di Raffaele Avico
“LE CONSEGUENZE DEL TRAUMA PSICOLOGICO”, UN LIBRO SUL PTSD
di Raffaele Avico
A partire dal 2017, si sono qui susseguiti su questo blog molti contributi che hanno indagato la natura del vissuto post-traumatico.
Ho raccolto e sistematizzato i contributi sul PTSD in un libro, di cui riporto qui l’introduzione e l’indice.
Come si legge, l’idea che connette i vari lavori è che il trauma interrompa il normale lavoro di immagazzinamento e costruzione della trama dei ricordi, e che si installi nella memoria come una “pietra dura”, indigesta in senso psichico.
Il lavoro che se ne fa in psicoterapia, è quindi quello di aiutare la persona a digerire il trauma in senso psicologico, il che equivale a restituirlo al “logos”.
Jacques Lacan, a proposito di questo, riteneva che il trauma avviene quando ciò che chiama Reale irrompe nella vita di un individuo squarciando il “velo di simboli” che coprirebbe ogni elemento e cosa della nostra vita, rendendola possibile e pensabile. Una violenza, la brutalità di un’aggressione da parte di un predatore, ma anche un forte spavento, un trauma morale o un incontro inaspettato e prematuro con la morte: tutti esempi di come la natura “minerale”, non pensabile e assurda (Reale) della realtà possa irrompere nella vita di un individuo, squarciando la copertura simbolica di cui prima scrivevo.
La psicoterapia dovrebbe in questo caso aiutare a ricucire questo squarcio, trasformando quindi -come sintetizza Recalcati- il trauma in unatrama.
Esistono però molti altri aspetti della questione, per esempio le ricadute sul corpo dello stress post-traumatico, il problema dell’allarme continuo, i trigger che riattivano il ricordo del trauma in sé: questo volume tenta di fornire una griglia di lettura per chi voglia introdursi al tema, o per chi viva in uno stato di post-trauma e voglia tentare di aiutarsi nell’operazione di “tessitura” e integrazione prima citato.
Uno degli aspetti centrali su cui questo libro si sofferma, è l’idea che la risposta post-traumatica sia una forma di apprendimento distorta; questo apprendimento -questa forma di anticipazione– ci consente di mantenerci vigili nel post-trauma e idealmente meglio preparati al “prossimo evento problematico”. Sarebbe auspicabile però, che l’apprendimento possa essere “disappreso“, e qui osserviamo il punto centrale del disturbo post-traumatico: l’apprendimento dell’allarme relativo al trauma fatica a essere estinto, lasciando l’individuo in balìa di una condizione di allarme protratto, con il corpo prostrato dagli angoscianti vissuti tipici del PTSD.
Qui è possibile acquistare il libro, che si pone in continuità con quello da me e Davide Boraso pubblicato in precedenza, PTSD: che fare?, del 2020. La copertina è di Andrea Pisano. Il libro presenta alcune imprecisioni relative all’impostazione grafica, essendo autopubblicato.
Di seguito l’introduzione.
Introduzione
Questo volume raccoglie una serie di approfondimenti a tema “trauma” che ho raccolto in un periodo di circa 5 anni, a partire dalla fondazione di un blog tematico (ilfogliopsichiatrico.it) nell’inverno del 2017, fino alla fine del 2022.
Gli anni 2020 e 2021 sono stati anni peculiari, essendosi abbattuta sulla popolazione umana una pandemia da coronavirus, superata per fasi progressive grazie a quarantene obbligate iniziate nel marzo 2020 -e alla diffusione di una serie di vaccini mirati, a partire dalla fine del 2020.
La pandemia da Covid19 è stata in grado di sdoganare in modo vigoroso la questione “salute mentale” e ha ulteriormente riacceso l’attenzione intorno al tema trauma, a cosa significhi vivere in una condizione di allarme protratto, a come sia possibile resistere in un contesto traumatizzante e a come ci si possa adattare “senza impazzire”.
Va notato che al momento del divampare del fuoco pandemico la tematica “trauma” era già da anni tornata prepotentemente alla ribalta, con una moltitudine di professionisti interessati al problema, libri di qualità pubblicati, associazioni nate e cresciute in modo sostenuto (come l’AISTED in Italia), una profusione di corsi di formazione e l’affermarsi di modalità di intervento psicoterapico mirate, come l’EMDR.
Uno dei libri più vecchi di Bessel Van Der Kolk, Psychological Trauma, risale al 1987. Leggendolo, ci si rende conto di come il linguaggio usato da quello che oggi è considerato uno degli psicotraumatologi più importanti al mondo fosse intriso di termini mutuati dall’approccio psicodinamico; una osservazione sul registro linguistico adottato per parlare di trauma ci consente di comprendere l’evoluzione del concetto che descrive: oggi in ambito di psicotraumatologia ci troviamo a fare i conti con una terminologia peculiare, emancipata, che ci fa comprendere quanto l’area del “trauma” rappresenti sempre di più un modo mirato, “unico” di leggere alcuni dei problemi portati dai pazienti -attraverso una lente dedicata, uno sguardo diverso.
Venendo a questo volume, sono sistematizzati e organizzati qui articoli e approfondimenti raccolti in cinque anni, relativi al “problema” del superamento di un evento traumatico o di una traumatizzazione protratta. Sono raccolti per macro-temi, dalla psicobiologia della traumatizzazione, agli autori più importanti che negli anni (a partire da Pierre Janet) hanno indagato il tema, per arrivare alle modalità di fronteggiamento delle sindromi post-traumatiche più o meno complesse. In chiusura ho costruito tre appendici su temi “di contorno”, tra cui alcune interviste a esperti del settore e alcuni consigli di approfondimento in senso bibliografico.
Lo studio sul trauma e sui fenomeni dissociativi è in continuo mutamento, credo però che il seguente lavoro possa fornire una panoramica di insieme e un approccio sufficientemente chiaro al problema.
Come si noterà dal materiale qui raccolto, e tirando le fila dei diversi filoni di approfondimento trattati, osserviamo come la traumatizzazione risponda a degli imperativi prima di tutto dettati dalla nostra natura animale, più profonda, strettamente connessa alle esigenze evoluzionistiche.
Il trauma è un evento che mette a repentaglio la nostra sensazione di sicurezza, e come tale viene potentemente impresso nella nostra memoria, al fine di salvaguardarci da una sua eventuale ripetizione: è in grado poi di produrre una distorsione dei nostri meccanismi di apprendimento, imprigionandoci in un eterno presente di ripetizione e permanenza all’interno della “vita post-traumatica”. Per questo motivo, viene spesso definito un problema collegato alla memoria, dato che sembra estremamente difficoltoso riconsegnarlo al passato, digerirlo in senso psichico e infine dimenticarlo.
Osserviamo inoltre come alcuni meccanismi tengano in vita questo processo di presentificazione del trauma e delle memorie traumatiche: la mente sembra voler “tornare sulla scena del crimine”, come attratta dal potere suggestivo e dal dolore provocato dalle memorie traumatiche stesse. Alla base di questo, modificazioni nel funzionamento dei distretti cerebrali funzionali alla regolazione degli stati emotivi, contribuiscono a rendere il superamento delle sindromi post-traumatiche un processo che spesso dura moltissimo tempo.
Come prima accennato, leggere le sindromi post-traumatiche in chiave evoluzionistica ci consente di capirne lo scopo ultimo, l’apprendimento che ci aiuta a non ripetere esperienze per noi dolorose, insieme ad un’immobilizzazione ai fini della guarigione, come succede nel dolore fisico. Esistono però molteplici casi in cui questo meccanismo si corrompe e complica, obbligando l’individuo a permanere per troppo tempo in uno stato di immobilità, di fiacchezza passiva, come soggiogato dal potere del ricordo. Sarebbe per questo di estremo interesse procedere a un’indagine comparata con altre specie animali, capire come alcune specie possano estinguere, dissipare i loro vissuti traumatici, al fine di capire meglio cosa -in noi- va così storto: troverete in questo lavoro alcuni spunti sul tema.
Particolare attenzione è stata data in questi contributi su trauma e dissociazione al concetto di approccio integrato, nell’idea che affrontare il problema da molteplici punti di vista (psichico e fisico insieme, banalmente) possa produrre un migliore risultato in senso clinico, e più veloce. Troverete dunque diversi riferimenti ad approcci non solamente psicologici, per affrontare i vissuti disturbanti della post-traumatizzazione.
Infine, troverete alcune parole sottolineate, all’interno del testo e nelle note: sono link che rimandano a pagine internet con approfondimenti ulteriori, ovviamente fruibili solo nella versione e-book di questo lavoro.
QUI É POSSIBILE SCARICARE L’INDICE DEL VOLUME.
NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)
Henri Ey: “Allucinazioni e delirio”, la pubblicazione in italiano per Alpes, a cura di Costanzo Frau
PREMESSA: pubblichiamo l’introduzione italiana al libro “Allucinazioni e delirio. Le forme allucinatorie dell’automatismo verbale” di Henri Ey, a cura di Costanzo Frau, che ha anche tradotto il libro. Importare in Italia il lavoro di Henri Ey ha la funzione di promuovere la concettualizzazione gerarchica del modello di mente, che coniuga in sè importanti contributi di “padri” dell’attuale psicotraumatologia, e che ci aiuta a comprendere forme di psicopatologia di difficile lettura, come le voci simil-allucinatorie in gravi disturbi post-traumatici. L’idea centrale è che la mente proceda per elaborazioni di informazioni entro una logica gerarchica, e che -come sostiene Pierre Janet- alcune forme di psicopatologia vadano pensate come “fallimenti” delle funzioni di sintesi di aree del complesso mente/cervello più evolute, che non riuscirebbero a contenere l’attivazione delle aree sottostanti o precedenti -sempre entro lo schema gerarchico. Qui per un’introduzione al modello organodinamico di Henri Ey. Aisted ha attivato un gruppo di lavoro sul neo jacksonismo, qui raggiungibile. (R. Avico)
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Introduzione all’edizione italiana (di Costanzo Frau)
Il DSM-5 definisce le allucinazioni come “esperienze simil-percettive che si verificano senza uno stimolo esterno. Sono vivide e chiare, con il pieno impatto e tutta la forza delle percezioni normali, e non sono sotto il controllo volontario. Esse possono presentarsi in qualsiasi modalità sensoriale, ma le allucinazioni uditive sono le più comuni nella schizofrenia e nei disturbi correlati […]” (APA, 2013; p. 102).
Esistono diverse definizioni generali di allucinazione, che variano in base alla prospettiva teorica e scientifica. La definizione proposta da Esquirol nel 1817, ancora in uso oggi, descrive l’allucinazione come “una convinzione immediata di una sensazione percepita, pur in assenza di un oggetto esterno che possa stimolare tale sensazione” (Ey, 1939).
Jaspers, nel 1913, la considera come una percezione falsa che non è dovuta a una distorsione delle percezioni reali, ma piuttosto a una produzione mentale autonoma che si manifesta simultaneamente con le percezioni autentiche (Jaspers, 1913).
Per Smythies (1956, citato in Oyebode, 2008), un’allucinazione è un fenomeno percettivo che coinvolge stimoli sia interni che esterni, ma che non corrisponde a un oggetto concreto nel mondo reale.
Infine, Slade (1976, citato in Oyebode, 2008) distingue tre caratteristiche fondamentali delle allucinazioni: la percezione simulata si verifica senza uno stimolo esterno, ha un’intensità e un impatto simili a quelli di una percezione reale, ed è caratterizzata da involontarietà, spontaneità e da una totale incapacità del soggetto di controllarla.
Per lungo tempo, il sentire le voci è stato considerato un sintomo di- stintivo della schizofrenia, come indicato nelle edizioni precedenti del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III e DSM- IV). La diagnosi di schizofrenia nel DSM-IV richiedeva la presenza di almeno due dei seguenti cinque sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento gravemente disorganizzato o catatonico, e sintomi negativi, che includevano appiattimento affettivo, alogia, abulia. In alternativa, bastava la presenza di deliri bizzarri o di allucinazioni uditive, come la percezione di una voce che commenta continuamente i pensieri o il comportamento del soggetto, oppure il sentire due o più voci che conversano tra loro (APA, 2000).
Tuttavia, a partire dalla quinta edizione del manuale, le allucinazioni verbali uditive non sono più considerate un sintomo esclusivo della schizofrenia (APA, 2013).
