di Raffaele Avico
A riguardo dell’intervento peri-traumatico, troviamo più letteratura e materiali in rete che ci descrivono come muoverci in senso farmacologico (per gli psichiatri e i medici soccorritori), che argomenti in ambito psicoterapico.
Un autore che si è lanciato nella proposta di una procedura semplice, da attuare con un paziente che abbia appena subito un evento traumatico (per esempio una donna violentata), è Peter Levine. Peter Levine porta avanti da anni un lavoro esemplare sul trauma, improntato su di una lettura delle stesso evento traumatico molto “naturale”, mediata da un’attenta osservazione del mondo animale. Il corpo, secondo Levine, dissipa il trauma.
Nel suo Waking the Tiger, nella parte finale del libro, propone una procedura per un intervento peritraumatico con un soggetto che abbia vissuto un evento di questo tipo.
Vediamo cosa propone. Teniamo conto che l’approccio è americano, quindi molto pragmatico e applicato. Cosa dovrebbe fare un soccorritore?
FASE 1: LA SCENA DELL’INCIDENTE
Come sappiamo, Peter Levine osserva come, sia nell’uomo che nell’animale, il trauma si produca quando siano presenti -insieme- immobilità e paura.
Senza immobilità, c’è paura “rilasciata” per via corporea (lo stato di attacco e fuga, si risolve appunto con un movimento di fuga).
Senza paura, invece, avremo semplicemente “immobilità senza paura”, che è lo stato ideale di benessere psichico.
Quindi, per Levine, trauma=immobilità+paura.
Inoltre, Levine intende mettere al centro l’esperienza interpersonale, altamente protettiva per soggetti che abbiano appena subito un evento traumatico, insieme a quello che chiama felt sense (il sentire ciò che succede nel proprio corpo).
Al fine di prestare un miglior intervento peri-traumatico, quindi, propone di :
- dare precedenza ai soccorsi medici
- far distendere l’individuo e tenerlo/a calmo/a e al caldo
- occorre evitare che l’individuo si alzi per “fare qualcosa”: è più importante che si conceda il tempo di “rilasciare energia”
- comunicare a lui/lei che si starà in loro compagnia fino all’arrivo dei soccorsi
- se l’incidente non è troppo grave, occorre chiedere alla persona come si senta in senso fisico (felt sense), così da nominare eventuali stati di “rush adrenalinico”, senso di essere intorpidito (numbness), bisogno di tremare, vampate di calore incoraggiare l’individuo a tremare e scuotersi, se lo vorrà
- Questa fase, Levine osserva, potrebbe durare 15/20 minuti
FASE 2: QUANDO LA PERSONA SIA PORTATA ALL’OSPEDALE O A CASA
- la persona, a seguito di un incidente, dovrebbe poter passare uno o due giorni a casa, a riposo
- in questa fase di convalescenza, ci saranno reazioni emotive forti (rabbia, terrore, colpa)
- andranno assecondate le “tendenze all’azione fisiche”
FASE 3: ACCEDERE AL TRAUMA E RINEGOZIARLO
- quando la persona sarà disposta a farlo, occorrerà chiederle/gli i dettagli del racconto del trauma, in particolare le immagini e -in un secondo momento- le sensazioni periferiche, non strettamente connesse al momento del trauma
- a questo punto, le reazioni fisiche del paziente potrebbero cambiare: potremo osservare un’accelerazione del respiro e una reazione “simpatica” (generata da un’accensione del sistema nervoso simpatico) durante il racconto, o reazioni di allarme più acute, procedendo sempre di più verso il “kernel patogeno”: lasciamo che il corpo lo “esprima”
- avviciniamoci al centro dell’esperienza traumatica in modo graduale
FASE 4: IL TRAUMA – IL KERNEL PATOGENO
- arriviamo all’evento traumatico attraverso il felt sense
- osserviamo le reazioni del corpo del soggetto, assecondandone le tendenze
- lasciamo che il paziente esprima ciò che sente per via corporea
- è importante che il paziente non salti nessuna parte dell’esperienza: TUTTO dev’essere ri-narrato attraverso la lente del felt sense (come l’ho sentito nel corpo)
- eventualmente, dividiamo questo lavoro in 2 o 3 sedute o momenti
- chiediamo al paziente di ri-narrare completamente l’accaduto, dall’inizio, osservando se e in che frangente si ripresenti la reazione fisica
Per quanto riguarda il primo soccorso psicologico, troviamo qui un manuale in italiano ben costruito e chiaro, per lo più pensato per chi lavori in contesti di forte crisi umanitaria o si occupi di psicologia delle emergenze.
