di Paolo Calini, Raffaele Avico
Riguardo al trattamento farmacologico del Disturbo da stress post traumatico (PTSD), la letteratura internazionale è piuttosto ricca di lavori che purtroppo non arrivano, però, a conclusioni univoche. Mancano ancora delle linee guida supportate da evidenze chiare e soprattutto condivise dalla comunità scientifica.
Basti citare le linee guida, pubblicate nel 2014, dell’Anxiety Disorders Association of Canada che, curiosamente, reinseriscono il PTSD fra i disturbi d’ansia pur utilizzando il DSM 5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come strumento diagnostico – il DSM 5 ha riconosciuto dignità ed autonomia diagnostica al PTSD, scorporandolo dai disturbi d’ansia che tutte le precedenti edizioni del DSM, compreso il IV TR, gli avevano assegnato.
Questa indecisione nosografica è molto indicativa della scarsa chiarezza presente nella comunità scientifica internazionale al riguardo. In ogni caso, in queste linee guida fluoxetina, paroxetina e sertralina (SSRI) e venlafaxina (SNRI) vengono indicati come farmaci di prima scelta (ottenendo il livello 1 di evidenza nello studio metanalitico condotto dall’associazione Canadese); mentre trazodone viene considerato come farmaco di ultima scelta (livello 4).
In un altro studio metanalitico del 2011, gli autori evidenziano come trazodone sia particolarmente indicato nel trattamento farmacologico del PTSD, in significativo contrasto con le linee guida canadesi.
Qualunque approccio farmacologico al PTSD è, pertanto e ancora, argomento complesso e non definitivo.
In questo articolo del 2016 viene condotta una review di altri articoli che hanno discusso e approfondito la psicofarmacologia del PTSD. Come prima cosa, viene fatto notare come l’impatto del farmaco, a riguardo del PTSD, sia limitato. Viene osservato come un impatto significativo usando i farmaci di prima linea in questi casi (paroxetina e sertralina) avvenga in non più del 60% della popolazione studiata, e che una vera remissione dei sintomi si osservi in circa il 30% del totale dei soggetti. Quindi, vengono presi in esame differenti aspetti neurobiologici attraverso la lente psicofarmacologica.
SEROTONINA
Considerando la neurobiologia dei farmaci di prima linea usati per il Disturbo da stress post traumatico (paroxetina e sertralina), gli autori riportano molteplici studi che negli anni sono giunti a risultati controversi, arrivando a mettere in discussione lo stesso utilizzo dei suddetti farmaci nel trattamento del PTSD. I farmaci che promuovono il rilascio di maggiori quantità di serotonina in alcune aree del cervello del paziente, sembrano presentare alcune limitazioni di utilizzo, dai bassi livelli di impatto, agli effetti collaterali, all’eccessivo tempo intercorso tra l’assunzione e l’effetto desiderato. Viene infine riproposta la questione di un futuro possibile uso del MDMA (qui approfondito), promettente ma ancora poco studiato in modo accurato e che, a oggi, costituisce un trattamento sperimentale e non certo d’uso nella prassi clinica quotidiana.
SISTEMA NORADRENERGICO
In questa sezione dell’articolo viene effettuata un’analisi approfondita della neurobiologia connessa al sistema noradrenergico, coinvolto nella regolazione dello stato di arousal (la risposta neurofisiologica del sistema nervoso a stimoli ambientali -e non solo- più o meno attivanti in termini di sicurezza percepita); la liberazione di neurotrasmettitori da parte del sistema noradrenergico (collocato in un’area profonda del cervello e al di fuori della coscienza e del controllo volontario dell’individuo), è da considerarsi centrale nello sviluppo del PTSD se consideriamo come un’anomala risposta protratta di attacco e fuga (un cervello per così dire costantemente allarmato) interferisca sulla nostra modalità di percepire la realtà e sulla qualità del sonno, solo per citare alcuni aspetti problematici della risposta a un trauma.
