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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

30 June 2025

Clinica del trauma oggi: un approfondimento da POPMed

PREMESSA: da diversi anni questo blog si occupa di trauma e sindromi dissociative. Qui sono raccolti i contributi che fino ad ora abbiamo pubblicato sul tema. Ultimamente POPMed si è occupato di stilare una lista di 10 studi che raccontano le ultime evidenze a tema #ptsd, che troverete al link a fondo pagina.
 
di PopMed
 

Clinica del Trauma Oggi: Rassegna teorica, dati emergenti e applicazione terapeutica

Negli ultimi decenni, la comprensione clinica e neuroscientifica del trauma si è significativamente evoluta, portando a una ridefinizione del Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e al riconoscimento della sua forma più grave e pervasiva: il Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (C-PTSD). Questo documento propone una panoramica strutturata e critica dell’attuale conoscenza su questi disturbi, offrendo al lettore un accesso guidato e approfondito a tre componenti fondamentali: un’analisi teorico-clinica, una rassegna delle più recenti pubblicazioni accademiche, e un caso clinico rappresentativo con protocollo terapeutico completo.

La prima parte prende in esame una review clinica pubblicata su Frontiers in Psychiatry, che introduce e approfondisce un modello psicoterapico innovativo, noto come Cortina Method. Tale approccio si distacca dalle terapie espositive convenzionali e propone una via trasformativa indiretta per il trattamento del trauma, basata su processi di riconsolidamento della memoria e stati di plasticità neuropsicologica. Viene discusso il potenziale di questa metodologia per trattare pazienti affetti da C-PTSD, in particolare quelli con dissociazione, evitamento e trauma relazionale precoce. La review funge da base teorica per comprendere come le terapie possano essere adattate a quadri clinici complessi.

La seconda parte presenta una selezione ragionata di dieci articoli scientifici open access pubblicati tra il 2024 e il 2025, che esplorano il tema da prospettive cliniche, neuropsicologiche, sociali e terapeutiche. La rassegna include meta-analisi, studi clinici randomizzati, modelli di trattamento sperimentali, e approfondimenti su fattori culturali e relazionali che influenzano la risposta al trauma. Sono illustrati approcci evidence-based come TF-CBT, STAIR, MBT, Narrative Therapy e tecniche somatiche. Ogni studio è accompagnato da un riassunto critico che ne evidenzia contenuto, risultati e rilevanza clinica. Questa sezione ha l’obiettivo di orientare il lettore tra le evidenze più recenti e supportare una lettura comparativa tra i diversi modelli di intervento.

La terza parte si focalizza su un caso clinico documentato in letteratura (Elsevier, 2024) che descrive un trattamento intensivo basato sulla Trauma-Focused Art Therapy (TFAT). Si tratta di una giovane donna con trauma complesso, trattata attraverso un protocollo strutturato in tre fasi: stabilizzazione, esplorazione narrativa simbolica ed elaborazione. Il lavoro si svolge mediante tecniche non verbali – come disegno, collage e costruzione narrativa visiva – che permettono l’elaborazione di memorie traumatiche altrimenti inaccessibili. Il trattamento ha portato a una significativa riduzione dei sintomi PTSD, della depressione e a un miglioramento dell’autoefficacia e della resilienza. Questo caso illustra con chiarezza il potenziale delle modalità creative e sensomotorie nel trattamento del trauma complesso, e ne evidenzia l’integrazione possibile in protocolli strutturati.

In sintesi, il documento accompagna il lettore in un viaggio critico attraverso i modelli teorici, le evidenze empiriche recenti, e un esempio clinico applicato, con l’obiettivo di fornire una visione completa, aggiornata e integrata del trattamento del PTSD e del trauma complesso in ottica multidisciplinare. La struttura progressiva delle tre sezioni consente di passare dalla teoria alla pratica, offrendo strumenti di riflessione e applicazione clinica fondati scientificamente.


Parte 1: Sinossi di una Review/Meta-Analisi

Titolo: A New Psychotherapy That May Treat PTSD in One Session
Autore: E. G. Howe
Rivista: Frontiers in Psychiatry
Anno: 2024
Link all’articolo open access

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Introduzione

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) rappresenta una condizione debilitante che, in una percentuale rilevante di pazienti, si rivela resistente ai trattamenti psicoterapeutici convenzionali, come la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) o l’EMDR. In questo contesto si inserisce la Cortina Method (TCM), una nuova forma di psicoterapia breve che si propone di offrire sollievo immediato e duraturo ai sintomi del PTSD, anche in forme croniche e complesse. Secondo i dati aneddotici presentati, questa terapia può produrre risultati clinicamente significativi già dopo una singola seduta.

Metodo e Struttura del Trattamento

Contesto metodologico

La TCM si configura come una psicoterapia breve e non convenzionale, progettata per intervenire sul carico emotivo associato alle memorie traumatiche senza esporre direttamente il paziente alla narrazione dell’evento traumatico. La terapia si sviluppa in un formato semi-strutturato a sessione singola o breve ciclo, con una durata compresa tra 60 e 120 minuti.

Struttura e Tecniche Operative

La TCM non si fonda su un’unica tecnica, ma integra componenti multimodali, che includono:

  • Attivazione immaginativa guidata: il paziente è guidato in un percorso visivo e sensoriale interno per modificare il contenuto emotivo del ricordo senza riviverlo.
  • Tecniche somato-sensoriali: attività che coinvolgono il corpo (es. movimento sincronico, taping, respirazione guidata) per favorire il rilascio somatico del trauma.
  • Interventi di desensibilizzazione simbolica: utilizzo di immagini metaforiche per “ristrutturare” simbolicamente la scena traumatica (es. visualizzare la dissoluzione di un aggressore, la trasformazione di un ricordo in un oggetto neutro).
  • Azioni multitasking e non-semantiche: il paziente esegue compiti a bassa intensità cognitiva ma ad alta attivazione percettiva (es. movimento alternato, stimoli ripetitivi non verbali) per interferire con il circuito di consolidamento emotivo.

Meccanismo d’Azione Presunto

L’ipotesi teorica alla base del metodo è che tali tecniche attivino una finestra neurobiologica nota come reconsolidamento della memoria, in cui il ricordo, una volta “riattivato” in un contesto sicuro, può essere modificato prima di essere nuovamente consolidato nel sistema limbico.
In parallelo, l’attivazione di reti corporee (approccio bottom-up) consente al sistema nervoso autonomo di uscire da stati di freeze o iperarousal, creando le condizioni neurofisiologiche per un cambiamento duraturo.

Setting e Somministrazione

  • Ambiente terapeutico: deve essere calmo, contenitivo e guidato da un terapeuta formato. Non è necessaria la narrazione del trauma.
  • Ruolo del terapeuta: funge da facilitatore di sequenze esperienziali, non da interprete. L’approccio è centrato sulla fiducia implicita nelle risorse trasformative del paziente.
  • Materiale richiesto: solo la presenza fisica e attenzione condivisa del terapeuta e del paziente; non sono richiesti strumenti o software.

Evidenza empirica

Ad oggi non sono ancora disponibili studi RCT o protocolli manualizzati pubblicati in letteratura peer-reviewed. Tuttavia, l’articolo presenta testimonianze qualitative, osservazioni cliniche dirette e video di sessioni, che documentano miglioramenti significativi anche in pazienti refrattari.

Questa riformulazione rende chiara la natura composita e neuroesperienziale del metodo, ne chiarisce i fondamenti neurobiologici teorici, e lo distingue da approcci standard basati su esposizione e ristrutturazione cognitiva.

Risultati e Osservazioni Cliniche

Numerosi casi clinici, presentati sotto forma di testimonianze video e scritte, suggeriscono che il trattamento abbia effetti rapidi e profondi anche in pazienti con traumi gravi: veterani, vittime di torture, abusi sessuali e gravi incidenti. È riportata la riduzione o scomparsa dei sintomi ansiosi, flashback, dissociazione e iperarousal. Alcuni pazienti riferiscono un miglioramento superiore a quello ottenuto dopo anni di terapia tradizionale. Il trattamento sembra efficace anche in contesti complessi di trauma cumulativo e C-PTSD.

Impatto Teorico e Neuroscientifico

Il fondamento neurobiologico si rifà alle ricerche sul reconsolidamento della memoria (es. Kindt, Schiller), secondo cui ogni riattivazione mnestica è un’opportunità per la modificazione del contenuto emotivo della memoria. Inoltre, l’autore collega la TCM ai principi dell’ipnosi conversazionale di Milton Erickson e alle teorie di Bessel van der Kolk sull’impatto somatico del trauma. L’approccio integra dunque teoria dell’attaccamento, neurobiologia e tecniche esperienziali non invasive.

Rilevanza Clinica ed Etica

  • Efficacia percepita: risultati promettenti anche nei casi clinici più gravi e cronici.
  • Accessibilità: possibile apprendimento da parte di terapeuti con training breve.
  • Adattabilità: idoneo per pazienti con evitamento marcato, dissociazione o storia di fallimenti terapeutici.
  • Etica e limiti: mancano RCTs e studi longitudinali, ma l’assenza di effetti collaterali suggerisce l’opportunità di studi pilota in ambienti clinici protetti.

Conclusione

La Cortina Method rappresenta una potenziale innovazione nel trattamento del PTSD, soprattutto per forme complesse e refrattarie. La sua promessa terapeutica risiede nell’accesso indiretto alla memoria traumatica e nella valorizzazione delle risorse interne del paziente. Sebbene le evidenze attuali siano di natura aneddotica, l’interesse clinico e teorico è tale da giustificare lo sviluppo di studi sistematici.


Parte 2: Articoli Recenti

–> continua su POPMed

Article by admin / Generale, Formazione / PTSD

10 June 2025

Il trauma indotto da perpetrazione (“un altro problema, meno noto, dell’industria della carne”)

PREMESSA: riportiamo per intero un articolo apparso recentemente su Il Post, a proposito di una forma peculiare di disturbo post-traumatico, il “trauma indotto da perpetrazione“, sofferto per lo più da lavoratori inseriti nella filiera della grande distribuzione di carne, impiegati tutto il giorno nell’uccisione di animali. Il disturbo è peculiare e non così nuovo (l’articolo citato dal Post che per primo lo “introduce”, risale al 2002). Avevamo scritto in precedenza su questo blog a proposito del moral injury, l’auto-traumatizzazione generata dal calpestare valori morali profondamente radicati: questo tipo peculiare di disturbo sembra accostarcisi, essendo che l’individuo è in qualche modo attivamente coinvolto nel processo di traumatizzazione. (R.A.)

L’articolo originale è qui. Qui di seguito lo riportiamo.

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La produzione mondiale di carne è aumentata di oltre tre volte rispetto alla metà degli anni Settanta. Da allora è molto cambiato anche il modo in cui viene prodotta: è aumentata la distanza tra chi la mangia e chi, lontano da loro, si occupa di macellarla. In questo secondo gruppo ci sono persone che subiscono traumi psicologici anche molto gravi, perché esposte ogni giorno alla violenza di trattamenti spesso disumani sugli animali negli allevamenti intensivi.

Gli stimoli particolari a cui sono sottoposte le persone incaricate di controllare le varie fasi della macellazione industriale sono una delle possibili cause di un disturbo psicologico noto e studiato: il trauma indotto dalla perpetrazione (o PITS, acronimo di perpetration-induced traumatic stress). È un argomento oggetto di diversi racconti diretti ma di cui si tende in generale a parlare poco, per via delle reticenze dell’industria della carne e della riluttanza delle aziende a condividere dati e informazioni.