È stato evidenziato che le allucinazioni uditive possono manifestarsi anche in individui senza una diagnosi psichiatrica, fenomeno spesso definito in letteratura come “pseudoallucinazioni”. Questo termine viene utilizzato per distinguere tali voci da quelle tipicamente associate a disturbi psicotici, come nei casi di psicosi (Longden et al., 2019).
Tuttavia, la ricerca scientifica non ha fornito prove conclusive a sostegno di questa distinzione. Al contrario, le evidenze suggeriscono che non vi sia una separazione netta tra le allucinazioni uditive sperimentate da persone con e senza diagnosi psichiatrica.
Numerose ricerche hanno mostrato che una parte significativa della popolazione sperimenta allucinazioni uditive senza ricorrere a trattamenti terapeutici per psicosi. Solo una percentuale relativamente bassa di questi individui (compresa tra 1/3 e 1/5) cerca una consulenza psichiatrica in relazione a queste esperienze (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007).
Inoltre, non sono state riscontrate differenze significative in relazione alla localizzazione delle voci, in quanto la percezione della provenienza esterna della voce non risulta essere più strettamente associata alla schizofrenia rispetto ad altri disturbi dello spettro schizofrenico e psicotici. Variabili come la prevalenza delle allucinazioni uditive, la loro personificazione, la vividezza percettiva, la durata e il contenuto negativo non mostrano differenze significative tra i pazienti con diagnosi di schizofrenia e quelli con altre diagnosi psichiatriche (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007; Waters & Fernyhough, 2017).
Sono state osservate sia somiglianze che differenze nelle allucinazioni uditive tra popolazioni cliniche e non cliniche, un argomento che viene trattato in modo approfondito nella revisione di Longden e collaboratori, la quale si raccomanda per ulteriori approfondimenti (Longden et al., 2019).
Nel 2007, Moskowitz e Corstens furono i primi a proporre l’idea che l’udire voci potesse essere il risultato di un processo dissociativo. Gli autori evidenziano la mancanza di evidenze che suggerissero una differenza significativa tra le voci percepite da individui con diagnosi di schizofrenia, disturbi dissociativi o da persone senza disturbi psichici. Nelle loro conclusioni, gli autori sottolinearono alcuni punti fondamentali: a) le allucinazioni uditive dovrebbero essere interpretate come esperienze dissociative, tipiche di individui predisposti a percepire voci, in particolare in situazioni di stress; b) queste esperienze necessitano di un’analisi approfondita per comprendere appieno il loro significato; c) le allucinazioni uditive potrebbero risolversi quando l’individuo riesce a spostare la sua valutazione da un livello esterno a uno interno riguardo al processo in atto (Moskowitz & Corstens, 2007).
La tendenza a interpretare i fenomeni mentali in termini di determinismo biologico ha radici molto antiche. Questo approccio può essere visto come il risultato dell’attività incessante delle strutture cerebrali superiori, che cercano di attribuire un senso ai vari aspetti dell’esperienza umana, spesso cadendo però nell’errore dell’ipersemplificazione. Un esempio di questa dinamica si può osservare anche nel concetto di allucinazione, che, a partire dalla definizione iniziale di “percezione senza oggetto” proposta da Esquirol, ha subito una lenta evoluzione.
In questo contesto, Séglas, clinico di grande esperienza e figura di riferimento della Salpêtrière, si esprime riguardo all’allucinazione uditiva nella sua introduzione a questo libro di Henri Ey.
“Questo atteggiamento quasi generale di indifferenza da parte dei medici nei confronti della psicologia dell’allucinazione uditiva, e in particolare delle allucinazioni psichiche, era semplicemente il risultato dell’idea, emersa dal lavoro di Esquirol e divenuta una sorta di aforisma intangibile, che l’allucinazione fosse semplicemente una modalità patologica della percezione “una percezione senza oggetto”. Non sorprende quindi che le allucinazioni vengano classificate in tante varietà quanti sono i sensi e che si distinguano, accanto alle allucinazioni della vista e dell’udito, quelle dell’olfatto, del gusto e del tatto” (p. XXII).
In un passo successivo ne sottolinea il meccanismo dissociativo:
“In sintesi, la caratteristica di questi fenomeni non è che si manifestano come più o meno simili a una percezione esterna, ma che sono fenomeni di automatismo verbale, un pensiero verbale staccato dall’Io, un fatto, si potrebbe dire, di alienazione del linguaggio” (p. XXIV).
Ciò che emerge con chiarezza lungo tutto il testo è l’idea che le allucinazioni non debbano essere considerate semplicemente come il risultato di un danno biologico, ma piuttosto come fenomeni che si inseriscono in un quadro complesso e dinamico del funzionamento globale dell’individuo, e in particolare della sua personalità. Secondo Henri Ey, le allucinazioni sarebbero espressione di un livello di integrazione psicologica ridotto.
Nelle sue conclusioni, l’autore sottolinea che:
“Così, di fronte alle teorie che pongono l’allucinazione come una sensazione più o meno degradata, anormale ma primitiva, che di conseguenza im- maginano i fenomeni allucinatori come sensazioni imposte (dall’interno… e si potrebbe quasi dire dall’esterno!) sulla personalità del soggetto, la nostra concezione (anch’essa tradizionale, come abbiamo spesso sottolineato, da Mo- reau de Tours a Séglas) è che si tratti di un errore condizionato da una caduta di livello psichico con un determinismo organico o affettivo che gli conferisce una sensorialità più o meno chiara. È sempre costituito dall’impasto della personalità del soggetto e della sua stessa attività” (p. 122).
E ancora in passaggio successivo:
“In conclusione, affermiamo ancora una volta che l’allucinazione non è un oggetto, che non è un prodotto primitivo del cervello malato. È legata da una rete fitta e sottile all’intera personalità dell’allucinato, così come la più piccola delle nostre idee, il più piccolo dei nostri atti – anche il più automatico – è legato all’insieme dei nostri atti passati, delle nostre idee, delle nostre credenze, dei nostri desideri. Ogni immagine è un pezzo vivente di noi stessi. Ogni idea ha le sue radici nella sostanza del sé. È altrettanto stravagante credere a idee, immagini e oggetti (le cosiddette allucinazioni) che si producono al di fuori del sé e a cui il sé aderisce, quanto credere alla trasmissione del pensiero” (p. 125).
Questo lavoro preliminare del 1934 rappresenta un momento cruciale nella definizione delle allucinazioni secondo Henri Ey, un concetto che viene poi ampiamente trattato nel suo successivo trattato sulle allucinazioni. In quest’opera, Ey distingue due tipi principali di allucinazioni: le allucinazioni semplici (come le allucinosi), che possono essere ricondotte a disturbi neurologici, e le allucinazioni complesse, che si basano sul linguaggio interiore e sono legate a disfunzioni nell’organizzazione della coscienza (Ey, 1973).
In effetti, Henri Ey, insieme ad altri studiosi come Scröder e Janet, ha tracciato una distinzione tra allucinosi – intesa come una disintegrazione isolata delle percezioni – e le allucinazioni osservate nelle psicosi, che sono considerate espressioni cliniche del disturbo della coscienza e della personalità (Ey et al., 1972).
Il DSM-5 definisce i deliri come “convinzioni fortemente sostenute che non sono passibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti” (APA, 2013; p. 101).
La definizione standard di delirio si rifà a Jasper (1913), il quale gli attribuiva queste caratteristiche:
- il fatto di essere un giudizio erroneo;
- l’essere sostenuto con straordinaria convinzione e impareggiabile certezza soggettiva;
- l’essere refrattario all’esperienza e ogni tipo di confronto con argomentazioni alternative oltre al fatto di non essere influenzato dall’esperienza concreta o dalle confutazioni stringenti;
- l’impossibilità del contenuto;
Jasper (1913) differenzia i veri deliri o deliri propri dalle idee simil- deliranti, laddove i primi diventano sinonimi di deliri primari mentre i secondi di deliri secondari.
Le idee simil-deliranti possono essere comprese in riferimento all’ambiente interno ed esterno del paziente, in particolare dal suo stato dell’umore.
I veri deliri non possono essere spiegati, sono irriducibili e sono classificati in: intuizioni deliranti, percezioni deliranti, atmosfera delirante e ricordi deliranti (Jasper, 1913; Oyebode, 2008).
Le teorie più recenti in ambito psichiatrico si sono evolute nel tentativo di fornire una spiegazione delle varie manifestazioni del delirio. I deliri pri- mari, definiti come “irriducibili” e non comprensibili, potrebbero sembrare privi di una spiegazione logica, poiché il clinico o l’osservatore potrebbe non possedere informazioni sufficienti sul contesto esistenziale e biografico da cui questi deliri emergono. Questo può accadere anche quando si è esplorata in profondità la possibilità di una loro interpretazione come fenomeni secondari. Secondo alcuni autori, diversi tipi di delirio potrebbero derivare da ricordi traumatici decontestualizzati o da esperienze precoci di attaccamento emotivo, per le quali non è possibile formare una memoria autobiografica congruente (Moskowitz & Montirosso, 2019).
Come viene concettualizzato il delirio in questo lavoro di Henri Ey?
Per l’autore, i disturbi allucinatori del linguaggio interiore (automatismo verbale) assumono la loro forma patologica diventando fenomeni for- zati o estranei attraverso il significato che viene conferito loro dal delirio.
Utilizzando le parole dello psichiatra francese, il delirio è “nella sua accezione più generale, quell’insieme di disturbi della coscienza, sentimenti patologici, credenze morbose, che fanno sempre da contorno a fenomeni isolati solo dall’astrattezza come le allucinazioni o le pseudo-allucinazioni verbali”.
Il delirio risulta quindi strettamente connesso all’allucinazione, come emerge chiaramente nella seconda sezione del testo, dove Ey fa riferimento a numerosi autori che condividono questa visione (vedi per esempio Falret e Chaslin). Tuttavia, il principale riferimento è a Séglas, che viene citato più volte e la cui riflessione fondamentale viene proposta come epigrafe all’inizio di questo lavoro: “L’allucinazione non deve essere considerata solo come un delirio delle sensazioni. Essa possiede tutte le caratteristiche di un vero e proprio delirio, nel senso più ampio del termine”.
La concezione del delirio di Ey si inserisce nella teoria organo-dinamica e si fonda su due aspetti principali, strettamente interconnessi: a) la dimensione negativa dell’esperienza delirante, che è caratterizzata da uno stato primordiale del delirio, conseguente alla destrutturazione della coscienza; b) la costruzione delirante positiva, che consiste nella costruzione di una finzione immaginaria a partire dalle esperienze deliranti, dando forma a una narrativa delirante coesa (Ey et al., 1972)
Tutto il lavoro di Ey si fonda sulla teoria di Jackson, in base alla quale la mente funziona secondo un principio gerarchico. In questo modello, la mente è in grado di integrare progressivamente in modo più complesso le informazioni provenienti dalle aree cerebrali inferiori. Le funzioni delle strutture cerebrali più primitive vengono riorganizzate e rappresentate all’interno delle reti neurali più avanzate (le neostrutture), le quali permettono forme più sofisticate e adattabili di elaborazione dell’informazione.
Come l’autore afferma in un passaggio in cui discute il concetto di automatismo:
“A un livello inferiore, la mente fluttuante è capace solo di attività associativa e spontanea. A un livello superiore, ma ancora inferiore all’attività riflessiva e volontaria, si organizza secondo un tipo di pensiero affettivo, primo abbozzo della sua finalità. È l’ipotesi di tale gerarchia che ci guiderà in tutto questo lavoro” (p. XLVI).
E ancora più avanti nel testo quando mette in evidenza come il costituirsi delle idee deliranti vada ricondotto all’attività mentale dei livelli inferiori:
“[…] ma esiste proprio nel dispiegamento delle funzioni psichiche un dominio molto considerevole in cui il pensiero indebolito è costretto a rimanere a questi livelli inferiori ed è, crediamo, in questi stati crepuscolari ipnoidi che dob- biamo vedere l’elaborazione di un certo numero di idee deliranti.” (p. LVII).
Il libro in esame affronta il tema delle allucinazioni e dei deliri, esplorandone la connessione.
Nell’introduzione, l’autore si concentra sulla definizione di “automatismo” in psicopatologia, esaminando la complessità e le ambiguità del termine, e considerando le diverse interpretazioni presenti in ambito psichiatrico. Successivamente, il concetto viene rielaborato attraverso una prospettiva organo dinamica, in accordo con le teorie di Jackson, Janet e Bleuler.
