di Raffaele Avico
Gianni Liotti è considerato uno dei padri della psicoterapia cognitiva in Italia, insieme a Vittorio Guidano.
Nel suo “Sviluppi Traumatici” tentò di approfondire la questione relativa alle problematiche post-traumatiche fornendo moltissimi spunti di riflessione e una lettura estremamente plausibile di alcune comuni forme di psicopatologia nel paziente post-traumatico.
Liotti parte dal presentare la diagnosi di PTSDc, ovvero Stress Post Traumatico Complesso, costrutto diagnostico utilizzato per indicare situazioni di stress post traumatico in caso di abusi cumulativi e ripetuti, con le relative ripercussioni in termini psichici.
Lo stress Post Traumatico complesso differisce dal semplice Stress Post Traumatico per la qualità dei traumi subìti dal paziente: non singoli e devastanti traumi, ma traumi relazionali multipli e protratti nel tempo. Liotti porta come esempio lo stile di attaccamento di tipo D (disorganizzato) come ambiente naturale di sviluppo di un PTSDc. Cosa vuol dire, secondo l’autore, sviluppare un PTSDc in ambito di uno stile di attaccamento disorganizzato?
Gli attaccamentologi descrivono lo stile di attaccamento D come disorganizzato/disorganizzante. Questo vuol dire avere a che fare costantemente con uno o più figure di attaccamento imprevedibili o spaventanti verso le quali il bambino impara a rapportarsi in modo confuso e ambivalente, senza mantenere una reale linearità nel comportamento di attaccamento.
Nei famosi esperimenti di Mary Ainsworth relativi alla strange situation, osserviamo come i bambini con un attaccamento insicuro D manifestino verso la figura di attaccamento comportamenti ambivalenti e contraddittori, come spinti da pulsioni opposte (ricerca di attaccamento vs paura).
Crescere in un ambiente traumatico in modo continuativo conduce secondo Liotti a sviluppare un certo tipo di personalità post-traumatica, con tratti peculiari. Quello che riteniamo importante in questa sede approfondire è la questione relativa a quelle che Liotti chiamava strategie di controllo. La questione potrebbe essere sintetizzata, per punti, come segue:
- Crescere in ambienti traumatici vuol dire sperimentare profonde delusioni in senso relazionale. Spesso chi cresce in ambienti problematici si trova a vedersi rifiutato/a nei propri slanci di attaccamento: immaginiamo per esempio un bambino che tenti di aggrapparsi al collo della madre vedendosi rifiutato o umiliato in questo bisogno: imparerà a inibire, in sé, questa pulsione, o a manifestarla in particolari circostanze.
- I vissuti di umiliazione e i bisogni frustrati porteranno il bambino a evitare tutto ciò che potrebbe ri-attualizzare queste fratture relazionali; l’evitamento diventerà un tratto del carattere, che contrasta con i potenti bisogni di protezione e accudimento
- Crescendo, il bambino imparerà a disattivare i comportamenti di attaccamento pur sentendone il bisogno (sono stati a questo proposito effettuati interessanti esperimenti su bambini con atteggiamenti di evitamento, osservando come il bisogno di un contatto relazionale permanga, ma sia osservabile solo attraverso la modificazione di indici corporei come tachicardia, variazione del ritmo del respiro, etc. Questo dimostrerebbe come anche in bambini con uno stile di attaccamento evitante permanga a livello preconscio il bisogno di lanciarsi in movimenti di attaccamento).
- Nel corso dello sviluppo, e così come accade nei casi di stress post-traumatico, la gestione della rievocazione delle memorie traumatiche, così come la gestione del rapporto con le figure atte al caregiving, avverrà attraverso la messa in atto di quelle che l’autore chiama strategie di controllo, strategie cioè funzionali a mantenere il controllo (mastery) nel corso dell’attivazione del sistema di attaccamento, che muove emozioni veementi e collegate a vissuti traumatici e di rifiuto.
- Le strategie di controllo avvengono per mezzo di una distorsione del normale comportamento di attaccamento da parte del bambino: il bambino diviene eccessivamente accudente verso il genitore (genitorializzazione), o al contrario punitivo/autoritario/tirannico o ancora seduttivo (in senso non sessualizzato) verso la figura di attaccamento. Questo fa sì che non si trovi mai in balia e nella posizione di dipendere dal caregiver.
