di Raffaele Avico, Davide Boraso
Già qui abbiamo scritto di finestra di tolleranza, concetto promosso, tra gli altri, da Daniel Siegel
Ma a cosa serve, in senso pratico, conoscere la finestra di tolleranza?
La finestra di tolleranza viene descritta da Daniel Siegel nel suo “La mente relazionale” come uno spazio immaginario entro cui il nostro tono di attivazione neurofisiologica oscilla, nel tempo. É un costrutto teorico utile a fotografare lo stato neurofisiologico per come si presenta allo stato attuale.
Come si osserva in figura, il concetto di finestra di tolleranza permette di visualizzare come il tono dell’arousal (livello di attivazione) subisca fluttuazioni prodotte dall’ambiente e dallo stato interno di un individuo. Prima di un discorso davanti a un certo numero di persone, per esempio, il tono è più che probabile che salirà, tendendo al limite superiore della finestra, con differenze individuali.
La cosa importante del concetto di finestra di tolleranza, è che esclude dalla scena i contenuti di pensiero. Questo “strumento” concettuale ci aiuta a svincolarci, quando necessario, da una logica “per contenuti”, per focalizzarci sui processi. Ne abbiamo già scritto qui, a proposito delle “nuove” tendenze della psicoterapia. L’obiettivo di ragionare usando uno strumento del genere, è quello di fare in modo che l’attenzione permanga sull’idea di “stare” dentro la finestra, permanere al suo interno in modo stabile.
Cerchiamo di approfondire la questione prendendo appunto in esame il libro “La mente relazionale”. Siegel chiarisce alcuni aspetti:
- l’ampiezza della finestra di tolleranza può variare: l’età contribuisce al regolare la sua ampiezza (in età infantile la sua ampiezza è limitata, sono sufficienti strette oscillazioni emotive per disregolare il/la bambino/a), così come alcuni fattori protettivi come l’essere calato in una rete sociale di protezione
- oscillare tra i due estremi e fuoriuscirne, conduce a posizioni che Siegel chiama posizioni o di troppa rigidità, o di caos: è probabile che un individuo che si trovi al di fuori della finestra di tolleranza ragioni in modo molto poco permeabile al cambiamento (per esempio cadendo preda di pensieri ripetitivi, compulsivi) oppure che gli stessi pensieri si presentino come divergenti, caotici, non strutturati secondo un ordine narrativo. Questo, Siegel chiarifica, a causa di un funzionamento radicalizzato agli estremi del sistema nervoso autonomo, senza che l’individuo possa in apparenza intervenire. Se prendiamo il modello organodinamico di Ey qui approfondito, vediamo come questi stati di disregolazione sembrino corrispondere agli stati di “dissoluzione” teorizzati da Jackson nel suo modello gerarchico delle funzioni mentali, o da Pierre Janet stesso quando notava che il problema, a volte, è “riuscire a usare il freno” quando troppo accelerati cognitivamente, appunto permanendo in una condizioni di equilibrio, di regolazione, dentro la “finestra di tolleranza”
- Alcuni stati fisiologici sono in grado di cambiare l’ampiezza della finestra di tolleranza: la fame protratta, il sonno, Siegel osserva, sono in grado di renderci più irritabili e soggetti a più frequenti fuoriuscite dai confini della finestra
- Siegel sottolinea come la fuoriuscita dai limiti della finestra conduca la mente a una condizione difficile da gestire che tende a suo dire verso due posizioni possibili, entrambe disregolate: caos o rigidità. Osserva inoltre che in questi momenti la mente produca dei veri e propri percetti visivi, delle immagini che potremmo definire “epifenomeniche”, dei pensieri cioè in grado di manifestrarsi con particolare possenza estetica, visuale. Per esempio, durante un accesso di collera disregolata, è possibile che l’individuo produca, durante questo stato appunto di ruminazione “arrabbiata”, immagini violente, a contenuto forte, in grado di produrgli un vero cambio di sguardo sul mondo che lo circonda. Ritornato in finestra di tolleranza, questi pensieri “visivi” potrebbero scomparire, o prendere connotazioni più tenui, meno marcate.
CONSIDERAZIONI SULL’ATTUALITÀ E L’UTILITÀ DELLA FINESTRA DI TOLLERANZA: LA DISATTIVAZIONE
Il concetto di finestra di tolleranza è stato introdotto da Siegel per spiegare come funzioni la disregolazione emotiva.
É opinione comune e condivisa che tale concetto si applichi principalmente ai pazienti “difficili” o traumatizzati. Ciò sembra essere limitante rispetto alla portata del concetto di finestra di tolleranza e riteniamo debba essere ampliato e allargato al funzionamento di ognuno di noi. Esperienze e osservazioni cliniche ci suggeriscono infatti che anche in pazienti non gravi o particolarmente difficili vi siano importanti oscillazioni al di fuori della finestra di tolleranza.
Si potrebbe ipotizzare che un funzionamento “normale” porti l’individuo ad oscillare costantemente tra ipo e iperattivazione minima o appena al di sopra e al di sotto della finestra, senza che questo interferisca nel funzionamento quotidiano. Si può poi ipotizzare la presenza di altre due categorie di individui: chi si disregola pesantemente per una concomitante psicopatologia (ad esempio l’impulsività e l’aggressività di un soggetto borderline, potrebbe letta come una iperattivazione non regolata) e chi sviluppa un disturbo a causa di errate interpretazioni del normale funzionamento della finestra di tolleranza. Ad esempio, nei disturbi d’ansia o in pazienti che si auto-diagnosticano un disturbo di attacco da panico, si notano spesso oscillazioni nella parte inferiore della finestra di tolleranza, vere e proprie disattivazioni non riconosciute e spesso trattate poi farmacologicamente in modo non efficace. Se l’iperattivazione e le conseguenze che derivano (tachicardia, respiro affannoso, stomaco chiuso, ipervigilanza) sono piuttosto conosciute e correttamente individuate, non si può dire lo stesso per fenomeni di disattivazione.