L’ipotesi che orienta le argomentazioni dei capitoli successivi è che i fenomeni allucinatori non debbano essere considerati manifestazioni automatiche e prive di significato, ma piuttosto “dei fenomeni in sé stessi intatti e che assumono una forma patologica (credenze deliranti e allucinatorie) una volta che si verifica una dissoluzione delle funzioni superiori che le regolano” e che questa dissoluzione cerebrale possa “essere realizzata da incidenti cerebrali o in certi casi essere provocata da avvenimenti dell’”ambiente” recenti (traumi affettivi) o antichi (organizzazione della personalità psichica, non cosciente)”.
La prima sezione del libro è incentrata sull’analisi delle allucinazioni psicomotorie verbali.
In questa parte, Henri Ey propone un excursus storico, esaminando l’evoluzione delle teorie a partire dai primi lavori di Séglas del 1888, per poi sviluppare una discussione in cui illustra, attraverso numerosi esempi clinici, come il linguaggio debba essere concepito come una funzione motoria complessa, strettamente interconnessa con i processi cognitivi del pensiero.
Ey esplora il rapporto tra immagine, linguaggio e movimento, evidenziando come la percezione, insieme all’immagine e al pensiero che ne derivano, siano intimamente connessi agli atti motori. In questa visione, la percezione non è solo un processo passivo di registrazione sensoriale, ma un atto dinamico che implica l’integrazione e la rappresentazione di stimoli all’interno di un contesto motorio, dove il linguaggio, come funzione complessa, emerge e si sviluppa in stretta relazione con il movimento. I fenomeni psichici possono quindi essere spiegati tramite il movimento, considerato “il vero motore dell’atto percettivo, del pensiero e dell’immagine seguendo i loro diversi livelli” (p. 27).
L’autore esamina le allucinazioni psicomotorie, distinguendo tra feno- meni di costrizione (forzati) e fenomeni di estraneità, e successivamente discute come tali manifestazioni possano essere comprese solo in relazione a uno stato mentale più ampio che le ingloba. In particolare, il sentimento di “influenzamento” si associa ai fenomeni forzati, mentre il sentimento di “automatismo” si lega ai fenomeni di estraneità.
Negli ultimi capitoli di questa prima parte, l’autore propone una valutazione critica della teoria di Morgue, argomentando la corrispondenza tra il sentimento di automatismo e il sentimento di influenzamento. Ey sottolinea come entrambi i fenomeni “non dipendano da scoppi, irruzioni, atti isolati e meccanicamente innescati” (p. 48) ma piuttosto siano il frutto di processi psichici più complessi. Inoltre, illustra come la dissoluzione delle funzioni psichiche che sta alla base di questi fenomeni possa essere indotta tanto da fattori organici, come alterazioni neurologiche, quanto da fattori affettivi, suggerendo una visione più integrata e meno riduzionista dei disturbi psichici.
La seconda parte del lavoro si focalizza sull’analisi del rapporto tra allucinazione e delirio. In particolare, il primo capitolo esplora come i fenomeni forzati e quelli estranei siano strettamente legati al pensiero e alle credenze deliranti. Il secondo capitolo, invece, è dedicato all’esame dei fenomeni psicomotori e all’evoluzione dei deliri, mentre il terzo capitolo offre una descrizione delle diverse tipologie di delirio, evidenziando le varie manifestazioni cliniche e le loro caratteristiche distintive.
In ambito psichiatrico, il fenomeno delle allucinazioni uditive viene generalmente interpretato come il risultato di un “danno” biologico, un’alterazione nei meccanismi cerebrali, e per questo motivo viene considerato trattabile esclusivamente tramite interventi farmacologici. In questo paradigma, il trattamento con antipsicotici è visto come la modalità terapeutica principale, accompagnato da interventi psicoeducativi, che si concentrano sull’informare il paziente riguardo alla natura del disturbo cerebrale e alla necessità di seguire una terapia farmacologica.
Al contrario, una prospettiva alternativa, concepisce le voci come fenomeni dissociativi, ossia come manifestazioni di aspetti del sé che sono stati dissociati o separati. In questa visione, le allucinazioni uditive vengono interpretate come strategie di adattamento e di sopravvivenza messe in atto dal cervello di fronte a difficoltà psichiche. In questo approccio, l’intervento primario consiste in una psicoterapia, con il trattamento farmacologico che gioca un ruolo di supporto (Ross, 2020; Mosquera & Ross, 2016).
In linea con questo modo di concepire le voci, studi recenti hanno messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti che considerano le voci come aspetti del sé dissociati da re-integrare all’interno di un processo terapeutico (Corstens et al., 2019; Longden et al., 2022).
Molte teorie, purtroppo, non hanno ricevuto il riconoscimento scientifico che avrebbero meritato, venendo inizialmente ignorate per poi essere rivalutate in seguito. Sebbene le teorie di Henri Ey abbiano avuto un certo impatto nel contesto psichiatrico, è probabile che nel corso dei decenni successivi non abbiano ricevuto l’attenzione adeguata che il loro valore teorico e clinico avrebbe suggerito.
Si spera che il presente volume, che rappresenta il primo contributo dell’autore sull’interrelazione tra fenomeni allucinatori e psicosi, ripreso successivamente in un’opera più ampiamente sviluppata (Ey, 1973), possa suscitare nel lettore una rinnovata curiosità e stimolare nuove riflessioni, indirizzando la ricerca verso una concezione gerarchica del funziona- mento mentale, in opposizione a una visione dominante nella psichiatria contemporanea che, se non definita “meccanicistica”, risulta comunque di natura riduzionista.
CARICO ALLOSTATICO: UN’INTRODUZIONE
PREMESSA: questo articolo è stato scritto -come esperimento- da ChatGPT4o, “alimentata” da articoli scientifici incentrati sul concetto di carico allostatico. Il concetto di carico allostatico è affine a quello di “disturbo dell’adattamento“, che riguarda persone colpite da stress protratto (come vi rispondono, come la loro mente e il loro corpo reagiscono ad esso).
In pazienti con PTSD o PTSDc, osserviamo uno stato di iperattivazione nervosa protratto, un’accensione del sistema di allarme che ricade sul corpo, che genera conseguenze anche in senso medico. I due riferimenti teorici, come si legge sotto, sono su questo Bruce S. McEwen e Robert Sapolsky, che ha scritto il famoso “Perchè alle zebre non viene l’ulcera“, un trattato divulgativo ottimo per capire come il “carico allostatico” -appunto- impatti sui vari distretti corporei. Un ottimo lavoro divulgativo, su questo, lo sta facendo la SIPNEI.
Per un professionista che si occupi di individui colpiti da eventi stressanti o in balìa di emozioni di allarme (come nei disturbi di panico, o appunto nelle sindromi post-traumatiche) capire come il “carico” emotivo impatti sul corpo e sulla mente -insieme- rappresenta un imprescindibile punto di partenza nel lavoro di indagine diagnostica e durante l’impostazione del piano di cura. Abbiamo qui spesso sottolineato come la sola parola non basti, e occorra mettere il corpo nell'”equazione clinica”, spingendo il paziente a occuparsi anche delle ricadute somatiche della sua emotività (per esempio tentando di dissipare l’allarme anche in forma fisica, attraverso l’attività fisica). (R. Avico)
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Introduzione
Il concetto di equilibrio biologico ha subito un’evoluzione significativa nel corso del tempo. L’omeostasi, definita da Walter Cannon come il ritorno dell’organismo a condizioni di stabilità originarie, è stata ampliata e reinterpretata attraverso il concetto di allostasi e carico allostatico. Questo approccio, sviluppato da Hans Selye e formalizzato da Bruce McEwen, rappresenta un salto paradigmatico nella comprensione della risposta adattativa agli stressor e delle sue conseguenze sulla salute umana. L’allostasi descrive il processo attraverso cui l’organismo raggiunge un nuovo equilibrio funzionale, mentre il carico allostatico rappresenta il costo biologico accumulato nel tentativo di adattarsi a stimoli prolungati o ripetuti. Questi concetti sottolineano il ruolo del cervello come centro di regolazione della risposta allo stress e il suo dialogo costante con il resto del corpo.
Il carico allostatico: definizione e implicazioni
Il carico allostatico rappresenta il costo cumulativo sostenuto dall’organismo nel tentativo di adattarsi agli stimoli stressanti attraverso meccanismi di allostasi. Esso si verifica quando le risposte fisiologiche allo stress sono attivate ripetutamente o mantenute per periodi prolungati, superando la capacità di recupero dell’organismo. Il carico allostatico include sia la produzione eccessiva di mediatori dello stress, come cortisolo e citochine infiammatorie, sia la loro deregolazione, con effetti dannosi a livello cerebrale, immunitario, cardiovascolare e metabolico. Questa condizione, se protratta, diventa un fattore predisponente per l’insorgenza di patologie croniche, alterazioni cognitive e disturbi dell’umore.
L’allostasi e il cervello: adattamento e sovraccarico
Il cervello svolge un ruolo centrale nella percezione e nella regolazione della risposta allo stress. Esso valuta l’ambiente, determina la natura degli eventi stressanti e coordina le risposte comportamentali e fisiologiche necessarie all’adattamento. Questo processo, definito allostasi, coinvolge mediatori chiave come il cortisolo, le catecolamine, le citochine infiammatorie e gli ormoni metabolici. Quando queste risposte sono equilibrate e temporanee, facilitano un adattamento funzionale; tuttavia, quando diventano croniche, eccessive o deregolate, si genera un carico allostatico, che si manifesta con alterazioni a livello cerebrale e sistemico.
La plasticità allostatica rappresenta la capacità del cervello di adattarsi strutturalmente e funzionalmente in risposta allo stress. Questa plasticità si osserva in regioni chiave come l’ippocampo, la corteccia prefrontale e l’amigdala, ciascuna delle quali risponde in modo differente agli stimoli stressanti. L’ippocampo, cruciale per la memoria episodica e la regolazione dell’umore, subisce atrofia dendritica sotto stress cronico, con effetti negativi sulle funzioni cognitive. Al contrario, l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione della paura e dell’ansia, mostra espansione dendritica, che si traduce in un aumento della vigilanza e della risposta emotiva. La corteccia prefrontale, fondamentale per le funzioni esecutive e il controllo comportamentale, subisce una riduzione della connettività funzionale, portando a rigidità cognitiva e difficoltà decisionali.
Meccanismi epigenetici e carico allostatico
Lo stress regola l’espressione genica attraverso meccanismi epigenetici, tra cui la metilazione del DNA, le modifiche istoniche e l’azione di RNA non codificanti. Questi processi influenzano continuamente l’attività dei geni, lasciando segni permanenti che persistono anche dopo la fine dell’evento stressante. Le esperienze avverse durante lo sviluppo, comprese quelle prenatali e infantili, esercitano effetti duraturi sull’architettura genetica e cerebrale, aumentando la suscettibilità a disturbi psichiatrici e fisici. Il concetto di plasticità epigenetica implica che, sebbene il cervello possa mostrare resilienza e recupero, esso non ritorna mai completamente allo stato precedente allo stress.
L’accumulo di carico allostatico altera anche la fisiologia sistemica. Il ritmo circadiano, ad esempio, risente fortemente delle alterazioni stress-correlate, con effetti negativi sulla regolazione del sonno, del glucosio e dell’infiammazione sistemica. La privazione del sonno e le disfunzioni circadiane aggravano il carico allostatico, determinando un aumento della resistenza insulinica e del rischio di patologie metaboliche. Di conseguenza, condizioni come il diabete e l’obesità sono strettamente correlate alla depressione e all’aumentato rischio di demenza.
Effetti sistemici e implicazioni per la salute
Il carico allostatico si manifesta con effetti negativi diffusi che coinvolgono più sistemi fisiologici. A livello neuroendocrino, la deregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene porta a una produzione persistente di cortisolo, con conseguenze dannose sulla salute metabolica, immunitaria e cardiovascolare. A livello immunitario, l’infiammazione cronica rappresenta un elemento cardine del carico allostatico, favorendo lo sviluppo di malattie autoimmuni, cardiovascolari e neurodegenerative. Questi effetti si estendono alla sfera psichiatrica, con un aumento della vulnerabilità alla depressione, all’ansia e ai disturbi cognitivi.