- Crescendo, le strategie controllanti precocemente sviluppate diverranno nei casi migliori tratti di personalità stabili e in qualche modo adattativi. Altre volte invece, quando non ben compensate o mal regolate, troveranno spazio nelle più comuni griglie diagnostiche in senso psicopatologico. A proposito di questo Liotti sottolinea come andrebbero ripensate alcune sindromi in relazione alla messa in atto di queste strategie (per es. un disturbo oppositivo/provocatorio, o quella che potrebbe essere definito un disturbo “isterico” in senso classico, potrebbe essere ripensato attraverso questa lente, cioè la messa in atto di strategie di controllo in un quadro post-traumatico).
Quest’ultimo punto è particolarmente degno di nota e rappresenta un punto di novità rispetto alla comune considerazione della psicopatologia.
Secondo Liotti cioè la presenza di un disturbo post-traumatico è grandemente sottovalutata e andrebbe ricercata nella storia di qualunque paziente arrivi all’ascolto di uno psicoterapeuta/psichiatra. Se si sospetta la presenza di un PTSDc, andrà indagata la presenza di strategie controllanti nello stile di attaccamento del paziente e nella gestione della sua emotività.
Per esempio, quando arrivi in seduta un paziente con un disturbo simil-depressivo, è utile cercare di capire se dietro questo disturbo primario non si nasconda un disturbo post-traumatico originario a cui il paziente, nel tempo, abbia imparato ad adattarsi attraverso al messa in atto di strategie di controllo. Quella che Janet aveva definito “stanchezza mentale” o “declino post-traumatico”, è spesso riscontrabile nei casi di stress post-traumatico cronico precipitato in una forma simil-depressiva, quello che in tempi non lontani dal nostro veniva chiamata –non a caso- “esaurimento nervoso”.
L’importanza del lavoro di Liotti è quindi quello di aver spinto sulla messa in discussione delle procedure consuete di diagnosi. Occorre quindi indagare se al di là dei sintomi eclatanti portati dal paziente non esista un disturbo primevo con caratteristiche di stress post-traumatico. Vivere uno stress post-traumatico significa d’altronde incorrere in una serie di sintomi fisici non indifferenti (come vampate di iper-arousal, sudorazione sregolata, etc.) e spesso in disturbi inerenti la qualità del sonno, che minano quella che è stata genericamente definita “forza dell’Io” e conducono a un generale senso di impotenza e debolezza psicologica.
Abbiamo su questo blog pubblicato in precedenza alcuni approfondimenti sul lavoro di Liotti:
- LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti)
- PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
- IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
- Qui un audio (puntata podcast) sul modello Liottiano
Qui di seguito invece riportiamo un estratto da un articolo di Camilla Marzocchi (AISTED) su un libro recentissimo pubblicato sul lavoro di Liotti.
Recensione: “Conversazioni con Giovanni Liotti su Trauma e Dissociazione“, a cura di Cristiano Ardovini, Cecilia La Rosa, Antonio Onofri (Edizioni ApertaMenteWeb 2023)
di Camilla Marzocchi, Consigliera AISTED
Ultimo arrivato nella nostra Bibliografia Essenziale di Psicotraumatologia, “Conversazioni con Giovanni Liotti su trauma e dissociazione” risulta un dono speciale per tutti i terapeuti esperti o che vogliano avvicinarsi alla psicotraumatologia, un dono perché gli autori si sono dedicati con perizia e cura ad un corposo lavoro di raccolta di materiali personali, appunti, interviste, trascritti di lezioni e supervisioni, per offrire al lettore un dialogo diretto con Giovanni Liotti, a ormai cinque anni dalla sua morte, rendendo fruibile il suo pensiero e soprattutto la sua dialettica e apertura inconfondibili.
Per chi ha avuto l’onore di assistere alle lezioni di Liotti, la lettura scorre veloce e appassionata proprio come le sue lezioni, con qualche sorriso e molta nostalgia, ma lasciando l’attenzione incollata alle parole che affiorano dalla sua viva voce, insieme alla consueta e inarrestabile velocità del pensiero e delle riflessioni di ampio respiro che permettono di spaziare dalle neuroscienze alla letteratura, dalla fisiologia alla pittura, mantenendoci però ben saldi allo sguardo clinico sempre centrato alla chiave di lettura a lui cara: identificare la psicopatologia della dissociazione attraverso le più svariate e complesse esperienze di umana sofferenza. Per chi non avesse mai avuto la possibilità di un incontro diretto con Giovanni Liotti, questo libro è certamente un’occasione preziosa da cogliere, ricca di spunti storici e riflessioni sulla nascita del suo pensiero, digressioni sulle diverse fasi storiche che la ricerca sulla psicopatologia del trauma e della dissociazione ha attraversato, il tutto arricchito da molti inserti e note degli autori che permettono anche ai lettori meno esperti di orientarsi nel testo e di integrare le informazioni e le citazioni essenziali che scorrono densissime nel dialogo-intervista.