Per disattivazione non intendiamo indicare un fenomeno dissociativo nella sua forma normalmente intesa, ma seguendo le più recenti concettualizzazioni di continuum in psicologia e psichiatria, un corredo di sintomi sfumati: minima confusione, “testa leggera”, scarso tono muscolare ed energia, impressione di svenimento imminente.
Sensazioni dunque che ognuno sperimenta almeno sporadicamente nella propria quotidianità. Ma se per la maggior parte degli individui, tali sensazioni scorrono senza destare preoccupazione, oppure vengono intraprese rapidamente strategie di regolazione efficaci, non si può affermare lo stesso per altri.
Leggeri stati di alterazione di coscienza e di disattivazione sono sperimentati da tutti, citiamo ad esempio il passaggio dallo stato di addormentamento allo stato di veglia durante il risveglio, oppure la mancanza di energia o lo stordimento dato da una giornata particolarmente stancante o stressante. Questi stati sono per lo più ignorati e non destano preoccupazione per la stragrande maggioranza di noi. Un rimprovero del datore di lavoro, un litigio col proprio partner, una delusione possono accompagnarsi a senso di impotenza e a fenomeni di disattivazione. Niente che avrebbe rilevanza clinica, ma un’interpretazione scorretta del fenomeno potrebbe determinare conseguenze interessanti e importanti dal punto di vista della sanità mentale. L’errata lettura di un fenomeno “normale” e passeggero potrebbe determinare infatti una narrativa interna dominata dalla paura e dal timore di avere una grave patologia, oppure di essere “strani” perchè gli unici a sperimentare sensazioni così particolari.
Generalmente, se non ci sono ormai grosse difficoltà a discutere di ansia e di tutto ciò che fa parte dell’iperattivazione, non si può dire lo stesso per la disattivazione: quest’ultima porta con sè fenomeni ancora poco conosciuti, insieme al timore di poter essere stigmatizzati o di essere “non normali”, cosa che determina una minor esternazione e comunicazione agli altri di tale sintomatologia e la scarsa circolazione di informazioni corrette.
Daniel Siegel osserva giustamente che la finestra di tolleranza ha a che fare, come si diceva, con l’idea di regolazione emotiva.
La cosa importante da ricordare tenendo a mente questo costrutto teorico, è la sua potenza in termini di comprensibilità da parte degli individui. La finestra di tolleranza rappresenta un modo efficace per, in un solo momento, fotografare lo stato dell’attivazione neurofisiologica, percepire quanto si sia in grado di possedere “mastery”, in che modo il pensiero sia cambiato progressivamente arrivando a livelli ingestibili di caos e rigidità -tutto questo SENZA fare riferimento ai contenuti.
Quest’ultima questione è centrale perché in questa visione, in questo modello andranno a osservarsi, come si diceva, i processi. É ininfluente se la disregolazione sia avvenuta per un litigio interpersonale, una ruminazione rabbiosa, un trauma rivissuto: in senso clinico l’obiettivo primario rimarrà quello di rientrare tra i confini della finestra di tolleranza. Solo in un secondo momento ci si potrà interrogare sui motivi sottesi alla disgregolazione stessa: se prima non riusciremo a regolarci in senso emotivo, non potremo neppure accedere ai contenuti, alle spiegazioni più raffinate in senso psicologico.
Se prendiamo la teoria sul trauma, la psicotraumatologia, osserviamo come il modello di riferimento a riguardo degli approcci di intervento sia l’approccio chiamato trifasico. Qui, in particolare quando si lavori con pazienti traumatizzati, viene ben chiarito come il primo obiettivo, il primo razionale clinico, sia riportare entro i confini della finestra di tolleranza il paziente colpito da stress post traumatico: il senso di questo primo intervento (regolarlo in senso emotivo) è relativo al fatto che senza rientrare entro i confini della finestra di regolazione, tutto quello che potremmo fare con lui su altri contenuti sarebbe impossibile. Quindi: prima regolare, poi lavorare sui contenuti. Prima processi, poi contenuti. Spesso, anzi, lavorare sui contenuti si rivela inutile, secondario. Una buona psicoterapia dovrebbe anche esitare -in teoria- in una migliore comprensione da parte del paziente su come permanere entro i confini della finestra di tolleranza.
D’altronde, la psicoterapia cognitivo comportamentale concede a questa idea (il saper vivere le emozioni in modo meno intenso, più regolato) molto spazio.
I detrattori di questo approccio osservano che questo modello tende a non approfondire le questioni centrali, sostanziali relative al soggetto, fornendo una terapia che potrebbe essere definita “ortopedica” (perchè si intenderebbe riabilitare funzionalmente l’Io, il soggetto, alla vita, senza indagare le cause profonde che l’avrebbero portato a chiedere aiuto). Al di là di queste polemiche, occorre a nostro parere che il terapeuta si giovi di qualunque cosa funzioni, qualunque cosa possa contribuire ad accrescere il benessere del paziente, adottando una visione post-ideologica, liberalizzata, anarchica, integrativa, verso un’unica “psicoterapia”.
L’attenzione ai processi, è solamente uno dei modi, uno degli strumenti possibili da mettere in atto, o sul campo, in ambito di salute mentale.
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