di Raffaele Avico
Il libriccino Il piccolo paranoico di Bernardo Paoli ci fa entrare nel vivo del lavoro di uno psicoterapeuta breve strategico, con un paziente in età tardo-adolescenziale alla prese con una visione persecutoria dell’esistenza.
Il libro è molto scorrevole e agile alla lettura, in quanto corto e strutturato come un dialogo continuo, da cui il lettore può cogliere alcune strategie di psicoterapia breve mutuate dall’approccio dell’autore. Troviamo per esempio:
- la prescrizione del sintomo come tecnica paradossale, attraverso il quale il “piccolo paranoico” cercherà conferme ai suoi pensieri peggiori, non trovandoli e perciò smontandoli usando un metodo empirico
- l’uso delle “lettere di rabbia” come strumento di evacuazione della rabbia indotta da eventi relazionali avversi, a cui dovrà alternare “lettere d’amore” (verso la stessa ragazza) quando la rabbia, decaduta, avrà lasciato posto a sentimenti di abbandono e amore inutilizzato
- la “congiura del silenzio” come strumento atto ad arginare il “contagio” della paranoia, e ad evitare che la rete sociale intorno al paziente formi una rappresentazione di lui troppo problematica, il che produrrebbe solamente un acuirsi del sintomo
- la “fiducia strategica” come prescrizione paradossale data al paziente, chiedendogli di fare “come se” gli altri fossero ben disposti verso di lui, interrompendo in questo modo i “cicli interpersonali” problematici della paranoia
Al di là degli strumenti strategici messi in atto dal terapeuta nel corso della lettura (il libro è strutturato come un unico lungo dialogo terapeutico), troviamo alcuni spunti interessanti sul lavoro con la paranoia, che è un tema ostico su cui pochi si avventurano (data la complessità della sua trattazione):
- la presenza di “premesse sbagliate”, schemi mentali troppo rigidi alla base di alcune risposte psicopatologiche (per esempio nel punto in cui il paziente si lamenta di un comportamento scorretto di un vicino di casa assumendo che “visto che la legge deve essere rispettata, allora tutti lo faranno”)
- il lavoro atto a smontare l’egocentrismo del paziente, che di fatto si pone in una posizione relazionale regressiva, come se le persone dovessero “volergli bene per partito preso” e come se il bene degli altri non dovesse essere qualcosa di guadagnato. Per lavorare su questo punto il terapeuta usa la storia della “volpe e l’uva”, invitando il paziente a “imparare a saltare” senza rimanere affossato nella posizione mentale dell’”uva è acerba” visto che non può raggiungerla
- la paranoia sembra spesso connessa -in superficie- a un aspetto di competizione sociale/questioni di “rango”, per cui a volte sembra risolversi quando il paziente senta di aver trovato “rivalsa” sull’altro o di averlo/a -meglio ancora- dominato/a.
- Il lavoro fatto insieme al paziente sul tentare di meglio esplicitare i vissuti durante momenti di particolare gelosia: il terapeuta intende spingere il paziente a scoprirsi di più con la partner, in modo che risulti più semplice essere “letto” dalla compagna, in questo modo migliorando lo stile comunicativo
La paranoia, in generale, è un oggetto complessissimo: capirne i meccanismi di funzionamento vorrebbe dire aver disvelato uno dei misteri della psicopatologia umana. Se consideriamo alcune letture che sono state date, da scuole diverse, alla paranoia, troviamo:
- la paranoia secondo una prospettiva psicodinamica classica, è aggressività proiettata all’esterno; uno dei concetti forse più utili per comprendere come possa funzionare l’ha tentato Melanie Klein parlando delle due posizioni schizoparanoide e depressiva, ragionando appunto su come in una certa fase della vita del bambino l’aggressività venga proiettata all’esterno, e i “mostri” siano sempre collocati all’esterno da sé: solo crescendo il bambino capirà che il mostro è “anche” interiore, e in una certo senso abita in lui/lei. In questo stato mentale (schizo-paranoide appunto), il mondo si struttura a partire da una polarizzazione radicale, con l’individuo innocente immerso in un mondo (potenzialmente) malvagio
- la psicoterapia cognitiva (CBT) accampa teorie esplicative per lo più deboli, tentando di lavorare con il soggetto su pensiero e meta-pensiero, e quando va bene prendendo a prestito concetti di derivazione psicoanalitica relativamente all’introiezione della responsabilità e dell’ambivalenza. Spesso i protocolli CBT tentano di far sì che il soggetto prenda su di sé la responsabilità di alcuni accadimenti, senza esternalizzare costantemente la colpa – di fatto spingendolo verso la posizione depressiva teorizzata dalla prima citata Melanie Klein.
