di Raffaele Avico, Francesco della Gatta
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Settembre 2022: POPMED #3
- Negli ultimi 10 anni numerose ricerche hanno evidenziato come l’uso eccessivo dei dispositivi mobili sia un alto fattore di rischio nel minare la salute mentale; e tale rischio cresce al diminuire dell’età dei soggetti. Sintomatologie depressive, ritiro sociale, esposizione al cyberbullismo, disturbi d’ansia sono alcuni degli outcome più frequenti della sempre più frequente e totale immersione nel virtuale. La logica e i dati ci suggeriscono che più una persona investe il proprio tempo nell’utilizzo dello smartphone, maggiore sarà il rischio, ad esempio, di sviluppare un profilo ansioso. La pandemia Covid è stata, per certi versi, un propulsore nella decrescita dei livelli di salute mentale e, nel 2020, il numero di ore di utilizzo degli smartphone ha avuto una notevole impennata verso l’alto. Alcuni ricercatori Cinesi si sono chiesti se, nel periodo della pandemia, i due eventi correlassero positivamente, ovvero maggiore esposizione smartphone=maggiore rischio di ansia. I risultati, ottenuti su un campione di 250 studenti universitari in lockdown, mostrano tuttavia un dato controintuitivo, suggerendo che l’utilizzo dello smartphone possa avere aiutato i soggetti nel mantenere i contatti con le persone non più frequentabili causa pandemia e tenuto a bada la crescita della sintomatologia ansiosa. Come narra un vecchio detto “Non tutto il virtuale vien per nuocere”. Trovi qui l’articolo: Smartphone Usage and Anxiety among College Students during Social Isolation for Covid-19 Epidemic in China
- La violenza domestica, una vera piaga del nostro millennio. Secondo la Europian Union Agency For Fundamental Rights a partire dall’età di 15 anni, più di una donna su due ha subito molestie sessuali, una su tre ha subito violenza fisica e/o sessuale, una su cinque è stata vittima di stalking (18%) e una su venti di stupro (5%). Il 43% delle donne ha subìto violenza psicologica. Qui un’ulteriore indagine approfondita a cura dell’ISTAT. Un gruppo di ricercatori britannici si è recentemente occupato di analizzare l’incidenza che tali numeri hanno nella generazione di outcome psicopatologici. Il campione, composto da oltre 7000 soggetti dai sedici anni in su, mostra come le vittime di violenza domestica (in ogni sua forma) presentino un altissimo rischio di comportamenti autolesivi e tentati suicidi rispetto alla restante popolazione psichiatrica. Un’interessante chiave di lettura che la ricerca offre è che agli operatori della salute mentale che si trovino di fronte ad un paziente che mette in atto comportamenti autolesivi e/o suicidari debba sempre risuonare un campanello d’allarme ed esplorare il dominio domestico alla ricerca di episodi di violenza passati o in corso. Solo in tal modo si potrà comprendere “the whole picture” e impostare un adeguato piano terapeutico per i pazienti. “A new must is to ask”; trovi qui l’articolo: Intimate partner violence, suicidality, and self-harm:
a probability sample survey of the general population in England - Negli ultimi anni, e in particolare nel periodo della pandemia da Covid19, la lettura di quotidiani online ha rappresentato un affaccio diretto da parte della popolazione su tutto ciò che accadeva nel mondo. Esporsi però a news catastrofiche con una frequenza costante, può avere delle conseguenze in termini di salute mentale. Questa ricerca ha voluto indagare il fenomeno del news-avoidance, le conseguenze della sovra-esposizione alle news e l’impatto che il tenersi lontani dall’ambito “comunicazione” avrebbe sull’ingaggio politico. Ne parla qui il direttore del Post Luca Sofri che, citando l’articolo, scrive: «la presentazione degli autori della ricerca spiega che “mentre gli studiosi di comunicazione politica hanno spesso trattato il consumo delle news come la pietra angolare della buona cittadinanza, abbiamo scoperto che le scelte e le percezioni sul dovere di tenersi informati degli avoiders sono irregolari e poco elaborate, in buona parte per via di una previsione che le news procureranno loro ansie senza essere rilevanti per le loro vite: con il risultato di un coinvolgimento limitato nelle news stesse, e per estensione nelle questioni politiche e civiche. Promuovere società più informate richiede che si affrontino questi radicati punti di vista”». Particolarmente interessante per gli interessati all’ambito giornalismo/comunicazione. Trovi qui l’articolo: How News Feels: Anticipated Anxiety as a Factor in News Avoidance and a Barrier to Political Engagement