L’esposizione precoce allo stress, sia durante lo sviluppo intrauterino che nei primi anni di vita, contribuisce in modo determinante al carico allostatico. Eventi avversi in questa fase delicata lasciano segni epigenetici che influenzano negativamente la salute mentale e fisica nell’età adulta. Analogamente, fattori socioeconomici, come la povertà e lo svantaggio sociale, interagiscono con predisposizioni genetiche ed epigenetiche, aumentando il rischio di multimorbilità tra disturbi psichiatrici e fisici.
Effetti dello stress protratto e il contributo di Robert Sapolsky
Il lavoro di Robert Sapolsky ha ampliato la comprensione degli effetti dello stress protratto sul cervello e sull’organismo. Secondo Sapolsky, lo stress cronico comporta una stimolazione prolungata dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con rilascio costante di cortisolo. Questa esposizione persistente danneggia in modo particolare l’ippocampo, una struttura essenziale per la memoria e la regolazione emotiva. Le cellule neuronali dell’ippocampo risultano vulnerabili all’effetto neurotossico del cortisolo, andando incontro a una riduzione delle connessioni dendritiche e a una maggiore suscettibilità alla morte cellulare. Parallelamente, l’amigdala mostra un’attivazione eccessiva che amplifica stati di ansia e iper-vigilanza, mentre la corteccia prefrontale, deputata alla regolazione delle emozioni e al controllo delle risposte impulsive, subisce un declino funzionale.
Sapolsky sottolinea inoltre come lo stress protratto agisca a livello sistemico, favorendo l’infiammazione cronica e interferendo con il metabolismo glucidico. Questa condizione, se prolungata, diventa un terreno fertile per lo sviluppo di patologie come la sindrome metabolica, il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. I suoi studi evidenziano anche l’importanza del contesto sociale nella modulazione della risposta allo stress, mostrando come fattori come la gerarchia sociale e le relazioni interpersonali possano influenzare la vulnerabilità individuale agli effetti negativi dello stress.
Prevenzione e interventi terapeutici
La comprensione del carico allostatico e dei suoi meccanismi sottolinea l’importanza di approcci preventivi e terapeutici mirati. La prevenzione del sovraccarico biologico è fondamentale e richiede interventi che promuovano comportamenti salutari e resilienza psicologica. La plasticità cerebrale offre opportunità per trattamenti che integrano interventi farmacologici e comportamentali. Tecniche come la mindfulness, la meditazione e la terapia cognitivo-comportamentale si sono dimostrate efficaci nel ridurre lo stress e migliorare la salute mentale. L’attività fisica regolare, un sonno adeguato e la promozione di interazioni sociali significative sono strumenti essenziali per mitigare il carico allostatico e favorire il recupero.
Conclusione
L’allostasi e il carico allostatico rappresentano concetti chiave per comprendere come l’organismo risponde allo stress nel corso della vita. Il cervello, in qualità di organo centrale della risposta allo stress, modula e subisce gli effetti delle esperienze stressanti attraverso meccanismi neuroplastici ed epigenetici. Quando la risposta adattativa diventa disfunzionale, si verifica un accumulo di carico allostatico che compromette la salute sistemica e psichica. Affrontare il carico allostatico richiede un approccio olistico che integri prevenzione, interventi terapeutici e promozione del benessere, con l’obiettivo di preservare l’equilibrio dinamico dell’organismo e migliorare la qualità della vita.
Indicazioni biografiche su Bruce McEwen
Bruce S. McEwen (1938-2020) è stato un pioniere nel campo della neuroendocrinologia e della ricerca sullo stress. Professore presso la Rockefeller University di New York, McEwen è noto per aver introdotto i concetti di allostasi e carico allostatico, rivoluzionando la comprensione delle risposte allo stress e delle loro implicazioni per la salute mentale e fisica. I suoi studi hanno esplorato l’interazione tra il cervello e i sistemi ormonali, mostrando come lo stress cronico influenzi la plasticità cerebrale, l’epigenetica e le patologie sistemiche. La sua vasta produzione scientifica include oltre 1.000 pubblicazioni e numerosi premi prestigiosi per il suo contributo alla medicina e alla biologia.
Bibliografia
- McEwen, B. S. (2007). Physiology and neurobiology of stress and adaptation: Central role of the brain. Physiological Reviews, 87(3), 873-904.
- McEwen, B. S., & Nasca, C. (2016). Stress effects on neuronal structure: Hippocampus, amygdala, and prefrontal cortex. Neuropsychopharmacology, 41(1), 3-23.
- McEwen, B. S., & Morrison, J. H. (2013). The brain on stress: Vulnerability and plasticity of the prefrontal cortex over the life course. Neuron, 79(1), 16-29.
- McEwen, B. S. (1998). Protective and damaging effects of stress mediators. New England Journal of Medicine, 338(3), 171-179.
- Koob, G. F., & Le Moal, M. (2001). Drug addiction, dysregulation of reward, and allostasis. Neuropsychopharmacology, 24(2), 97-129.
- Sapolsky, R. M. (2004). Why zebras don’t get ulcers: The acclaimed guide to stress, stress-related diseases, and coping. Holt Paperbacks.
NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)
TRAUMA E PSICOSI: ALCUNI VIDEO DALLE “GIORNATE PSICHIATRICHE CERIGNALESI 2024”
di Raffaele Avico
Da poco è stato pubblicato sul canale youtube di Psychiatry On Line una playlist di video che raccoglie alcuni interventi specialistici sul tema “trauma e psicosi”.
L’occasione è stata quella delle “giornate psichiatriche cerignalesi“, evento che ogni anno raccoglie specializzandi e psichiatri sulla sua montagna dell’appennino ligure-piacentino, organizzato dalla Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica.
Figurano in questa playlist diversi nomi interessanti, che hanno ragionato sul rapporto tra eventi traumatici singoli o ripetuti, e lo sviluppo di successive forme di psicosi. Carlo Ignazio Cattaneo, per esempio, porta il tema del “vuoto nosografico” relativo alle forme di psicosi post-traumatiche. Paolo Calini (membro AISTED) approfondisce gli incastri tra dissociazione e psicosi, ragionando sull’importanza di integrare la teoria di Janet (padre -ricordiamolo- dell’attuale psicotraumatologia) all’attuale concettualizzazione della psicosi.
Sulle implicazioni delle conseguenze del trauma sullo sviluppo di disturbi psicotici, si vedano anche questo lavoro e questo approfondimento, sempre a proposito del sintomo “voci”.
Un’apertura così forte al tema “psicosi post-traumatica” da parte di personaggi di spicco (e giovani) in seno alla “nuova” psichiatria, porta a riflettere su quanto erroneo possa essere declassare la teoria del trauma a semplice moda passeggera.
Disturbi da sintomi somatici e di conversione: un approfondimento
di Roberta Spiga, Costanzo Frau, Studio Psicoterapia e Ricerca Trauma & Dissociazione Associazione DBR Italia (e-mail: deepbrainreorienting@gmail.com)
I disturbi da somatizzazione e conversione fanno parte di una categoria diagnostica del DSM- 5, definita disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati (APA, 2013). Questo cluster di disturbi non è sempre stato categorizzato allo stesso modo nel corso dei decenni ma ha subito diverse modifiche nelle diverse edizioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).
La prima classificazione dei disturbi da somatizzazione è da attribuire al DSM III (1980) che le descriveva come delle lamentele somatiche, esagerate, multiple e ricorrenti, della durata di parecchi anni, apparentemente non legate a nessun disturbo fisico di origine medica. Le manifestazioni cliniche si riferivano a sintomi di conversione come paralisi o cecità, fastidi gastrointestinali, difficoltà genitali nella femmina, problemi psico-sessuali, dolori muscolari come mal di schiena e sintomi cardio-polmonari. I disturbi da conversione, invece, venivano descritti come un’alterazione o perdita di funzionamento fisico, collegati all’espressione di un conflitto o di un bisogno psicologico.
I sintomi di conversione riguardavano paralisi, afonia, convulsioni, alterazioni della coordinazione, acinesia, discinesia, cecità, visione a tunnel, anosmia, anestesia e parestesia. Inoltre, il DSM III specificava come i sintomi del disturbo non dovessero essere prodotti intenzionalmente ed essere spiegati con un altro disturbo fisico o meccanismo fisiopatologico conosciuto.
Sia il disturbo di somatizzazione che quello di conversione facevano parte dei Disturbi Somatoformi assieme al disturbo da dismorfismo corporeo, all’ipocondria e al disturbo da dolore somatoforme (APA, 1980).
Nella quarta edizione del DSM, il DSM-IV, le diagnosi precedentemente descritte nel manuale sotto il disturbo somatoforme furono riorganizzate sotto l’ombrello dei cosiddetti disturbi somatici che includevano:
- Disturbo di Somatizzazione: indicato come disturbo caratterizzato da molteplici sintomi, con esordio prima dei 30 anni, riguardanti dolore e sintomi gastro- intestinali, sessuali e pseudo-neurologici;
- Disturbo Somatoforme Indifferenziato: caratterizzato da lamentele fisiche non giustificate ma che non raggiunge la soglia per la diagnosi di Disturbo di Somatizzazione;
- Disturbo di Conversione: sintomi di deficit riguardanti le funzioni motorie volontarie e sensitive non giustificati a livello medico
- Disturbo Algico: caratterizzato dal dolore come punto focale principale della alterazione clinica.
- Ipocondria: preoccupazione legata al timore o alla convinzione di avere una grave malattia
- Disturbo di Dismorfismo Corporeo: preoccupazione riguardante un difetto presunto o sopravvalutato del proprio aspetto fisico;
- Disturbo Somatoforme Non Altrimenti Specificato: è stato incluso per registrare i disturbi con sintomi somatoformi che non soddisfano i criteri per nessuno dei Disturbi Somatoformi
Nel DSM 5 (APA, 2013) questa categoria diagnostica viene descritta sulla base dei sintomi e segni positivi, ovvero sintomi somatici accompagnati da pensieri, sentimenti e comportamenti anomali che vengono adottati in risposta a questa sintomatologia.
I principi che sono alla base dei cambiamenti apportati nelle diagnosi del disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati sono fondamentali per comprendere le diagnosi del DSM-5. In questa versione cambia la categorizzazione dei disturbi rispetto al DSM -IV:
- Disturbo da sintomi somatici
- Disturbo da ansia di malattia
- Disturbo da conversione (Disturbo da sintomi neurologici funzionali)
- Disturbo fittizio
- Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati con altra specificazione
- Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati senza specificazione
I criteri delle versioni precedenti attribuivano un’eccessiva importanza alla centralità dei sintomi che non avevano una spiegazione medica. La nuova classificazione definisce, invece, la diagnosi principale, disturbo da sintomi somatici, sulla base di sintomi oggettivi. Rimane la categoria del Disturbo da conversione, che include i sintomi che non hanno una spiegazione medica: in questa diagnosi i sintomi neurologici risultano incompatibili con la fisiopatologia neurologica.
Sebbene sia classificato con i disturbi da sintomi somatici/somatoformi nel DSM-III fino al DSM-5-TR, il disturbo di conversione è classificato come disturbo dissociativo nell’ICD-10, mantenendo la sua lunga associazione con l’isteria (Kanaan et al., 2010; Brown et al., 2007).
I sintomi da conversione includono le pseudoparalisi, pseudocrisi epilettiche, deficit della vista e di altre funzioni sensoriali, disturbi dell’equilibrio e un insieme di disturbi neurologici, transitori e reversibili, dove non è dimostrata una lesione nervosa (Farina e Liotti, 2011).
Le somatizzazioni più comuni, invece, sono caratterizzate da disturbi a carico del sistema gastrointestinale, muscolo-scheletrico e genito-urinario come ad esempio vaginismo, dispareunia, eiaculazione dolorosa, minzione dolorosa (Farina e Liotti, 2011).
Nel loro meccanismo di base, sia i sintomi somatoformi che quelli di conversione possono essere ricondotti ad un processo dissociativo. In effetti fu Freud a distinguere l’isteria di conversione dall’isteria dissociativa per dire che quest’ultima era rarissima o inesistente.