Chi lavori con pazienti persecutori usando la CBT, si rende presto conto di come anche capendo i meccanismi e tentando di lavorare sul pensiero o sulla metacognizione del paziente, e anche quando il paziente stesso diventi consapevole razionalmente di tutto ciò, questo non sarà sufficiente a far decadere il sintomo, il che ci dice di come la CBT -per come è strutturata al momento- sia sostanzialmente inefficace con questo tipo di problematica (o almeno non sufficiente). Si ha sempre l’impressione che non vi sia una reale teoria esplicativa dietro, un reale modello del problema e che non sia sufficiente, all’americana, correggere il pensiero o applicare il “fake it ‘til you become it”, comportarsi cioè “come se” il problema fosse già risolto, al fine di elicitare nell’ambiente esterno una reazione che poi abbia un impatto sul singolo -che si rivela una modalità per lo più inutile, inconsistente soprattutto con pazienti medio-gravi. Per un approfondimento sulle teorie riguardanti la paranoia secondo il modello cognitivista, rimandiamo a questa pagina dell’ottima Tages Onlus. Interessante qui notare la distinzione tra due sottotipi di paranoia: la personalità “povero me” e la personalità “cattivo me”, per cui nel primo caso il paziente vive immerso da “buono” in un mondo che sente “cattivo” (c’è una totale deresponsabilizzazione), nel secondo caso invece il paziente sente la propria cattiveria degna di continue punizioni da parte dell’esterno (e qui invece c’è un senso di colpa intrinseco). - Massimo Recalcati contrappone la paranoia all’ambivalenza:
“La clinica psicoanalitica delle psicosi di Jacques Lacan ha eletto la paranoia come sua figura fondamentale [..] Lacan vede nella paranoia – sempre sulla scia di Freud – un rigetto radicale del soggetto dell’inconscio, una sua negazione sistematica, un atteggiamento di non-credenza, di Un-glauben: nella paranoia non c’è divisione soggettiva, non c’è inconscio, ma solo Io […] La non-credenza paranoica indica che il soggetto non vuole credere alla propria colpa e alla propria responsabilità; egli si presenta solo come la vittima di un Altro malvagio; la sua innocenza è proporzionale alla colpevolezza irredimibile dell’Altro […] Per questa ragione la difesa paranoica si oppone a ogni esperienza possibile dell’ambivalenza; il suo punto fermo – la sua credenza fondamentale – è nell’Io, nell’identità monolitica dell’Io, nell’Io identico a se stesso […] In questo la paranoia appare a Lacan come la vera follia dell’uomo: l’errore patologico del paranoico è quello di credersi “quel che è”, di credersi un “Io”, di erigere il monumento ideale alla propria personalità rifiutando di riconoscere il kakon che lo abita.”
La lettura del capitolo “Paranoia e ambivalenza” del libro L’uomo senza inconscio ci può dare in questo senso alcune occasioni di riflessione sulla scia di queste parole di Recalcati: vi si spiega in modo molto efficace, nella stile di Recalcati, quello che la psicoanalisi storicamente già disse con Freud sulla paranoia: si tratterebbe cioè della necessità, per il soggetto, di proiettare all’esterno una quota di aggressività -con il fine di salvarsi da una frammentazione identitaria, e di “compattarsi” contro l’altro. In fondo, la paranoia avrebbe in questo senso una funzione di rinforzo dell’Io, compatto contro il nemico “esterno”. Inoltre, permetterebbe all’individuo di schermarsi contro aree di insensatezza esterne a sè, conferendo a “tutto” un significato (“tutto è segno“). Recalcati osserva come il soggetto, in questo modo, neghi l’ambivalenza costituente di ogni affetto umano; in questo senso, il lavoro della psicoterapia è un lavoro apposto al “lavoro della paranoia”, essendo che la psicoanalisi tenta di portare il “terreno di gioco” dei problemi del paziente a un livello interiore, intra-psichico. In questa visione, la paranoia è prima di tutto interna, la scissione e la polarizzazione si compie prima di tutto interiormente: solo in un secondo momento verrà proiettata all’esterno. Questo capitolo (abbiamo intervistato qui Nicolò Terminio su questo libro) rappresenta una lettura più tecnica ma profonda del problema della paranoia, attraverso il modello esplicativo psicoanalitico. - assumere alcune sostanze rende gli individui persecutori, questo è un elemento molto osservato in clinica. Assumere per esempio cannabis e soprattutto cocaina/crack, aumenta il senso di persecutorietà. La cocaina aumenta in modo spropositato la quantità di dopamina negli spazi intersinaptici del cervello, procurando diversi sintomi in acuto, tra cui -spesso- paranoia fortissima e non-criticabile. La dopamina porta l’individuo a cambiare assetto mentale, aumentando in modo estremo l’“affordance” della realtà esterna, rendendolo cioè più volitivo, più “ingaggiato” dalla realtà circostante: in una parola, lo porta al massimo del suo livello di agonismo, trasformando la sua visione della realtà in quella di un “guerriero” immerso in uno scenario di “conflitto”. Abbiamo qui scritto relativamente alla teoria della salienza aberrante per la psicosi, un modello di lettura di alcune forme di psicosi correlato a un livello sproporzionato di dopamina. In un certo senso capire l’effetto della cocaina sul cervello potrebbe illuminarci su ciò che determina l’insorgenza di un vissuto persecutorio, aiutandoci a meglio chiarire la questione su quanto la paranoia sia o meno una questione “solamente” biologica.
In generale, Il Piccolo Paranoico tenta di fornire delle indicazioni pratiche per un terapeuta o un paziente che si scontri con il problema della paranoia, usando modalità comportamentali/prescrittive mutuate dal modello strategico per la paranoia, a sua volta influenzato dal modello psicoanalitico relativo a questo problema; l’obiettivo sembra quello di forzare il paziente a raggiungere l’ambivalenza, quell’”impasto” tra amore e odio che, riprendendo Recalcati, “emerge come irriducibile costringendo a un collasso critico ogni concezione meramente separativa degli opposti”.
Lo stile terapeutico è prescrittivo, quando non “espositivo” (il terapeuta indica al paziente alcune modalità di ragionamento e di comportamento che, esponendolo a una situazione per lui nuova, creeranno le condizioni affinché il suo sistema di interazione con la realtà cambi). Da leggere in quanto ricco di spunti, e particolarmente adatto quando si abbia a che fare con una vissuto paranoico “ad alto funzionamento”, con grandi capacità di lavorare su di sé da parte di un paziente “leggero”.
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