di Raffaele Avico
PREMESSA: questo post fa parte di una rubrica a tema trauma presente sulla rivista Psychiatry on Line, qui raggiungibile.
La teoria sul trauma si sposa in modo perfetto con due altre teorie:
- la Teoria dell’Attaccamento teorizzata da John Bowlby
- Il principio del funzionamento gerarchico delle funzioni mentali teorizzato da Jackson e il modello organodinamico di Ey che abbiamo qui approfondito
In particolare, gli studi sul trauma da attaccamento hanno evidenziato come crescere in un ambiente traumatizzante sappia produrre conseguenze durature e difficili da gestire per il bambino che lo viva.
Il lavoro più importante di integrazione tra l’approccio psicotraumatologico e la teoria dell’attaccamento lo dobbiamo al lavoro di ricerca indipendente portato avanti da Giovanni Liotti.
Liotti, e con lui altri studiosi di trauma e dissociazione, si batterono affinché fosse riconosciuta l’esistenza di una dimensione post-traumatica e dissociativa presente in molteplici, se non in tutti, i disturbi. In un recente articolo dal titolo “finalmente abbiamo capito l’importanza di studiare il trauma e dissociazione”, Benedetto Farina ricorda il lavoro fatto con Liotti sulla “dimensione psicopatologica traumatico-dissociativa”.
Troviamo un riferimento puntuale a Pierre Janet a proposito del concetto di dis-gregazione: esiste, a seguito del trauma, un difetto di integrazione delle funzioni mentali superiori, che in teoria dovrebbero frenare e “cognitivizzare” informazioni provenienti da aree profonde del cervello ma che, in questo caso, non assolvono a questa funzione.
Liotti e Farina evidenziano quindi una tipologia di problema che trascende il semplice PTSD: il PTSD semplice è un disturbo che osserviamo a seguito di un trauma singolo potenzialmente minaccioso per l’individuo, come spesso qui argomentato. Liotti e Farina allargano la questione chiedendosi cosa capiti nella mente di un bambino che cresca in un ambiente costantemente traumatico, dove la minaccia è quotidiana, endemica e spesso sottile. Qui abbiamo approfondito la definizione di PTSDc, ovvero PTSD complesso.
Cosa succede per esempio nella mente di un bambino abituato fin da piccolissimo a gestire psicologicamente sbalzi d’umore, oscillazioni e reazioni spropositate di un genitore con un disturbo di personalità?
Già solo gli esperimenti sulla still face di Tronick ci mostrano l’escalation di reazioni del bambino in modo chiarissimo: da un tentativo di ri-socializzare, fino a chiare manifestazioni dissociative di fronte a un “semplice” assenza di sintonizzazione da parte della madre, tutto in 5 minuti (vedasi il video sotto riportato):
Sempre in “Sviluppi Traumatici”, Liotti approfondisce la questione ponendo al centro della sua riflessione teorica il concetto di “strategia regolativa”.
Come può un bambino che viva in un contesto pericoloso e terrorizzante -si chiede l’autore- ottenere la vicinanza emotiva del caregiver, indispensabile per il suo sopravvivere all’ambiente circostante? Liotti ragiona sul fatto che un bambino per poter sopravvivere a un adulto psicologicamente abusante è obbligato a mettere in atto delle strategie di controllo.
Queste potrebbero essere riepilogate come segue:
- Strategia controllante/accudente – genitorializzazione: la tendenza definita da Liotti alla “genitorializzazione” implica lo sviluppare da parte del bambino una serie di competenze relazionali e comportamentali che gli consentano di prevedere il comportamento -imprevedibile- del caregiver. Una sorta di “progressione traumatica” in cui il bambino diviene iper-competente e iper-sensibile agli sbalzi del genitore, di fatto imparando a “contenerlo”. Immaginiamo per esempio un padre seduttivo/terrorizzante, magari con tendenza all’abuso di alcol e ad esplodere in scoppi di ira apparentemente immotivati. Se immaginiamo la vita di una bambina che cresca a contatto con una figura di riferimento del genere, dobbiamo pensare a quanto questa sia sottoposta, nel corso dello svolgersi della quotidianità, a uno sforzo anticipatorio del comportamento del padre stesso. Osservandoli interagire noteremo come la bambina abbia imparato a conoscere ogni sfumatura caratteriale del caregiver e come riesca ad anticiparlo o manipolarlo al fine di garantirsi la sua protezione anche quando quest’ultimo manifesti pesanti alterazioni del carattere o sbalzi umorali. La genitorializzazione è dunque una strategia di controllo messa in atto laddove sia necessario per il/la bambino/a anticipare costantemente le mosse di un genitore abusante (più un generale, di una realtà o di un ambiente abusante), per contenere i danni prodotti sulla sua stessa salute psichica e allo stesso tempo garantirsi la sua protezione. L’autore sottolinea che un’inversione simile dell’attaccamento ha dei costi futuri nei termini di una difficile creazione di rapporti stabili e in cui ci si possa affidare e aprire all’altro senza che questo voglia dire, nuovamente, sottoporsi a una possibile minaccia e a nuovi abusi.
- Strategia controllante/punitiva: con questo Liotti intende sottolineare come all’interno di una diade bambino/caregiver in cui quest’ultimo manifesti comportamenti abusanti e discontrollati (“disorganizzati/disorganizzanti”) è possibile che il bambino sviluppi tendenze punitive che hanno a che fare con l’inversione non tanto dell’attaccamento (come prima si diceva), ma con un’attivazione del sistema motivazionale agonistico e lo spostamento della questione a livello di sistema di rango. É come se il bambino utilizzasse, per controllare l’adulto, il potere fornitogli da una posizione dominante in termini di rango. Osserviamo in questi casi una tendenza ad aggredire e ad imporre la sua volontà da parte del bambino al genitore, letteralmente dominato/a dal figlio (o dalla figlia). Il/la figlio/a diviene “tirannico/a”: all’interno della diade genitoriale le cose hanno anche qui subito una inversione, incentrata questa volta sulla dinamica di potere/rango. In questo caso il bambino diviene punitivo e severo verso il genitore al fine di sopprimere le condotte disregolate vissute come intrusive e dolorose.
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