di Raffaele Avico
A riguardo del trauma, uno degli aspetti più controversi, sembra essere il ritorno attivo al trauma stesso, non solo attraverso le memorie intrusive o i flashback (come osserviamo nel film American Sniper), ma anche attraverso quello che sembra appunto una ricerca attiva della riesperienza del trauma.
Questo aspetto ci risulta controverso perchè è in contraddizione con quello che un freudiano chiamerebbe “principio di piacere”: sembra cioè andare contro l’idea che il nostro muoverci nella realtà sia sempre dettato dalla ricerca di qualcosa che ci procuri un miglioramento in termini di salute mentale. Al contrario, sopravvivere a un evento traumatico può dare avvio a curiose manifestazioni di quello che potremmo dire essere un “affezionamento” al trauma stesso. Per comprendere meglio questo aspetto è utile fare alcuni esempi:
- Marco, a seguito di un incidente d’auto altamente traumatico, si reca attivamente più volte al giorno sul luogo dell’incidente, attratto emotivamente dal luogo, sperimentando forti riattivazioni somatiche quando vi si riavvicini
- Lucia ricerca attivamente il pensiero, dentro di sè, relativo a un episodio di rottura relazionale per lei traumatizzante. Nei momenti di “vuoto mentale”, l’attrazione nei confronti di questo contenuto sembra farsi più forte; dedicarsi a qualche attività manuale, sembra riuscire a distrarla riportandola nel “qui ed ora”.
Come possiamo spiegare comportamenti di questo tipo, e cosa hanno in comune? Sappiamo che il trauma si ripresenta contro la volontà dell’individuo, per via di una serie di sintomi da riesperienza. Qui però abbiamo a che fare con una manifestazione clinica chi si avvicina maggiormente al tema della dipendenza. Sembra cioè che l’individuo sopravvissuto sia a volte portato a tornare all’oggetto-trauma, e che quindi attivamente lo ricerchi o gli si avvicini, per ragioni all’apparenza oscure. In qualche modo osserviamo un tendere verso l’evento traumatizzante, un movimento a metà tra il volontario e il compulsivo.
La psicotraumatologia tocca poco, se non pochissimo, questo aspetto della questione, anche nelle sue espressioni più alte.
Laddove la teoria psicotraumatologica si esprima sul lavoro “profondo”, lo fa relativamente al tema dell’elaborazione delle memorie traumatiche, tema peraltro centrale. Probabilmente questo accade perché non si tiene conto del rapporto affettivo che il soggetto instaura con il suo trauma, dando per scontato che sia qualcosa di cui l’individuo intenda disfarsi o liberarsi; spesso però intervengono altre complesse dinamiche che richiedono la messa in campo di strumenti di lettura del problema più articolati.
Per tentare di comprendere questo aspetto, è utile rifarci al tema del masochismo, usando al contempo una metafora “economica” del funzionamento mentale. Se adottiamo questa prospettiva, potremmo leggere la questione secondo una duplice ipotesi:
- il ritornare al trauma, potrebbe rappresentare per il soggetto il tentativo di espellere quote di energia libidica accumulate, in eccesso, durante il trauma stesso. Il trauma, avendo raccolto una quantità enorme di energia mentale (libido) intorno a sè, potrebbe elevarsi, per l’individuo, a unica modalità/via di fuga con cui poter dissipare questa stessa enorme quota di energia mentale. Parliamo dunque di economia mentale, di gestione delle risorse psichiche operata dal soggetto a seguito del trauma: negli esempi prima citati, i sopravvissuti tenderebbero a tornare al trauma proprio per -controintuitivamente- liberarsi del suo potere su di loro (cosa paradossale, perchè li osserveremo rimanerne invischiati e coinvolti, per molto tempo, a causa proprio di questo continuo “tornare” -come dentro una dipendenza). Ci viene qui in aiuto la metafora economica freudiana, che ci aiuta a comprendere come la mente tenda alla preservazione della libido, e un oggetto investito di molta energia psichica sia difficilmente “abbandonabile”, cosa che avviene anche nel lutto.