Il DSM successivamente separò i disturbi di conversione dai disturbi dissociativi, inserendo il disturbo di conversione tra i disturbi somatoformi. Utilizzando una categoria arbitraria che li abbraccia entrambi, potremmo dire che i pazienti che presentano sintomi di dissociazione somatoforme sono molti e probabilmente affollano gli studi dei medici di medicina generale richiedendo un consulto medico per uno stato di malessere fisiologico generalmente non riconosciuto dai propri familiari. Questi sintomi non possono essere sicuramente letti tramite un modello medico riduzionista ma possono trovare una spiegazione all’interno di un paradigma più complesso, paradigma che abbraccia l’interazione tra i tre assi psico-neuro-endocrino-immunologico e che considera centrale la relazione mente-corpo (per un approfondimento vedi Anjum et al. 2020; Gonzales-Diaz, 2017; Bottaccioli, 2015).
Per esempio, un tipico sintomo descritto dal paziente come uno sbandamento continuo o la sensazione di perdere l’equilibrio, è l’atasia-abasia. Si tratta di un deficit di origine nervosa che consiste nell’impossibilità o difficoltà a camminare e che causa una riduzione della coordinazione dei movimenti, nella maggioranza dei casi non giustificato da una patologia (come, per esempio, l’ictus). In realtà questo sintomo è molto comune nei quadri dissociativi e veniva descritto in maniera molto dettagliata nei casi di isteria nella letteratura di fine 1800 (Janet, 1889; 1909).
La conversione e tanti altri sintomi somatoformi sono stati chiamati dissociazione somatoforme sulla base di solide prove empiriche. Diversi studi hanno messo in evidenza come questi sintomi fossero fortemente correlati alla dissociazione psicoforme (Nijenhuis, 2000; Nijenhuis et al., 1999) e come i pazienti con sintomatologia somatoforme e anche quelli con diagnosi di disturbo dissociativo presentassero in anamnesi esperienze traumatiche (Saxe et al., 1994; Nijenhuis et al., 2004; Tezcan et al., 2003).
Questi dati spiegherebbero il motivo per cui i termini dissociazione e somatoforme sono tenuti assieme nell’ICD-10 e nella sua versione aggiornata, l’ICD-11.
La manifestazione somatica della dissociazione è probabilmente causata da una perdita di integrazione verticale della componente somatoforme dell’esperienza e rappresentata da varie forme di sintomi pseudo-neurologici che possono includere funzioni quali: l’inibizione motoria o la perdita del controllo motorio, sintomi gastrointestinali, convulsioni, sintomi dolorosi, alterazione nella percezione del dolore (analgesia, anestesia cinestesica) come può succedere nei pazienti che non riescono a riferire lo stato di dolore o mantenere il contatto con lo stato affettivo in conseguenza di un’esperienza traumatica (Bob et al., 2013).
A tal proposito è interessante notare come la regolazione emozionale sfrutti gli stessi circuiti fisiologici che riguardano il dolore fisico. Il dolore viene trasmesso dalla sua origine periferica ad una prima tappa localizzata nella cellula gangliare, in maggioranza tramite le fibre C non mielinizzate e per questo lente, e in misura minore tramite le fibre A-delta caratterizzate da un basso livello di mielinizzazione e definite “semilente”. Successivamente il messaggio raggiunge il neurone a livello del ganglio spinale, dove si può verificare un’esaltazione della percezione del dolore tramite la sostanza P o una sedazione per mezzo delle encefaline, per poi raggiungere le corna posteriori del midollo spinale e infine i centri encefalici (talamo, amigdala, giro cingolato, corteccia sensoriale) (Panizon & Barbi, 2010).
Parallelamente si assiste ad una attivazione del sistema anti-nocicettivo che sfrutta come mediatori gli oppiodi endogeni, le endorfine e le encefaline e che forma un circuito dal nucleo accumbens al grigio periaqueduttale (PAG) lungo il midollo per giungere all’interneurone delle radici posteriori e al ganglio spinale (Panizon & Barbi, 2010). Questi circuiti top-down hanno una funzione fondamentale nella regolazione del dolore, assumono un ruolo più complesso durante lo sviluppo ontogenetico e sono implicati nelle manifestazioni sintomatologiche che caratterizzano i pazienti con storie traumatiche cumulative, in cui è evidente la dissociazione somatoforme.
La dissociazione somatoforme si basa sui meccanismi più bassi localizzati nel cervello più profondo, dove il lavoro di miglioramento delle capacità autoriflessive del paziente e la consapevolezza dei suoi stati mentali non riesce ad arrivare.
I pazienti con disturbi da sintomi somatici e nello specifico con disturbi da conversione necessitano per questo di trattamenti integrati che, oltre al lavoro classico portato avanti dalle diverse forme di psicoterapia basate sull’evidenza, preveda un lavoro specifico sul corpo, unico canale di accesso che può permettere una re-integrazione delle memorie somato-sensoriali dissociate.
Per bibliografia, qui.
NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)
TRAUMA E DISSOCIAZIONE: IL CONGRESSO ESTD DI OTTOBRE 2024, A KATOWICE (POLONIA)
di Raffaele Avico
Dal 10 al 12 ottobre 2024, a Katowice, in Polonia, si terrà un importante evento organizzato dalla ESTD, la European Society For Trauma and Dissociation.
Su questo blog abbiamo spesso parlato di trauma e dissociazione, riferiendoci anche all’AISTED, l’Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, affiliata all’ESTD stessa; la European Society For Trauma and Dissociation è un macro-contenitore che negli ultimi anni ha visto un alternarsi di differenti presidenti da molti stati europei, al fine di costruire un dispositivo divulgativo il più possibile “democratico” e rappresentativo del movimento psicotraumatologico.
Il movimento per lo studio del trauma ha negli ultimi anni ha preso forza radicandosi in Europa, aiutando psichiatri e psicoterapeuti a superare la visione “intrapsichica” della sofferenza mentale, verso una giusta collocazione dei pazienti dentro il loro ambiente. Si tratta di riabilitare l’ambiente nel processo di indagine eziopatogenetica, di andare a cercare adattamenti problematici a contesti difficili, attaccamenti insicuri o disorganizzati, abusi fisici o psicologici -unici e violenti o “piccoli” ma ripetuti-, sindromi post-traumatiche e relative ricadute sul corpo, al fine di meglio inquadrare (e trattare) i disturbi stessi, nel modo più integrato possibile.
Il convegno avrà luogo a Katowice e sarà facilmente raggiungibili da Cracovia, durerà dal giovedì al sabato (dal 10 al 12 ottobre), e sarà anticipato da una giornata (il mercoledì) dedicata, per chi vorrà, a visitare i luoghi di interesse della zona, compreso il vicino campo di concentramento di Auschwitz/Birkenau, o quartieri di interesse storico in Katowice, come il Nikiszowiec. Dal giovedì al sabato, poi, si alterneranno nelle diverse sale del convegno, molteplici riferimenti europei (ed extraeuropei) in ambito psicotraumatologico, portando testimonianze e informazioni aggiornate sulla diagnosi e il trattamento delle più comuni forme di trauma e dissociazione.
Tra gli altri saranno presenti:
- Eli Somer, lo scopritore del maladaptive daydreaming, una forma peculiare di disturbo dissociativo di cui qui avevamo scritto
- Anabel Gonzalez, che negli ultimi anni ha rappresentato un riferimento per gli studiosi del trauma di tutta europa, oltre a esercitare ruoli di responsabilità per la ESTD
- Sandra Baita, per il trattamento delle sindromi post-traumatiche in età infantile
- Suzette Boon, per le sindromi dissociative e la scala TADS-I, che presenteranno insieme ai nostrani Matteo Cavalletti e Maria Paola Boldrini (prossima presidente ESTD).
L’occasione si rivelerà importante per chi voglia approcciarsi al tema trauma in modo rigoroso e soprattutto integrato, potendo toccare con mano la complessità delle ricerche negli ultimi anni sviluppate, e “vedere” il mosaico di approcci al problema che i relatori potranno presentare durante le sessioni del convegno.
Non mancheranno, come prima accennato, riferimenti ai progressi della psichiatria psichedelica anche in relazione al trattamento del trauma: come sappiamo sono in corso studi sull’utilizzo di farmaci psichedelici per forme acute di PTSD resistente; in alcune aree del mondo come la Svizzera, già vengono impiegate sostanze psichedeliche a questo scopo.
Possono accedere anche non-membri dell’ESTD. Il costo pieno (per soci ESTD) è di 550€ dal vivo, e 350€ online: ci si può iscrivere qui.
LA (NEONATA) SIMEPSI E UN INTERVENTO DI FABIO VILLA SULLA TERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A LOSANNA
di Raffaele Avico
La neonata SIMEPSI ha da poco pubblicato un video sul suo canale youtube in cui il direttivo presenta la Società Scientifica, e invita uno psichiatra italiano e formatosi in Svizzera e ora di ruolo a Losanna, Fabio Villa, a raccontare la sua esperienza in ambito di terapia assistita da psichedelici. Interviene anche, nella fase finale del webinar, Henrik Jungaberle della Mind Foundation di Berlino, a proposito della formazione in PAP (psicoterapia assistita da psichedelici) erogata da Mind.
Presenti anche Gjergj Cerri (che aveva già scritto questo su questo blog) e Matteo Buonarroti, vicepresidente di SIMEPSI che qui avevamo intervistato.
L’intervento di Fabio Villa si configura come il più formativo e ricco di spunti.
Interessanti le osservazioni che Villa porta a proposito del “livello” di intervento del farmaco psichedelico, che sembra riuscire a intervenire sugli aspetti pre-simbolici e pre-linguistici di alcuni disturbi.
Chi lavora con pazienti affetti da disturbi gravi di ansia o da PTSD, si rende perfettamente conto di come i sintomi del disagio psichico persistono nonostante il paziente abbia razionalmente compreso le cause e ogni aspetto del disturbo stesso. Nonostante il lavoro sulla metacognizione sia eseguito alla perfezione, non sembra sufficiente per scardinare le risposte “automatiche” e “autonomiche” che alcuni disturbi portano con sé. Il farmaco psichedelico sembra intervenire su un livello più emotivo o come direbbero gli strategici percettivo/reattivo, inerente le risposte del corpo, senza passare dal linguaggio o dal semplice “pensiero a proposito del disturbo stesso”. La differenza che esiste insomma tra il “parlare” di un disturbo dell’attaccamento -per esempio-, e vivere un’esperienza correttiva con qualcuno che ci possa far sperimentare dal vivo un modo “diverso”, e farcelo interiorizzare.
Ci troviamo all’interno di un luogo, di un ambito di “intervento” della psicoterapia non necessariamente misurato dal linguaggio, che ricorda la “psicoterapia con l’emisfero destro” di Schore, le metafore/aneddoti “terapeutici” di Milton Erickson, le suggestioni degli strategici, gli interventi sul corpo per il PTSD. Non sempre infatti la razionalità aiuta nel rileggere in modo terapeutico i disturbi: il potere della cura passa a volte da altro, da altre esperienze, dallo sperimentare modalità nuove, dal rileggere la propria situazione per via di metafore e immagini potenti (pensiamo solo all’immagine/concetto del confine interpersonale), dall’esporsi a situazioni temute (e qui rimandiamo agli articoli a proposito del lavoro di Emiliano Toso che su questo blog abbiamo più volte citato). Avevamo scritto in precedenza a proposito dell’inconscio non rimosso, il luogo di “deposito” delle esperienze primarie inerenti l’attaccamento, non rimosse perché pre-cognitive e pre-linguistiche, “incarnate” senza passare dal pensiero. I farmaci psichedelici promettono di poter “arrivare” anche lì in senso psicoterapico, “bypassando” per certi versi il pensiero stesso.
Estremamente interessanti le osservazioni fatte dai relatori a proposito della “ego death”, e su come il disturbo venga – a volte- fatto proprio dal paziente, e diventi un aspetto della sua identità/personalità: il lavoro con gli psichedelici aiuterebbe -anche- a lasciarlo andare, o a promuovere una dis-identificazione dallo stesso.
Qui il video:
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L'”IMAGERY RESCRIPTING” NEL PTSD
di Raffaele Avico
PREMESSA: questo breve articolo è estratto da POPMed
60 pazienti diagnosticati con PTSD primario, trattati solamente con la tecnica dell’Imagery Rescripting. Quali risultati? Facciamo un passo indietro e diamo una definizione di Imagery Rescripting: si tratta di uno strumento della psicoterapia CBT finalizzato a cambiare la risposta emotiva alle memorie traumatiche modificando il contenuto delle immagini associate ad esse.
