di Raffaele Avico
L’Open Dialogue è un modello di intervento in ambito di salute mentale, di derivazione scandinava. Viene usato con pazienti psicotici (ma non solo) coinvolgendo molte persone in contemporanea in una sola stanza, per un tempo di massimo un’ora e mezza. Può essere usato -come tipologia di colloquio- “al bisogno” o in modo maggiormente strutturato. Permette una trasparenza totale del “pensiero” dei curanti di fronte al paziente e alla sua famiglia, fornendo agli utenti un affaccio sul perchè si decida di adottare quale strategia terapeutica, e con quali obiettivi.
Raffaella Pocobello coordina un progetto di ricerca multicentrico internazionale focalizzato sull’efficacia dell’Open Dialogue per il CNR. Qui alcune sue riflessioni e indicazioni utili per chi voglia approfondire il tema.
Buongiorno Raffaella, ci dà una breve definizione dell’Open Dialogue, per comprendere meglio di cosa si tratti?
Il Dialogo Aperto è un approccio terapeutico centrato sulla rete sociale e familiare sviluppato nel contesto dei servizi psichiatrici pubblici della Lapponia, che si caratterizza per due aspetti:
- Organizzativo: i servizi di salute mentale sono organizzati in modo garantire una risposta tempestiva, flessibilità dell’intervento e continuità terapeutica;
- Clinico: incontri terapeutici di rete che coinvolgono tutte le persone significative fin dalla prima richiesta di aiuto hanno l’obiettivo di migliorare la comprensione e la risoluzione della situazione critica attraverso il dialogo.
A partire dagli anni ‘90 questo approccio è stato studiato in modo sistematico, sia nei suoi aspetti di processo che di esito. La valutazione di processo ha permesso di individuare sette principi chiave che descrivono il dialogo aperto:
- Aiuto immediato: l’intervento avviene entro le 24 ore dalla richiesta di aiuto in caso di crisi;
- Prospettiva orientata alla rete sociale: i membri della rete sociale della persona in difficoltà e tutti i professionisti dei servizi coinvolti nella crisi sono invitati a partecipare agli incontri;
- Flessibilità e mobilità della equipe: gli incontri sono pianificati in base ai bisogni unici di ogni persona, famiglia e contesto. Questo implica che l’equipe è disponibile e pronta a spostarsi sul territorio e che molti interventi sono domiciliari;
- Responsabilità: chi riceve la richiesta di aiuto che ha il compito di organizzare il primo incontro, fino al quale non sarà presa nessuna decisione relativa al trattamento. Inoltre, la responsabilità è condivisa all’interno del team;
- Continuità psicologica: la stessa equipe integrata segue la rete sociale nel tempo. Almeno alcuni componenti del team rimangono gli stessi, mentre altri professionisti possono intervenire occasionalmente, se utile;
- Tollerare l’incertezza: si costruisce uno spazio “sicuro” in cui discutere apertamente anche delle proposte di trattamento ed evitando decisioni affrettate;
- Dialogismo: nel facilitare gli incontri, i terapeuti invitano tutte le “voci” a contribuire al dialogo. Per voci si intende sia quelle delle diverse persone che partecipano all’incontro (polifonia orizzontale), sia le voci interne e multiple evocate dalla conversazione in ogni singolo partecipante (polifonia verticale). Per esempio, il terapeuta partecipa al dialogo attraverso le voci che derivano dalle sue competenze professionali (come essere un medico o un assistente sociale o uno psicologo, seguire un certo orientamento, etc.), ma anche con quelle relative alla sua vita personale e il suo mondo interiore. Non nel senso di raccontare la propria vita, ma nel modo in cui risponde alla situazione presente (per esempio nel tono, nella postura, nei commenti). Questo ultimo aspetto, il dialogismo, è quello su cui più si concentra la formazione degli operatori.
Il razionale clinico di intervento: per quale motivo viene applicato e ponendosi quali obiettivi?
La prima volta che ho ascoltato Jaakko Seikkula, il principale referente del Dialogo Aperto, mi hanno colpito due concetti della sua presentazione:
- l’obiettivo principale del Dialogo Aperto non è produrre un cambiamento, né dirigerlo, ma promuovere il dialogo. Attraverso il dialogo, emergeranno e si mobilizzeranno le risorse della persona in crisi, della sua rete sociale e dei servizi di salute mentale a supporto. Questo obiettivo secondo me è alla base anche del clima partecipato ed egualitario che si crea negli incontri, e che è forse l’aspetto che più mi ha motivato a studiare questo approccio;
- non c’è una selezione delle persone per cui il dialogo Aperto è adatto, né altri servizi ai quali inviare persone con questo o quel disagio. Quando la persona chiama, se nella conversazione emerge un problema specifico, per esempio uso di alcol, si chiede se il servizio può invitare professionisti che sono esperti di questo problema a unirsi al team. Non c’è mai qualcuno a cui viene detto di chiamare altrove. Ricordo lo stupore in aula dei colleghi che raccontavano quanto invece nei servizi di salute mentale si faccia l’opposto, e quanto l’intervento sia spesso frammentato.
Steve Pilling (UCL), che ora sta sperimentando il Dialogo Aperto in UK, per esempio dice che in Inghilterra hanno servizi per tutti e posto per nessuno.
Come si svolge, in concreto, un colloquio svolto con un paziente usando il metodo Open Dialogue?