Definito nel 2002 dalla psicologa statunitense Rachel MacNair, è un sottotipo di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) in cui il trauma deriva dalla partecipazione attiva a una violenza anziché dall’esserne vittime o testimoni. I sintomi sono gli stessi: insonnia, flashback, ricordi intrusivi, ansia, depressione. È diffuso principalmente tra i militari e le forze dell’ordine, ma in generale il rischio di soffrirne è maggiore in qualsiasi ambiente in cui causare morte sia socialmente accettato e normale, come i macelli.

In un articolo recente il giornalista di Vox Kenny Torrella ha citato il caso di un uomo, Tom, a cui fu diagnosticato il trauma indotto dalla perpetrazione, dopo aver lavorato per anni nell’industria della carne in diversi paesi in Europa. Uno dei suoi compiti lungo la catena di produzione era scuoiare la mucche da macello dopo che erano state stordite e appese. Ma a volte lo stordimento non funzionava correttamente.

Una volta gli capitò di dover scuoiare una mucca che stava partorendo ed era arrivata ancora cosciente alla fase della macellazione di cui lui era responsabile. Non poté arrestare il processo per assicurarsi che venisse uccisa correttamente (il vitello non sopravvisse). Secondo Tom, che ha detto che all’epoca faceva uso di sostanze dopo il lavoro e nei weekend, è «molto difficile assistere all’uccisione degli animali», ma alla fine ci si fa l’abitudine.

L’industria della macellazione della carne è un settore con un numero alto ma probabilmente sottostimato di infortuni sul lavoro. Oltre a quelli causati da incidenti, molti sono dovuti in generale alla velocità delle linee di produzione negli stabilimenti, che possono portare a lesioni da movimenti ripetitivi. I traumi psicologici sono ancora più difficili da stimare, e non sono conteggiati nelle statistiche sugli infortuni. Di conseguenza anche gli studi di psicologia sono pochi, perché i ricercatori non hanno a disposizione dati specifici condivisi dalle aziende.

Diversi sondaggi condotti tra i lavoratori del settore mostrano però livelli di ansia, depressione e aggressività più alti rispetto ad altri settori e rispetto alla popolazione generale. Sulla base di questi dati è possibile ipotizzare che anche il trauma indotto dalla perpetrazione sia un disturbo relativamente diffuso.

L’esposizione ai traumi riguarda anche professionisti non direttamente coinvolti nella produzione negli stabilimenti, come per esempio gli ispettori. Uno di loro, David Magna, attivista vegano ed ex ispettore dei macelli per il governo canadese, ha raccontato a Vox i suoi problemi di salute mentale. Qualche anno fa ha ricevuto una diagnosi di PTSD e di disturbo bipolare: ha frequenti flashback, incubi e pensieri suicidi.

Per un periodo si occupò dell’industria del pollame: uno dei suoi compiti era rimanere in piedi alle spalle dei dipendenti per ispezionare le loro attività lungo la catena di produzione, che lavorava circa 180 polli al minuto. A volte centinaia di polli arrivavano morti dopo essere rimasti per troppo tempo esposti al caldo o al freddo durante il trasporto dall’allevamento intensivo.

In seguito Magna lavorò per anni ai rapporti sulle violazioni delle leggi a protezione degli animali negli stabilimenti dell’industria della carne. In un rapporto apprese il caso di un camion che trasportava mucche verso un macello, tra cui una che aveva partorito in viaggio un vitello poi morto schiacciato per l’affollamento di mucche nel rimorchio. Magna ha detto che, nonostante l’impegno, il suo lavoro gli procurava grandi frustrazioni: i regolamenti erano deboli, i trasgressori rischiavano perlopiù qualche multa, e i suoi superiori non prendevano sul serio le sue preoccupazioni.

È un problema peraltro destinato ad aumentare nel tempo, visto che secondo le previsioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) il consumo e quindi la domanda mondiale di carne continueranno a crescere.

Nel 2023 la rivista scientifica AMA Journal of Ethics dedicò un numero intero all’impatto delle pratiche dell’industria della carne sulla salute pubblica e sull’ambiente. MacNair, autrice di uno degli articoli, descrisse la complicità della società come un fattore rilevante nella diffusione dei disturbi psicologici. Scrisse che «la domanda pubblica di carne crea un’esposizione continua, presente e futura ai traumi»: traumi che secondo lei e altri non vengono eliminati dalla società, ma semplicemente appaltati a minoranze della popolazione.

A subire maggiori danni fisici e psicologici è spesso la popolazione con minori opportunità economiche: migranti e rifugiati, che sono una parte consistente dei lavoratori del settore dell’industria della carne. Questa è peraltro una delle ragioni per cui mancano dati sugli infortuni: chi li subisce tende a non denunciarli perché teme di mettere a rischio il suo lavoro e il suo sostentamento.

Lo sfruttamento delle comunità a basso reddito riguarda anche i territori in cui vivono, spesso scelti per l’agricoltura e per la costruzione degli allevamenti intensivi. La promessa di una probabile crescita economica è infatti una delle ragioni per cui gli abitanti di quelle aree sono più disposti ad accettare i disagi dovuti ai costanti cattivi odori e all’inquinamento dell’aria e dell’acqua.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile dal menù a tendina #TRAUMA.

Article by admin / Formazione / PTSD, raffaeleavico

15 May 2025

L’EMDR: AGGIORNAMENTO, CONTROVERSIE E IPOTESI DI FUNZIONAMENTO

di Raffaele Avico

Le recentissime e autorevoli linee guida APA per il trattamento per i PTSD, hanno declassato l’EMDR a seconda scelta per il trattamento del trauma psicologico, tema su cui su questo blog abbiamo scritto molto. Le linee guida attuali sono un aggiornamento delle linee guida pubblicate nel 2017.

Su POPMed, abbiamo fatto fare alla “macchina” un lavoro enorme di confronto tra le fonti, che ha confermato, alimentando, molti dei dubbi che qui avevamo già espresso a riguardo dell’EMDR. L’approfondimento si trova qui.

Alcuni di questi dubbi sono:

  • Perché l’EMDR dovrebbe funzionare sia sulla depressione, che sul trauma? Oppure, sia sul DOC, che sul trauma?
  • Perchè l’EMDR funziona con i movimenti oculari, ma anche senza? Non era forse partito come uno strumento che faceva dei movimenti oculari il suo punto di forza?
  • In che modo esattamente muovere o tamburellare -più o meno velocemente- le dita, potrebbe dare risultati diversi? Nei corsi si insegna che la velocità della stimolazione cambia il risultato finale: in che modo?

Il dubbio è che si tratti di una sofisticazione di una procedura espositiva: l’EMDR non sarebbe altro in questo caso che un modo come un altro di esporre il paziente ad alcuni vissuti dolorosi -con un protocollo rassicurante da seguire nel farlo. Potrebbe essere fatto allo stesso modo quindi, quel procedimento espositivo, toccando oggetti che vibrano, o masticando caramelle dal gusto forte: allo stesso modo l’”imbuto percettivo” verrebbe saturato (per via di un doppio compito) e il ricordo passerebbe -depotenziato- alla coscienza. Si tratterebbe di una sorta di esposizione mediata da un compito, da effettuarsi nel momento in cui ci si espone al ricordo traumatico stesso. Si tratterebbe cioè di gestire l’attivazione allarmata ansiosa, per via di un atto di “grounding” (si veda più avanti per un chiarimento su questo punto). Il protocollo aiuterebbe a “distrarre” l’attivazione ansiosa durante la rievocazione dell’evento traumatico: l’EMDR metterebbe insieme, quindi, un evento espositivo, a un evento di doppio compito: quindi rievocare e insieme reindirizzare l’attenzione altrove, permettendo al ricordo di arrivare alla coscienza per essere affrontato/elaborato.
Lo stesso effetto, partendo dallo stesso razionale, potrebbe essere ottenuto tramite la scrittura: esporsi e insieme portare una quota dell’attenzione al creare- scrivendo.

La teoria del doppio compito sembra in effetti la più plausibile, il che tuttavia inserisce l’EMDR nell’insieme delle terapie espositive, con però un protocollo rigido da seguire, il che andrebbe a giovare alle ansie del terapeuta stesso.

Come prima accennato, su POPMed un lungo approfondimento/review della letteratura a proposito dell’EMDR, raggiungibile da qui. Lo mettiamo anche qui in PDF, per chi volessere scaricarlo.

Infine, un cenno alle ipotesi alla base del funzionamento dell’EMDR, qui si seguito, aggregato da Chatgpt. Come si nota, le ipotesi più plausibili sembrano essere quella sul doppio compito, e quella sul riconsolidamento mnestico.

Le principali ipotesi sul funzionamento dell’EMDR

Introduzione: L’EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una terapia utilizzata con successo per elaborare ricordi traumatici e ridurre i sintomi del PTSD. Ma come funziona esattamente? Nel corso degli anni, ricercatori e clinici hanno proposto diverse ipotesi per spiegare l’efficacia dell’EMDR. Di seguito presentiamo, in modo chiaro e non troppo tecnico, cinque delle principali teorie sul meccanismo d’azione dell’EMDR, ognuna delle quali offre una prospettiva diversa su come i movimenti oculari e la stimolazione bilaterale possano aiutare a desensibilizzare e rielaborare i ricordi traumatici.

L’ipotesi del doppio compito (dual-task)

Secondo l’ipotesi del doppio compito, l’efficacia dell’EMDR dipende dal fatto che il paziente deve svolgere due compiti contemporaneamente: da un lato richiamare alla mente il ricordo traumatico (con le sue immagini ed emozioni) e dall’altro seguire lo stimolo bilaterale (come il movimento delle dita del terapeuta, suoni alternati o tocchi). Questa situazione impegna fortemente la memoria di lavoro del cervello, che ha capacità limitate (ifemdr.fr). In parole semplici, non riusciamo a prestare attenzione massima a due cose nello stesso momento: se dividiamo l’attenzione fra il ricordo e un secondo compito (i movimenti oculari), il cervello non riesce a mantenere il ricordo vivido e carico di emozione come farebbe normalmente (ifemdr.fr). Di conseguenza, l’immagine traumatica appare meno nitida e meno disturbante, il che aiuta il paziente a riesaminarla senza esserne sopraffatto. Questo potrebbe spiegare perché, seduta dopo seduta, il ricordo perde la sua carica emotiva negativa: riducendone l’intensità emotiva e visiva, il cervello può “riscriverlo” in modo più adattivo (trailheadcounselingks.com). In sintesi, l’EMDR “sovraccarica” la memoria di lavoro con un doppio compito, togliendo potenza al ricordo traumatico e rendendolo più gestibile durante la terapia.