Si basa sull’idea che le memorie traumatiche siano immagazzinate sottoforma di immagini e che queste immagini possano essere accessibili e modificate attraverso tecniche di visualizzazione.
L’applicazione del protocollo prevede di guidare il paziente a immaginare l’evento traumatico in modo diverso, al fine di ridurre la risposta emotiva (la fear response) associato alla memoria, con l’obiettivo di creare una nuova immagine meno disturbante che possa essere utilizzata come alternativa alla memoria originale.
Al di là dei risultati dello studio in sé, troviamo riassunte nell’articolo che vi proponiamo le fasi dell’Imagery Rescripting, che sono 3 (da un’immagine tratta dall’articolo, tradotta):
- Fase 1: i pazienti vengono invitati a immaginare un’esperienza traumatica dell’infanzia con gli occhi chiusi il più vividamente possibile dal punto di vista del bambino. Non appena vengono attivate forti emozioni legate al trauma, il terapeuta e il paziente passano alla fase successiva.
- Fase 2: i pazienti entrano nell’immagine come adulti che assistono alla situazione e vengono incoraggiati a intervenire e fare ciò che ritengono necessario.
- Fase 3: in cui i pazienti immaginano la scena nuovamente come un bambino e sperimentano l’intervento dell’adulto sviluppato nella Fase 2 dal punto di vista del bambino.
Trovate qui l’articolo: Imagery Rescripting as a stand-alone treatment for posttraumatic stress disorder related to childhood abuse: A randomized controlled trial
PS sulle tecniche immaginative da usare per il trattamento del trauma, si veda anche questo. Sul trauma invece in generale, qui.
Attaccamento traumatico: facciamo chiarezza (di Andrea Zagaria)
PREMESSA: un approfondimento a cura di Andrea Zagaria dell’Università di Trento sul concetto di “attaccamento traumatico”, ovvero sulle consueguenze di “esperienze emotivamente soverchianti all’interno di una relazione di attaccamento”. Interessante osservare come si parli non solo di età infantile, ma anche di età adulta: “un’esperienza soverchiante in una relazione di attaccamento adulta può avere conseguenze simili alle esperienze soverchianti vissute da bambini”. (R. Avico)
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Attaccamento traumatico: facciamo chiarezza (di Andrea Zagaria)
A chiunque di noi è capitato di pensare di avere dei “traumi infantili”. Nella lingua parlata, l’espressione è ormai diventata di uso comune, spesso anche ironico: “Questa cosa mi ha fatto venire un trauma!” o “Lei deve avere proprio tanti traumi, se si comporta così!”.
In effetti, una delle principali scoperte della psicologia clinica è che le esperienze traumatiche, specie se situate con le figure importanti della nostra vita (es. madre, padre, partner, fratello, sorella), possono avere una grande ripercussione sulla nostra vita adulta. Janet, Breuer, Charcot e Freud, tra i principali fondatori della moderna psicologia clinica a fine Ottocento, si sono tutti dedicati, in diversi modi, allo studio delle esperienze traumatiche infantili e dei loro effetti.
L’assunzione che le esperienze infantili siano fondamentali per determinare la nostra salute mentale è rimasta un bagaglio teorico della psicologia clinica attraverso tutto il Novecento. Tuttavia, è solo dagli anni ‘80, e specificatamente dagli anni ‘90, che la ricerca scientifica ha cominciato a riprendere sul serio il concetto di trauma, e in particolare il trauma infantile.
Negli ultimi anni, in particolare, si è diffuso un nuovo concetto: quello di attaccamento traumatico, ossia di trauma legato al sistema di attaccamento. Definiremo precisamente cos’è più avanti; per ora ci basti sapere che indica una serie di conseguenze psicologiche derivanti da un’esperienza soverchiante che si verifica in una relazione in cui siamo vulnerabili, dipendenti e bisognosi di aiuto (una relazione di attaccamento, appunto). Il fatto che siamo “aperti” e “vulnerabili” e che ci aspettiamo aiuto e comprensione, ma riceviamo invece “indietro” qualcosa di disturbante, soverchiante e spaventoso, determina delle conseguenze disastrose sulla nostra salute mentale.
I modi in cui l’attaccamento traumatico si rende evidente da adolescenti ed adulti sono i più disparati: disturbi da dipendenza di sostanze, disturbi d’ansia, disturbi dell’umore tra cui depressione, disturbi post-traumatici, disturbi alimentari, disturbi di personalità… Insomma, un insieme molto eterogeneo.
I professionisti sanno bene che, tra gli altri, autori come Giovanni Liotti, Alan Schore, Jon Allen, Peter Fonagy, Patricia Crittenden e Julian Ford hanno parlato di attaccamento traumatico.
Tuttavia, questa nozione è per ora solo un’euristica clinica, ossia un concetto utile ai terapeuti che cercano di aiutare i loro pazienti. Vale a dire: i terapeuti che investigano le vite di coloro che soffrono molto da adulti spesso scoprono che queste persone sono state esposte a esperienze traumatiche quando erano molto giovani. Ed emerge anche che se si “aggiusta” il funzionamento del sistema di attaccamento attraverso la relazione terapeutica, queste persone stanno meglio.
Tuttavia, non è chiaro se, oltre ad essere un concetto clinico “retrospettivo”, l’attaccamento traumatico sia qualcosa di misurabile oggettivamente, qualcosa che può essere messo al vaglio della ricerca scientifica.
Chi scrive questo articolo ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a studiare il concetto di attaccamento traumatico.
Come ne hanno parlato i ricercatori? Come lo hanno reso misurabile? Che cosa ci dice, in sintesi, la letteratura scientifica a riguardo?
Abbiamo da poco pubblicato una rassegna proprio su questo argomento, sul giornale European Journal of Trauma and Dissociation, l’outlet ufficiale dell’European Society for Trauma and Dissociation. Dopo aver investigato in modo approfondito la letteratura, abbiamo scoperto qualcosa di inquietante e affascinante allo stesso tempo: nessuno è d’accordo su questo tema. La confusione regna sovrana.
Tutti sembrano parlare della stessa cosa o di fenomeni molto simili tra loro. Eppure, ognuno sa cosa accade esclusivamente nel proprio “giardinetto” e, nel migliore dei casi, ignora cosa viene fatto in un campo di ricerca “fratello”. Nel peggiore, lo conosce ma lo critica.
E così troviamo diversi concetti collegati tra di loro, come l’attaccamento disorganizzato nei bambini, lo stato della mente non risolto negli adulti, l’attaccamento “spaventato” misurato attraverso i questionari auto-compilati; ma anche il disturbo post-traumatico complesso, le esperienze infantili avverse, e infine la biologia e le neuroscienze del trauma. Per non parlare della teoria del trauma da tradimento, il trauma interpersonale, il trauma relazionale precoce…
Tuttavia, raramente qualcuno all’interno di queste tradizioni di ricerca cita o si rivolge a concetti nati in altre tradizioni “parenti”. Insomma, una sorta di “campanilismo” scientifico, che è tutto fuorché raro in Psicologia!
Il risultato? Una schiera di risultati in qualche senso connessi, eppure frammentari, contrastanti e in sostanza incommensurabili, cioè non “sommabili” l’uno con l’altro dal punto di vista della misurazione.
Una vecchia favola buddhista, risalente al VI secolo a.C., sembra descrivere bene la situazione.
La storia racconta di alcuni uomini ciechi alla nascita che vengono condotti a conoscere un elefante. Nessuno di loro ha mai potuto toccare o sentire parlare di un elefante prima di quell’occasione, quindi la loro conoscenza di questo animale è nulla. Dopo che si sono avvicinati, ogni cieco ha occasione di toccare una parte diversa del pachiderma. Ciascuno trae dunque le sue conclusioni, basandosi esclusivamente sulla parte che riesce a esplorare con le proprie mani.
Il primo tocca la zampa e conclude che un elefante è simile a un tronco d’albero; un altro tocca la coda e pensa che sia come un serpente; un terzo tocca l’orecchio e lo descrive come un enorme ventaglio, e così via. Le discussioni tra i diversi uomini ciechi su cos’è un elefante diventano quindi molto accese, ed essi finiscono per insultarsi l’un l’altro, arrivando talvolta alle mani.
Le tradizioni di ricerca sembravano apparire proprio come questi uomini ciechi.
Studiando ciascuna di queste diverse linee di ricerca, io e i miei colleghi abbiamo deciso di provare a chiarire chi stava studiando cosa. Chi è e come si chiama l’uomo che sta tendendo stretta la zampa? Che cosa significa, nell’economia della comprensione dell’elefante, tenere stretta solo la zampa? E come devono essere interpretati i racconti dell’uomo che è sopra l’elefante e sta toccando solo il suo orecchio?
Ovviamente, pensare di aver trovato l’elefante attraverso l’analisi accurata dei racconti di ognuno dei ciechi sarebbe trionfalistico e un po’ narcisistico. Qualcuno potrebbe anche accusarci una sorta di “apofenia”, ossia la tendenza di vedere collegate cose tra loro che in realtà non lo sono. Rispettosamente, dissentiamo.
Quello che speriamo di aver fatto è innanzitutto chiarire che ci sono sei uomini diversi, che spesso ignorano addirittura l’esistenza dei loro compagni, anche se l’oggetto di ricerca è sostanzialmente lo stesso.
In particolare, questi sei uomini sono stati categorizzati come segue.
Le prime tre linee, collegate alla tradizione dell’attaccamento, sono:
- L’attaccamento disorganizzato infantile, operazionalizzato nella Strange Situation Procedure (SSP)
- Lo stato mentale adulto non risolto/disorganizzato, emergente nelle trascrizioni dell’ Adult Attachment Interview (AAI)
- L’attaccamento adulto spaventato (“fearful”) della psicologia dellapersonalità/sociale, valutato tramite questionari auto-compilati
Le restanti tre linee di ricerca sono collegate agli studi sul trauma:
- Gli studi sul Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (cPTSD), una sindrome clinica associata all’esposizione prolungata e sistematica a traumi cumulativi
- La linea di ricerca che studia le esperienze infantili avverse, prevalentemente tramite l’uso di questionari
- I lavori neuroscientifici e psicofisiologici riguardo la psicologia del trauma e specialmente del trauma relazionale precoce
Riconoscere questi “sei uomini” e evidenziare che essi potrebbero stare guardando lo stesso problema da sei angolature diverse è si è configurato come un primo significativo passo in avanti.
In secondo luogo, abbiamo cercato di chiarire quale parte dell’elefante ognuna di queste linee stava analizzando, cioè in che modo queste tradizioni di ricerca erano simili e in che modo erano diverse tra loro. Proprio grazie a questa opera di integrazione concettuale abbiamo cercato di delineare una possibile silhouette dell’elefante (fuor di metafora: l’attaccamento traumatico) e di offrirne una definizione.
La nostra nuova definizione di attaccamento traumatico recita così:
“Variabili e durature conseguenze biologiche, psicologiche e relazionali derivanti da una mancata codificazione e integrazione di esperienze emotivamente soverchianti all’interno di una relazione di attaccamento.”
La definizione può apparire complessa, e infatti va analizzata parola per parola, come abbiamo fatto nella nostra review. Ognuno di questi termini reca con sé un universo concettuale da spiegare e delimitare molto dettagliatamente. Purtroppo, questa sede non offre il necessario spazio per tale operazione, ma il lettore interessato potrà trovarla direttamente nel paper originale in inglese.
Tuttavia, vale la pena notare che abbiamo delimitato il costrutto di trauma a quello di “conseguenze”. In letteratura (anche tra esperti) vige la confusione più assoluta riguardo all’accezione di questo termine. Non è ben chiaro se esso indichi l’evento traumatico, l’emozioni soggettive esperite durante questo evento (es. terrore), o le conseguenze evidenziabili a breve, medio e lungo termine sul sistema psicosomatico dell’individuo (es. flashback, pensieri intrusivi, disregolazione affettiva, etc).
In questa definizione di attaccamento traumatico, abbiamo delimitato il concetto di trauma a quello di conseguenze.
Dopotutto, l’etimologia di trauma è proprio quella di “ferita”, e in questo senso il termine viene usato in medicina. Perché non utilizzare anche la stessa accezione in psicologia?
