di Raffaele Avico, Francesco Della Gatta, Andrea Pisano
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1. La compulsione a dominare
É stata da poco pubblicato un articolo firmato da Bernardo Paoli (che avevamo qui intervistato) e Roberta Caterina Tanzi a proposito del narcisismo patologico, riletto come un disturbo incentrato sulla “compulsione alla dominanza”, articolo molto “pratico” nei suoi risvolti psicoterapeutici.
Gli autori raccontano in breve il disturbo narcisistico per punti, e fanno una mini-review della letteratura psicoterapeutica inerente il trattamento dello stesso, di fatto proponendo le caratteristiche “universalmente note” a proposito del trattamento di questo paziente.
In seguito (e questa si configura come la parte più interessante dell’articolo) elencano alcune trappole facilmente incontrabili dal terapeuta nel suo lavoro con questo tipo di paziente, con spiegate le “soluzione alternative”. Tra queste, troviamo la “trappola n.7”: gli autori sottolineano come lavorare sulla regolazione e sul processamento emotivo possa essere difficoltoso e spesso prematuro con pazienti narcisistici: diversi studi hanno evidenziato deficit metacognitivi relativi alla propria emotività, cosa che porta gli autori a consigliare un cauto lavoro sempre in termini metacognitivi, a proposito delle ripercussioni delle proprie azioni sugli altri (lavorare non sul senso di colpa, ma sulla metacognizione e sulla lettura -all’interno della mente dell’altro- delle conseguenze dei propri comportamenti).
Di fatto, un articolo/compendio utile e maneggevole per il trattamento del disturbo narcisistico.
Eccovi l’articolo:
2. Leccare rospi
Torniamo a parlare brevemente di psichedelici.
Nell’immaginario collettivo relativo alla psichedelia, leccare i rospi ha sempre avuto un certo potere narrativo/evocativo. L’anno scorso è uscito un lungo articolo sulla farmacologia e sulle possibili applicazioni cliniche del composto 5-MeO-DMT, presente nel veleno del Bufo Alvarius, un rospo del Sud-America, e spesso inserito nel composto Ayahuasca. L’effetto viene descritto come molto potente, ma anche molto corto (massimo mezz’ora), caratterizzato da sensazioni di “dissoluzione dell’Io” (un effetto spesso ricercato dal popolo degli psiconauti) e sensazioni mistiche.
Per chi fosse interessato, questo articolo riporta la letteratura esistente a proposito degli effetti dell’uso di questo composto su diversi aspetti dell’umore, approfondendo poi gli effetti del suo utilizzo sulla neurobiologia del corpo. In seguito, gli autori si spingono a ipotizzare possibili usi clinici del composto 5-MeO-DMT, osservando come un suo utilizzo potrebbe essere meglio controllabile in senso clinico data la minore durata dei suoi effetti (circa mezz’ora, appunto).
Seppur il composto abbia acceso un interesse da parte di diverse aziende (per esempio questa: https://alvarius.com/), gli autori osservano come robusti studi quantitativi sembrino mancare, essendo la letteratura composta per ora da osservazioni qualitative a proposito di esperienze individuali (per esempio quelle contenute in questo volume).
Eccovi l’articolo:
3. Risorse
Il Comprehensive Resource Model è uno strumento ideato da Lisa Schwarz, che mette insieme alcune delle conoscenze più solide a proposito della terapia del trauma psichico.
Sappiamo che il trauma “ricade sul corpo”, e che una delle difficoltà nella sua elaborazione riguarda la possibilità di ricordarlo anziché riviverlo (il PTSD viene spesso descritto come una patologia della memoria). Questo modello include diversi protocolli che tentano un approccio duplice, seguendo queste due linee: 1) elaborare il trauma in senso mnestico 2) dissipare/scaricarlo in senso corporeo. Il modello vuole essere molto applicativo/pratico, e si struttura a partire dal concetto di “risorsa”. Non è simplicissimo da capire, ma è abbastanza utile: sul sito principale che lo illustra, troviamo diversi articoli, tra cui quello che qui proponiamo.