L’integrazione interemisferica

Un’altra ipotesi suggerisce che l’EMDR funzioni grazie a una maggiore integrazione tra i due emisferi cerebrali (sinistro e destro). I movimenti oculari orizzontali alternati (o altri stimoli bilaterali) stimolano alternativamente entrambi gli emisferi, aumentando la loro comunicazione reciproca (ifemdr.frifemdr.fr). Ma perché questo aiuterebbe con i traumi? Si pensa che i ricordi traumatici “bloccati” siano memorizzati in modo disfunzionale, magari legati più a un emisfero (per esempio, le emozioni e le immagini nel destro) senza la dovuta integrazione con l’altro emisfero (ad es. il sinistro, più analitico e linguistico). Aumentando la comunicazione interemisferica, l’EMDR potrebbe facilitare il ricollegamento e l’elaborazione completa di quei ricordi: il contenuto emotivo, visivo e sensoriale del trauma verrebbe integrato con una comprensione razionale e contestuale più ampia (ifemdr.fr). In effetti, esperimenti hanno mostrato che movimenti oculari saccadici (rapidi) orizzontali migliorano la capacità di richiamare ricordi episodici, molto più di movimenti verticali o di non muovere affatto gli occhi (ifemdr.frifemdr.fr). Ciò indica che le stimolazioni bilaterali accrescono la cooperazione tra emisfero destro e sinistro, aiutando a “riorganizzare” il ricordo traumatico e ad integrarlo nella memoria autobiografica in forma meno dolorosa. Inoltre, una migliore integrazione tra emisferi è stata associata anche a una riduzione dello stress (ifemdr.fr), il che spiegherebbe la diminuzione del disagio emotivo man mano che il ricordo viene rielaborato. In sintesi, l’ipotesi interemisferica vede l’EMDR come un “ponte” tra i due lati del cervello, che permette di rimettere insieme i pezzi del ricordo traumatico e archiviarlo correttamente.

Il riflesso di orientamento

Il riflesso di orientamento è una risposta automatica del nostro organismo quando veniamo esposti a uno stimolo nuovo o inaspettato: è quel meccanismo evolutivo che ci fa sobbalzare leggermente e concentrare l’attenzione ogni volta che c’è un cambiamento improvviso nell’ambiente (un rumore improvviso, qualcosa che si muove nel nostro campo visivo, ecc.). Alcuni studiosi hanno proposto che i movimenti alternati dell’EMDR sfruttino proprio questo riflesso (emdr.com). In pratica, ogni volta che seguiamo con gli occhi il dito del terapeuta (o percepiamo un suono/tocco alternato), il nostro cervello interpreta lo stimolo come qualcosa di nuovo: ciò cattura l’attenzione in modo ripetuto e innesca una breve reazione di “allerta” seguita subito da una valutazione di sicurezza (“non c’è pericolo”) (emdr.com). Questa continua reazione di orientamento ha due possibili effetti benefici. Primo, interrompe e disturba momentaneamente il network del ricordo traumatico: in altre parole, spezza il filo dei pensieri ed emozioni negative collegate al trauma, dando la possibilità di inserire nuove associazioni più positive o neutre (emdr.com). Secondo, dopo l’istante di allerta iniziale, subentra una risposta di rilassamento quando il cervello si accorge che lo stimolo non è una minaccia (emdr.com). Questo riflesso investigatorio che sfocia in un rilassamento può attivare un meccanismo di “inibizione reciproca”: la calma fisiologica indotta contrasta l’ansia e la paura legate al ricordo, permettendo di riesaminarlo senza lo stesso livello di turbamento emotivo (emdr.com). In sostanza, l’EMDR potrebbe funzionare perché trasforma una sessione di terapia in una serie di piccoli momenti di orientamento: il cervello viene continuamente distratto dal trauma e rassicurato che adesso è al sicuro, il che facilita l’elaborazione. Questa teoria è supportata anche da misurazioni fisiologiche che mostrano un calo dell’attivazione nervosa durante l’EMDR: in altre parole, la stimolazione bilaterale genera un orienting reflex che abbassa temporaneamente l’arousal (attivazione emotiva), aiutando il paziente a rimanere nel ricordo senza esserne travolto (emdr.comemdr.com).

La simulazione del sonno REM

Un’ipotesi affascinante sostiene che l’EMDR riproduca nel cervello uno stato simile a quello del sonno in cui normalmente avviene l’elaborazione della memoria. In particolare, inizialmente si è pensato al sonno REM (la fase del sonno in cui si hanno movimenti oculari rapidi e sogni vividi) perché è noto che durante la fase REM il cervello processa attivamente le esperienze emotive, consolidando i ricordi e integrandoli con le nostre conoscenze precedenti (ifemdr.fr). Il ricercatore Robert Stickgold, ad esempio, ha ipotizzato che i movimenti oculari dell’EMDR inducano uno stato neurobiologico simile al sonno REM, attivando nel cervello i sistemi di rielaborazione della memoria che normalmente operano durante quel periodo della notte (ifemdr.fr). In condizioni di sonno, soprattutto nelle fasi REM (ma anche nel sonno profondo non-REM), avviene il trasferimento dei ricordi dall’ippocampo (dove si formano i ricordi episodici “grezzi”) alla corteccia cerebrale, integrandoli nella memoria a lungo termine e riducendone la carica emotiva (ifemdr.fr). L’EMDR, con la sua stimolazione bilaterale ritmica, sembra innescare un processo analogo: il cervello entra in una sorta di “modalità elaborativa” tipica del sonno (ifemdr.fr), in cui può finalmente digerire il ricordo traumatico. Studi EEG sostengono questa ipotesi mostrando che durante i set di stimolazione bilaterale si rilevano onde cerebrali molto simili a quelle del sonno ad onde lente (fasi profonde del sonno non-REM) (trailheadcounselingks.com). Ciò suggerisce che l’EMDR possa effettivamente simulare alcune condizioni neurofisiologiche del sonno (REM e non-REM) favorevoli alla rielaborazione: il cervello, pur essendo sveglio, lavora sul ricordo come farebbe di notte, archiviamolo in modo adeguato e attenuandone l’impatto emotivo. Questo spiegherebbe perché dopo l’EMDR molti pazienti riferiscono che il ricordo traumatico appare distante, sfuocato o “come un sogno” invece che vivido e presente. In breve, l’EMDR potrebbe funzionare perché “fa fare al cervello di giorno il lavoro che normalmente fa di notte” per elaborare e depotenziare i ricordi dolorosi (ifemdr.fr).

La teoria della riconsolidazione mnestica

L’ultima ipotesi di cui parliamo si basa sulle scoperte nel campo delle neuroscienze della memoria, in particolare sul riconsolidamento dei ricordi (detto anche riconsolidamento mnestico). Per molti anni si è creduto che una volta formato un ricordo nel cervello fosse stabile e immodificabile; invece, la teoria del riconsolidamento ha dimostrato che quando richiamiamo un ricordo possiamo aprire una “finestra” temporanea in cui quel ricordo diventa nuovamente instabile e modificabile (trailheadcounselingks.com). In altre parole, ripensare a un’esperienza passata la rende momentaneamente fragile, offrendo l’opportunità di aggiornarla con nuove informazioni o associazioni emotive prima che venga “salvata” di nuovo in memoria. Come si applica questo concetto all’EMDR? Durante le sedute EMDR, il paziente riattiva intenzionalmente il ricordo traumatico (parlandone e concentrandosi su di esso) mentre riceve la stimolazione bilaterale. Secondo la teoria del riconsolidamento, questa procedura fa sì che il ricordo entri in quello stato labile in cui può essere ristrutturato con elementi nuovi e meno disturbanti(trailheadcounselingks.com). Ad esempio, attraverso l’EMDR la persona potrebbe associare al ricordo originale sensazioni di sicurezza, nuove interpretazioni cognitive o semplicemente sperimentare che può pensarci senza esserne annientato emotivamente. Tutte queste nuove esperienze vengono integrate nel ricordo durante la finestra di riconsolidamento, cosicché il cervello “risalva” il ricordo in forma attenuata – con un peso emotivo minore e con significati diversi. Alcuni ricercatori hanno sottolineato che l’EMDR, anche se nato da osservazioni cliniche, inconsapevolmente sfrutta proprio il meccanismo del riconsolidamento (trailheadcounselingks.com). In effetti, dopo una rielaborazione completa in EMDR, si ritiene che il ricordo originario venga alterato attraverso processi di integrazione e riconsolidamento (viene ricodificato nel cervello in modo non traumatico) (psicologo-mantova.net). Questo spiegherebbe perché, una volta conclusa la terapia, i ricordi che prima causavano intense reazioni emotive diventano ricordi “neutralizzati”: sono sempre parte della propria storia, ma non provocano più il dolore di un tempo, perché il cervello li ha riscritti e ricollocati in modo adattivo.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione, Generale / PTSD

19 March 2025

Introduzione al concetto di neojacksonismo

di Raffaele Avico

Diversi lavori hanno negli ultimi anni messo l’accento su una domanda: perché non si parla di Janet, nella teoria sul trauma? Dove va collocato l’apporto di Pierre Janet nelle teorie che tentano di spiegare la genesi di un disturbo psichiatrico?
 
Sappiamo che la psicoanalisi freudiana -già dagli inizi- era un modello teorico che metteva l’idea del trauma al centro: le risposte delle pazienti isteriche del tempo, sarebbero state originate da fallimenti nel processo di rimozione che Freud aveva pensato come messo in atto attivamente dai pazienti. Il problema erano le reminiscenze degli eventi traumatici, che in seguito Freud aveva connesso ai temi della sessualità -intesa in senso ampio. Come qui avevamo già scritto, Janet aveva invece concettualizzato la nascita di un disturbo come un fallimento dei processi di sintesi da parte delle funzioni mentali: a differenza di Freud, dunque, la risposta a un evento avrebbe indotto nella mente di un individuo uno sconvolgimento che non sarebbe stato in grado di “sintetizzare”, di elaborare psicologicamente.
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Continua su POPMed.

Article by admin / Formazione / psicotraumatologia, PTSD

5 March 2025

“LE CONSEGUENZE DEL TRAUMA PSICOLOGICO”, UN LIBRO SUL PTSD

di Raffaele Avico

A partire dal 2017, si sono qui susseguiti su questo blog molti contributi che hanno indagato la natura del vissuto post-traumatico.

Ho raccolto e sistematizzato i contributi sul PTSD in un libro, di cui riporto qui l’introduzione e l’indice.

Come si legge, l’idea che connette i vari lavori è che il trauma interrompa il normale lavoro di immagazzinamento e costruzione della trama dei ricordi, e che si installi nella memoria come una “pietra dura”, indigesta in senso psichico.

Il lavoro che se ne fa in psicoterapia, è quindi quello di aiutare la persona a digerire il trauma in senso psicologico, il che equivale a restituirlo al “logos”.
Jacques Lacan, a proposito di questo, riteneva che il trauma avviene quando ciò che chiama Reale irrompe nella vita di un individuo squarciando il “velo di simboli” che coprirebbe ogni elemento e cosa della nostra vita, rendendola possibile e pensabile. Una violenza, la brutalità di un’aggressione da parte di un predatore, ma anche un forte spavento, un trauma morale o un incontro inaspettato e prematuro con la morte: tutti esempi di come la natura “minerale”, non pensabile e assurda (Reale) della realtà possa irrompere nella vita di un individuo, squarciando la copertura simbolica di cui prima scrivevo.

La psicoterapia dovrebbe in questo caso aiutare a ricucire questo squarcio, trasformando quindi -come sintetizza Recalcati- il trauma in unatrama.

Esistono però molti altri aspetti della questione, per esempio le ricadute sul corpo dello stress post-traumatico, il problema dell’allarme continuo, i trigger che riattivano il ricordo del trauma in sé: questo volume tenta di fornire una griglia di lettura per chi voglia introdursi al tema, o per chi viva in uno stato di post-trauma e voglia tentare di aiutarsi nell’operazione di “tessitura” e integrazione prima citato.

