di Raffaele Avico
Questa serie di video pubblicati dalla comunità Il Porto di Moncalieri (TO) raccoglie una serie di preziosi contributi a proposito della psicoterapia e della psichiatria territoriale e di comunità, effettuata con pazienti spesso gravi.
La psichiatria di comunità rappresenta forse la sfida più grande del territorio e dei servizi, anche solo per la tipologia di pazienti che in essi confluisce, ovvero i più gravi, pazienti che portano con sè doppie diagnosi, tratti antisociali, disturbi gravi di personalità. I pazienti che arrivano a una struttura come il Porto non dimostrano di sapersi gestire in modo autonomo all’esterno: allo stesso tempo il servizio sanitario “classico” non sembra essere in grado di farsene carico in modo tradizionale.
Il Porto, in particolare, si occupa di pazienti suddivisi in due unità principali, una per disturbi psicotici conclamati, l’altra per disturbi di personalità gravi, tossicodipendenti, soggetti autori di reato e altre complesse combinazioni psicopatologiche.
Nel master di psicoterapia di comunità che questi video documentano, come si noterà, intervengono tra i maggiori esperti sul tema, a partire da Vincenzo Villari, passando per Leopoldo Grosso (Gruppo Abele), Paolo Migone, Angelo Malinconico, etc. L’introduzione è a cura di Metello Corulli, ispiratore e fondatore dell’”istituzione” del Porto, venuto a mancare nel 2019.
Alcuni aspetti meritano un breve accenno, anche se sarebbe consigliabile guardare i video per intero da parte di coloro che fossero interessati al tema:
- il lavoro di comunità si situa a metà tra un lavoro terapeutico e un lavoro custodialistico: questo ben esplicita Metello a inizio percorso, quando ragiona sulla storia in sè degli istituti di presa in carico per pazienti psichiatrici, da sempre -di fatto- mossi da questo duplice mandato sociale (notare che lo stesso Villari sottolinea come l’SPDC si configuri -anche- come un luogo di custodia funzionale al mantenimento della stabilità sociale)
- l’intervento di Leopoldo Grosso consta di un preziosissimo e breve excursus sulla storia delle comunità per tossicodipendenti; Grosso racconta di come la comunità abbia progressivamente abbandonato la sua natura di “format” educativo e pedagogico (pensato negli anni ‘70 per i recupero di tossicodipendenti “puri” -eroinomani per lo più), per abbracciare un diverso modello di intervento molto più calato sul territorio in termini di rapporti con CMS e SERD, ed erogando interventi clinici più personalizzati. Si è passati cioè da un modello pedagogico, a un modello psicoterapeutico, verso un abbandono pressoché completo degli strascichi militaresco/“comportamentistici”, ormai desueti
- l’intervento di Alessandro Cerri aiuta a comprendere, almeno in parte, la complessità del ruolo di “operatore di comunità”, ruolo non riconosciuto e grandemente sottovalutato in ambito psichiatrico ma che si costituisce come vero motore del buon funzionamento di una struttura psichiatrica (o almeno, di una struttura psichiatrica come Il Porto). Ne emerge una figura oltre-genitoriale, o super-genitoriale, laddove l’operatore in comunità debba costituirsi come io-ausiliario del paziente un po’ in tutte le funzioni e gli ambiti della sua vita, dalla gestione della distanza dalla famiglia di origine, a un’auspicata migliore gestione degli impulsi, alla promozione di un lavoro narrativo che consenta una rilettura di aspetti relazionali disfunzionali. L’operatore di comunità è, professionalmente, un essere ibrido tra psicoteraputa, educatore e mentore: nel trasmutare delle diverse maschere professionali che indossa, sta la complessità del suo quotidiano agire, come ben espresso da Alessandro Cerri. Considerata la maestria teorica di molti altri relatori, ma l’assoluta distanza dal lavoro “in prima linea” con i pazienti, questo intervento risulta il più importante in senso formativo. Metello chiude l’intervento ragionando sul parallelismo tra la figura dell’operatore di comunità e la figura del psychosocial nurse di provenienza inglese, un essere ibrido -anch’esso- tra educatore, psicologo e infermiere, obbligato -vista la complessità del ruolo- a trascendere ognuna di queste maschere professionali per soddisfare le richieste di un ambiente complesso come quello, appunto, della comunità terapeutica.
- l’intervento di Nicola Pirisino (responsabile d’equipe per la struttura Le Scuderie, che ospita una ventina di pazienti con gravi disturbi di personalità e doppia diagnosi, autori di reato e poliabusatori) sulla doppia leadership, apre una fruttuosa riflessione da un lato sulle fonti di ispirazione culturale (di matrice anglosassone) alla base del modello di lavoro del Porto, dall’altra sul lavoro, nel concreto, con i pazienti. Ogni unità del Porto ha due leader: un responsabile di equipe psicologo psicoterapeuta, e un direttore clinico psichiatra, integrati nell’impostare le traiettorie di cura con ogni paziente. La leadership doppia riprende un concetto e una prassi anglosassone; inoltre, vediamo, la leadership è da pensarsi qui come latente, ovvero “altamente delegante”, il che è il contrario dei modelli “accentratori” in cui esiste un solo leader monocratico intorno al quale si accentra ogni forma di decisione e attraverso il quale debbano passare tutti i flussi di comunicazione. CONFINE, REGOLA e NORMA sono parole usate dal Leader nella comunicazione con il gruppo paziente, per facilitare l'”identificazione introiettiva” di un modello comportamentale diverso: in breve, una trasmissione di valori “nuovi” per via di un processo di transfert, in primo luogo attivato dagli operatori più giovani verso i più anziani e i leader, in secondo luogo da parte dei pazienti verso gli operatori (almeno idealmente). In questo modo, il modello psico-pedagogico viene trasmesso per via introiettiva.
- l’intervento di Giorgio Astengo e Franco Freilone, collaboratori del Porto nelle vesti di consulenti per il “sostegno all’Io professionale”, conduttori cioè di gruppi fatti con gli operatori al fine di supportarli nel lavoro con i pazienti. Come giustamente fanno notare Astengo e Freilone, il lavoro con pazienti gravi predispone il gruppo di lavoro a movimenti interni peculiari, in ragione di:
- spinte scissionali e schizo/paranoidi proiettate dai pazienti (in special modo i quadri borderline) sul gruppo operatori, spesso polarizzato tra posizioni di estrema attivazione “materna primaria” e spinte espulsive, diviso internamente tra “buoni e cattivi”, con tutto quello che ne consegue in termini di coerenza di messaggio educativo e psicoterapico portato
- spinte centripete o centrifughe del gruppo, sempre in conseguenza della difficoltà sperimentata nel contenimento delle emozioni veementi generate dal lavoro con i pazienti. La “cinetica” del gruppo, come la definisce Metello, va in questo caso analizzata e rimandata al gruppo stesso, al fine di evitarne radicalizzazioni, nella direzioni di una sempre maggiore “integrazione” interna al gruppo di lavoro
Generalmente, si osserva nel metodo di lavoro del Porto un’attenzione particolare alla costruzione di “spazi” dedicati all’holding, per via di ore dedicate alla libera discussione tra operatori, gruppi appunto di sostegno all’Io professionale, supervisione, formazioni. La creazione di “luoghi” o contenitori di pensiero protetti si rende necessaria laddove il lavoro con pazienti gravi obblighi l’operatore a un continuo, spesso estenuante lavoro di gestione delle emergenze, immerso nel “caos” del lavoro di comunità “reale”.