Prima di tutto, va considerato che le basi neurobiologiche dell’approccio sono state approfondite da Frank Corrigan, scozzese, che in abito di psicotraumatologia è ricordato per aver sviluppato il Deep Brain Reorienting. Le basi teoriche di quest’ultimo modello (qui riassunto/spiegato) fanno da fondamento al Comprehensive Resource Model, che viene esaurimentemente spiegato nel lavoro che qui riportiamo, di fatto una tesi di dottorato (si vedano anche questi video).
Eccovi l’articolo:
New Whiskey in Old Barrels
Comprehensive Resource Model: A Case Study of a New Trauma Treatment Model
4. Non cosa pensi, ma come pensi
Un recentissimo articolo a proposito dell’importanza del pensiero critico, studiata attraverso un esperimento condotto su un campione di studenti in età da scuola secondaria. L’esperimento in questione era consistito in un intervento di “promozione e spiegazione” del pensiero critico (non cosa pensi, ma come pensi) sul suddetto campione – e nell’indagine conseguente a proposito di eventuali miglioramenti degli studenti in termini di performance.
Gli autori, facendo un passo indietro, si chiedono giustamente cosa sia, di fatto, il pensiero critico. Lo presentano in modo criptico, traendo la definizione della American Philosophical Association expert consensus: “purposeful, self-regulatory judgment which results in interpretation, analysis, evaluation, and inference, as well as explanation of the evidential, conceptual, methodological, criteriological, or contextual considerations upon which that judgment is based”. Proseguendo nell’articolo, gli autori arrivano a parlarne come di una competente metacognitiva, un’attitudine cioè alla riflessione a proposito del proprio stesso pensiero.
Spiegano quindi la tipologia di intervento proposta ai ragazzi del campione, mettendone in evidenza i diversi sotto-testi teorici: si trattava di aiutare i ragazzi a cogliere fallacie logiche e bias cognitivi, e di aiutarli a rallentare i processi di pensiero più automatici e veloci, spesso forieri di distorsioni cognitive e letture “troppo emotive”. Un articolo da leggere lentamente, denso di significato visto il posto centrale che avrà il pensiero critico in futuro, nel contesto di un mondo sempre più complesso.
Eccovi l’articolo:
5. Ritardare la gratificazione
Il video che sotto riportiamo, mette in discussione una tendenza molto attuale alla glorificazione della dieta da dopamina messa in atto per “disintossicarsi dalla dipendenza da dati/schermi”, consigliando altre, più corrette modificazioni dello stile di vita: in particolare viene consigliata la cosiddetta “gratificazione ritardata”.
La dopamina è un neurotrasmettitore che regola molteplici aspetti della nostra vita psichica, e pensare che sforzarsi a un‘astinenza dagli stimoli che ne inducono il rilascio possa portare qualche beneficio, è sostanzialmente sbagliato. Si tratta di un trend “montato” a fini commerciali, divenuto una sorta di slogan.
La dopamina è implicata nel concetto di intenzionalità: come osserviamo nel video, quando l’esperienza supera le aspettative che ci eravamo a proposito dell’esperienza stessa, la dopamina viene rilasciata, producendo un rinforzo positivo che ci porterà a ricercare quello stesso rinforzo anche in futuro. Questo è quello che viene chiamato circuito di reward. Sensazioni largamente appaganti, producono un rilascio di dopamina che altera in modo continuativo il circuito di reward: tuttavia, sospendere per qualche ora l’assunzione di cibi gratificanti o le esperienze piacevoli, non lo riporterà al suo stato originario. Il punto è proprio questo: il problema non è la quantità di dopamina, ma l’alterazione del circuito di reward. Come spiega l’autore del video, l’errore in questo ragionamento è proprio immaginare che la quantità di un singolo neurotrasmettitore possa modellare così a fondo il comportamento umano. Per tentare una normalizzazione del circuito di reward, viene consigliato un comportamento puntuale: la gratificazione ritardata, in grado idealmente di ri-settare il circuito di reward, al centro dell’articolo che qui proponiamo.