In termini poi di “terapia”, si ha l’impressione, con questi soggetti, che avendo a disposizione un oggetto esterno in grado di catalizzare con forza l’energia libidica attratta dall’evento traumatico, sia molto più semplice per lui/lei fare un passo ulteriore verso una condizione di libertà. Ovvero, occorrerebbe in questi casi trovare un elemento “altro” o “terzo” che consenta a lui/lei di dedicarsi ad altro, cosa che spesso viene a essere rappresentato dal percorso di psicoterapia stesso, o da un evento successivo al trauma che riuscirà a far ricollocare all’individuo l’energia mentale che a suo tempo spese intorno all’evento traumatizzante.
Questo, tra l’altro, avviene anche in altri quadri di psicopatologia (pensiamo per esempio a una donna ossessiva che superi le sue paure di contaminazione solo quando obbligata a soccorrere il marito malato): in questi casi vediamo come si creino dei rapporti di forza interni, tra oggetti: lo sblocco avverrà solo quando un oggetto più richiedente in termini libidici, si imporrà sul panorama mentale dell’individuo. Come osserviamo, è centrale in questi casi l’importanza di qualcosa/qualcuno che funzioni da elemento terzo in grado di operare un taglio, o di attrarre a sè l’individuo invischiato nelle dinamiche morbose prima accennate. - il ritornare al trauma, tuttavia, potrebbe essere anche interpretabile come una manifestazione di masochismo, di piacere provato nell’auto-distruzione. Su questo aspetto, è utile, per chi avesse tempo, seguire l’incontro sotto linkato, fatto sul canale tematico youtube di Psychiatry on Line a proposito del tema masochismo, in occasione dell’uscita di un libro di Rossella Valdrè. Valdrè parla del masochismo come della manifestazione sul soggetto di quella che sempre Freud chiama pulsione di morte, una pulsione apertamente anti-conservativa, non spiegabile evoluzionisticamente, rintracciabile tra l’altro solo nell’uomo (e in nessun altro animale).
Considerata questa doppia ipotesi, abbiamo rivolto alcune domande a Rossella Valdrè proprio a proposito del tema trauma/ritorno al trauma/masochismo.
Eccole:
- Dott.ssa Valdrè, nel seminario che presentava il suo libro “sul masochismo”, si è fatto breve cenno al tema del trauma. Come si spiega, usando questa lente interpretativa, la tendenza dei sopravvissuti al trauma a “tornare” all’evento traumatizzante, come succede verso un oggetto d’amore (o di dipendenza?)
Se seguiamo la teoria freudiana, il trauma è introdotto in “Al di là del principio di piacere” del 1920, sotto forma dei sogni ripetuti dei traumatizzati dopo la Grande Guerra: Freud osserva lo sconcertante fenomeno per cui questi soggetti, anzichè tendere a rimuovere il trauma, nel sogno continuano a tornarvi, a tornare, cioè, alla sofferenza. In questo stesso lavoro, come è noto, Freud postula l’esistenza di una pulsione di morte che abita dentro di noi, silenziosa, “muta”, che convive e combatte con la pulsione di vita e di cui i sogni post-traumatici, insieme alla coazione a ripetere e al masochismo, sarebbero un’espressione. Il principio è chiaramente antilibidico, antieconomico e, in questa luce, si spiega solo postulando nell’uomo l’esistenza di una pulsione che non va verso il soddisfacimento del piacere, ma verso il dis-piacere, la sofferenza. Più correttamente, la pulsione di morte (che non ha niente a che vedere con la morte comunemente intesa o con il desiderio di morte ma è piuttosto la morte del desiderio) tende a ripristinare l’omeostasi, la non tensione, a cancellare dunque l’eccesso, in una sorta di ritorno allo zero, ad un prima della vita. In quest’ottica, il ritorno del traumatizzato sul luogo del delitto, si spiega con il tentativo di azzerare una tensione, un eccesso pulsionale che il soggetto non è riuscito a legare in nuovi investimenti. Esistono poi, nel dopo Freud, altre letture del trauma non tanto economiche quanto relazionali. - Dott.ssa Valdrè, molti individui sembrano essere assorbiti dal pensiero del trauma, in grado di catalizzare ogni altra volontà di azione sul resto: come legge questo in termini di economia o ecologia psichica?
