di Raffaele Avico
Il trattamento del PTSD negli ultimi anni si è arricchito non solo ti nuove evidenze scientifiche a riguardo di tecniche psicoterapiche (per esempio l’EMDR), ma anche di nuovi approcci farmacologici. Una strada promettente sembra essere l’utilizzo di sostanze psichedeliche somministrate sotto controllo medico. Già qui (https://www.ilfogliopsichiatrico.it/2017/12/02/marzo-2017-il-consensus-statement-sullutilizzo-di-ketamina-nei-casi-di-disordini-dellumore-apparentemente-non-trattabili/) avevamo scritto dell’utilizzo della ketamina per trattare depressioni non approcciabili secondo i metodi convenzionali: The Lancet ha recentemente pubblicato un articolo ( che riporta i risultati interessanti di uno studio eseguito con molto rigore su un numero di pazienti affetti da PTSD trattati con MDMA. Lo studio, randomizzato e condotto in modo impeccabile -seppur su un campione relativamente piccolo (26)-, prevedeva somministrazioni di 3 quantità diverse di MDMA su pazienti affetti da PTSD, nel contesto di questo piano di cura:
- 13 ore di psicoterapia, sommata a
- 2 sessioni di 8 ore di psicoterapia sotto effetto di MDMA (in diverse quantità)
Quelli che a distanza di un anno mantenevano i benefici acquisiti dal trattamento, erano quelli a cui era stata somministrata la dose più alta di MDMA.
La fase 3 dello studio prevederà il reclutamento di un campione di 200/300 soggetti tra USA, Canada e Israele, a cui verrà proposto il trattamento e, nel caso in cui lo studio venga confermato nei suoi risultati, la successiva approvazione da parte del FDA americano, prevista intorno al 2021.
L’MDMA pare essere di supporto, nel contesto di una psicoterapia a orientamento psicotraumatologico (che prevede 3 fasi: alleanza, stabilizzazione dei sintomi, ed esplorazione e integrazione delle memorie traumatiche), nel consentire un accesso meno doloroso e “allarmante” ai contenuti traumatici rimossi dalla coscienza, evitando cioè l’accesso e lo “scompenso” in senso somatico che avviene così spesso nel momento del “ricordo e recupero” del trauma. Questo consentirebbe al paziente di passare dal “rivivere” al “ricordare” il ricordo stesso, nel contesto di un rapporto psicoterapico protetto e senza rischi.