di Raffaele Avico
Il volume La città che cura consente un’osservazione diretta della realtà medico-psichiatrica di Trieste, considerata il modello di punta del sistema psichiatrico italiano, per molteplici ragioni.
Innanzitutto, è qui che nacque e si allargò il movimento basagliano che consentì, con la legge 180, di smantellare i manicomi, rendendo l’Italia, è bene ricordarlo, un posto unico al mondo per quanto riguarda la salute mentale. Le istituzioni manicomiali continuano a esistere un po’ in tutto il mondo, tranne che da noi, sostituite da strumenti alternativi di presa in carico della salute mentale della popolazione. Qui un articolo di Allen Frances (task force DSM IV) a proposito della realtà di Trieste.
Nel libro La città che cura, viene descritta la realtà triestina con particolare riferimento al tema delle microaree, strumento territoriale esistente solo nella realtà di Trieste.
Dobbiamo innanzitutto fare un passo indietro e dare una definizione di recovery, termine psichiatrico oggi di uso comune ma di cui è bene dare una definizione sommaria. Il termine recovery si riferisce a un processo di ri-assegnazione di competenze: tiene in sé quindi aspetti diversificati, che completano il semplice obiettivo clinico di remissione di un certo sintomo. In psichiatria il termine diviene di particolare rilevanza perchè riguarda non solamente la gestione di un determinato sintomo o insieme di sintomi, ma anche un senso di recupero di risorse personali passanti per il reinserimento sociale, le borse lavoro, la creazione di una rete, la riappropriazione di un’individualità mediante un maggiore “partecipazione e connessione” alla realtà.
La realtà triestina ha da sempre riservato un’attenzione particolare a questi aspetti ruotanti intorno a ciò che potremmo definire una generale movimento e tentativo di “capacitazione” dei soggetti.
Le microaree sono idealmente dei passaggi intermedi, ovvero degli anelli che congiungono il territorio e l’azienda sanitaria nel contesto della città di Trieste. Per fare un esempio, rappresentano l’anello mancante tra il paziente ossessivo rinchiuso in casa, e lo psichiatra del suo CSM. Si pongono cioè come punto di assorbimento e presa in carico di bisogni della popolazione, in particolare dove questi siano evidentemente stringenti o urgenti.
Nell’appendice del libro La città che cura ne troviamo una definizione generale: “le microaree sono piccole aree della città che comprendono dai 340 ai 2200 abitanti ciascuna, e sono caratterizzate per lo più da grandi insediamenti di caseggiati Ater ”. I caseggiati Ater sono complessi condominiari popolari.
Strutturalmente, parliamo di “spazi multifunzionali con una posizione visibile e accessibile, preferibilmente dotati di spazio ristoro e aperto alla sperimentazione di forme di parziale autogestione da parte degli abitanti”. Al momento, nella città di Trieste ve ne sono 16, stando ai dati riportati dal libro (2018).
Per quanto riguarda i “dispositivi” coinvolti, sono sostanzialmente quattro:
- referente di microarea (un infermiere dell’Asl o proveniente dal “terzo settore”, che coordina la microarea)
- un portiere sociale afferente ad Ater (un portiere sociale per zona, rivolto agli inquilini degli stessi caseggiati Ater)
- la sede fisica stessa
- il Gruppo Tecnico Territoriale, che riunisce tutti gli operatori sociali presenti nella microarea stessa (provenienti per esempio dai CSM , dai SERD del territorio, dai Servizi Sociali, etc.)
All’interno del volume è inoltre riportata un’intervista a Cristina Montesi, medico triestino impegnata direttamente nel progetto microaree, a proposito delle specificità del lavoro seguendo questo modello; emergono alcuni aspetti salienti:
- la microarea, come già sottolineato, si configura come anello di congiunzione tra territorio e distretto sanitario, e anche come orecchio di ascolto per bisogni non solamente sanitari di quella zona specifica
- la mission del progetto non è solo coprire i bisogni strettamente sanitari, ma anche di fornire un punto di aggregazione in cui convergano bisogni molteplici e più vasti, ruotanti intorno al concetto di “servizio sociale” e con la presenza di operatori di formazione variegata (psicologi, educatori, assistenti sociale, medici)
- pur essendo settata su obiettivi molteplici, è possibile che ogni microarea si ponga obiettivi focali di anno in anno rivalutati (per esempio il monitoraggio di situazioni croniche di malattia -diabete, pneumopatie-, rintracciate per mezzo di una maggiore vicinanza fisica alle persone del luogo)
- la natura della microarea, e il suo posizionamento, consentono interventi di natura domiciliare, resi possibili dalla conoscenza diretta del territorio, laddove in altri luoghi (per un esempio grandi città) i servizi domiciliari dovrebbero necessariamente essere esternalizzati e delegati a enti privati
- la microarea concettualmente pone in evidenza la distinzione netta che esiste tra medicina ospedaliera e medicina territoriale. La medicina ospedaliera, obbligatoria in grandi centri urbani dove la capillarizzazione delle cura diviene impossibile, consente una presa in carico del caso limitata ai confini dell’ospedale stesso. Le microaree diffondono invece una metodologia medica differente, incentrata su una presa in carico completa e una minore spersonalizzazione del paziente (viene sottolineato come l’esperienza del ricovero ospedaliero risulti spesso profondamente traumatica per il paziente, essendo vissuta come evento “discontinuo” in termini narrativi, difficilmente ascrivibile al “naturale ordine delle cose”).
Visto il contesto in cui la pratica delle microaree si svolge, diviene maggiormente chiaro il titolo stesso del volume, La città che cura, come a porre l’accento sulla differente conformazione delle infrastrutture atte a fornire welfare sanitario nell’area descritta, forse unica in Italia, che hanno reso il “modello triestino” punto di riferimento per buone prassi sanitarie sia in ambito medico che socio-psichiatrico.
De La città che cura è stato fatto anche un film-documentario. Per un approfondimento.