di Raffaele Avico
Del Centro Tages Onlus di Firenze, su questo blog abbiamo in passato già intervistato Simone Cheli, qui.
In questa intervista, Veronica Cavalletti (direttrice del suddetto centro) fornisce alcune delucidazioni a proposito del cosiddetto “perfezionismo clinico“, un tratto di personalità caratterizzato da standard elevati richiesti a sè e agli altri, fonte di notevoli problematiche dal momento che questi standard appaiono per lo più irraggiungibili.
Il Centro Tages Onlus ha avviato un progetto di ricerca, studio e trattamento del perfezionismo, qui raggiungibile.
Vengono citati autori di punta, riferimenti bibliografici, modelli di concettualizzazione del problema, e molto altro.
Qui l’intervista:
- Buongiorno Veronica, cosa si intende con perfezionismo clinico? Cosa lo distingue da quello “sano”?
Per quanto alcuni autori abbiano suggerito l’idea di poter distinguere tra perfezionismo sano e patologico, le ricerche condotte da quello che da molti è considerato il massimo esperto mondiale sul tema, ovvero Paul Hewitt, sembrano avvalorare l’idea che il perfezionismo sia sempre patologico. In tal senso possiamo avere manifestazioni subcliniche, ma mai una condizione sana e adattativa come ad esempio postulata per i tratti di personalità del Big Five.
Nei lavori di Paul Hewitt, Gordon Flett, Samuel Mikail e colleghi, il perfezionismo è un tratto o stile interpersonale caratterizzato dalla ricerca per sé o per gli altri di standard elevati irraggiungibili. Nella ricerca di questi standard le persone possono sperimentare varie forme di sofferenza, in particolare nei termini di criticismi inter- e intra-personali. Più specificamente, il Modello Comprensivo del Comportamento Perfezionistico (nella versione originale inglese “Comprehensive Model of Perfectionistic Behavior” – CMPB) descrive le manifestazioni del perfezionismo attraverso tre elementi: le componenti di tratto che spiegano come si orienti tale perfezionismo (auto-diretto; etero-diretto; socialmente prescritto); le componenti interpersonali di autopresentazione (autopromozione perfezionistica; non esposizione dell’imperfezione; non disvelamento dell’imperfezione); e le componenti intrapersonali (ovvero le cognizioni automatiche perfezionistiche).
Tutte queste complesse manifestazioni sono appunto sempre fonte di sofferenza per la persona, anche se a livelli diversi. Pertanto, Hewitt e colleghi non individuano mai una forma sana di perfezionismo.
- Veronica, come si manifesta nella vita di un individuo, il perfezionismo? Può essere considerato un tratto di personalità?
Nella formulazione originaria fatta da Hewitt e Flett il perfezionismo era definito come una dimensione di tratto. Successivamente tale definizione si è ampliata includendo, come dicevo, nel CMPB anche componenti interpersonali e intrapersonali. Riassumendo possiamo considerare il perfezionismo come un complesso stile di personalità che può esporre la persona a forme anche molto gravi di sofferenza. Secondo una classica prospettiva diatesi-stress, l’interazione tra eventi di vita e vulnerabilità soggettiva possono portare a quello che definiamo psicopatologia. È a mio avviso importante sottolineare come le manifestazioni del perfezionismo (che ricordo abbiamo definito sempre problematico) siano assai difformi e spesso gravi. Da un lato, un recentissimo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Clinical Psychology Review da parte di Flett e Hewitt, suggerisce come il perfezionismo rappresenti una sorta di emergenza sanitaria della nostra società. Percepiamo infatti costantemente una pressione ad adeguarci a standard elevati e a mascherare la nostra identità. Dall’altro lato, il medesimo gruppo di ricerca ha pubblicato una mole impressionante di dati che evidenziano come il perfezionismo possa portare a gravi manifestazioni psicopatologiche e di sofferenza, fra cui anche il suicidio.
Le caratteristiche stesse del perfezionismo, basate sulla tendenza a percepire forti pressioni intra- e inter-personali e a mascherare la sofferenza che ne deriva, lo rendono estremamente “pericoloso” da un punto di vista clinico. Nel caso ad esempio del rischio suicidario, le persone con tratti perfezionistici mostrano un’alta letalità connessa alla loro ideazione. I tratti che generano in esse sofferenza, sono gli stessi che le portano a mascherare l’ideazione e a percepire come intollerabile il fallimento di un agito suicidario.
- Veronica, la psicologia clinica ha spiegato in che modo nasce il perfezionismo?
Devo nuovamente fare riferimento al modello di Hewitt e colleghi per questo. Se infatti altri autori hanno riportato alcuni studi che correlano fattori prossimali e distali con l’insorgenza del perfezionismo, il gruppo canadese è l’unico ad aver integrato tali dati in un modello coerente, che hanno poi successivamente testato in numerosi studi su campioni clinici e non.
Il Modello della Disconnessione Sociale del Perfezionismo (“Perfectionism Social Disconnection Model” – PSDM) aiuta il clinico ad orientarsi nella comprensione del caso integrando elementi evolutivi su come sia emerso questo tratto di personalità e strategie terapeutiche per una concettualizzazione condivisa con il paziente. Il modello è particolarmente complesso e dettagliato. Riassumendo possiamo dire che il perfezionismo emerge a partire dalle prime interazione con il caregiver o altre figure significative. Senza offrire semplicistiche spiegazioni (es. “è tutta colpa dei genitori”), Hewitt e colleghi evidenziano come vi siano dei bisogni non soddisfatti – a causa delle asincronie nel rapporto con il caregiver – che divengono eccessivi e nel tempo portano alla manifestazione di comportamenti perfezionistici, nonché a svariate forme di sofferenza psicologica e ad una generale disconnessione sociale. Nel perfezionismo diviene evidente il ben noto paradosso nevrotico: per cercare di essere accettata e riconosciuta, la persona sviluppa strategie perfezionistiche rigide e immodificabili che in realtà la allontanano sempre più dagli altri.