Eccovi l’articolo:
6. Elefanti traumatizzati
Comprendere la letteratura del trauma negli animali ci può dare una grande mano nella compressione del trauma nell’uomo. Come leggiamo nell’articolo che qui proponiamo, le strutture antiche del nostro cervello si sovrappongono alle stesse strutture antiche della maggior parte degli animali vertebrati. Le reazioni sono le medesime, nelle stesse situazioni: di fronte a una minaccia percepita come soverchiante, il nostro corpo e il nostro cervello reagiscono seguendo delle traiettorie che per nulla differiscono da quelle adottate, per esempio, da una zebra o un orso: di fronte a una minaccia, il nostro cervello produce una reazione di estremo allarme, a cui seguono due possibili risposte, di fuga o -laddove quest’ultima non sia possibile-di attacco, oppure di collasso nel caso in cui le risposte precedenti non siano state possibili (l’immobilità tonica descritta in questo brillante video o in questo articolo ). Sul PTSD, come viene descritto in questo articolo, esiste una controversia scientifica per comprendere se e in che modo il disturbo esista anche negli animali: non tanto quindi la reazione al trauma, quanto tutto ciò che al trauma consegue, che nell’uomo appare così difficile da lasciare andare. Gli autori fanno riferimento a questo lavoro (piuttosto recente), che cita diversi altri lavori fondamentali (come questo e ancora di più questo), e all’interno del quale gli autori osservano come un animale spaventato produca meno prole e questo aumenti la quantità di vegetazione su un determinato territorio (in questo senso viene usata la formula “ecologia della paura”). Al di là di questo, l’articolo sintetizza lo stato attuale degli studi sul trauma negli animali. Interessante.
Eccovi l’articolo:
7. Tutto sul self-talk!
Il linguaggio interno è da sempre oggetto della ricerca in ambito di psicologia clinica, in primis della psicologia evolutiva. Il celebre Vygotskij considera il linguaggio interno -nei bambini- come uno strumento auto-normativo, un modo di autoregolarsi in una fase di crescita rapida.
Dalla pagina Wikipedia dedicata alla voce “discorso interno”, apprendiamo che lo stesso Vygotskij descrisse il linguaggio interno in modo fenomenologicamente puntuale:
“Essendo un linguaggio soggettivo “per sé stessi”, ipotizzando una sua registrazione risulterebbe incomprensibile a chiunque, in quanto formato da estreme abbreviazioni, sintatticamente formato da soli predicati in quanto il soggetto è dato per scontato, ricco di cambi di paradigma “ipertestuali” con immagini o fantasie esclusive”
Il self-talk, il parlare a sé, è però clinicamente rilevante anche in molteplici altre aree del lavoro dello psicoterapeuta: pensiamo al self-blame del paziente depresso, o al rimuginio incessante del paziente ossessivo.
L’articolo che qui proponiamo è un approfondimento su questo “fenomeno“ della psicologia umana, preso in modo trasversale. Si tratta di una review di 100 articoli selezionati, incentrati sul tema, “scansionati” e analizzati per capire quali fossero i punti più importanti in comune. Da questo lavoro gli autori estrapolano prima di tutto una categorizzazione del self talk (buono/cattivo, libero/orientato al compito, strategico, etc.), quindi passano in rassegna gli articoli partendo da questa iniziale, grande divisione in categorie, fornendo alcuni spunti estremamente interessanti (per esempio propongono di parlare non tanto di self-talk buono o cattivo, ma di self-talk “facilitante” o “disabilitante”).