Un altro conundrum da sciogliere in letteratura era quello della delimitazione concettuale del sistema di attaccamento, ossia la motivazione profonda in ciascuno di noi a monitorare la presenza di qualcuno di fidato attorno a noi e a rivolgerci allo stesso per chiedere aiuto quando ci sentiamo minacciati.
Alcuni psicologi dello sviluppo pensano che questa motivazione sia investigabile quasi esclusivamente nei bambini e meno negli adulti. Altri, tra cui molti psicologi della personalità e alcuni clinici, pensano che invece sia presente anche negli adulti. Dopo avere analizzato il sistema di attaccamento dal punto di vista evoluzionistico, ontogenetico, biologico e cognitivo, abbiamo supportato la scelta che vede il sistema di attaccamento attivato – anche negli adulti! – qualora l’individuo si senta minacciato e sia incapace di porre fine alla minaccia in modo indipendente.
Per riassumere, la definizione proposta di attaccamento traumatico tenta di conciliare le diverse sfumature concettuali evidenziate da differenti filoni della letteratura, attraverso le due macro-tradizioni dell’attaccamento e del trauma.
L’attaccamento traumatico (“Variabili e durature conseguenze biologiche, psicologiche e relazionali derivanti da una mancata codificazione e integrazione di esperienze emotivamente soverchianti all’interno di una relazione di attaccamento”) è stato dunque inquadrato come un insieme diversificato di adattamenti a esperienze emotivamente soverchianti verificatesi all’interno di una relazione di attaccamento.
Una caratteristica distintiva dell’attaccamento traumatico è che esso implica divisione, o, in altre parole, dissociazione strutturale. Ossia, i ricordi traumatici sono dissociati peri- traumaticamente, ossia nel momento dell’esperienza traumatica, quando vengono codificati in parallelo nella memoria, in due sistemi non comunicanti (la memoria sensoriale/emotiva e memoria contestuale/cognitiva). Essi rimangono dis-integrati tra di loro a medio e lungo termine, esercitando il loro potere angosciante tramite la re-intrusione coatta nella coscienza proprio perché non comunicanti tra loro!
Le linee di ricerca collegate all’attaccamento disorganizzato e allo stato della mente non risolto dimostrano chiaramente come le memorie dissociate determinino i comportamenti infantili osservabili nella Strange Situation Procedure e i lapsus osservabili nei trascritti dell’Adult Attachment Interview.
Il conflitto avvicinamento-allontanamento e la paura dell’intimità mostrati negli individui con attaccamento “impaurito”/fearful studiati nella tradizione della psicologia della personalità, d’altro canto, sono facilmente ricollegabili anch’essi a tendenze compartimentate (“mi voglio avvicinare…ma voglio anche scappare!”).
La sezione sui correlati biologici del trauma dettaglia in profondità come la disintegrazione/dissociazione della memoria e del sé sia associata a una vasta gamma di correlati psicofisiologici, come un’attivazione abnormale del sistema ortosimpatico e parasimpatico, una sovrelevata attivazione dell’asse ipolatamico-ipofisario-adrenale, una mancata comunicazione tra le aree prefrontali e quelle limbiche, un malfunzionamento dei large-scale-networks collegati al senso di sé, alla attribuzione della salienza degli stimoli, e alla pianificazione dei compiti, e ad un’abnormale produzione di oppioidi ed endocannabinoidi. Per citarne solo alcuni.
Le conseguenze (traumatiche) – che si estrinsecano in un’ampia gamma di risultati a seconda delle variabili individuali e ambientali, tra cui il sesso, l’età di esposizione, il supporto sociale, il tipo di trauma (es. deprivazione o minaccia), etc.- possono essere ricondotte sotto lo stesso ombrello (l’attaccamento traumatico) a causa della natura evoluzionistica e biologica del legame di attaccamento. Quello che riunisce concettualmente queste esperienze insieme è che derivano tutte dalla disintegrazione della stessa relazione determinata evoluzionisticamente – il sistema di attaccamento!
La natura dell’attaccamento stabilisce infatti gli schemi interpersonali che guidano lo sviluppo della personalità – i famosi Modelli Operativi Interni (MOI). Se tali schemi sono dissociati, la vita dell’individuo ne è profondamente influenzata. Ne segue, logicamente, che l’attaccamento traumatico è concepito come una caratteristica strutturale e duratura di una persona.
Alcuni clinici sono tentati di applicare il concetto di attaccamento traumatico prevalentemente alla popolazione clinica. Tuttavia, riteniamo che questa nozione non debba essere confinata esclusivamente alla “patologia”. Gli approcci e evoluzionistici delle esperienze di vita precoce avverse sottolineano come l’AT possa essere inquadrato anche come un adattamento. L’attaccamento traumatico può essere vantaggioso in determinate circostanze, anche se tipicamente associato ad alti costi per la salute mentale di chi ne è affetto. Quello che succede tipicamente è che adattamenti efficaci in alcune fasi di vita (es. infanzia, adolescenza) diventano improduttivi, se non nocivi, in età adulta.
Inoltre, sosteniamo che, sebbene il paziente “tipico” con attaccamento traumatico sia colpito pervasivamente, potrebbero esistere forme “puntiformi” o “isolate” di questo fenomeno che non sono necessariamente legate a un funzionamento globalmente compromesso.
In seguito, dopo aver proposto la nostra nuova definizione di attaccamento traumatico, abbiamo dimostrato come esso potrebbe configurarsi come un nuovo paradigma di ricerca.
Come prima cosa, abbiamo proceduto nel chiarire come ognuna delle linee di ricerca si rivolge a questo primo da diverse prospettive.
Per esempio, l’attaccamento disorganizzato sembra essere esclusivamente una manifestazione comportamentale infantile dell’attaccamento traumatico.
Entrambi i concetti, tuttavia, mantengano la loro autonomia. Infatti, contrariamente a una diffusa vulgata, l’attaccamento disorganizzato (DA) è esclusivamente un set di comportamenti osservati sperimentalmente dai 12 ai 20 mesi di età e non una caratteristica diagnostica o un tratto che può persistere nell’età adulta. L’attaccamento traumatico, invece, rappresenta un concetto più ampio, e racchiude al suo interno le conseguenze psicobiologiche dovute a un’esperienza soverchiante avvenuta in una relazione di attaccamento, ed è collegato, ma indipendente, rispetto ai pattern infantili di approccio-evitamento e di paura del caregiver tipici dell’attaccamento disorganizzato.
Allo stesso modo, abbiamo cercato di chiarire tutte le altre sei linee di ricerca.
Il lettore può trovare tutte le distinzioni emerse dalla nostra review integrative nel paper online.
Infine, abbiamo proceduto a dimostrare come il concetto di attaccamento potrebbe portare a nuove predizioni empiriche.
Ricordiamo che, avendo definito il sistema di attaccamento come operante sia nei bambini sia negli adulti, ne consegue, almeno teoricamente, che alcune istanze di attaccamento traumatico possono avere radici non nell’infanzia, ma esclusivamente in relazioni di attaccamento adulte.
Proprio a questo riguardo esiste una forma di cPTSD non esplicitamente legata a traumi infantili, ma derivante dalla violenza subita da o agita verso un partner romantico (Intimate Partner Violence; IPV).
Le evidenze empiriche sembrano indicare che l’IPV non sia collegabile in modo inequivocabile a traumi infantili. Ossia: si può subire o agire IPV senza essere stati abusati durante l’infanzia (e in una quota considerevole di casi!).
Sebbene questo possa sembrare confondente a prima vista rispetto a tutto quanto abbiamo detto finora, è in realtà una prova a sostegno della nostra riconcettualizzazione di attaccamento traumatico. Un’esperienza soverchiante in una relazione di attaccamento adulta può avere conseguenze simili alle esperienze soverchianti vissute da bambini.
Alcune evidenze preliminari sembrano supportare la nostra previsione. Un recente studio mostra come i sintomi del cPTSD nelle vittime di IPV siano significativamente predetti dall’abuso nelle relazioni di attaccamento adulte, ma non dai traumi precedenti. Ovviamente, futuri studi dovrebbero approfondire la questione.
Per concludere: il concetto di attaccamento traumatico, come definito in questo documento (“conseguenze biologiche, psicologiche e relazionali variabili e durature derivanti dall’incompleta codifica e integrazione di esperienze emotivamente travolgenti all’interno di una relazione di attaccamento“), sembra non solo riconciliare con successo un insieme eterogeneo di tradizioni di ricerca, ma anche chiarire le loro differenze.
Riteniamo che la nostra formulazione abbia molti punti di forza:
- Si basa su un concetto biologico ed evoluzionistico: il sistema motivazionale dell’attaccamento. L’architettura biologica ed evoluzionistica dell’attaccamento è ciò che fa risaltare il concetto di attaccamento traumatico rispetto alle sue alternative (trauma relazionale, trauma da tradimento, ecc.) in termini di solidità e potere esplicativo.
- Non è centrata esclusivamente sulla patologia ma sottolinea anche il lato adattativo dell’attaccamento traumatico. Sebbene esso sia di norma una condizione indesiderabile legata a molte conseguenze negative, il suo lato adattativo va anche sottolineato.
- Implica una nuova predizione empirica, ossia la separazione concettuale tra l’attaccamento traumatico che si verifica nell’infanzia e quello che si verifica nell’età adulta. Anche se alcune evidenze sembrano sostenere la nostra visione, futuri lavori empirici dovrebbero indagare più a fondo quanto sia sostenibile.
- Infine, la nostra formulazione fa da ponte a linee di ricerche tradizionalmente separate e mira ad aprire il campo a un nuovo programma di ricerca. Questo programma aspira ad avvicinare la teoria dell’attaccamento e la teoria del trauma.
L’attaccamento traumatico è conosciuto da lungo tempo nella pratica clinica, sotto questo o altri nomi. Sebbene la pratica clinica abbia da tempo riconosciuto l’importanza fondamentale di questo concetto, la ricerca sembra non aver ancora catturato accuratamente questa intuizione. Con questo paper, speriamo di aver fornito un contributo in questa direzione.
Riferimenti Andrea Zagaria: Ig/tunonseimicanormale/, zagaria.andrea@gmail.com
NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)
INCONSCIO NON RIMOSSO E MEMORIA IMPLICITA: UNA RECENSIONE
di Raffaele Avico
Questo volume raccoglie molteplici contributi di personalità legate alla neuropsicoanalisi, al mondo della psicoanalisi e delle neuroscienze a proposito del concetto psicoanalitico di inconscio non rimosso.
Vi trovano spazio nomi di assoluto spessore nel panorama attuale, da Solms, padre della moderna neuropsicoanalisi, al nostro Giovanni Liotti, a Clara Mucci, a Mauro Mancia.
Il volume è curato da Giuseppe Craparo (che su questo blog abbiamo già incontrato) e Clara Mucci per la collana sul trauma che dirige lo stesso Craparo, edita da Giunti.
Il concetto di inconscio non rimosso si configura come una sorta di evoluzione, o allargamento del concetto freudiano di inconscio. Muove dal concetto “classico” di inconscio freudiano, per il quale veniva ipotizzata la presenza di un atto di rimozione da parte dell’individuo, per descrivere un territorio della psiche caratterizzato da elementi pre-verbali e pre-simbolici, stratificatosi nei primi anni di vita del bambino, entro una dimensione per lo più interpersonale.
Alcune riflessioni a riguardo:
- è indicativo che un libro sull’inconscio non rimosso venga incluso in una collana sul trauma. In effetti, le scoperte più recenti sul trauma convergono con gli studi psicoanalitici inerenti le traumatizzazioni più precoci, neanche arrivate a essere rimosse (essendo, come leggiamo qui, che la rimozioni prevede l’uso del pensiero simbolico e del linguaggio), ma dissociate e depositate in un luogo pre-verbale e pre-psichico o, se vogliamo, entro la memoria “implicita”, incarnata
- l’inconscio non rimosso viene concettualizzato in questo volume come un contenitore, un deposito delle memorie relazionali più precoci; non essendo possibile per il bambino rimuoverle attivamente, queste ultime produrranno molteplici conseguenze sullo sviluppo della sua psiche, ri-attivandosi in condizioni peculiari in senso relazionale, nel contesto del transfert con l’analista, o attraverso enactment (ne avevamo scritto qui). É il capitolo scritto da Clara Mucci a fornircene la definizione più chiara; immaginiamo l’inconscio come un deposito, un contenitore; al suo interno, solo una parte dei ricordi sono ricordi rimossi: larga parte del restante spazio psichico, è abitato da memorie relazioni primordiali, precedenti a ogni possibile rimozione
- I capitoli scritti da Mauro Mancia e Liotti brillano per particolare semplicità, chiarezza e coerenza. Liotti cita Mancia più volte nel suo lavoro; notevole osservare come i due articoli presenti nel volume arrivino presto a convergere: Liotti riprende Mancia proprio sul concetto di inconscio non rimosso, citandolo più volte. Come sappiamo, e come su questo blog più volte abbiamo osservato, Gianni Liotti sapeva attingere da differenti matrici teoriche per formulare idee originali e geniali a riguardo della psicopatologia: all’interno di questo volume, nel suo capitolo, Liotti integra il concetto di inconscio non rimosso al suo modello sui sistemi motivazionali opposti e contraddittori, tipici di uno “sviluppo traumatico”.
