di Andrea Escelsior, medico, specializzando in psichiatria, Università di Genova
Recensione: “Shooting up. Storia dell’uso militare delle droghe” di Łukasz Kamieński (Edizioni UTET, 2017; 566 pagine)
Il libro è degno di nota per diverse ragioni. Innanzitutto l’argomento. Come ricorda l’autore, nonostante esistano diverse opere storiografiche sulla droga, sono pochi quelli che tattano nello specifico l’uso militare. In secondo luogo, è un libro che può interessare di chi si occupa di salute mentale. Mi spiego meglio. Anche solo nello sfogliare casualmente le pagine vi imbatterete in numerose citazioni, molte di soldati, i protagonisti di questa tragica epopea, che vi metteranno in un contatto non mediato, umano ed emotivo, con la realtà della tossicodipendenza al fronte; è inoltre possibile apprezzare dettagli storici e tecnici inerenti gli specifici agenti psicofarmacologici utilizzati e le case farmaceutiche coinvolte nella produzione.
L’utilizzo di sostanze psicotrope è stato attivamente sostenuto da stati, gruppi paramilitari o terroristici a fini medici o cosmetici (indurre il potenziamento di funzioni ritenute utili quali aggressività, resistenza allo sforzo, attenzione ecc.). Già nel 1546 il naturalista francese Pierre Belon scrisse: “i soldati turchi mangiano l’oppio perché pensano che diventeranno più valorosi e avranno meno orrore dei pericoli della battaglia”. Questo ha riguardato ogni classe di droghe, con sfumature ed atteggiamenti differenti, come dimostrato ad esempio dai cannabinoidi, largamente utilizzati durante la Guerra coloniale anglo-zulu (1879) dai soldati zulu per incrementare la forza e l’aggressività, ma proibiti durante la Campagna d’Egitto (1798-1801) nell’esercito francese dall’ordinanza anti hashish di Napoleone “mirata a evitare che l’esercito si riducesse a un maldestro «ammasso di scarafaggi»”.
Ma solo a partire dallo sviluppo della grande industria l’uso di sostanze psicotrope a scopo bellico ha assunto dimensioni di massa. Un esempio paradigmatico in questo senso è quello del Pervitin, un derivato amfetaminico prodotto in Germania a partire dal 1938. Il Pervitin ebbe un ruolo non indifferente nella conduzione della tattica militare del Blitzkrieg, che si fondava sulla capacità dell’esercito di compiere movimenti rapidi e di lunga portata. Il costo umano di questa operazione farmacologica fu elevato. Le dosi del farmaco distribuite erano di solito direttamente proporzionali all’importanza delle operazioni svolte, a seguito delle quali i soldati potevano presentare gravi ricadute depressive legate all’assunzione. Entro pochi anni, per le strade della conquistata Grande Germania si trascinavano schiere di tossicodipendenti di Stato, una parte dei quali furono internati nei manicomi del Reich a seguito degli effetti collaterali psicotomimetici. Esemplificativo del rapporto che il soldato aveva con il Pervitin e di come questo venisse utilizzato per sopportare orrori e fatiche altrimenti insopportabili è dato da questa lettera spedita ai genitori nel 1939 dalla Polonia occupata da un giovane Heinrich Böll, futuro Premio Nobel per la letteratura: “È dura quaggiù, e spero capirete se riesco solo a scrivervi ogni due-quattro giorni. Oggi vi scrivo soprattutto per chiedervi del Pervitin […] Con affetto, Hein”.
Una sfumatura particolare dell’uso “istituzionalizzato” delle sostanze psicotrope è fornito dalle recenti guerre civili africane; nelle quali i soldati, spesso bambini, vengono indotti alla tossicodipendenza, per essere più facilmente portati ad uccidere e controllati attraverso il ricatto dell’astinenza. Tale tecnica è stata indifferentemente utilizzata da varie fazioni, sia governative che ribelli. Una testimonianza particolarmente indicativa è quella fornita da Ishmael Beah, ex bambino soldato delle milizie ribelli (RUF) durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002): “Dopo aver camminato per ore, ci fermavamo soltanto per mangiare sardine e carne sotto sale con gari (manioca), sniffare cocaina, brown-brown, e mandar giù qualche pasticca bianca. La combinazione di droghe ci faceva sentire pieni di energia e fieri di noi stessi. L’idea della morte non ci sfiorava nemmeno, e uccidere era diventato facile come bere un bicchier d’acqua. Dopo la prima volta non solo si era spezzato qualcosa nella mia mente, ma mi sembrava anche di aver perso la capacità di provare rimorso.” Solomon F., ex bambino soldato durante la guerra civile in Liberia, fornisce una testimonianza analoga: “[…]erba, sigarette, dugee (compresse), cookis (compresse ridotte in polvere) […] Te le danno ogni volta che devi andare al fronte. Bisogna fare qualcosa perché uccidere qualcuno non è una bella sensazione. Le droghe ti servono per aver la forza di uccidere”
Al di là degli usi “istituzionalizzati”, è da sempre invalsa l’abitudine ad un consumo voluttario da parte dei combattenti, come tossicodipendenza acquisita a seguito dell’uso medico di sostanze psicotrope o per lenire le immani sofferenze fisiche o morali derivanti dal conflitto. Gli effetti sociali devastanti di tale consume si evidenziano in particolare quando i conflitti assumono il carattere della mobilitazione di massa. La Guerra Civile Americana (1861-1865), primo esempio storico in tal senso, fu infatti caratterizzata per l’abuso di morfina da parte dei soldati. Spesso l’abuso di morfina seguiva all’utilizzo di tipo medico, molto significativo in proporzione al vasto numero di feriti. Il poeta Walt Whitman, che prestò servizio come portaferiti nella zona di Washington descrive così il contesto di quelle retrovie in cui molti soldati feriti venivano spesso per la prima volta a contatto con la morfina: “Ce ne sono parecchi. Se ne stanno lì[…]in uno spazio aperto in mezzo al bosco, tra i 200 e i 300 poveretti – i gemiti e le urla – l’odore di sangue, mescolato al fresco profumo della notte, dell’erba, degli alberi – quel mattatoio!”.