In senso psicofarmacologico, vengono citati due principi attivi:
- prazosina (non commercializzato in Italia, usato come integrazione ad altre terapie usate per il trattamento dei disturbi del sonno connessi al PTSD; qui un approfondimento)
- desipramina (equivalente alla paroxetina in termini di effetti, particolarmente studiato in presenza di dipendenza da alcol in comorbilità al PTSD)
SISTEMA DEL GLUTAMMATO
Molteplici evidenze portano a ipotizzare che il PTSD si associ a una difettosa capacità inibitoria da parte della corteccia prefrontale su zone profonde del cervello come amigdala e ippocampo. In senso farmacologico, gli autori considerano:
- ketamina in dosi sub-anestetiche: la ketamina assunta in dosi non pericolose e sotto controllo medico si è introdotta in ambito psicofarmacologico in primo luogo nel trattamento “rapido” di disturbi depressivi resistenti. La ketamina ha tuttavia mostrato risultati importanti anche in altri disturbi; a riguardo del PTSD, questo studio è l’unico studio RCT che ha messo a confronto l’uso di ketamina e di benzodiazepine su soggetti colpiti da PTSD, mostrando un netto superamento degli effetti positivi ottenuti dall’uso di ketamina.
SISTEMA GABAERGICO
Il GABA, in quanto neurotrasmettitore inibitorio, è ampiamente studiato nei quadri di PTSD. Gli autori rilevano come le comuni benzodiazepine vengano usate meno, negli ultimi tempi, a causa di una serie di effetti collaterali importanti da evitare (primo su tutti, il fatto che inducono dipendenza e assuefazione). Citano a supporto di questo punto numerosi studi che, anzi, sconsigliano l’utilizzo di benzodiazepine nel trattamento di PTSD, per via degli effetti collaterali già sopra citati e di potenziali effetti iatrogeni sul trattamento del PTSD (si veda qui per un approfondimento).
A questo livello agiscono gli antiepilettici tradizionali (topiramato, valproato, lamotrigina, gabapentin sono stati studiati in modo particolare nel trattamento del PTSD). La loro azione verosimile è quella di bilanciare il sistema GABAergico (ad azione inibitoria sul sistema nervoso centrale) con l’azione glutammatergica (ad effetto eccitatorio), facilitando pertanto la funzione inibitoria della corteccia prefrontale sulle strutture cerebrali profonde, le quali, come già citato, possono permanere molto attivate a seguito dell’esposizione ad un evento potenzialmente traumatico. L’effetto esercitato dagli antiepilettici risiederebbe pertanto nella modulazione dei network associativi cerebrali. Sulla base di ciò, gli antiepilettici costituirebbero una valida alternativa all’utilizzo di benzodiazepine per il controllo dei sintomi di iperarousal del PTSD.
GLI ANTIPSICOTICI
Gli antipsicotici sono una categoria di farmaci ampiamente usati nelle pratica clinica quotidiana. Anche per questa categoria di farmaci, le evidenze a favore del loro utilizzo nel trattamento del PTSD sono discordanti e non definitive. Nella già citata review condotta dal gruppo canadese nel tentativo di formulare delle linee guida per il trattamento farmacologico del PTSD, risperidone ha ottenuto un livello 1 di evidenza. Sicuramente, il potente effetto di blocco del sistema dopaminergico esercitato dagli antipsicotici (sedazione), può avere indicazioni nel trattamento dei sintomi determinati dall’iperarousal. Gli antipsicotici più studiati sono comunque quelli di seconda generazione, con particolare attenzione, oltre che per risperidone, per olanzapina, quetiapina ed aripiprazolo.
Indubbiamente, l’effetto negativo di questi farmaci che risulta particolarmente significativo nel trattamento del PTSD, è l’azione negativa sul sistema del rewarding che utilizza proprio la dopamina come neurotrasmettitore; questo potrebbe aumentare il rischio di complicanze legate al ricorso a sostanze psicoattive, già significativamente alto in pazienti affetti da disturbi post-traumatici. Un’altra significativa suggestione per la potenziale efficacia degli antipsicotici deriva dalla loro azione sulla salienza (ovvero la possibilità di discriminare intenzionalmente il dettaglio dallo sfondo, funzione anch’essa determinata dalla trasmissione dopaminergica che risulta gravemente alterata nei disturbi psicotici). Per un approfondimento su questo tema in realtà ancora poco studiato nell’ambito traumatologico, a differenza di quanto accade per le psicosi endogene, si rimanda ai lavori di Kapur, come ad esempio questo.
