di Raffaele Avico
Raccontare il dolore dei sopravvissuti dell’olocausto nazista non ha senso in un articolo di blog, ci limitiamo qui a prendere alcuni spunti dai lavori di Primo Levi per porre alcune questioni in ottica psicotraumatologica.
Il primo libro di Levi fu pubblicato nel 1958, seppur un articolo pubblicato sulla rivista medica Minervamedica fosse apparso, in sordina, già nel 1946 (articolo sconvolgente e scritto fresco di ritorno).
I libri comparvero a fine anni ’50, e da lì in avanti primo Levi sarebbe diventato sempre più scrittore, pur continuando il suo lavoro da chimico in una fabbrica di Avigliana, fuori Torino, dopo diversi anni di silenzio; lo stesso Levi racconta di come negli anni successivi la seconda Guerra mondiale, della tragedia ebraica si preferisse non parlare: ci vollero all’incirca 15 anni perchè il ricordo traumatico potesse far breccia nella coscienza della popolazione.
Lo racconta molto bene lo stesso Levi nella famosa intervista in concomitanza del suo ritorno ad Auschwitz.
Per quanto riguarda la vita quotidiana, la vita in Lager, i libri di Primo Levi sono diventati, negli anni, importantissima traccia di memoria, anche per lo stile scientifico con cui Levi seppe descrivere le reazioni psicofisiche dei deportati, lo stile di vita del Lager, i lavori forzati, la tragedia della Shoah nei suoi elementi più quotidiani.
Il primo libro scritto da Levi fu Se questo è un uomo, seguito da La tregua (per stare solo nei lavori a tema Olocausto) e da I sommersi e i salvati, una ricapitolazione delle convinzioni maturate dall’autore sulla sua esperienza, una riflessione più sul senso della sua esperienza, che non su quanto avvenne in Polonia negli anni della sua deportazione.
Cerchiamo di mettere in risalto alcuni spunti dai libri di Levi sugli aspetti psicotraumatologici della vita ad Auschwitz, a partire dalle sue osservazioni:
- per prima cosa occorre notare che Levi si considerò sempre un privilegiato, un “salvato” per via del suo mestiere di chimico, per i pochi privilegi che ad Auschwitz gli vennero concessi, per l’istruzione acquisita a Torino all’università: occorre dunque osservare che l’esperienza del Lager gli fu facilitata da una serie di fattori contingenti: i “sommersi” è più che probabile avessero sofferto pene differenti, più crude
- Levi descrive più volte il restringimento degli orizzonti cognitivi dei deportati: durante la prigionia -visti gli sforzi continui di adattamento alla realtà esterna, brutalizzante-, Levi si accorge chiaramente di come le priorità si restringono al qui ed ora, alla sopravvivenza contro il freddo, al procacciamento del cibo, anche nei bambini. Solo nei tempi morti, o più distesi, della vita del campo, fanno breccia nella coscienza dell’individuo altri, più vasti bisogni; per questo Levi racconta le domeniche e i momenti di stasi dalla vita da campo, come i momenti più penosi in termini psicologici, tanto che gli italiani in Lager, di domenica, avevano “smesso di riunirsi” (“a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo”)
- uno dei capitoli più sconvolgenti di Se questo è un uomo, è il capitolo sui sogni “Le nostre notti”: Levi sogna, nelle corte notti polacche, di mangiare (“molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle”), di tornare in Italia, ma più spesso -e questo è l’incubo ricorrente e più doloroso- di tornare, raccontare e di non essere ascoltato. In un passo di Se questo è un uomo, Levi si confida a un compagno italiano di prigionia, Alberto, il quale gli confida di sognare lo stesso: di narrare e di non essere creduto.
Osserviamo qui la consapevolezza di star attraversando un evento storico, e insieme il timore che l’assurdità del suo accadere non trovi spazio nella mente dei “civili”. - oltre a questa tipologia di sogni, ci sono gli incubi più “classici”, potremmo dire più classicamente post-traumatici. Levi scrive: “la sofferenza del giorno, composta da percosse, fame, freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia ogni istante, gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in una lingua incompresa”. Sogni dunque carichi di una violenza per così dire irrazionale, e di paura infantile.
- connesso a questo punto (un restringimento dei bisogni, un focus sulla sopravvivenza nel presente) Levi osserva il senso di distorsione del passaggio del tempo: tutto accade, in Lager, nel presente. Viene persa cioè la coerenza narrativa dell’evento in cui ci si trovi a vivere: solo i più fortunati, i più acculturati, riusciranno a non smettere mai di osservare l’evento come un evento “prospettico”, inserito in un disegno temporale, con un prima e un dopo, così da scongiurare quello che Levi chiama “naufragio spirituale”. Nelle sue parole: “a dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme”. Sulla distorsione del tempo nel trauma, si veda questo approfondimento
- Levi osserva, nel capitolo “Una buona giornata”, un meccanismo psichico di adattamento al dolore mentale, una sorta di “gerarchia delle sofferenza”, che merita riportare in toto. Il contesto è quello di un giorno di sole e di tregua dal rigido inverno polacco, con una temperatura più mite:
“Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui così spesso, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a venir meno, allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.” - l’annientamento psichico partiva, osserva Levi, dalla deprivazione identitaria: i deportati vennero fin da subito trattati come “pezzi”, come merce, fatti spogliare e osservati come casi clinici, come pesci in un acquario. Questo procurava un primo trauma, atto a indebolire costituzionalmente l’Io dei soggetti deportati, come osserva lo stesso Levi in appendice a Se questo è un uomo. In questa appendice Levi sottolinea come, visto questo stato di prostrazione psichica e fisica, ribellarsi ai carcerieri era pressoché impensabile
- nell’intervista del suo ritorno ad Auschwitz, Levi racconta di aver osservato come, dopo la liberazione a opera dei Russi nel 1945, fossero molteplici le reazioni all’esperienza appena vissuta: molti furono coloro che preferirono non tornare con la mente sull’argomento, se non per brevi dolorosi momenti di apertura. Rimuovere, come sappiamo, è diverso dal dissociare: a detta di Primo Levi fu possibile osservare entrambe queste tipologie di reazioni nei sopravvissuti all’Olocausto.
Troverete in questo doppio articolo un approfondimento fatto sulla psicologia della carcerazione, sulla base di un sito molto utile e ricco di materiale: ristretti.it.
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