Uno degli aspetti centrali su cui questo libro si sofferma, è l’idea che la risposta post-traumatica sia una forma di apprendimento distorta; questo apprendimento -questa forma di anticipazione– ci consente di mantenerci vigili nel post-trauma e idealmente meglio preparati al “prossimo evento problematico”. Sarebbe auspicabile però, che l’apprendimento possa essere “disappreso“, e qui osserviamo il punto centrale del disturbo post-traumatico: l’apprendimento dell’allarme relativo al trauma fatica a essere estinto, lasciando l’individuo in balìa di una condizione di allarme protratto, con il corpo prostrato dagli angoscianti vissuti tipici del PTSD.

Qui è possibile acquistare il libro, che si pone in continuità con quello da me e Davide Boraso pubblicato in precedenza, PTSD: che fare?, del 2020. La copertina è di Andrea Pisano. Il libro presenta alcune imprecisioni relative all’impostazione grafica, essendo autopubblicato.
Di seguito l’introduzione.

Introduzione

Questo volume raccoglie una serie di approfondimenti a tema “trauma” che ho raccolto in un periodo di circa 5 anni, a partire dalla fondazione di un blog tematico (ilfogliopsichiatrico.it) nell’inverno del 2017, fino alla fine del 2022.

Gli anni 2020 e 2021 sono stati anni peculiari, essendosi abbattuta sulla popolazione umana una pandemia da coronavirus, superata per fasi progressive grazie a quarantene obbligate iniziate nel marzo 2020 -e alla diffusione di una serie di vaccini mirati, a partire dalla fine del 2020.

La pandemia da Covid19 è stata in grado di sdoganare in modo vigoroso la questione “salute mentale” e ha ulteriormente riacceso l’attenzione intorno al tema trauma, a cosa significhi vivere in una condizione di allarme protratto, a come sia possibile resistere in un contesto traumatizzante e a come ci si possa adattare “senza impazzire”.

Va notato che al momento del divampare del fuoco pandemico la tematica “trauma” era già da anni tornata prepotentemente alla ribalta, con una moltitudine di professionisti interessati al problema, libri di qualità pubblicati, associazioni nate e cresciute in modo sostenuto (come l’AISTED in Italia), una profusione di corsi di formazione e l’affermarsi di modalità di intervento psicoterapico mirate, come l’EMDR.

Uno dei libri più vecchi di Bessel Van Der Kolk, Psychological Trauma, risale al 1987. Leggendolo, ci si rende conto di come il linguaggio usato da quello che oggi è considerato uno degli psicotraumatologi più importanti al mondo fosse intriso di termini mutuati dall’approccio psicodinamico; una osservazione sul registro linguistico adottato per parlare di trauma ci consente di comprendere l’evoluzione del concetto che descrive: oggi in ambito di psicotraumatologia ci troviamo a fare i conti con una terminologia peculiare, emancipata, che ci fa comprendere quanto l’area del “trauma” rappresenti sempre di più un modo mirato, “unico” di leggere alcuni dei problemi portati dai pazienti -attraverso una lente dedicata, uno sguardo diverso.

Venendo a questo volume, sono sistematizzati e organizzati qui articoli e approfondimenti raccolti in cinque anni, relativi al “problema” del superamento di un evento traumatico o di una traumatizzazione protratta. Sono raccolti per macro-temi, dalla psicobiologia della traumatizzazione, agli autori più importanti che negli anni (a partire da Pierre Janet) hanno indagato il tema, per arrivare alle modalità di fronteggiamento delle sindromi post-traumatiche più o meno complesse. In chiusura ho costruito tre appendici su temi “di contorno”, tra cui alcune interviste a esperti del settore e alcuni consigli di approfondimento in senso bibliografico.

Lo studio sul trauma e sui fenomeni dissociativi è in continuo mutamento, credo però che il seguente lavoro possa fornire una panoramica di insieme e un approccio sufficientemente chiaro al problema.

Come si noterà dal materiale qui raccolto, e tirando le fila dei diversi filoni di approfondimento trattati, osserviamo come la traumatizzazione risponda a degli imperativi prima di tutto dettati dalla nostra natura animale, più profonda, strettamente connessa alle esigenze evoluzionistiche.

Il trauma è un evento che mette a repentaglio la nostra sensazione di sicurezza, e come tale viene potentemente impresso nella nostra memoria, al fine di salvaguardarci da una sua eventuale ripetizione: è in grado poi di produrre una distorsione dei nostri meccanismi di apprendimento, imprigionandoci in un eterno presente di ripetizione e permanenza all’interno della “vita post-traumatica”. Per questo motivo, viene spesso definito un problema collegato alla memoria, dato che sembra estremamente difficoltoso riconsegnarlo al passato, digerirlo in senso psichico e infine dimenticarlo.

Osserviamo inoltre come alcuni meccanismi tengano in vita questo processo di presentificazione del trauma e delle memorie traumatiche: la mente sembra voler “tornare sulla scena del crimine”, come attratta dal potere suggestivo e dal dolore provocato dalle memorie traumatiche stesse. Alla base di questo, modificazioni nel funzionamento dei distretti cerebrali funzionali alla regolazione degli stati emotivi, contribuiscono a rendere il superamento delle sindromi post-traumatiche un processo che spesso dura moltissimo tempo.

Come prima accennato, leggere le sindromi post-traumatiche in chiave evoluzionistica ci consente di capirne lo scopo ultimo, l’apprendimento che ci aiuta a non ripetere esperienze per noi dolorose, insieme ad un’immobilizzazione ai fini della guarigione, come succede nel dolore fisico. Esistono però molteplici casi in cui questo meccanismo si corrompe e complica, obbligando l’individuo a permanere per troppo tempo in uno stato di immobilità, di fiacchezza passiva, come soggiogato dal potere del ricordo. Sarebbe per questo di estremo interesse procedere a un’indagine comparata con altre specie animali, capire come alcune specie possano estinguere, dissipare i loro vissuti traumatici, al fine di capire meglio cosa -in noi- va così storto: troverete in questo lavoro alcuni spunti sul tema.

Particolare attenzione è stata data in questi contributi su trauma e dissociazione al concetto di approccio integrato, nell’idea che affrontare il problema da molteplici punti di vista (psichico e fisico insieme, banalmente) possa produrre un migliore risultato in senso clinico, e più veloce. Troverete dunque diversi riferimenti ad approcci non solamente psicologici, per affrontare i vissuti disturbanti della post-traumatizzazione.

Infine, troverete alcune parole sottolineate, all’interno del testo e nelle note: sono link che rimandano a pagine internet con approfondimenti ulteriori, ovviamente fruibili solo nella versione e-book di questo lavoro.

QUI É POSSIBILE SCARICARE L’INDICE DEL VOLUME.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale, Recensioni / PTSD

4 February 2025

Henri Ey: “Allucinazioni e delirio”, la pubblicazione in italiano per Alpes, a cura di Costanzo Frau

PREMESSA: pubblichiamo l’introduzione italiana al libro “Allucinazioni e delirio. Le forme allucinatorie dell’automatismo verbale” di Henri Ey, a cura di Costanzo Frau, che ha anche tradotto il libro. Importare in Italia il lavoro di Henri Ey ha la funzione di promuovere la concettualizzazione gerarchica del modello di mente, che coniuga in sè importanti contributi di “padri” dell’attuale psicotraumatologia, e che ci aiuta a comprendere forme di psicopatologia di difficile lettura, come le voci simil-allucinatorie in gravi disturbi post-traumatici. L’idea centrale è che la mente proceda per elaborazioni di informazioni entro una logica gerarchica, e che -come sostiene Pierre Janet- alcune forme di psicopatologia vadano pensate come “fallimenti” delle funzioni di sintesi di aree del complesso mente/cervello più evolute, che non riuscirebbero a contenere l’attivazione delle aree sottostanti o precedenti -sempre entro lo schema gerarchico. Qui per un’introduzione al modello organodinamico di Henri Ey. Aisted ha attivato un gruppo di lavoro sul neo jacksonismo, qui raggiungibile. (R. Avico)
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Introduzione all’edizione italiana (di Costanzo Frau)

Il DSM-5 definisce le allucinazioni come “esperienze simil-percettive che si verificano senza uno stimolo esterno. Sono vivide e chiare, con il pieno impatto e tutta la forza delle percezioni normali, e non sono sotto il controllo volontario. Esse possono presentarsi in qualsiasi modalità sensoriale, ma le allucinazioni uditive sono le più comuni nella schizofrenia e nei disturbi correlati […]” (APA, 2013; p. 102).

Esistono diverse definizioni generali di allucinazione, che variano in base alla prospettiva teorica e scientifica. La definizione proposta da Esquirol nel 1817, ancora in uso oggi, descrive l’allucinazione come “una convinzione immediata di una sensazione percepita, pur in assenza di un oggetto esterno che possa stimolare tale sensazione” (Ey, 1939).

Jaspers, nel 1913, la considera come una percezione falsa che non è dovuta a una distorsione delle percezioni reali, ma piuttosto a una produzione mentale autonoma che si manifesta simultaneamente con le percezioni autentiche (Jaspers, 1913).

Per Smythies (1956, citato in Oyebode, 2008), un’allucinazione è un fenomeno percettivo che coinvolge stimoli sia interni che esterni, ma che non corrisponde a un oggetto concreto nel mondo reale.

Infine, Slade (1976, citato in Oyebode, 2008) distingue tre caratteristiche fondamentali delle allucinazioni: la percezione simulata si verifica senza uno stimolo esterno, ha un’intensità e un impatto simili a quelli di una percezione reale, ed è caratterizzata da involontarietà, spontaneità e da una totale incapacità del soggetto di controllarla.

Per lungo tempo, il sentire le voci è stato considerato un sintomo di- stintivo della schizofrenia, come indicato nelle edizioni precedenti del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III e DSM- IV). La diagnosi di schizofrenia nel DSM-IV richiedeva la presenza di almeno due dei seguenti cinque sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento gravemente disorganizzato o catatonico, e sintomi negativi, che includevano appiattimento affettivo, alogia, abulia. In alternativa, bastava la presenza di deliri bizzarri o di allucinazioni uditive, come la percezione di una voce che commenta continuamente i pensieri o il comportamento del soggetto, oppure il sentire due o più voci che conversano tra loro (APA, 2000).

Tuttavia, a partire dalla quinta edizione del manuale, le allucinazioni verbali uditive non sono più considerate un sintomo esclusivo della schizofrenia (APA, 2013).

È stato evidenziato che le allucinazioni uditive possono manifestarsi anche in individui senza una diagnosi psichiatrica, fenomeno spesso definito in letteratura come “pseudoallucinazioni”. Questo termine viene utilizzato per distinguere tali voci da quelle tipicamente associate a disturbi psicotici, come nei casi di psicosi (Longden et al., 2019).

Tuttavia, la ricerca scientifica non ha fornito prove conclusive a sostegno di questa distinzione. Al contrario, le evidenze suggeriscono che non vi sia una separazione netta tra le allucinazioni uditive sperimentate da persone con e senza diagnosi psichiatrica.

Numerose ricerche hanno mostrato che una parte significativa della popolazione sperimenta allucinazioni uditive senza ricorrere a trattamenti terapeutici per psicosi. Solo una percentuale relativamente bassa di questi individui (compresa tra 1/3 e 1/5) cerca una consulenza psichiatrica in relazione a queste esperienze (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007).

Inoltre, non sono state riscontrate differenze significative in relazione alla localizzazione delle voci, in quanto la percezione della provenienza esterna della voce non risulta essere più strettamente associata alla schizofrenia rispetto ad altri disturbi dello spettro schizofrenico e psicotici. Variabili come la prevalenza delle allucinazioni uditive, la loro personificazione, la vividezza percettiva, la durata e il contenuto negativo non mostrano differenze significative tra i pazienti con diagnosi di schizofrenia e quelli con altre diagnosi psichiatriche (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007; Waters & Fernyhough, 2017).