Più che un metodo, il Dialogo Aperto è un approccio, complesso e a molti livelli. Queste le fasi di un incontro:
- In un tipico incontro di Dialogo Aperto, la persona in crisi, alcune persone della sua rete sociale e almeno due professionisti della salute mentale si siedono in cerchio.
- Di solito, comincia a parlare il professionista che ha risposto alla richiesta di aiuto e ha organizzato l’incontro, che racconta l’idea dell’incontro, chi ha chiamato e chi è stato invitato e (spesso) chiede ai presenti come propongono di usare il tempo dell’incontro.
- Chi facilita l’incontro (ci sono diversi approcci) fa in modo che tutti possano essere ascoltati, facendo domande prevalentemente aperte, invitando i partecipanti a parlare di ciò che ritengono più rilevante in quel momento. I professionisti non preparano alcun piano/agenda per l’incontro e il loro compito è quello di adattare le loro domande e affermazioni a quello che è stato detto, riprendendo le parole usate e promuovendone un approfondimento, evitando interventi su temi non emersi e interpretazioni. Durante l’incontro possono avvenire una o più conversazioni riflessive, in cui i professionisti discutono tra loro (anche su questo ci sono diversi approcci, più o meno strutturati), utilizzando un linguaggio semplice e rispettoso. Durante il dialogo tra gli operatori, il paziente e la rete sociale rimangono in ascolto.
- Sebbene le parole rivestano un ruolo importante, una parte significativa del dialogo avviene senza parole, nella espressione delle sensazioni e delle reazioni che emergono spontaneamente, in particolare quelle che precedono le parole. Per questo la ricerca più recente di Seikkula si è focalizzata sull’embodiment, e nell’insegnamento del Dialogo Aperto in alcuni programmi è presente una componente di mindfulness. Infatti, una delle sfide principali del terapeuta è quella di essere presente nel qui e ora, in ascolto e responsivo del dialogo che avviene ma anche del proprio dialogo interno.
- Prima di chiudere l’incontro, si chiede ai partecipanti se ci sono questioni importanti che vorrebbero che emergessero prima della fine e se, quando e dove fissare un nuovo appuntamento. A questo punto, i contenuti più significativi dell’incontro vengono sintetizzati, soprattutto se ci sono decisioni importanti che sono state prese o da prendere. La durata dell’incontro è variabile, anche se viene indicato che di solito 90 minuti sono un tempo adeguato.
Negli ultimi anni, la pandemia ci ha spinto a sperimentare il Dialogo Aperto anche online. Anche se non ci sono ancora studi a riguardo, chi ha fatto questa esperienza è sorpreso che l’approccio sembri adattabile, e i feedback sono positivi.
Quali sono i riferimenti teorici di questa pratica, e quali i testi dove, volendo, approfondire il tema?
Il Dialogo Aperto è caratterizzato da un certo eclettismo.
Alle sue origini c’è il Need-Adapted Approach (approccio adattato al bisogno), il cui principale referente è Alanen. Negli Settanta lui e il suo team a Turku si dedicarono in particolare alla esperienza psicotica, proponendo interventi che integravano diversi modelli terapeutici (psicologici, psicodinamici, sistemici e psichiatrici, sociali e riabilitativi) a seconda delle esigenze del paziente.
Anche la scuola sistemica, in particolare l’approccio di Boscolo e Cecchin, hanno avuto una influenza nello sviluppo del Dialogo Aperto.
Ma l’influenza a mio avviso più significativa è quella del norvegese Tom Andersen, che si ritrova in due pratiche fondamentali:
- Il rispetto della regola semplice ma rivoluzionaria, che a partire dal 1984 è stata adottata anche in Lapponia, di non parlare del paziente e della famiglia in loro assenza.
- dalla applicazione di questa regola, deriva la pratica della “conversazione riflessiva” (o gruppo riflessivo, reflective team), in cui i professionisti parlano tra loro durante gli incontri terapeutici, dando sempre la possibilità ai pazienti e alla famiglia di ascoltare e rispondere a quanto detto.
Infine, il riferimento filosofico principale è quello del filosofo russo Mikhail Bakhtin sulla polifonia e il dialogismo. Un altro riferimento importante è Dostoevskij: cosi come il narratore non può fare altro che mettersi in relazione con le voci dei diversi protagonisti, modificando la trama del romanzo in base al loro contributo, così il terapeuta ha la responsabilità di fare emergere risorse e soluzioni dai partecipanti all’incontro, rinunciando a dirigerlo e ad avere un piano predefinito.
Tra le letture consigliate per saperne di più ci sono due libri in italiano:
- Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche, del 2016. Di Jaakko Seikkula e curato da Chiara Tarantino, edito da Fioriti
- Metodi dialogici nel lavoro di rete, di Tom Arkil e Jaakko Seikkula, del 2013, edito da Erickson.
Presto ne uscirà anche un nuovo sull’utilizzo del Dialogo Aperto nel trattamento della psicosi, in lingua inglese edito da Routledge, che sarà edito in Italia da Fioriti.
Una bibliografia estesa in lingua inglese è consultabile sul sito del progetto internazionale HOPEnDialogue, a questo link.
HOPEnDialogue è il primo studio multicentrico internazionale sul Dialogo Aperto, coordinato dal CNR.
NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)