di Raffaele Avico
Da diversi anni si discute di come la pubblicità abbia cambiato aspetto, di come il marketing abbia assunto forme nuove, personalizzate, ritagliate intorno a noi.
Sappiamo che ciò che ci arriva dinnanzi agli occhi sui Social network, non arriva lì a caso: ci è introdotto per via di uno o più algoritmi che captano ciò che vorremmo vedere, ri-proponendocelo per fini commerciali.
Se quindi, fino a prima del 2009/2010 (biennio segnato dall’introduzione su larga scala di smartphone in grado di consentire all’utente di usare Internet “ovunque”, in un colpo uccidendo TV, giornali, guide turistiche, cataloghi di vario tipo, etc.etc.), ciò che proveniva dalla televisione poteva sì avere caratteristiche negative, ma era pur sempre “orizzontale”, democratico nel suo modo di essere spammato (tutto veniva proposito a tutti, se mai variato per possibili target di un dato programma in diverse fasce orarie della giornata), dopo quella data assistemmo a una progressiva “verticalizzazione” del marketing, alla nascita della comunicazione “profilata”, con la creazione di “bolle”.
Cos’è una bolla informativa? Una bolla informativa è un insieme di informazioni che ci vengono proposte sulle piattaforme digitali da noi usate in modo “ragionato”, ritagliate per noi. Consigli commerciali quindi, ma anche semplici proposte di visione di video, pagine Facebook o profili social a noi proposti a partire da ciò che già è per noi di interesse, spingendoci quindi entro terreni già noti, verso persone con i nostri stessi interessi.
Tutto questo ha alcune conseguenze che è importante osservare:
- spingerci innanzi agli occhi informazioni che confermano ciò che già sappiamo, ci porta a una radicalizzazione. L’assenza di dialettica e di fonti alternative, potrebbe portarci verso una progressiva miopia sull’”altro”, su ciò che non ci riguarda in modo diretto. Questo lo si osserva ogni giorno sui Social più “navigati”: sembra sparire il dialogo a proposito della complessità verso forme di scontro sempre più polarizzate, sempre più tossiche.
- il processo di radicalizzazione virtuale, una progressiva polarizzazione delle posizioni causate da questo meccanismo di feedback positivo continuo (mi arriva sotto gli occhi solo quello che già conosco/di cui sono già convinto, per cui me ne convinco sempre di più) ha sicure ripercussioni sulla vita “reale”. Al di là di quello che si possa dire a proposito della “distinzione” tra vita reale e vita virtuale, esiste un meccanismo di mimesi, di “contagio”, di “esondazione” della radicalizzazione –dal “contenitore virtuale” a quello “reale”. Lo descrive molto bene Raffaele Alberto Ventura nel suo “La guerra di tutti” (che abbiamo qui recensito). La violenza (virtuale) genera violenza (reale).
- Il “popolo della rete” si comporta come un sistema complesso. Un sistema complesso risponde a logiche di causalità circolare: significa che tutti i “nodi” del sistema si orientano osservando tutti gli altri. Uno stormo di uccelli, per esempio, mantiene una forma “apparentemente” costruita in modo ragionato, come ci fosse un’entità superiore in grado di fornirgliela, grazie a un costante lavoro di osservazione da parte di tutti i suoi membri verso tutti gli altri. La “forma” di uno stormo, in altre parole, è una “proprietà emergente” del lavoro di ogni singolo uccello impegnato a “comportarsi” in modo adeguato verso ogni singolo altro animale dello stormo. Questo crea -nel caso del Web- dei “trend”, delle forme nella complessità, captate da algoritmi in grado di rinforzarle e radicalizzarle nella loro diversità (e quindi torniamo al punto 1).
Disobbedienze è un blog curato da Nicola Zamperini, giornalista professionista e autore (qui la sua presentazione).
Vi si scrive in modo molto approfondito di sociologia della comunicazione, cultura digitale, impatto della tecnologia sull’opinione di massa, effetti della tecnologia sulla psiche collettiva e rivoluzione digitale.
Il blog consente a un tempo di mantenersi molto aggiornati sugli sviluppi più recenti della “rivoluzione” digitale e di sviluppare un occhio critico su temi centrali ad essa correlati -per la salvaguardia della salute mentale della cittadinanza (come la manipolazione a fini commerciali, il” furto dell’attenzione”, la creazione di dipendenza a fini di consumo, l’uso improprio di dati e molto altro).
Abbiamo posto alcune domande al suo curatore a proposito degli effetti delle “bolle di filtraggio” sulla mente del “popolo della Rete”, e sugli eventuali rischi ad esse connessi:
- Nicola, cos’è una bolla di informazioni? In cosa consiste?