In termini di economia, mi rifaccio a quanto detto sopra: il fenomeno si spiega come un tentativo, spesso infruttuoso, di legare energia, o di azzerarne l’eccesso. L’ecologia psichica, come la chiama giustamente lei, è così mantenuta: vi sono infatti individui che per tutta la vita restano sul trauma, il che probabilmente ha anche la funzione protettiva di evitare altri traumi, evitando nuovi investimenti. É il caso di traumatizzati che non cercano terapie, ma anzi le sfuggono, perchè la terapia metterebbe in crisi un’economia psichica che per il soggetto può essersi rivelata “vincente”, come è in alcuni casi di masochismo. O, nella terapia, il trauma stesso si ripete sotto forma di coazione a ripetere che, nella sua forma più distruttiva (perchè ne esiste anche una trasformativa) sembra proprio una paradossale “fedeltà al trauma”. - Dott.ssa Valdrè, e quanto di questo ritornare al trauma è un atto deliberato, e quanto invece compulsivo?
In questo aspetto mi sento vicina al pensiero di Lacan, che riprende quello di Freud: siamo sempre responsabili, anche del nostro inconscio, come dice Freud a proposito dei sogni in un lavoro tardivo in cui gli si chiede se siamo responsabili dei nostri sogni, e risponde che sì, siamo responsabili. É un concetto difficile da accettare, perchè la nozione comune è di considerare chi ha subito un trauma come una vittima, e in effetti è anche vero questo. Per inciso, oggi viviamo in un tempo deresponsabilizzante, che tende ad elogiare la vittima, quindi il lavoro analitico si pone come ‘inattuale’, diverso dal senso comune. Ma da un punto di vista profondo, il soggetto assume sempre una posizione, una posizione che comporta un guadagno secondario, anche nel soffrire. Per i pazienti è in genere molto difficile accettare questo aspetto, del resto del tutto inconscio, ed è un delicato compito della terapia responsabilizzarli in tal senso. La compulsività, specie in personalità predisposte, mi pare più un effetto secondario, una modalità comportamentale di tenersi legati all’oggetto-trauma, che non un dato primario. Ma possono esserci delle eccezioni. Va detto che questa visione del trauma, dell’eccedenza pulsionale, vicina a Freud, non è oggi la prevalente in psicoanalisi, con l’eccezione di quella francofona. - Dott.ssa Valdrè, cosa libera gli individui da questa tendenza al ritorno? É sufficiente la sola forza di volontà, o occorre l’intervento di un oggetto terzo?
In base a quanto detto sopra, possiamo considerare la cosiddetta ‘forza di volontà’ come la posizione assunta dal soggetto, se di eterna vittima o assumendo un ruolo attivo nel suo processo di guarigione. Alcuni, dotati di una maggiore forza dell’Io, possono riuscirci anche da soli, cioè riescono a mettere in atto nuovi investimenti, su parti di se stessi o su altri oggetti, che consentono di disinvestire dal trauma. Per altri, è necessario un intervento terzo. L’analisi e la psicoterapia psicoanalitica sono molto indicate: da un punto di vista economico, il transfert lega su di sè, a volte anche in tempi relativamente brevi, questo eccesso di energia, mentre da un punto di vista della relazione oggettuale l’analista è un nuovo oggetto su cui il paziente può investire, nella sicurezza del setting. Da un altro punto di vista, che tuttavia non esclude secondo me quello economico, si tratta di elaborare un lutto, il lutto dell’oggetto-trauma che, parafrasando Freud, è ricaduto sull’Io. Certo il masochismo, per restare al tema del mio libro, si mette spesso di mezzo in queste situazioni: se il trauma è eccessivamente investito e ormai è parte vincente dell’economia psichica di una persona, è assai difficile che questa vi rinunci.
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