- La psicosi è comunemente definita come un disturbo psichiatrico che implica una grave alterazione dell’equilibrio psichico del paziente e comporta una serie di sintomi che ne invalidano e compromettono il regolare funzionamento. Bene, questa è una delle definizioni più canoniche ed allo stesso tempo più spersonalizzanti di tale patologia, cosa che succede spesso nel dominio psichiatrico. Grande attenzione ai sintomi, quasi totale neglect dell’esperienza soggettiva del paziente. È nell’ottica di colmare questo dilaniante gap che vi proponiamo questo ricco articolo ad impronta neurofenomenologica, che tiene cioè insieme una lettura di tale patologia dal punto di vista della terza persona (approccio canonico della scienza hard, dalla teoria al soggetto) e della prima persona (approccio fenomenologico, dalla persona alla teoria). Un modo nuovo di comprendere la patologia psichiatrica, partendo dall’esperienza vissuta in prima persona dal paziente stesso; comprensione arricchita inoltre dall’integrazione dei punti di vista di familiari, assistenti ed operatori. Trovi qui l’articolo: The lived experience of psychosis: a bottom-up review co-written by experts by experience and academics
- Chi non ha sentito parlare di mindfulness negli ultimi anni? Ce la si ritrova praticamente ovunque e purtroppo chiunque la propone come pratica di benessere psicofisico. Detta così sembra una vera supercazzola e questo tiene lontani da essa molti clinici che scelgono di non voler cadere nel qualunquismo spicciolo che troviamo nei salotti di chi si vende come istruttore di mindfulness dopo aver comprato un corso di qualche ora online. Tuttavia, la mindfulness funziona, la letteratura scientifica è ricca di evidenze per trattamenti di successo e noi è su questo che vogliamo informarvi. Per il clinico formato su protocolli validati, la mindfulness è, in primo luogo, un ottimo strumento di regolazione emotiva, sia in termini neurofisiologici che semantici ed ha una economia intrinseca che, rapportata all’efficacia, sarebbe una mossa superficiale non tenere in considerazione. Recentemente un gruppo di ricercatori ne ha testato l’efficacia nel trattamento di disturbi d’ansia refrattari ad altri trattamenti psicoterapici, e i risultati sono assolutamente degni di nota. Sarà il caso di ripensare alla mindfulness come pratica da integrare in ogni approccio psicoterapico e, soprattutto, di appropriarcene in quanto esperti di salute mentale? Trovi qui l’articolo: Mindfulness-based cognitive group therapy for treatment-refractory anxiety disorder: A pragmatic randomized controlled trial
- La separazione tra ricerca di base ed applicata ha origini storiche che probabilmente risalgono all’antica Grecia. Tuttavia, una semplificazione forzata ma legittima può spingerci ad indicare un punto zero con la nascita del metodo scientifico ad opera di Galileo Galilei. Nei successivi 500 anni ne sono successe di cose, da grandi fallimenti a grandi rivoluzioni, e si è strutturata sempre più la distinzione nel modo di fare scienza: puro e duro (di base) oppure soft e applicato. Distinzione questa un po’ artificiosa, già annunciata 200 anni fa da Louis Pasteur, con la sua celeberrima frase “non esiste la scienza applicata, esistono solo le applicazioni della scienza”. Sembra ragionevole sostenere dunque un’unica differenza nel campo scientifico, ovvero quella tra buona o scarsa ricerca; a tal proposito qui trovate un interessante editoriale. Quando poi ci spostiamo nel campo della salute mentale, mantenere distinte le applicabilità di conoscenze teoriche rispetto alla pratica clinica è quanto meno deleterio. Infatti, sempre più ricerche mostrano quanto l’efficacia in termini di comprensione e trattamento delle patologie psichiatriche acquisisca un livello qualitativamente e quantitativamente superiore nell’integrazione dei due approcci. A questo proposito, un articolo interessante è uscito recentemente sull’American Journal of Psychiatry. Trovi l’articolo qui: Integrating Clinical and Basic Research: Opioid UseDisorder, Psychotic Illnesses, and PrefrontalMicrocircuits Relevant to Schizophrenia
