategicamente orientato.
Si tratta di coinvolgere attivamente il paziente nel lavoro clinico, muovendo da un’alleanza forte e procedendo per obiettivi, il più possibile aderenti alle risorse portate in seduta.
Altrove abbiamo più volte intervistato e coinvolto Andrea Vallarino, e chi avesse letto alcuni dei contenuti che lo riguardavano potrà riconoscere nell’approccio di Cannistrà e Hoyt un’uguale attenzione al presente e a quelle che universalmente (in terapia breve o breve/strategica) vengono chiamate “tentate soluzioni”, nell’idea che il paziente faccia di tutto per migliorare, spesso però complessificando il suo stesso vissuto, e bloccandosi in modalità di pensiero disfunzionale. Si pensi per esempio al modello sul controllo per il panico -problema diffusissimo e frequentemente incontrato dagli operatori della salute mentale- ingenerato da stratificazioni di storture cognitive, paradossalmente atte a controllare i sintomi stessi.
I clinici di Palo Alto, come leggiamo in questo libro, sono stati da sempre dei fini osservatori della psicologia umana, nel tentativo di estrarne “modalità patogene” con un approccio estremamente pragmatico: il concetto di tentata soluzione è solo uno dei tanti, ma pensiamo per esempio al problema del doppio legame, ai paradossi legati all’ipercontrollo, alla natura essa stessa paradossale (a volte) della psicologia umana.
Per Cannistrà e Hoyt si tratta di aiutare il paziente a stare meglio, e stare meglio in modo rapido, soprattutto quando fortemente sofferente.
La terapia a seduta singola o breve pare adattarsi meglio a situazioni cliniche peculiari, come quando esista un eccesso di ragionamento o la persona si trovi incastrata in schemi di pensiero disfunzionali; leggendo questo volume viene tuttavia complesso immaginare una terapia a seduta singola con un paziente fortemente depresso o melanconico, o ipotizzare un intervento su un disturbo grave di personalità, al di là delle “prescrizioni” che i terapeuti di questa scuola solitamente consegnano al paziente. Con pazienti affetti da disturbi di natura affettiva, ci si potrebbe chiedere il ruolo -come sappiamo centrale- della relazione (al di là della “semplice” alleanza).
A fine lettura si ha in ogni caso la sensazione che esista un’apertura degli autori a una messa in discussione e verso un apprendimento “continuo”, cosa di rado presente in libri provenienti da altre scuole di pensiero.
Molto interessante e bella la definizione di logica, e l’accento sulla distinzione dal concetto di strategia: il terapeuta breve e quello a seduta singola si avvarranno di “logiche” di intervento -più flessibili e indeterminate delle strategie, ma altrettanto efficaci- in grado appunto di adattarsi alla complessità portata dal cliente.

Pubblichiamo in toto un estratto dal volume, che raccoglie 9 logiche di intervento da applicare in vari casi, una variazione di un articolo già apparso qui.
Anche chi non fosse interessato al tema terapia breve, potrà trarne spunti di interesse e modalità pratiche di intervenire con uno dei suoi pazienti (o su se stesso).
Buona lettura!
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