La bolla di filtraggio è un concetto sviluppato dal filosofo Eli Pariser, nel suo libro Filter bubble, tradotto in italiano con “Il filtro”. Si tratta di un effetto del processo di personalizzazione della navigazione degli utenti. Le preferenze espresse e inespresse (i like alle pagine, i commenti, le interazioni ripetute) “insegnano” agli algoritmi dei motori di ricerca e social network quali sono i nostri gusti. Per massimizzare la nostra presenza all’interno delle piattaforme e per consentirci una esperienza di navigazione confortante, le macchine tendono a sottoporci sempre le stesse pagine e sempre la stessa tipologia di contenuti. Questo meccanismo ci racchiude in una bolla, appunto. Oppure – come altrimenti la si definisce – in una camera di eco, in cui continuiamo a leggere, vedere, ascoltare le stesse idee, le stesse posizioni. Tutto questo rafforza i processi di polarizzazione sempre più evidente nelle società in cui una parte consistente dell’informazione viene fruita attraverso le fonti algoritmiche. - Quanto il nostro cervello è per così dire “alterato” dagli algoritmi che in rete manipolano le informazioni che ci vengono sottoposte?
Più che alterato direi sedotto. E più precisamente gli algoritmi non manipolano le informazioni, piuttosto ne determinano la visibilità. Strutturare un ordine, attribuire una priorità ai contenuti che un utente può vedere rappresenta una manifestazione di enorme potere. Chi conosce le dinamiche e le regole algoritmiche può invece manipolare l’informazione che arriva alle persone. Anche grazie a strumenti di pubblicità estremamente mirati, targettizzati, fino alle preferenze più specifiche.
In generale direi che l’essere umano, e con esso anche il nostro cervello, subisce la lotta per l’attenzione che le piattaforme, e chi se ne serve, mettono in campo a ogni ora del giorno e della notte. Una lotta per l’attenzione combattuta anche grazie alle ricompense variabili attivate dalle notifiche, dai like, dalle interazioni più o meno reali che assediano gli utenti. La lotta per l’attenzione è funzionale a due obiettivi: vendere pubblicità e acquisire più dati possibile da parte degli utenti. Questi dati nutrono l’apprendimento automatico degli algoritmi, e cioè la capacità di questi di conoscere e prevedere i comportamenti degli stessi utenti. - Quali sono a suo parere gli effetti della bolla sulla mente degli individui?
Quando siamo vittime di una battaglia per l’attenzione, a cadere per prima è la nostra capacità di concentrazione. Lo smartphone è un vero proprio magnete dell’attenzione, ci sollecita continuamente e chiede con ostinazione di essere aperto, consultato, utilizzato, anche per non fare nulla. Molte volte apriamo e attiviamo questa specie di oracolo e cerchiamo risposte al nulla in tante applicazioni.
Uno specifico effetto sulla mente delle persone credo sia l’evidente mistificazione del concetto di relazione. Stiamo scambiando, ormai da tempo, il fatto fisico della connessione, l’interazione all’interno di uno spazio digitale come un social network, per una relazione. - Quali invece gli effetti sulla società in senso allargato?
La polarizzazione credo sia un processo del quale non abbiamo ancora osservato tutte le possibili declinazioni. Più in generale, le società hanno oggi a che fare con nuove entità – le grandi piattaforme digitali – rispetto alle quali la definizione di azienda è insufficiente, incompleta. Per questo credo che le società debbano introdurre nuove categorie interpretative e continuare a fronteggiare quelle che io chiamo meta-nazioni digitali. Questa definizione, secondo me, è più calzante rispetto alla funzione e al ruolo che svolgono oggi. Le meta-nazioni digitali hanno una propria sovranità su un territorio ampio, multinazionale, hanno sudditi – gli utenti – e governanti, perseguono obiettivi politici ed economici, e soprattutto fin qui sono riuscite a fuggire a ogni tipo di regolamentazione. - Come proteggersi?
Non credo sia facile. Bisogna essere molto rigorosi ed evitare al massimo ogni inutile utilizzo delle applicazioni e delle piattaforme digitali. Soprattutto per quello che riguarda i più piccoli. Le raccomandazioni della Società italiana di pediatria sono molto chiare in questo senso.
Credo che il modo migliore per sviluppare anticorpi sia la conoscenza. Una conoscenza dei meccanismi che stanno dietro le meta-nazioni digitali, ma anche degli interessi che le muovono e delle prospettive di crescita cui sono interessate. Il problema non è tanto la digitalizzazione della nostra esistenza, per quanto possa avere degli aspetti che turbano chi è cresciuto in un mondo analogico, quanto l’impressionante e pervasivo monopolio che alcune meta-nazioni digitali esercitano su una parte consistente dell’umanità.