Ne risulta una concettualizzazione del self-talk legata a doppio filo al tema della -di nuovo- metacognizione: la funzione del self-talk, sarebbe una funzione regolativa (il che ci riporta alla teoria iniziale di Vygotskij, per la quale il linguaggio interno avrebbe una funzione normativa -autoregolativa appunto). L’articolo contiene molto, molto altro, e costruisce infine un modello “totale” (qui riassunto).
Eccovi l’articolo:
Self-Talk: An Interdisciplinary Review and Transdisciplinary Model
8. 10 anni in più
È di recentissima pubblicazione su The Lancet un articolo che indaga le conseguenze in termini cognitivi del Long Covid: a quanto pare, nei soggetti colpiti da Covid e portatori di sintomi “di lunga durata” (Long Covid, appunto), vi sarebbe un abbassamento del livello di performance congnitiva paragonabile ad aver subìto un invecchiamento di 10 anni di età. Il problema del Long Covid è ancora poco esplorato, e necessità nei prossimi anni di essere compreso a fondo (si veda per esempio questo lavoro su Nature: https://doi.org/10.1038/s41467-023-39193-y)
Eccovi l’articolo:
9. Dal digiuno intermittente alla dieta mima-digiuno: conoscere il lavoro di Valter Longo
Uno dei nostri riferimenti in termini di fonti, è sicuramente il portale Found My Fitness curato da Rhonda Patrick, che approfondisce diversi aspetti inerenti il benessere psico-fisico. I contenuti sono sempre di estrema qualità. Sulla pagina inerente il tema del digiuno, troviamo diversi riferimenti autorevoli: sappiamo che lavorare sull’alimentazione ha ricadute a cascata sul benessere psichico (gli studi sulla psichiatria dello stile di vita ce lo ricordano). Tra questi lavori, è citato un lavoro a proposito del cosiddetto programma mima-digiuno, una tipologia peculiare di dieta, che possiamo approfondire sulla pagina personale di Valter Longo, un ricercatore e professore italiano naturalizzato statunitense riferimento internazionale sul tema della longevità e ideatore della dieta, appunto, “mima digiuno”. Questa tipologia di dieta prevede un peculiare regime alimentare fatto a cicli (qualche giorno al mese), con caratteristiche peculiari (qui un esempio: https://www.abiby.it/magazine/beauty-news/dieta-mima-digiuno/). Nell’articolo che riportiamo, un approfondimento sui suoi benefici, e un’introduzione alla tematica.
Eccovi l’articolo:
10. Articolo Storico!! Un parco per i topi
Se parliamo di addiction e dipendenza, non possiamo prescindere dal lavoro sugli ambienti arricchiti e dagli esperimenti di Bruce Alexander negli anni ‘70. Questo sperimentatore indagò la compulsione a consumare una determinata sostanza nei topi, quando questi fossero inseriti in un contesto più o meno “ricco” in termini di stimoli ambientali.
Alexander propose un’ipotesi innovativa: la dipendenza da sostanze non sarebbe consistita principalmente nel “legame chimico”, ma piuttosto sarebbe stata causata dalle condizioni di vita stressanti e deprivanti in cui l’individuo si fosse trovat*. Per verificare la sua teoria, Alexander creò -per le cavie- un ambiente chiamato Rat Park, uno spazio più ampio e stimolante, con cibo abbondante e la presenza di altri topi di entrambi i sessi nella stessa gabbia. Le cavie avevano accesso a giochi, svago e possibilità di riproduzione e cura dei cuccioli, creando un ambiente simile a quello naturale dei topi.
Nel Rat Park le cavie, che precedentemente avevano sviluppato dipendenza da morfina (in esperimenti tradizionali), mostravano una minoranza di preferenza per l’acqua con morfina. Come a dire: un deterrente naturale per lo sviluppo di addiction, sembrava essere il “senso di connessione” e la quantità di stimoli presenti nell’ambiente stesso.
Eccovi l’articolo:
The effect of housing and gender on morphine self-administration in rats.