Sono state osservate sia somiglianze che differenze nelle allucinazioni uditive tra popolazioni cliniche e non cliniche, un argomento che viene trattato in modo approfondito nella revisione di Longden e collaboratori, la quale si raccomanda per ulteriori approfondimenti (Longden et al., 2019).

Nel 2007, Moskowitz e Corstens furono i primi a proporre l’idea che l’udire voci potesse essere il risultato di un processo dissociativo. Gli autori evidenziano la mancanza di evidenze che suggerissero una differenza significativa tra le voci percepite da individui con diagnosi di schizofrenia, disturbi dissociativi o da persone senza disturbi psichici. Nelle loro conclusioni, gli autori sottolinearono alcuni punti fondamentali: a) le allucinazioni uditive dovrebbero essere interpretate come esperienze dissociative, tipiche di individui predisposti a percepire voci, in particolare in situazioni di stress; b) queste esperienze necessitano di un’analisi approfondita per comprendere appieno il loro significato; c) le allucinazioni uditive potrebbero risolversi quando l’individuo riesce a spostare la sua valutazione da un livello esterno a uno interno riguardo al processo in atto (Moskowitz & Corstens, 2007).

La tendenza a interpretare i fenomeni mentali in termini di determinismo biologico ha radici molto antiche. Questo approccio può essere visto come il risultato dell’attività incessante delle strutture cerebrali superiori, che cercano di attribuire un senso ai vari aspetti dell’esperienza umana, spesso cadendo però nell’errore dell’ipersemplificazione. Un esempio di questa dinamica si può osservare anche nel concetto di allucinazione, che, a partire dalla definizione iniziale di “percezione senza oggetto” proposta da Esquirol, ha subito una lenta evoluzione.

In questo contesto, Séglas, clinico di grande esperienza e figura di riferimento della Salpêtrière, si esprime riguardo all’allucinazione uditiva nella sua introduzione a questo libro di Henri Ey.

“Questo atteggiamento quasi generale di indifferenza da parte dei medici nei confronti della psicologia dell’allucinazione uditiva, e in particolare delle allucinazioni psichiche, era semplicemente il risultato dell’idea, emersa dal lavoro di Esquirol e divenuta una sorta di aforisma intangibile, che l’allucinazione fosse semplicemente una modalità patologica della percezione “una percezione senza oggetto”. Non sorprende quindi che le allucinazioni vengano classificate in tante varietà quanti sono i sensi e che si distinguano, accanto alle allucinazioni della vista e dell’udito, quelle dell’olfatto, del gusto e del tatto” (p. XXII).

In un passo successivo ne sottolinea il meccanismo dissociativo:

“In sintesi, la caratteristica di questi fenomeni non è che si manifestano come più o meno simili a una percezione esterna, ma che sono fenomeni di automatismo verbale, un pensiero verbale staccato dall’Io, un fatto, si potrebbe dire, di alienazione del linguaggio” (p. XXIV).

Ciò che emerge con chiarezza lungo tutto il testo è l’idea che le allucinazioni non debbano essere considerate semplicemente come il risultato di un danno biologico, ma piuttosto come fenomeni che si inseriscono in un quadro complesso e dinamico del funzionamento globale dell’individuo, e in particolare della sua personalità. Secondo Henri Ey, le allucinazioni sarebbero espressione di un livello di integrazione psicologica ridotto.

Nelle sue conclusioni, l’autore sottolinea che:

“Così, di fronte alle teorie che pongono l’allucinazione come una sensazione più o meno degradata, anormale ma primitiva, che di conseguenza im- maginano i fenomeni allucinatori come sensazioni imposte (dall’interno… e si potrebbe quasi dire dall’esterno!) sulla personalità del soggetto, la nostra concezione (anch’essa tradizionale, come abbiamo spesso sottolineato, da Mo- reau de Tours a Séglas) è che si tratti di un errore condizionato da una caduta di livello psichico con un determinismo organico o affettivo che gli conferisce una sensorialità più o meno chiara. È sempre costituito dall’impasto della personalità del soggetto e della sua stessa attività” (p. 122).

E ancora in passaggio successivo:

“In conclusione, affermiamo ancora una volta che l’allucinazione non è un oggetto, che non è un prodotto primitivo del cervello malato. È legata da una rete fitta e sottile all’intera personalità dell’allucinato, così come la più piccola delle nostre idee, il più piccolo dei nostri atti – anche il più automatico – è legato all’insieme dei nostri atti passati, delle nostre idee, delle nostre credenze, dei nostri desideri. Ogni immagine è un pezzo vivente di noi stessi. Ogni idea ha le sue radici nella sostanza del sé. È altrettanto stravagante credere a idee, immagini e oggetti (le cosiddette allucinazioni) che si producono al di fuori del sé e a cui il sé aderisce, quanto credere alla trasmissione del pensiero” (p. 125).

Questo lavoro preliminare del 1934 rappresenta un momento cruciale nella definizione delle allucinazioni secondo Henri Ey, un concetto che viene poi ampiamente trattato nel suo successivo trattato sulle allucinazioni. In quest’opera, Ey distingue due tipi principali di allucinazioni: le allucinazioni semplici (come le allucinosi), che possono essere ricondotte a disturbi neurologici, e le allucinazioni complesse, che si basano sul linguaggio interiore e sono legate a disfunzioni nell’organizzazione della coscienza (Ey, 1973).

In effetti, Henri Ey, insieme ad altri studiosi come Scröder e Janet, ha tracciato una distinzione tra allucinosi – intesa come una disintegrazione isolata delle percezioni – e le allucinazioni osservate nelle psicosi, che sono considerate espressioni cliniche del disturbo della coscienza e della personalità (Ey et al., 1972).

Il DSM-5 definisce i deliri come “convinzioni fortemente sostenute che non sono passibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti” (APA, 2013; p. 101).

La definizione standard di delirio si rifà a Jasper (1913), il quale gli attribuiva queste caratteristiche:

  1. il fatto di essere un giudizio erroneo;
  2. l’essere sostenuto con straordinaria convinzione e impareggiabile certezza soggettiva;
  3. l’essere refrattario all’esperienza e ogni tipo di confronto con argomentazioni alternative oltre al fatto di non essere influenzato dall’esperienza concreta o dalle confutazioni stringenti;
  4. l’impossibilità del contenuto;

Jasper (1913) differenzia i veri deliri o deliri propri dalle idee simil- deliranti, laddove i primi diventano sinonimi di deliri primari mentre i secondi di deliri secondari.

Le idee simil-deliranti possono essere comprese in riferimento all’ambiente interno ed esterno del paziente, in particolare dal suo stato dell’umore.

I veri deliri non possono essere spiegati, sono irriducibili e sono classificati in: intuizioni deliranti, percezioni deliranti, atmosfera delirante e ricordi deliranti (Jasper, 1913; Oyebode, 2008).

Le teorie più recenti in ambito psichiatrico si sono evolute nel tentativo di fornire una spiegazione delle varie manifestazioni del delirio. I deliri pri- mari, definiti come “irriducibili” e non comprensibili, potrebbero sembrare privi di una spiegazione logica, poiché il clinico o l’osservatore potrebbe non possedere informazioni sufficienti sul contesto esistenziale e biografico da cui questi deliri emergono. Questo può accadere anche quando si è esplorata in profondità la possibilità di una loro interpretazione come fenomeni secondari. Secondo alcuni autori, diversi tipi di delirio potrebbero derivare da ricordi traumatici decontestualizzati o da esperienze precoci di attaccamento emotivo, per le quali non è possibile formare una memoria autobiografica congruente (Moskowitz & Montirosso, 2019).

Come viene concettualizzato il delirio in questo lavoro di Henri Ey?

Per l’autore, i disturbi allucinatori del linguaggio interiore (automatismo verbale) assumono la loro forma patologica diventando fenomeni for- zati o estranei attraverso il significato che viene conferito loro dal delirio.

Utilizzando le parole dello psichiatra francese, il delirio è “nella sua accezione più generale, quell’insieme di disturbi della coscienza, sentimenti patologici, credenze morbose, che fanno sempre da contorno a fenomeni isolati solo dall’astrattezza come le allucinazioni o le pseudo-allucinazioni verbali”.

Il delirio risulta quindi strettamente connesso all’allucinazione, come emerge chiaramente nella seconda sezione del testo, dove Ey fa riferimento a numerosi autori che condividono questa visione (vedi per esempio Falret e Chaslin). Tuttavia, il principale riferimento è a Séglas, che viene citato più volte e la cui riflessione fondamentale viene proposta come epigrafe all’inizio di questo lavoro: “L’allucinazione non deve essere considerata solo come un delirio delle sensazioni. Essa possiede tutte le caratteristiche di un vero e proprio delirio, nel senso più ampio del termine”.

La concezione del delirio di Ey si inserisce nella teoria organo-dinamica e si fonda su due aspetti principali, strettamente interconnessi: a) la dimensione negativa dell’esperienza delirante, che è caratterizzata da uno stato primordiale del delirio, conseguente alla destrutturazione della coscienza; b) la costruzione delirante positiva, che consiste nella costruzione di una finzione immaginaria a partire dalle esperienze deliranti, dando forma a una narrativa delirante coesa (Ey et al., 1972)

Tutto il lavoro di Ey si fonda sulla teoria di Jackson, in base alla quale la mente funziona secondo un principio gerarchico. In questo modello, la mente è in grado di integrare progressivamente in modo più complesso le informazioni provenienti dalle aree cerebrali inferiori. Le funzioni delle strutture cerebrali più primitive vengono riorganizzate e rappresentate all’interno delle reti neurali più avanzate (le neostrutture), le quali permettono forme più sofisticate e adattabili di elaborazione dell’informazione.

Come l’autore afferma in un passaggio in cui discute il concetto di automatismo:

“A un livello inferiore, la mente fluttuante è capace solo di attività associativa e spontanea. A un livello superiore, ma ancora inferiore all’attività riflessiva e volontaria, si organizza secondo un tipo di pensiero affettivo, primo abbozzo della sua finalità. È l’ipotesi di tale gerarchia che ci guiderà in tutto questo lavoro” (p. XLVI).

E ancora più avanti nel testo quando mette in evidenza come il costituirsi delle idee deliranti vada ricondotto all’attività mentale dei livelli inferiori:

“[…] ma esiste proprio nel dispiegamento delle funzioni psichiche un dominio molto considerevole in cui il pensiero indebolito è costretto a rimanere a questi livelli inferiori ed è, crediamo, in questi stati crepuscolari ipnoidi che dob- biamo vedere l’elaborazione di un certo numero di idee deliranti.” (p. LVII).

Il libro in esame affronta il tema delle allucinazioni e dei deliri, esplorandone la connessione.

Nell’introduzione, l’autore si concentra sulla definizione di “automatismo” in psicopatologia, esaminando la complessità e le ambiguità del termine, e considerando le diverse interpretazioni presenti in ambito psichiatrico. Successivamente, il concetto viene rielaborato attraverso una prospettiva organo dinamica, in accordo con le teorie di Jackson, Janet e Bleuler.