CANNABINOIDI
A riguardo dell’utilizzo di cannabis nel trattamento di PTSD, esistono alcune evidenze di scarsa forza in termini statistici, che quindi necessitano di ulteriori approfondimenti, maggiormente strutturati. Inoltre, alcuni aspetti problematici vengono riportati dagli autori:
- l’emergere di aspetti persecutori/paranoici nei soggetti consumatori
- la presenza di evidenze che correlano livelli alti di utilizzo di cannabis e sintomi di PTSD, senza una comprensione reale di cosa venga prima in termini causali (se i sintomi di PTSD o l’uso di cannabis)
- un uso prolungato di cannabis può alterare il funzionamento di alcuni recettori specifici, causando un conseguente effetto rebound di natura ansioso/depressiva
Occorre citare, per completezza, altre molecole in fase di studio che però non hanno ancora un’applicazione nella pratica clinica quotidiana; sicuramente i farmaci più studiati sono: ossitocina, melatonina ad alto dosaggio, corticosteroidi e betabloccanti; questi farmaci sono in fase di studio per differenti momenti dello sviluppo del PTSD, ovvero come trattamento preventivo (da somministrare immediatamente dopo l’esposizione all’evento – corticosteroidi-, oppure come trattamento vero e proprio del disturbo conclamato o, ancora, come agenti facilitanti l’elaborazione psicoterapica dei ricordi traumatici – betabloccanti, che riducono in modo consistente i sintomi fisici dell’iperarousal, permettendo al paziente di meglio tollerare l’esposizione ai ricordi).
OSSITOCINA
L’ossitocina viene studiata come farmaco “integrativo”, in grado di modulare la risposta allo stress e alla paura; in particolare, un po’ come si evince dalla ricerca sull’utilizzo dell’MDMA, anche qui si ragiona sulla possibilità di predisporre il soggetto a un miglior impatto della terapia espositiva, attraverso l’uso dell’ossitocina. Se infatti il lavoro sul PTSD consta di un inevitabile approccio ai ricordi traumatici (per via dell’approccio trifasico), un utilizzo coadiuvante di principi attivi di questo tipo potrebbe diminuire la risposta autonomica del soggetto di fronte al ricordo traumatico, favorendone una sua elaborazione/cognitivizzazione (per un approfondimento).
CONCLUSIONI
Sappiamo che parte della sintomatologia del PTSD è affrontabile valutando le modalità di funzionamento della memoria. Come qui approfondito, ogni modalità che nella terapia del PTSD aiuti il paziente ad avvicinarsi e a lavorare sui ricordi, elaborandoli almeno in parte, andrà nella direzione di un miglioramento clinico.
Tentando quindi una conclusione critica, il trattamento farmacologico del Disturbo da stress post traumatico presenta ancora notevoli criticità che sono ben lontane dall’essere chiarite. In mancanza di evidenze e di comprensione sull’utilizzo dei farmaci e sul loro effetto neurobiologico in situazioni cliniche che possono anche essere estremamente dirompenti (basti pensare ad alcuni dei sintomi da iperarousal manifestati da numerosi soggetti, in particolare i comportamenti aggressivi e le manifestazioni conseguenti al discontrollo della rabbia), la scelta di un farmaco deve essere innanzitutto cauta ed in ogni caso guidata da un’attenta riflessione entro un più globale inquadramento relativo al funzionamento del soggetto. Sicuramente le benzodiazepine devono essere evitate in terapia cronica; il loro utilizzo estemporaneo, soprattutto in ambito ospedaliero protetto, deve essere attentamente valutato. A livello farmacologico, possiamo cercare di migliorare singoli sintomi, ma non esiste ad oggi un farmaco unico che permetta una presa in carico “totale” del PTSD.
É d’altronde molto importante che il medico prescrittore, mentre cerca la migliore terapia sintomatica possibile insieme al paziente, tenga nella sua mente il quadro psicotraumatologico generale, di cui i singoli cluster sintomatici sono “punte dell’iceberg”.
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