Il testo è organizzato in tre parti tra loro complementari e interconnesse.
La Prima parte si focalizza su Psicopatologia e Dissociazione, offrendo un’ampia riflessione sulle basi del pensiero liottiano: la definizione di trauma dello sviluppo, la disorganizzazione del sistema di attaccamento legato all’esposizione ad eventi sfavorevoli e traumatici nella prima infanzia, il sistema di difesa come organizzatore centrale dell’esperienza del bambino, in assenza di aiuto e protezione, e la dissociazione come effetto di questi fallimenti nel ripristino di condizioni sufficienti di sicurezza. La disgregazione della coscienza che ne consegue configura la dissociazione come un effetto diretto (e non difesa!) del collasso di tutte le altre risposte di sopravvivenza. Questa inaccessibilità al sistema di attaccamento/accudimento è per Liotti sempre la causa primaria alla base di tutta la psicopatologia post-traumatica e in particolare della psicopatologia legata ai traumi cumulativi (trauma complesso), poiché per un bambino non c’è trauma se intervengono protezione e salvezza da parte delle figure di riferimento e non c’è disorganizzazione della coscienza se quel bambino, pur esposto a condizioni di pericolo di vita, può accedere tempestivamente alle cure e al sistema di accudimento di almeno un adulto centrato e capace di sintonizzarsi con i suoi bisogni primari. Per ogni bambino un evento di minaccia seguito immediatamente da un’esperienza efficace di sintonizzazione e sicurezza resta un brutto ricordo di un pericolo scampato, ma non necessariamente un trauma. In estrema sintesi questi assunti guidano tutto il pensiero di Liotti, orientato a valorizzare – nella ricerca come nella clinica – la necessità di riparare alla frattura originaria della coscienza, che non è mai determinata (solo) dal trauma, inteso come evento di minaccia alla vita, ma dalla concomitante assenza di una connessione sicura e protettiva capace di offrire aiuto e supporto. Questa assenza può manifestarsi a causa di un caregiver spaventoso/spaventante o trascurante (neglect), ma anche di un caregiver presente ma abdicante, condizione quest’ultima particolarmente dolorosa e difficile da riconoscere poiché il caregiver c’è ma è assorbito da altro, dalle sue stesse emozioni o sopraffatto da altri problemi all’interno e non è emotivamente disponibile. Liotti definisce “la solitudine in presenza” come una condizione irredimibile, peggiore dell’assenza in cui è ancora possibile e accessibile il tentativo di raggiungere l’altro.
Ognuna di queste condizioni relazionali è foriera, in ogni bambino che si trovi a sperimentarla, di un blocco del naturale sistema di attaccamento di fronte a quella che si configura come una situazione emotiva “senza via di uscita” (paura senza sbocco): il bisogno di protezione attiva naturalmente il sistema di attaccamento verso il caregiver, che si rivela del tutto inadeguato – se non addirittura minaccioso – nell’offrire cura e conforto. Dunque nell’impossibilità fisiologica di lottare o fuggire quel bambino dovrà sopperire alla mancanza di protezione con strategie controllanti verso il caregiver – accudenti o punitive – che gli consentiranno (forse) di avere quel minimo di contatto sufficiente a garantirsi la sopravvivenza in un ambiente ostile e per recuperare un senso di padronanza di sé (appena) sufficiente a non scivolare nel collasso generale delle strategie di difesa (crollo dorso vagale), che significherebbero altrimenti svenimento (morte apparente) e quindi dissociazione. Queste ultime manifestazioni potranno restare silenti nel sistema nervoso, inibite dall’attivazione delle strategie di controllo, ma prima o poi tenderanno a manifestarsi, spesso anche a distanza di anni, di fronte al fallimento delle stesse strategie controllanti (as esempio: in caso di lutto, malattia, separazioni).
Da qui la nascita dei presupposti clinici che aprono alla Seconda parte del testo: Clinica della Dissociazione, in cui l’alleanza terapeutica e la stabilizzazione costituiscono i meccanismi centrali del lavoro terapeutico proposto, preliminari ad un lavoro solo successivo sull’Elaborazione delle memorie traumatiche e possibilmente poi di Integrazione.
–>CONTINUA SUL SITO DI AISTED.
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