L’ipotesi che orienta le argomentazioni dei capitoli successivi è che i fenomeni allucinatori non debbano essere considerati manifestazioni automatiche e prive di significato, ma piuttosto “dei fenomeni in sé stessi intatti e che assumono una forma patologica (credenze deliranti e allucinatorie) una volta che si verifica una dissoluzione delle funzioni superiori che le regolano” e che questa dissoluzione cerebrale possa “essere realizzata da incidenti cerebrali o in certi casi essere provocata da avvenimenti dell’”ambiente” recenti (traumi affettivi) o antichi (organizzazione della personalità psichica, non cosciente)”.

La prima sezione del libro è incentrata sull’analisi delle allucinazioni psicomotorie verbali.

In questa parte, Henri Ey propone un excursus storico, esaminando l’evoluzione delle teorie a partire dai primi lavori di Séglas del 1888, per poi sviluppare una discussione in cui illustra, attraverso numerosi esempi clinici, come il linguaggio debba essere concepito come una funzione motoria complessa, strettamente interconnessa con i processi cognitivi del pensiero.

Ey esplora il rapporto tra immagine, linguaggio e movimento, evidenziando come la percezione, insieme all’immagine e al pensiero che ne derivano, siano intimamente connessi agli atti motori. In questa visione, la percezione non è solo un processo passivo di registrazione sensoriale, ma un atto dinamico che implica l’integrazione e la rappresentazione di stimoli all’interno di un contesto motorio, dove il linguaggio, come funzione complessa, emerge e si sviluppa in stretta relazione con il movimento. I fenomeni psichici possono quindi essere spiegati tramite il movimento, considerato “il vero motore dell’atto percettivo, del pensiero e dell’immagine seguendo i loro diversi livelli” (p. 27).

L’autore esamina le allucinazioni psicomotorie, distinguendo tra feno- meni di costrizione (forzati) e fenomeni di estraneità, e successivamente discute come tali manifestazioni possano essere comprese solo in relazione a uno stato mentale più ampio che le ingloba. In particolare, il sentimento di “influenzamento” si associa ai fenomeni forzati, mentre il sentimento di “automatismo” si lega ai fenomeni di estraneità.

Negli ultimi capitoli di questa prima parte, l’autore propone una valutazione critica della teoria di Morgue, argomentando la corrispondenza tra il sentimento di automatismo e il sentimento di influenzamento. Ey sottolinea come entrambi i fenomeni “non dipendano da scoppi, irruzioni, atti isolati e meccanicamente innescati” (p. 48) ma piuttosto siano il frutto di processi psichici più complessi. Inoltre, illustra come la dissoluzione delle funzioni psichiche che sta alla base di questi fenomeni possa essere indotta tanto da fattori organici, come alterazioni neurologiche, quanto da fattori affettivi, suggerendo una visione più integrata e meno riduzionista dei disturbi psichici.

La seconda parte del lavoro si focalizza sull’analisi del rapporto tra allucinazione e delirio. In particolare, il primo capitolo esplora come i fenomeni forzati e quelli estranei siano strettamente legati al pensiero e alle credenze deliranti. Il secondo capitolo, invece, è dedicato all’esame dei fenomeni psicomotori e all’evoluzione dei deliri, mentre il terzo capitolo offre una descrizione delle diverse tipologie di delirio, evidenziando le varie manifestazioni cliniche e le loro caratteristiche distintive.

In ambito psichiatrico, il fenomeno delle allucinazioni uditive viene generalmente interpretato come il risultato di un “danno” biologico, un’alterazione nei meccanismi cerebrali, e per questo motivo viene considerato trattabile esclusivamente tramite interventi farmacologici. In questo paradigma, il trattamento con antipsicotici è visto come la modalità terapeutica principale, accompagnato da interventi psicoeducativi, che si concentrano sull’informare il paziente riguardo alla natura del disturbo cerebrale e alla necessità di seguire una terapia farmacologica.

Al contrario, una prospettiva alternativa, concepisce le voci come fenomeni dissociativi, ossia come manifestazioni di aspetti del sé che sono stati dissociati o separati. In questa visione, le allucinazioni uditive vengono interpretate come strategie di adattamento e di sopravvivenza messe in atto dal cervello di fronte a difficoltà psichiche. In questo approccio, l’intervento primario consiste in una psicoterapia, con il trattamento farmacologico che gioca un ruolo di supporto (Ross, 2020; Mosquera & Ross, 2016).

In linea con questo modo di concepire le voci, studi recenti hanno messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti che considerano le voci come aspetti del sé dissociati da re-integrare all’interno di un processo terapeutico (Corstens et al., 2019; Longden et al., 2022).

Molte teorie, purtroppo, non hanno ricevuto il riconoscimento scientifico che avrebbero meritato, venendo inizialmente ignorate per poi essere rivalutate in seguito. Sebbene le teorie di Henri Ey abbiano avuto un certo impatto nel contesto psichiatrico, è probabile che nel corso dei decenni successivi non abbiano ricevuto l’attenzione adeguata che il loro valore teorico e clinico avrebbe suggerito.

Si spera che il presente volume, che rappresenta il primo contributo dell’autore sull’interrelazione tra fenomeni allucinatori e psicosi, ripreso successivamente in un’opera più ampiamente sviluppata (Ey, 1973), possa suscitare nel lettore una rinnovata curiosità e stimolare nuove riflessioni, indirizzando la ricerca verso una concezione gerarchica del funziona- mento mentale, in opposizione a una visione dominante nella psichiatria contemporanea che, se non definita “meccanicistica”, risulta comunque di natura riduzionista.

Qui per acquistare il volume.

Article by admin / Generale, Formazione, Recensioni / PTSD

19 December 2024

CARICO ALLOSTATICO: UN’INTRODUZIONE

PREMESSA: questo articolo è stato scritto -come esperimento- da ChatGPT4o, “alimentata” da articoli scientifici incentrati sul concetto di carico allostatico. Il concetto di carico allostatico è affine a quello di “disturbo dell’adattamento“, che riguarda persone colpite da stress protratto (come vi rispondono, come la loro mente e il loro corpo reagiscono ad esso).
In pazienti con PTSD o PTSDc, osserviamo uno stato di iperattivazione nervosa protratto, un’accensione del sistema di allarme che ricade sul corpo, che genera conseguenze anche in senso medico. I due riferimenti teorici, come si legge sotto, sono su questo Bruce S. McEwen e Robert Sapolsky, che ha scritto il famoso “Perchè alle zebre non viene l’ulcera“, un trattato divulgativo ottimo per capire come il “carico allostatico” -appunto- impatti sui vari distretti corporei. Un ottimo lavoro divulgativo, su questo, lo sta facendo la SIPNEI.
Per un professionista che si occupi di individui colpiti da eventi stressanti o in balìa di emozioni di allarme (come nei disturbi di panico, o appunto nelle sindromi post-traumatiche) capire come il “carico” emotivo impatti sul corpo e sulla mente -insieme- rappresenta un imprescindibile punto di partenza nel lavoro di indagine diagnostica e durante l’impostazione del piano di cura. Abbiamo qui spesso sottolineato come la sola parola non basti, e occorra mettere il corpo nell'”equazione clinica”, spingendo il paziente a occuparsi anche delle ricadute somatiche della sua emotività (per esempio tentando di dissipare l’allarme anche in forma fisica, attraverso l’attività fisica). (R. Avico)

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Introduzione

Il concetto di equilibrio biologico ha subito un’evoluzione significativa nel corso del tempo. L’omeostasi, definita da Walter Cannon come il ritorno dell’organismo a condizioni di stabilità originarie, è stata ampliata e reinterpretata attraverso il concetto di allostasi e carico allostatico. Questo approccio, sviluppato da Hans Selye e formalizzato da Bruce McEwen, rappresenta un salto paradigmatico nella comprensione della risposta adattativa agli stressor e delle sue conseguenze sulla salute umana. L’allostasi descrive il processo attraverso cui l’organismo raggiunge un nuovo equilibrio funzionale, mentre il carico allostatico rappresenta il costo biologico accumulato nel tentativo di adattarsi a stimoli prolungati o ripetuti. Questi concetti sottolineano il ruolo del cervello come centro di regolazione della risposta allo stress e il suo dialogo costante con il resto del corpo.

Il carico allostatico: definizione e implicazioni

Il carico allostatico rappresenta il costo cumulativo sostenuto dall’organismo nel tentativo di adattarsi agli stimoli stressanti attraverso meccanismi di allostasi. Esso si verifica quando le risposte fisiologiche allo stress sono attivate ripetutamente o mantenute per periodi prolungati, superando la capacità di recupero dell’organismo. Il carico allostatico include sia la produzione eccessiva di mediatori dello stress, come cortisolo e citochine infiammatorie, sia la loro deregolazione, con effetti dannosi a livello cerebrale, immunitario, cardiovascolare e metabolico. Questa condizione, se protratta, diventa un fattore predisponente per l’insorgenza di patologie croniche, alterazioni cognitive e disturbi dell’umore.

L’allostasi e il cervello: adattamento e sovraccarico

Il cervello svolge un ruolo centrale nella percezione e nella regolazione della risposta allo stress. Esso valuta l’ambiente, determina la natura degli eventi stressanti e coordina le risposte comportamentali e fisiologiche necessarie all’adattamento. Questo processo, definito allostasi, coinvolge mediatori chiave come il cortisolo, le catecolamine, le citochine infiammatorie e gli ormoni metabolici. Quando queste risposte sono equilibrate e temporanee, facilitano un adattamento funzionale; tuttavia, quando diventano croniche, eccessive o deregolate, si genera un carico allostatico, che si manifesta con alterazioni a livello cerebrale e sistemico.

La plasticità allostatica rappresenta la capacità del cervello di adattarsi strutturalmente e funzionalmente in risposta allo stress. Questa plasticità si osserva in regioni chiave come l’ippocampo, la corteccia prefrontale e l’amigdala, ciascuna delle quali risponde in modo differente agli stimoli stressanti. L’ippocampo, cruciale per la memoria episodica e la regolazione dell’umore, subisce atrofia dendritica sotto stress cronico, con effetti negativi sulle funzioni cognitive. Al contrario, l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione della paura e dell’ansia, mostra espansione dendritica, che si traduce in un aumento della vigilanza e della risposta emotiva. La corteccia prefrontale, fondamentale per le funzioni esecutive e il controllo comportamentale, subisce una riduzione della connettività funzionale, portando a rigidità cognitiva e difficoltà decisionali.

Meccanismi epigenetici e carico allostatico

Lo stress regola l’espressione genica attraverso meccanismi epigenetici, tra cui la metilazione del DNA, le modifiche istoniche e l’azione di RNA non codificanti. Questi processi influenzano continuamente l’attività dei geni, lasciando segni permanenti che persistono anche dopo la fine dell’evento stressante. Le esperienze avverse durante lo sviluppo, comprese quelle prenatali e infantili, esercitano effetti duraturi sull’architettura genetica e cerebrale, aumentando la suscettibilità a disturbi psichiatrici e fisici. Il concetto di plasticità epigenetica implica che, sebbene il cervello possa mostrare resilienza e recupero, esso non ritorna mai completamente allo stato precedente allo stress.

L’accumulo di carico allostatico altera anche la fisiologia sistemica. Il ritmo circadiano, ad esempio, risente fortemente delle alterazioni stress-correlate, con effetti negativi sulla regolazione del sonno, del glucosio e dell’infiammazione sistemica. La privazione del sonno e le disfunzioni circadiane aggravano il carico allostatico, determinando un aumento della resistenza insulinica e del rischio di patologie metaboliche. Di conseguenza, condizioni come il diabete e l’obesità sono strettamente correlate alla depressione e all’aumentato rischio di demenza.

