di Raffaele Avico, Ilaria Carolina Bruschi
“Gli atti che rimangono atti inferiori possono essere chiamati atti subconsci… Vi sono nel mondo attuale dei fatti che sono scritti nei libri, e possiamo dire che tutta l’evoluzione attuale consiste nel trasformare in libri i fenomeni che esistono nel mondo. Esistono evidentemente dei fenomeni che ancora non sono scritti nei libri, ad ogni grado esistono fenomeni che non si trasformano, il che fa sì che gli atti inferiori sussistano in quelli superiori” (Pierre Janet)
INTRODUZIONE
In un essere umano sano, l’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di differenziare tra un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa.
Nel resoconto che un individuo farà del suo passato, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo riportarlo alla luce, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato. Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la sua non elaborabilità in termini mnestici. La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria. Sembra cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo finalmente trascorso.
Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamata Disturbo da Stress Post Traumatico (e non, come a volte si legge, Disturbo Post traumatico da Stress), in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD.
Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo. Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè: centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, però meno intensa, in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo acceso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.
L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo.
Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.
Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi vissuti nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento.
Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo possa essere in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale perdurato, per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo.
Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto. I potenti strumenti di apprendimento messi a sua disposizione dall’evoluzione, sembrano ritorcerglisi contro contribuendo a far sì che per lungo tempo questi non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del suo ricordo.
In questo senso, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale.
L’uso dell’arte per rispondere allo stress post traumatico, è cosa nota e ben sperimentata; arte terapia, musicoterapia, uso di forme espressive di varia natura (come per esempio la sabbia terapia, strumento notoriamente in mano a psicoanalisti junghiani, ma non solo), ci raccontano di modalità alternative, non necessariamente verbali, per tentare di “ricomporre” una trama narrativa nella vita di un individuo, devastata, per esempio, da un evento traumatico. La parola chiave in questo caso è simbolizzazione.
IL RUOLO DELL’ARTE NELLA CLINICA
In arte-terapia, quando si propone un lavoro clinico sul trauma, si cerca l’attivazione di un processo creativo tramite i medium artistici.
L’arte ha, da sempre, rivestito un ruolo centrale nell’elaborazione dei traumi.
Se il trauma è infatti un evento che spiazza il soggetto essendo inimmaginabile, scandaloso nella sua portata dirompente, l’arte ha nel tempo assunto un ruolo terapeutico tanto più importante quanto più profonda è la ferita inferta dal trauma stesso. Spesso, l’arte che potremmo definire post-traumatica, è altrettanto scandalosa e dirompente, inimmaginabile allo stesso modo del trauma, ma in senso positivo.
L’artista, come spesso ripete Massimo Recalcati, lavora con i “resti”, con la ferita, esponendola, simbolizzandola. Dove il linguaggio verbale non sembra arrivare, può arrivare il pensiero artistico (un pensiero “de-burocratizzato”), espresso nel gesto artistico. Pensiamo per esempio a Guernica di Picasso, alle opere di Munch, all’espressionismo tedesco del dopo-guerra. È più che probabile che il periodo post pandemico che si apre a noi davanti, porti molta nuova arte, necessaria ad aiutarci alla mentalizzazione di ciò che nel 2020 abbiamo trascorso. Non c’è protocollo CBT o strumento psicoterapeutico che tenga: l’arte avrà un ruolo centrale nel fornirci di una cornice simbolica che ci consenta di comprendere e, di nuovo, simbolizzare il trauma.
Il processo artistico, in grado di “forzare” l’artista a una simbolizzazione del trauma, prevede non solo gli aspetti concreti del “fare arte con le mani”: coinvolge anche specifiche funzioni cerebrali della memoria, dell’immagine e della generazioni di simboli.
L’attivazione del processo creativo è il motore dell’elaborazione emotiva.
Il processo creativo svolge una funzione auto-regolatoria fondamentale. Sappiamo che l’emisfero destro -se confrontato con il sinistro- ha un ruolo determinante nell’elaborazione dell’esperienza emotiva e nell’autoregolazione. L’emisfero destro è il vero emisfero “dominante”, come sostiene Iain McGilchrist.
Nelle esperienze traumatiche la dissociazione si esprime con una mancata integrazione delle aree corticali – e le memorie traumatiche rimangono contenute nel CervelloMente in forma procedurale e implicita.
Ci sono varie tecniche in arte-terapia per collegarsi con queste esperienze profonde: una semplice modalità, e poco conosciuta, è imparare a disegnare con la mano non dominante, come spiega Lucia Capacchione in “The power of the other hand”. Disegnare, scrivere o dipingere con la mano che non è dominante aiuta a collegarsi con le parti più inespresse dell’esperienza emotiva, latenti e localizzate nelle aree limbiche dell’emisfero destro. Katherine Killick, in “Art, Psychotherapy ad psychosis”, scrive alcune riflessioni interessanti sul materiale artistico prodotto dai suoi pazienti relative alla capacità di simbolizzazione e agli effetti terapeutici: creando un’immagine essa “contiene” e “delimita” l’intensità energetica del processi emotivi e in accordo con le teorie freudiane delle sublimazione anche il “gesto pittorico” -ossia la manualità artistica-, delimita e incanala la personalità del materiale inconscio, producendo la spinta creativa.
Senza dimenticare che una volta creata l’immagine o l’opera, qualsiasi sentimento/affetto verrà da essa custodito, protetto e celato a seconda della volontà dell’artista, divenendo ancora una volta interscambio autoregolatore tra il mondo interno e il mondo esterno. Su questo tema, per approfondire, Massimo Recalcati ha scritto molteplici lavori. Si veda: Massimo Recalcati. Arte e psicanalisi: il mistero dell`opera – Rai Scuola. Sempre sul lavoro di Recalcati (relativamente anche al rapporto tra elaborazione del trauma e gesto artistico), questo libro di Nicolò Terminio: Introduzione a Massimo Recalcati.
Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.