Vengono sottolineati alcuni aspetti chiave che potremmo sintetizzare in:
- attenzione a ri-creare insieme al soggetto colpito un micro-luogo sicuro, cercando di ritagliare un luogo che venga percepito dal soggetto stesso come calmo e appunto sicuro
- mantenere una forte connessione comunicativa con il soggetto, anche solo per via oculare dove non fosse possibile usare il dialogo, e mantenendo allo stesso tempo il rispetto dei confini corporei di lui/lei
- se dovessimo osservare una reazione dissociativa, dovremo usare le tecniche di grounding o stimolazione sensoriale. Cos’è il grounding? Il grounding è semplicemente un insieme di tecniche con cui possiamo “riportare la persona a terra” durante un episodio dissociativo.
Ricordiamone alcune estrapolate dal libro PTSD:che fare?
Esempio di esercizio N. 1
Sperimentare con il paziente, da posizione seduta, la sensazione procurata dal tenere i piedi ben appoggiati a terra, aderenti al terreno. Si può suggerire al paziente di spingere con un po’ di forza prima un piede, poi l’altro e in seguito insieme i piedi verso terra, coinvolgendo cosce e glutei. Si chiede al paziente di notare che sensazioni provi nei piedi, nelle gambe, lungo la colonna vertebrale e il resto del corpo. L’esercizio va eseguito fino a percepire sensazioni nelle gambe e senso di radicamento.
Esempio di esercizio N. 2
Un altro esercizio che può aiutare a regolare l’arousal e dare senso diradicamento consiste nel massaggiare gambe e piedi. Da seduti (meglio se a terra) si stringono e si massaggiano gambe e piedi: è importante avere un po’ di tempo a disposizione e mantenere un atteggiamento curioso verso l’esperienza, per raccogliere più informazioni possibile: vanno eseguite pressioni più intense e più leggere massaggiando tutte le dita del piede, lo spazio tra le dita, il dorso e il tallone, le caviglie, i polpacci, le ginocchia e le cosce, per poi fare il percorso inverso e riscendere fino a terminare nuovamente con i piedi. Se dovessero comparire dei pensieri giudicanti, è opportuno lasciarli andare ritornando a concentrarsi sulle sensazioni del corpo.
Sostanzialmente, come osserviamo, gli interventi di primo soccorso si muovono usando logiche di buon senso: un punto fondamentale da ricordare, in ogni caso, è quello di prestare attenzione alle tendenze all’azione del corpo, favorendo i micro-movimenti del corpo, “senza aggiungere immobilità” (Levine, come sappiamo, sottolinea in particolare la questione del tremore neurogeno da far evacuare al paziente).
Per quanto riguarda l’intervento farmacologico, riportiamo qui di seguito ciò che abbiamo già scritto altrove.
L’INTERVENTO FARMACOLOGICO PERITRAUMATICO E IL LAVORO DI ALAIN BRUNET
Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, alcune evidenze portano a considerare l’utilizzo di un principio attivo in modo peri-traumatico (ovvero, a ridosso temporale del trauma stesso, per esempio subito dopo aver assistito a un evento traumatico, o l’averlo subìto); in questo articolo scritto da Rachel Yahuda, uno dei riferimenti mondiali sullo studio del PTSD, viene approfondito l’uso dell’idrocortisone come possibile prevenzione dal formarsi di un PTSD.
A proposito di intervento peritraumatico, recentemente questo articolo uscito su Repubblica ha riproposto il lavoro fatto da Alain Brunet, docente di psichiatria e ricercatore al McGill’s Douglas Research Center di Montreal, e pubblicato su American Journal of Psychiatry a proposito dell’utilizzo di propranololo come “coadiuvante” nel lavoro con il PTSD.
Così come per l’utilizzo di MDMA, si tratterebbe in questo caso di “facilitare” il lavoro della psicoterapia somministrando al paziente questo betabloccante circa un’ora prima della seduta. In questo caso quindi, così come appunto si fa con l’MDMA, l’obiettivo sembra essere facilitare l’elaborazione del ricordo traumatico attenuando le reazioni somatiche conseguenti al suo presentarsi alla coscienza dell’individuo. Non è quindi un farmaco pensato per un intervento “mirato” alla rielaborazione del ricordo (di fatto inesistente), ma qualcosa che, come l’MDMA, potrebbe facilitare il suo “presentificarsi” alla coscienza poichè in grado di attenuarne le ripercussioni neurofisiologiche.