Sarebbe infatti la compresenza di sistemi motivazionali opposti verso la madre (paura e attaccamento) a generare nel bambino rappresentazioni di sé dissonanti e conflittuali, riproposte -nella vita adulta- all’interno dei rapporti significativi. Liotti appoggia in pieno il concetto di inconscio non rimosso, apportando ad esso alcune puntualizzazioni, e spingendo per un superamento del modello pulsionale inerente la formazione dell’inconscio (l’inconscio non si costituirebbe come un contenitore di fantasie pulsionali inaccettabili, ma -di nuovo- si formerebbe per via di memorie relazionali primarie, introiettate nei primi anni di vita). Liotti era un bowlbiano convinto, e in questo lavoro lo sottolinea un’altra volta - la comunicazione madre-caregiver-bambino, nei primi, anni, è una comunicazione “tra emisferi destri” (ovvero, tra emisferi dominanti); il capitolo di Schore, autore del volume Psicoterapia con l’emisfero destro, rappresenta un aggiornamento sulle scoperte neuroscientifiche più recenti a riguardo proprio della neuroanatomia della vita relazionale precoce, che coinvolgerebbe per lo più struttura sottocorticali dell’emisfero destro, sede fisica di quelle tracce mnestiche implicite, seminali e iniziali, chiamate qui “inconscio non rimosso”. Sulla dominanza dell’emisfero destro, avevamo scritto estesamente qui recensendo “The master and his emissary”
- il capitolo di Clara Mucci riprende e dilata il contributo di Schore, e rappresenta il “centro di gravità” del volume, essendo che la Mucci contestualizza il lavoro teorico sull’inconscio non rimosso nella cornice dei paradigmi attuali riguardanti la psicoanalisi, con critiche abbastanza pesanti alla visione freudiana, troppo individualistica e intrapsichica, in favore di un paradigma maggiormente relazionale e in linea con le evidenze più attuali in ambito di psicotraumatologia.
La Mucci è conosciuta per il suo lavoro sulle ipotesi eziopatogenetiche dei disturbi di personalità più gravi, in particolare è conosciuta per la sua ipotesi psicotraumatologica nella genesi del disturbo borderline. Nel suo capitolo riprende un modello di mente, e di sviluppo della mente, che avevamo già trovato qui riprendendo idee di Janet.
La patogenesi dei disturbi di personalità più gravi, sarebbe cioè da rintracciarsi nella fase pre-verbale, pre-cognitiva dello sviluppo del bambino, non ancora in grado di “rimuovere attivamente” i contenuti traumatici dalla sua coscienza. Come prima anticipato, il contenitore dell’inconscio sarebbe formato solo in parte dai contenuti rimossi: una larga parte dei suoi elementi costitutivi, sarebbe rappresentata dai contenuti “non rimossi” e implicitamente memorizzati nelle prime, fondamentali fasi dello sviluppo. La stessa pulsione di morte, la Mucci propone, sarebbe da attribuire a introiezioni problematiche di oggetti interni persecutori, una spinta insomma figlia di elementi relazionali inter-psicologici; sarebbe incorretto, seguendo Freud, attribuirla a una spinta “innata”. Inoltre, la Mucci evidenzia un oscurantismo freudiano a proposito del fenomeno clinico della dissociazione, sviluppato come sappiamo da Janet in parallelo a Freud, e poi da altri pionieri del trauma, come Ferenczi. - nel suo capitolo, Craparo distingue in maniera fruttuosa i concetti di acting out da quello di enactment: quest’ultimi sarebbero da imputare a un processo di evacuazione di materiale non rimosso, ad una riattualizzazione in chiave relazionale/intersoggettiva di modalità interpersonali racchiuse -di nuovo- nel “contenitore” dell’inconscio non rimosso.
Per concludere, troviamo nel concetto di inconscio non rimosso un punto di congiunzione, e di saldatura, tra differenti approcci.
Le teorie di Liotti sull’attaccamento disorganizzato e la creazione di rappresentazioni dissonanti di sé, i molti studi sulle esperienze avverse infantili e la patogenesi della dissociazione, il concetto di scissione in età precoce raccontato dagli analisti: tutte queste formulazioni teoriche convergono in questo volume presentandoci l’immagine di un “terreno” psichico entro cui, precocemente, si crearono le prime -implicite- memorie relazionali, in grado di influenzare in modo radicale il successivo sviluppo della mente dell’individuo.
Come osserviamo, Giovanni Liotti ancora una volta si dimostra in grado di incarnare questa integrazione nelle sue formulazioni teoriche, portando la teoria dell’attaccamento e la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali (innati) a completamento delle concettualizzazioni psicoanalitiche inerenti la nascita (intersoggettiva) del pensiero. Viene qui illuminata inoltre una concezione dell’inconscio solamente, intrinsecamente interpersonale, post-freudiana, evoluzionisticamente giustificata, svuotata dei suoi aspetti scabrosi inerenti le pulsioni sessuali, “moralmente” bonificata.
Infine, possiamo con questo volume osservare come l’interpsichico preceda l’intrapsichico: sarebbero le relazioni interpersonali a creare il sostrato di memorie implicite che determinerebbero la nostra vita adulta, le nostre scelte relazionali, i nostri transfert e i nostri enactment; l’inconscio stesso sarebbe un contenitore delle memorie implicite più antiche, e -in linea con la letteratura psicotraumatologica- l’ambiente di sviluppo avrebbe finalmente riacquistato una posizione centrale nella sviluppo della mente, con il bambino impegnato ad adattarsi ad esso, spinto da motivazioni innate interpersonali, impegnato nell’eseguire “adattamenti acrobatici” quando lo stesso ambiente fosse problematico, o traumatico.
Qui le altre recensioni presenti su questo blog.
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UN FREE EBOOK (SUL TRAUMA) IN COLLABORAZIONE CON VALERIO ROSSO
di Raffaele Avico
In collaborazione con Valerio Rosso, abbiamo pubblicato un free ebook sul Trauma e sulla dissociazione, con diversi link di approfondimento, e la grafica realizzata da Andrea Pisano.
Qui l’indice, e in fondo il link per poterlo scaricare.
Psicoterapia assistita da psichedelici: intervista a Matteo Buonarroti
di Raffaele Avico
Abbiamo intervistato Matteo Buonarroti, primo medico italiano – per ora – ad aver completato il training, organizzato dalla Mind foundation a Berlino, sulla psicoterapia assistita da psichedelici..
Matteo ci ha raccontato di aver deciso per una “svolta” in senso professionale in area salute mentale, dopo alcuni anni di pratica come Medico di Medicina Generale. L’interesse per l’area psichedelica e per la psichiatria d’avanguardia, lo hanno portato poi a frequentare un corso di due anni a Berlino, il cui programma può essere recuperato qui.
In Europa, al momento, non esistono altre realtà che erogano training certificato della durata di due anni: negli Stati Uniti sono più presenti, per esempio il corso organizzato da CIIS, o da NAROPA.
Buonarroti ci ha fatto notare che il corso è stato incentrato sugli aspetti teorici e “preparatori” inerenti l’uso di psichedelici in psicoterapia, tenendo conto che non è ancora previsto che la psychedelic therapy si possa applicare su pazienti al di fuori dei contesti di ricerca -tranne in pochi paesi come l’Australia, la Svizzera e qualche stato in USA.
Al momento, come prima accennato, l’unico luogo in Europa dove la psicoterapia assistita da psichedelici è praticata su soggetti umani, è la Svizzera, a Ginevra (si veda questa intervista a Federico Seragnoli).
Matteo ci ha inoltre fornito di alcuni spunti per poter introdurre alla questione e approfondire, tra cui Magic Medicine su Netflix, e il documentario La Sostanza – Storia dell’Lsd.
Ci ha inoltre raccontato dei più attivi e seri gruppi di ricerca sul tema, come il gruppo della John Hopkins University (il più antico) o quello del King’s College a Londra (documentato nel prima citato documentario Magic Medicine, in cui compare anche il “famoso”” tossicologo David J. Nutt, ci cui abbiamo già parlato qui su POPMed).
La puntata è riservata agli iscritti al servizio POPMed, e la si recupera qui.
Qui altro sul “rinascimento psichedelico”.
NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)
NASCE L’ASSOCIAZIONE COALA (TORINO)
di Raffaele Avico, Caterina Bossa
A Torino nasce l’Associazione Coala, partner di questo blog, orientata a fornire prevenzione e cura riguardante gli “esiti del legame di attaccamento insicuro e disorganizzato in ambito perinatale“.
Riportiamo qui il manifesto dell’Associazione, a cura di Caterina Bossa (che già intervistammo):
“L’associazione Coala nasce il 10 novembre 2023 dall’esperienza decennale della dott sa Bossa Caterina e Federica Paschetta; altri colleghi e colleghe esperti di perinatale e infanzia si sono in seguito uniti al progetto.
Sappiamo quanto l’attaccamento sia vitale per un cucciolo e quanto la sicurezza sia preventiva di future traiettorie disfunzionali patologiche. Un attaccamento sicuro è come un mantello protettivo che ti tiene al sicuro durante una bufera, che purtroppo può accadere.
Il gruppo di lavoro vuole formare psicologi e psicologhe capaci di osservare le dinamiche relazionali tra genitori e bambini, riconoscere segnali di attaccamento insicuro o disorganizzato e porsi come base sicura per l’aiuto, il sostegno e l’accompagnamento della relazione.
Crediamo nell’importanza del confronto e del gruppo, avere una cornice teorica di riferimento come la teoria dell’attaccamento di Bowlby, ci permette di costruire un linguaggio chiaro e un approccio condiviso oltre che un contenitore forte.
In questi anni le ricerche sul trauma e sulla disorganizzazione dell’attaccamento si sono concentrate sulla diagnosi e sul trattamento ma riteniamo che si può prevenire, evitando MOI insicuri.
La prevenzione passa attraverso lo screening in gravidanza o in fase pre-adottiva, continua con l’accompagnamento al parto in gruppo, osservazione della diade o triade, coparenting, family home visiting e circolo della sicurezza.
In questo percorso diventa fondamentale la collaborazione con gli asili nido e le scuole, i consultori e le Asl.
Creare un contesto sicuro farà sentire la fda un po’ più al sicuro, e questo le permetterà di sperimentare un nuovo modello relazionale.
Il nostro obbiettivo è creare sicurezza per garantire l’esplorazione:
- CO sta per fare insieme
- ALA per permettere il volo sicuro
Se siete interessati a saperne di più consultate il sito www.associazionecoala.it“
NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)
UN APPROFONDIMENTO DI MAURIZIO CECCARELLI SULLA CONCEZIONE NEO-JACKSONIANA DELLE FUNZIONI MENTALI
di Raffaele Avico
Da poco è stato pubblicato sulla pagina di AISTED dedicata al gruppo di interesse sulla psicopatologia, un intervento approfondito e gratuito di Maurizio Ceccarelli a proposito della prospettiva neo-jacksoniana a riguardo della psicopatologia. Ceccarelli parte con una chiara introduzione teorica a proposito delle teorie di Jackson, Edelman, Damasio e di Bergson (autori tutti allineati nell’idea di una concezione “gerarchica e dinamica“ delle funzioni mentali umane), per poi spingersi verso aspetti più clinici, relativa alla concezione di psicopatologia in ottica neo-jacksoniana.
In precedenza il gruppo di interesse sulla psicopatologia aveva intervistato Giuseppe Craparo sull’attualità dei contributi teorici di Pierre Janet.
Il video è visibile qui:
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