Effetti sistemici e implicazioni per la salute

Il carico allostatico si manifesta con effetti negativi diffusi che coinvolgono più sistemi fisiologici. A livello neuroendocrino, la deregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene porta a una produzione persistente di cortisolo, con conseguenze dannose sulla salute metabolica, immunitaria e cardiovascolare. A livello immunitario, l’infiammazione cronica rappresenta un elemento cardine del carico allostatico, favorendo lo sviluppo di malattie autoimmuni, cardiovascolari e neurodegenerative. Questi effetti si estendono alla sfera psichiatrica, con un aumento della vulnerabilità alla depressione, all’ansia e ai disturbi cognitivi.

L’esposizione precoce allo stress, sia durante lo sviluppo intrauterino che nei primi anni di vita, contribuisce in modo determinante al carico allostatico. Eventi avversi in questa fase delicata lasciano segni epigenetici che influenzano negativamente la salute mentale e fisica nell’età adulta. Analogamente, fattori socioeconomici, come la povertà e lo svantaggio sociale, interagiscono con predisposizioni genetiche ed epigenetiche, aumentando il rischio di multimorbilità tra disturbi psichiatrici e fisici.

Effetti dello stress protratto e il contributo di Robert Sapolsky

Il lavoro di Robert Sapolsky ha ampliato la comprensione degli effetti dello stress protratto sul cervello e sull’organismo. Secondo Sapolsky, lo stress cronico comporta una stimolazione prolungata dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con rilascio costante di cortisolo. Questa esposizione persistente danneggia in modo particolare l’ippocampo, una struttura essenziale per la memoria e la regolazione emotiva. Le cellule neuronali dell’ippocampo risultano vulnerabili all’effetto neurotossico del cortisolo, andando incontro a una riduzione delle connessioni dendritiche e a una maggiore suscettibilità alla morte cellulare. Parallelamente, l’amigdala mostra un’attivazione eccessiva che amplifica stati di ansia e iper-vigilanza, mentre la corteccia prefrontale, deputata alla regolazione delle emozioni e al controllo delle risposte impulsive, subisce un declino funzionale.

Sapolsky sottolinea inoltre come lo stress protratto agisca a livello sistemico, favorendo l’infiammazione cronica e interferendo con il metabolismo glucidico. Questa condizione, se prolungata, diventa un terreno fertile per lo sviluppo di patologie come la sindrome metabolica, il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. I suoi studi evidenziano anche l’importanza del contesto sociale nella modulazione della risposta allo stress, mostrando come fattori come la gerarchia sociale e le relazioni interpersonali possano influenzare la vulnerabilità individuale agli effetti negativi dello stress.

Prevenzione e interventi terapeutici

La comprensione del carico allostatico e dei suoi meccanismi sottolinea l’importanza di approcci preventivi e terapeutici mirati. La prevenzione del sovraccarico biologico è fondamentale e richiede interventi che promuovano comportamenti salutari e resilienza psicologica. La plasticità cerebrale offre opportunità per trattamenti che integrano interventi farmacologici e comportamentali. Tecniche come la mindfulness, la meditazione e la terapia cognitivo-comportamentale si sono dimostrate efficaci nel ridurre lo stress e migliorare la salute mentale. L’attività fisica regolare, un sonno adeguato e la promozione di interazioni sociali significative sono strumenti essenziali per mitigare il carico allostatico e favorire il recupero.

Conclusione

L’allostasi e il carico allostatico rappresentano concetti chiave per comprendere come l’organismo risponde allo stress nel corso della vita. Il cervello, in qualità di organo centrale della risposta allo stress, modula e subisce gli effetti delle esperienze stressanti attraverso meccanismi neuroplastici ed epigenetici. Quando la risposta adattativa diventa disfunzionale, si verifica un accumulo di carico allostatico che compromette la salute sistemica e psichica. Affrontare il carico allostatico richiede un approccio olistico che integri prevenzione, interventi terapeutici e promozione del benessere, con l’obiettivo di preservare l’equilibrio dinamico dell’organismo e migliorare la qualità della vita.

Indicazioni biografiche su Bruce McEwen

Bruce S. McEwen (1938-2020) è stato un pioniere nel campo della neuroendocrinologia e della ricerca sullo stress. Professore presso la Rockefeller University di New York, McEwen è noto per aver introdotto i concetti di allostasi e carico allostatico, rivoluzionando la comprensione delle risposte allo stress e delle loro implicazioni per la salute mentale e fisica. I suoi studi hanno esplorato l’interazione tra il cervello e i sistemi ormonali, mostrando come lo stress cronico influenzi la plasticità cerebrale, l’epigenetica e le patologie sistemiche. La sua vasta produzione scientifica include oltre 1.000 pubblicazioni e numerosi premi prestigiosi per il suo contributo alla medicina e alla biologia.

Bibliografia

  • McEwen, B. S. (2007). Physiology and neurobiology of stress and adaptation: Central role of the brain. Physiological Reviews, 87(3), 873-904.
  • McEwen, B. S., & Nasca, C. (2016). Stress effects on neuronal structure: Hippocampus, amygdala, and prefrontal cortex. Neuropsychopharmacology, 41(1), 3-23.
  • McEwen, B. S., & Morrison, J. H. (2013). The brain on stress: Vulnerability and plasticity of the prefrontal cortex over the life course. Neuron, 79(1), 16-29.
  • McEwen, B. S. (1998). Protective and damaging effects of stress mediators. New England Journal of Medicine, 338(3), 171-179.
  • Koob, G. F., & Le Moal, M. (2001). Drug addiction, dysregulation of reward, and allostasis. Neuropsychopharmacology, 24(2), 97-129.
  • Sapolsky, R. M. (2004). Why zebras don’t get ulcers: The acclaimed guide to stress, stress-related diseases, and coping. Holt Paperbacks.

NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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17 October 2024

TRAUMA E PSICOSI: ALCUNI VIDEO DALLE “GIORNATE PSICHIATRICHE CERIGNALESI 2024”

di Raffaele Avico

Da poco è stato pubblicato sul canale youtube di Psychiatry On Line una playlist di video che raccoglie alcuni interventi specialistici sul tema “trauma e psicosi”.

L’occasione è stata quella delle “giornate psichiatriche cerignalesi“, evento che ogni anno raccoglie specializzandi e psichiatri sulla sua montagna dell’appennino ligure-piacentino, organizzato dalla Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica.

Figurano in questa playlist diversi nomi interessanti, che hanno ragionato sul rapporto tra eventi traumatici singoli o ripetuti, e lo sviluppo di successive forme di psicosi. Carlo Ignazio Cattaneo, per esempio, porta il tema del “vuoto nosografico” relativo alle forme di psicosi post-traumatiche. Paolo Calini (membro AISTED) approfondisce gli incastri tra dissociazione e psicosi, ragionando sull’importanza di integrare la teoria di Janet (padre -ricordiamolo- dell’attuale psicotraumatologia) all’attuale concettualizzazione della psicosi.

Sulle implicazioni delle conseguenze del trauma sullo sviluppo di disturbi psicotici, si vedano anche questo lavoro e questo approfondimento, sempre a proposito del sintomo “voci”.

Un’apertura così forte al tema “psicosi post-traumatica” da parte di personaggi di spicco (e giovani) in seno alla “nuova” psichiatria, porta a riflettere su quanto erroneo possa essere declassare la teoria del trauma a semplice moda passeggera.

La playlist è qui raggiungibile.

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17 September 2024

Disturbi da sintomi somatici e di conversione: un approfondimento

di Roberta Spiga, Costanzo Frau, Studio Psicoterapia e Ricerca Trauma & Dissociazione Associazione DBR Italia (e-mail: deepbrainreorienting@gmail.com)

I disturbi da somatizzazione e conversione fanno parte di una categoria diagnostica del DSM- 5, definita disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati (APA, 2013). Questo cluster di disturbi non è sempre stato categorizzato allo stesso modo nel corso dei decenni ma ha subito diverse modifiche nelle diverse edizioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).

La prima classificazione dei disturbi da somatizzazione è da attribuire al DSM III (1980) che le descriveva come delle lamentele somatiche, esagerate, multiple e ricorrenti, della durata di parecchi anni, apparentemente non legate a nessun disturbo fisico di origine medica. Le manifestazioni cliniche si riferivano a sintomi di conversione come paralisi o cecità, fastidi gastrointestinali, difficoltà genitali nella femmina, problemi psico-sessuali, dolori muscolari come mal di schiena e sintomi cardio-polmonari. I disturbi da conversione, invece, venivano descritti come un’alterazione o perdita di funzionamento fisico, collegati all’espressione di un conflitto o di un bisogno psicologico.

I sintomi di conversione riguardavano paralisi, afonia, convulsioni, alterazioni della coordinazione, acinesia, discinesia, cecità, visione a tunnel, anosmia, anestesia e parestesia. Inoltre, il DSM III specificava come i sintomi del disturbo non dovessero essere prodotti intenzionalmente ed essere spiegati con un altro disturbo fisico o meccanismo fisiopatologico conosciuto.

Sia il disturbo di somatizzazione che quello di conversione facevano parte dei Disturbi Somatoformi assieme al disturbo da dismorfismo corporeo, all’ipocondria e al disturbo da dolore somatoforme (APA, 1980).
Nella quarta edizione del DSM, il DSM-IV, le diagnosi precedentemente descritte nel manuale sotto il disturbo somatoforme furono riorganizzate sotto l’ombrello dei cosiddetti disturbi somatici che includevano:

  • Disturbo di Somatizzazione: indicato come disturbo caratterizzato da molteplici sintomi, con esordio prima dei 30 anni, riguardanti dolore e sintomi gastro- intestinali, sessuali e pseudo-neurologici;
  • Disturbo Somatoforme Indifferenziato: caratterizzato da lamentele fisiche non giustificate ma che non raggiunge la soglia per la diagnosi di Disturbo di Somatizzazione;
  • Disturbo di Conversione: sintomi di deficit riguardanti le funzioni motorie volontarie e sensitive non giustificati a livello medico
  • Disturbo Algico: caratterizzato dal dolore come punto focale principale della alterazione clinica.
  • Ipocondria: preoccupazione legata al timore o alla convinzione di avere una grave malattia
  • Disturbo di Dismorfismo Corporeo: preoccupazione riguardante un difetto presunto o sopravvalutato del proprio aspetto fisico;
  • Disturbo Somatoforme Non Altrimenti Specificato: è stato incluso per registrare i disturbi con sintomi somatoformi che non soddisfano i criteri per nessuno dei Disturbi Somatoformi

Nel DSM 5 (APA, 2013) questa categoria diagnostica viene descritta sulla base dei sintomi e segni positivi, ovvero sintomi somatici accompagnati da pensieri, sentimenti e comportamenti anomali che vengono adottati in risposta a questa sintomatologia.

I principi che sono alla base dei cambiamenti apportati nelle diagnosi del disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati sono fondamentali per comprendere le diagnosi del DSM-5. In questa versione cambia la categorizzazione dei disturbi rispetto al DSM -IV:

  • Disturbo da sintomi somatici
  • Disturbo da ansia di malattia
  • Disturbo da conversione (Disturbo da sintomi neurologici funzionali)
  • Disturbo fittizio
  • Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati con altra specificazione
  • Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati senza specificazione

I criteri delle versioni precedenti attribuivano un’eccessiva importanza alla centralità dei sintomi che non avevano una spiegazione medica. La nuova classificazione definisce, invece, la diagnosi principale, disturbo da sintomi somatici, sulla base di sintomi oggettivi. Rimane la categoria del Disturbo da conversione, che include i sintomi che non hanno una spiegazione medica: in questa diagnosi i sintomi neurologici risultano incompatibili con la fisiopatologia neurologica.