Anche qui osserviamo come il problema del PTSD non sia tanto la natura del ricordo traumatico in sé ma, a quanto sembra, lo scatenarsi di reazioni difensive potenti e autonome in senso corporeo quando il paziente tenti di “pensarlo” e, in teoria, elaborarlo.
Alcuni articoli di approfondimento sul lavoro di Alain Brunet, sono:
- articolo 1 (pubblicato nel 2018 sull’American Journal of Psychiatry, uno studio RCT su un campione di 60 adulti con PTSD; l’accento viene posto sul razionale clinico definito “pre-riattivazione”, ovvero, avrebbe senso che il farmaco venga somministrato prima della seduta terapeutica, e non dopo, proprio per evitare gli effetti neurofisiologici dell’accesso al ricordo traumatico).
- articolo 2 (gli autori valutano la differenza esistente tra somministrare propranololo prima o dopo la seduta terapeutica, osservando come i risultati in termini di consolidamento delle memorie traumatiche siano evidenti solo nel caso “prima”)
- articolo 3 (un editoriale di Brunet che riassume lo stato dell’arte della sua ricerca a proposito dell’utilizzo del farmaco)
- articolo 4 (sul gruppo di ricerca di Brunet)
Il lavoro di Brunet si è concentrato sul processo di riconsolidamento delle memorie traumatiche, qui approfondito.
In modo estremamente sintetico, possiamo definire il processo di riconsolidamento delle memorie come un processo di “riattivazione e ri- consolidamento” di memorie/ricordi già in precedenza immagazzinati. La terapia espositiva tenta di “smuovere” tracce mnestiche già consolidate, così da provocarne un ri-consolidamento migliore (qui un approfondimento)
Sappiamo genericamente che il PTSD può essere considerato un problema inerente la memoria.
Come qui approfondito, tutto ciò che nella terapia del PTSD possa produrre o condurre il paziente a smuovere le memorie traumatiche (EMDR, terapia espositiva), senza che queste vengano poi riconsolidate, andrà nella direzione di un miglioramento clinico.
Considerato l’approccio trifasico al PTSD (prima fase: stabilizzazione dei sintomi, seconda fase: approccio alle memorie traumatiche, terza fase: integrazione), stiamo qui ragionando (così come Brunet e il lavoro con il propranololo) su come accedere in modo diretto al ricordo (quindi, la fase 2), per finalmente “lasciare il passato nel passato”.
IL LAVORO DI ESSAM DAOD NEI CONTESTI TRAUMATICI
Chi è Essam Doad?
Essam Daod è uno psichiatra esperto di disturbi traumatici, fondatore insieme alla compagna di un’associazione chiamata Humanity Crew. Insieme ad altri collaboratori, si stanno occupando di fornire un aiuto concreto ai migranti del Mar Mediterraneo meridionale (la base di lavoro, per loro, è la Grecia).
Daod è mediaticamente molto conosciuto, si veda per esempio questo Ted talk:
La missione principale del suo gruppo di lavoro è di portare cura psichiatrica immediata, ai bambini sopravvissuti a traumi legati al contesto dell’emigrazione. Nei video che lo riprendono, lo si vede per lo più con bambini appena sbarcati dopo pesanti viaggi in mare, spesso senza genitori.
La domanda che si fa Daod è semplice: come prevenire l’insorgere di un PTSD violento nella mente di questi bambini? Già solo il viaggio potrebbe costituirsi come evento traumatico, non tenendo conto di tutto ciò che questi bambini possano aver subito in precedenza.
Daod ragiona sugli aspetti dirompenti del trauma in termini narrativi. Un po’ come vediamo fare a Roberto Benigni ne La vita è bella -nel tentativo di spiegare al figlio gli eventi dell’Olocausto così da crearsene in tempo reale una narrazione coerente ed “edulcorata”- Doad tenta, con questi bambini, una ristrutturazione cognitiva peri-traumatica, una ri-narrazione di ciò che stanno vivendo.
Qui il suo sito.
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