Gerald Starkey nel 1971 quantificherà in circa 400.000 il numero giovani veterani di guerra dipendenti dalla morfina nel 1865. Su tale collegamento tra guerra di massa e tossicodipendenza invitò a riflettere Jeanette Marks, professoressa di Yale già nel 1915 scrivendo, nell’articolo “The Couse of Narcotism in America – A Reveille” sull’American Journal of Public Health: “Sapevate che praticamente tutte le famiglie storiche americane che hanno mandato uomini alla guerra civile hanno avuto i loro problemi di tossicodipendenza? Sapevate che era chiamata malattia del soldato per la sua diffusione? Sapevate che con la guerra che incombe su di noi, il demone della droga si trasformerà in un gigante ancora più spaventoso di quello attuale?”. Era l’alba della Prima Guerra Mondiale, e a posteriori questa ipotesi non può che dirsi tragicamente confermata. L’aritmetica del massacro mostrerà infatti come alla crescita delle forze produttive corrisponderà una aumento della capacità della mobilitazione ai fronti, decuplicando così i feriti, i morti, e di un nuovo esercito senza nazione di soldati divenuti tossicodipendenti per porre un argine sottile all’insopportabile orrore della guerra, che paiono muoversi in uno stretto limbo tra la morte e la vita.
A tal proposito particolarmente indicativa è la testimonianza di Takushima Norimitsu, soldato giapponese nel 1944 che, ad un anno dalla sua morte, scrive: “È difficile sperare nella gloria del ritorno dal campo di battaglia. Credendo che cadere sul campo di battaglia come una goccia di rugiada sia una scorciatoia per l’eternità, e non avendo alcuna garanzia di essere vivo l’indomani, mi sembra molto umano bere qualcosa, ubriacarsi e cantare canzoni con passione. Nessuno potrebbe ridere di un tale comportamento.”
Le guerre più recenti non faranno eccezione. Gonzalo Baltazar, soldato semplice durante il conflitto in Vietnam (1955-1975) scrive: “Tutti in Vietnam bevevano come spugne, e ogni occasione era buona per bere fino a diventare scemi. Noi della fanteria eravamo tutti una massa di alcolizzati”. Igor Koval’chuk, veterano sovietico della guerra in Afghanistan (1979-1989), sottolinea invece con queste parole la necessità di assumere sostanze psicotrope per corrispondere alle aspettative disumane richieste dal conflitto: “È meglio se entri in azione strafatto – ti trasformi in un animale”. L’atteggiamento degli stati rispetto a tali fenomeni di consumo voluttuario alternava il più o meno esplicito avallo alla proibizione. Generalmente è presente una doppia morale, per la quale ciò che veniva consentito ai soldati era proibito ai civili, con la rara eccezione del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale il Paese passò dall’avere restrizioni tra le più severe al mondo allo sponsorizzare apertamente l’uso di stimolanti tanto nei soldati quanto tra i lavoratori, allo scopo di incrementare la produttività industriale.
Molto interessanti sono poi gli aspetti di uso economico-politico della droga descritti nel libro. Infatti, le droghe sono state storicamente utilizzate come strumento di asservimento economico e fonte di profitto o di offensiva politica, come nei casi delle guerre dell’oppio, dell’occupazione giapponese della Cina, dei talebani nella guerra tra Afghanistan ed Unione Sovietica o nel caso dei gruppi narcoguerriglieri quali quelli sudamericani. Le sostanze psicotrope sono state inoltre studiate quale arma militare propriamente detta, come ad esempio testimoniato dagli esperimenti sull’LSD durante la Guerra Fredda.
Nelle ultime pagine del libro viene descritto come il tentativo di sviluppare armi farmacologiche per l’utilizzo bellico sia tutt’ora in corso. In questo senso il libro invita a riflettere su come la attuale escalation agli armamenti da parte di tutte le grandi potenze comprenda una corrispondente escalation psicofarmacologica. Gli uomini, in quanto ingranaggi del macchinario bellico, paiono infatti dover garantire standard di efficienza pari a quelli delle attrezzature utilizzate.
Di fronte a questi dati è difficile sottrarsi dall’amara sensazione che questo libro, con le sue 566 pagine, non sia che un primo capitolo.