- L’ipotesi di uno squilibrio neurotrasmettitoriale a fare da base alla depressione ci ha accompagnati per molti anni, qualcuno sostiene grazie alle campagne di marketing che seguirono -a fine anni ‘80- l’immisione sul mercato del farmaco Prozac. Al di là di questi aspetti, è recentemente stata pubblicata una revisione di revisioni (un articolo cioè che accorpa meta-analisi, che viene chiamato tecnicamente “umbrella review”) su Nature, che mette in crisi l’ipotesi serotoninergica riguardante la patogenesi della depressione. Articolo che ha, giustamente, avuto molta risonanza mediatica. Trovi qui l’articolo: The serotonin theory of depression: a systematic umbrella review of the evidence
- Il trauma è tornato di moda. Da una parte è un bene, dato che si ri-palesa la necessità di prendere in carico di pazienti da sempre definiti come troppo complessi e poco rispondenti ai trattamenti psicoterapici (e farmacologici). Dall’altra si corre un rischio, la nascita ogni sei mesi di un approccio nuovo e rivoluzionario con cui “guarire” i pazienti traumatizzati, spesso senza prove scientificamente validate. Ora, la visione critica nel suo complesso è materia lunga e complessa, sul trauma ti proporremo molti approfondimenti nel corso dell’anno (un “serpente” di articoli a tema trauma lo trovi qui). Il tema che oggi vorremmo approfondire è il trattamento del Complex Post-Traumatic Stress Disorder (CPTSD). In letteratura chi soffre di questa patologia è spesso definito come un paziente con aspetti del sé molto disorganizzati e che presenta elevati livelli di stress (arousal) all’esposizione dei canonici protocolli focalizzati sul trauma. La recente ricerca che ti proponiamo, condotta su 150 pazienti, dà una nuova chiave di lettura teorica e clinica per il CPTSD, affermando che questi pazienti, a differenza di come sempre pensato, possano beneficiare dei trattamenti canonici già presenti e validati, suggerendo di puntare su questi al posto di ricercare continuamente nuove mode e nuovi protocolli. Trovi qui l’articolo: Does complex PTSD predict or moderate treatment outcomes of three variants of exposure therapy?
- Il sonno ha rappresentato negli ultimi tempi un tema importante, centrale. In particolare se ne è parlato durante in mesi di lockdown, a marzo 2020, in relazione agli aspetti post-traumatici dell’avvento della pandemia da Covid19, e ancor di più nel corso del cosiddetto “secondo lockdown”, nell’inverno a cavallo tra il 2020 e il 2021. Una buona qualità del sonno rappresenta un importante “pilastro” per la tenuta della salute mentale di ogni individuo. Il management dell’insonnia è un tema che ogni professionista impegnato in ambito di salute mentale si è trovato, prima o dopo, ad affrontare (qui alcuni spunti su questo). Tra le altre cose, questo articolo approfondisce in modo articolato e chiaro il rapporto tra infiammazione e sonno. Gli autori così aprono questo lavoro: “Il sonno influenza profondamente le risposte immunitarie e infiammatorie, proteggendo dai disturbi immunitari associati all’età, comprese le malattie cardiovascolari, il cancro e le malattie neurodegenerative. Nonostante queste associazioni, più della metà degli adulti non dorme a sufficienza. Il sonno influisce su molti aspetti del sistema immunitario, comprese le risposte adattative, l’infiammazione e la sintesi di citochine e mediatori immunitari”. Trovi qui l’articolo: Sleep exerts lasting effects on hematopoietic stem cell function and diversity
- ARTICOLO STORICO! Un articolo fondamentale sulla trasmissione intergenerazione del trauma, scritto nel 2018 da una delle più esperte al mondo sul tema, Rachel Yehuda. Trovi qui l’articolo (pubblicato su World Psychiatry): Intergenerational transmission of trauma effects: putative role of epigenetic mechanisms
Per oggi è tutto.
Ci aggiorniamo tra due settimane su PopMed!
🙂