- Veronica, quali sono le forme di trattamento più efficaci? Si basano su quale razionale clinico?
I protocolli con maggiori evidenze sono sicuramente la Cognitive Behavioral Therapy (CBT) per il perfezionismo di Roz Shafran e la Dynamic Relational Therapy (DRT) di Hewitt e colleghi. Durante un recente simposio tenutosi a Losanna, per il congresso del SEPI (Society for the Exploration fo Psychotherapy Integration), David Kealey ha mostrato i dati preliminari di una recente meta-analisi in cui emerge come la CBT per il perfezionismo riveli ad oggi un’efficacia assai limitata. I dati invece a favore del DRT sembrano sottolineare l’importanza di tale protocollo. Il DRT è la declinazione pratica e clinica di quanto ho detto sinora in riferimento al CMPB e al PSDM. Integrando una prospettiva dinamica interpersonale con componenti cognitive, Hewitt e colleghi partono da una concettualizzazione condivisa del modello di sviluppo per poi individuare e trattare tutte le componenti inter- e intra-personali attraverso cui il perfezionismo si manifesta.
Negli ultimi due anni io e il dott. Simone Cheli (dei Centri Clinici Tages) abbiamo avviato una stretta collaborazione tra il “Centro per lo Studio e il Trattamento del Perfezionismo” di Tages Onlus e il “Perfectionism and Psychopathology Lab” fondato e diretto da Paul Hewitt. Da questa collaborazione, è nato un protocollo di gruppo che integra il DRT con le pratiche e il razionale evoluzionistico della Compassion-Focused Therapy (CFT). L’intervento (Mindful Compassion for Perfectionism – MCP) è stato oggetto di due pubblicazioni preliminari e sarà oggetto di un futuro trial clinico randomizzato controllato.
- Veronica, ritieni che il perfezionismo rappresenti per il paziente un sintomo con dei vantaggi secondari per gestire altri problemi, per esempio l’ansia?
Diciamo che il perfezionismo instaura frequentemente un ciclo interpersonale maladattivo e autoperpetuantesi. Gli enormi sforzi a cui si sottopone la persona e il costante mascheramento della sofferenza che ne deriva, vengono spesso interpretati dagli altri come un limitato bisogno di supporto e una sorta di chirurgica freddezza. Secondo il paradosso nevrotico che citavo prima, la persona può arrivare ad esasperare ulteriormente tali manifestazioni nell’erronea convinzione che così facendo l’altro la accetterà e apprezzerà.
Nello studio che abbiamo condotto per validare gli strumenti di assessment di Hewitt e colleghi, abbiamo ad esempio evidenziato una elevata correlazione tra tutte le componenti perfezionistiche e la cosiddetta distress overtolerance, ovvero la convinzione di dover sopprimere e accettare la propria sofferenza. Tornando alla tua domanda, direi che le persone possono, attraverso il perfezionismo, rinforzare una credenza disfunzionale sulla necessità di sperimentare costantemente ansia, piuttosto che gestirla o ridurla in alcun modo!
Oltre a ciò, se vogliamo parlare di vantaggi secondari, mi verrebbe da dire che il perfezionismo – almeno in alcuni contesti (come performance, lavoro etc.) – è un atteggiamento socialmente rinforzato o comunque citato nel linguaggio comune come qualcosa di positivo, ma ciò non significa che permetta ‘davvero’ alla persona di funzionare meglio, anzi.
- Veronica, ci consigli qualche spunto teorico? Nei vostri Centri Clinici Tages come ci lavorate?
Sicuramente consiglio a chi sia interessato all’argomento la lettura del manuale di Hewitt, Flett e Mikail (la traduzione italiana è pubblicata da Fioriti Editore). Nel libro trovate anche i riferimenti ai due Centri sul perfezionismo che citavo, quello canadese di Hewitt e quello di Tages Onlus.
Nei nostri Centri Clinici Tages cerchiamo di offrire, come per le altre problematiche, un intervento integrato e modulare. Utilizziamo dunque approcci diversi cercando di adattare le strategie più efficaci ai problemi presentati dal paziente, e lo facciamo lungo un percorso che può alternare professionisti e percorsi diversi. Per quanto riguarda nello specifico il trattamento del perfezionismo, nei due articoli che citavo abbiamo descritto quello che solitamente facciamo, ovvero un’integrazione tra la DRT, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) e la CFT. Ad esempio, in un recente case study descriviamo una paziente con tendenza al mascheramento perfezionistico trattata prima attraverso una terapia individuale in cui abbiamo integrato la TMI con il modello di concettualizzazione della DRT, e poi tramite il percorso di gruppo della MCP.
In altri percorsi, il perfezionismo emerge durante l’assessment come uno dei diversi tratti presenti, ma non necessariamente il più prominente. In tal caso, valutiamo in sede di équipe come trattare questo aspetto alla luce della concettualizzazione complessiva del caso, ad esempio decidendo se affrontarlo specificamente nel percorso individuale (ad esempio perché rinforza o mantiene la problematica principale etc.) o valutando l’utilità di un gruppo MCP che supporti il percorso individuale del paziente.
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