Sebbene sia classificato con i disturbi da sintomi somatici/somatoformi nel DSM-III fino al DSM-5-TR, il disturbo di conversione è classificato come disturbo dissociativo nell’ICD-10, mantenendo la sua lunga associazione con l’isteria (Kanaan et al., 2010; Brown et al., 2007).

I sintomi da conversione includono le pseudoparalisi, pseudocrisi epilettiche, deficit della vista e di altre funzioni sensoriali, disturbi dell’equilibrio e un insieme di disturbi neurologici, transitori e reversibili, dove non è dimostrata una lesione nervosa (Farina e Liotti, 2011).

Le somatizzazioni più comuni, invece, sono caratterizzate da disturbi a carico del sistema gastrointestinale, muscolo-scheletrico e genito-urinario come ad esempio vaginismo, dispareunia, eiaculazione dolorosa, minzione dolorosa (Farina e Liotti, 2011).

Nel loro meccanismo di base, sia i sintomi somatoformi che quelli di conversione possono essere ricondotti ad un processo dissociativo. In effetti fu Freud a distinguere l’isteria di conversione dall’isteria dissociativa per dire che quest’ultima era rarissima o inesistente.

Il DSM successivamente separò i disturbi di conversione dai disturbi dissociativi, inserendo il disturbo di conversione tra i disturbi somatoformi. Utilizzando una categoria arbitraria che li abbraccia entrambi, potremmo dire che i pazienti che presentano sintomi di dissociazione somatoforme sono molti e probabilmente affollano gli studi dei medici di medicina generale richiedendo un consulto medico per uno stato di malessere fisiologico generalmente non riconosciuto dai propri familiari. Questi sintomi non possono essere sicuramente letti tramite un modello medico riduzionista ma possono trovare una spiegazione all’interno di un paradigma più complesso, paradigma che abbraccia l’interazione tra i tre assi psico-neuro-endocrino-immunologico e che considera centrale la relazione mente-corpo (per un approfondimento vedi Anjum et al. 2020; Gonzales-Diaz, 2017; Bottaccioli, 2015).

Per esempio, un tipico sintomo descritto dal paziente come uno sbandamento continuo o la sensazione di perdere l’equilibrio, è l’atasia-abasia. Si tratta di un deficit di origine nervosa che consiste nell’impossibilità o difficoltà a camminare e che causa una riduzione della coordinazione dei movimenti, nella maggioranza dei casi non giustificato da una patologia (come, per esempio, l’ictus). In realtà questo sintomo è molto comune nei quadri dissociativi e veniva descritto in maniera molto dettagliata nei casi di isteria nella letteratura di fine 1800 (Janet, 1889; 1909).

La conversione e tanti altri sintomi somatoformi sono stati chiamati dissociazione somatoforme sulla base di solide prove empiriche. Diversi studi hanno messo in evidenza come questi sintomi fossero fortemente correlati alla dissociazione psicoforme (Nijenhuis, 2000; Nijenhuis et al., 1999) e come i pazienti con sintomatologia somatoforme e anche quelli con diagnosi di disturbo dissociativo presentassero in anamnesi esperienze traumatiche (Saxe et al., 1994; Nijenhuis et al., 2004; Tezcan et al., 2003).

Questi dati spiegherebbero il motivo per cui i termini dissociazione e somatoforme sono tenuti assieme nell’ICD-10 e nella sua versione aggiornata, l’ICD-11.

La manifestazione somatica della dissociazione è probabilmente causata da una perdita di integrazione verticale della componente somatoforme dell’esperienza e rappresentata da varie forme di sintomi pseudo-neurologici che possono includere funzioni quali: l’inibizione motoria o la perdita del controllo motorio, sintomi gastrointestinali, convulsioni, sintomi dolorosi, alterazione nella percezione del dolore (analgesia, anestesia cinestesica) come può succedere nei pazienti che non riescono a riferire lo stato di dolore o mantenere il contatto con lo stato affettivo in conseguenza di un’esperienza traumatica (Bob et al., 2013).

A tal proposito è interessante notare come la regolazione emozionale sfrutti gli stessi circuiti fisiologici che riguardano il dolore fisico. Il dolore viene trasmesso dalla sua origine periferica ad una prima tappa localizzata nella cellula gangliare, in maggioranza tramite le fibre C non mielinizzate e per questo lente, e in misura minore tramite le fibre A-delta caratterizzate da un basso livello di mielinizzazione e definite “semilente”. Successivamente il messaggio raggiunge il neurone a livello del ganglio spinale, dove si può verificare un’esaltazione della percezione del dolore tramite la sostanza P o una sedazione per mezzo delle encefaline, per poi raggiungere le corna posteriori del midollo spinale e infine i centri encefalici (talamo, amigdala, giro cingolato, corteccia sensoriale) (Panizon & Barbi, 2010).

Parallelamente si assiste ad una attivazione del sistema anti-nocicettivo che sfrutta come mediatori gli oppiodi endogeni, le endorfine e le encefaline e che forma un circuito dal nucleo accumbens al grigio periaqueduttale (PAG) lungo il midollo per giungere all’interneurone delle radici posteriori e al ganglio spinale (Panizon & Barbi, 2010). Questi circuiti top-down hanno una funzione fondamentale nella regolazione del dolore, assumono un ruolo più complesso durante lo sviluppo ontogenetico e sono implicati nelle manifestazioni sintomatologiche che caratterizzano i pazienti con storie traumatiche cumulative, in cui è evidente la dissociazione somatoforme.

La dissociazione somatoforme si basa sui meccanismi più bassi localizzati nel cervello più profondo, dove il lavoro di miglioramento delle capacità autoriflessive del paziente e la consapevolezza dei suoi stati mentali non riesce ad arrivare.

I pazienti con disturbi da sintomi somatici e nello specifico con disturbi da conversione necessitano per questo di trattamenti integrati che, oltre al lavoro classico portato avanti dalle diverse forme di psicoterapia basate sull’evidenza, preveda un lavoro specifico sul corpo, unico canale di accesso che può permettere una re-integrazione delle memorie somato-sensoriali dissociate.

Per bibliografia, qui.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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20 August 2024

TRAUMA E DISSOCIAZIONE: IL CONGRESSO ESTD DI OTTOBRE 2024, A KATOWICE (POLONIA)

di Raffaele Avico

Dal 10 al 12 ottobre 2024, a Katowice, in Polonia, si terrà un importante evento organizzato dalla ESTD, la European Society For Trauma and Dissociation.

Su questo blog abbiamo spesso parlato di trauma e dissociazione, riferiendoci anche all’AISTED, l’Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, affiliata all’ESTD stessa; la European Society For Trauma and Dissociation è un macro-contenitore che negli ultimi anni ha visto un alternarsi di differenti presidenti da molti stati europei, al fine di costruire un dispositivo divulgativo il più possibile “democratico” e rappresentativo del movimento psicotraumatologico.

Il movimento per lo studio del trauma ha negli ultimi anni ha preso forza radicandosi in Europa, aiutando psichiatri e psicoterapeuti a superare la visione “intrapsichica” della sofferenza mentale, verso una giusta collocazione dei pazienti dentro il loro ambiente. Si tratta di riabilitare l’ambiente nel processo di indagine eziopatogenetica, di andare a cercare adattamenti problematici a contesti difficili, attaccamenti insicuri o disorganizzati, abusi fisici o psicologici -unici e violenti o “piccoli” ma ripetuti-, sindromi post-traumatiche e relative ricadute sul corpo, al fine di meglio inquadrare (e trattare) i disturbi stessi, nel modo più integrato possibile.

Il convegno avrà luogo a Katowice e sarà facilmente raggiungibili da Cracovia, durerà dal giovedì al sabato (dal 10 al 12 ottobre), e sarà anticipato da una giornata (il mercoledì) dedicata, per chi vorrà, a visitare i luoghi di interesse della zona, compreso il vicino campo di concentramento di Auschwitz/Birkenau, o quartieri di interesse storico in Katowice, come il Nikiszowiec. Dal giovedì al sabato, poi, si alterneranno nelle diverse sale del convegno, molteplici riferimenti europei (ed extraeuropei) in ambito psicotraumatologico, portando testimonianze e informazioni aggiornate sulla diagnosi e il trattamento delle più comuni forme di trauma e dissociazione.

Tra gli altri saranno presenti:

  • Eli Somer, lo scopritore del maladaptive daydreaming, una forma peculiare di disturbo dissociativo di cui qui avevamo scritto
  • Anabel Gonzalez, che negli ultimi anni ha rappresentato un riferimento per gli studiosi del trauma di tutta europa, oltre a esercitare ruoli di responsabilità per la ESTD
  • Sandra Baita, per  il trattamento delle sindromi post-traumatiche in età infantile
  • Suzette Boon, per le sindromi dissociative e la scala TADS-I, che presenteranno insieme ai nostrani Matteo Cavalletti e Maria Paola Boldrini (prossima presidente ESTD).

L’occasione si rivelerà importante per chi voglia approcciarsi al tema trauma in modo rigoroso e soprattutto integrato, potendo toccare con mano la complessità delle ricerche negli ultimi anni sviluppate, e “vedere” il mosaico di approcci al problema che i relatori potranno presentare durante le sessioni del convegno.

Non mancheranno, come prima accennato, riferimenti ai progressi della psichiatria psichedelica anche in relazione al trattamento del trauma: come sappiamo sono in corso studi sull’utilizzo di farmaci psichedelici per forme acute di PTSD resistente; in alcune aree del mondo come la Svizzera, già vengono impiegate sostanze psichedeliche a questo scopo.

Qui il programma in italiano.

Possono accedere anche non-membri dell’ESTD. Il costo pieno (per soci ESTD) è di 550€ dal vivo, e 350€ online: ci si può iscrivere qui.

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30 July 2024

LA (NEONATA) SIMEPSI E UN INTERVENTO DI FABIO VILLA SULLA TERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A LOSANNA

di Raffaele Avico

La neonata SIMEPSI ha da poco pubblicato un video sul suo canale youtube in cui il direttivo presenta la Società Scientifica, e invita uno psichiatra italiano e formatosi in Svizzera e ora di ruolo a Losanna, Fabio Villa, a raccontare la sua esperienza in ambito di terapia assistita da psichedelici. Interviene anche, nella fase finale del webinar, Henrik Jungaberle della Mind Foundation di Berlino, a proposito della formazione in PAP (psicoterapia assistita da psichedelici) erogata da Mind.

Presenti anche Gjergj Cerri (che aveva già scritto questo su questo blog) e Matteo Buonarroti, vicepresidente di SIMEPSI che qui avevamo intervistato.

L’intervento di Fabio Villa si configura come il più formativo e ricco di spunti.

Interessanti le osservazioni che Villa porta a proposito del “livello” di intervento del farmaco psichedelico, che sembra riuscire a intervenire sugli aspetti pre-simbolici e pre-linguistici di alcuni disturbi.

Chi lavora con pazienti affetti da disturbi gravi di ansia o da PTSD, si rende perfettamente conto di come i sintomi del disagio psichico persistono nonostante il paziente abbia razionalmente compreso le cause e ogni aspetto del disturbo stesso. Nonostante il lavoro sulla metacognizione sia eseguito alla perfezione, non sembra sufficiente per scardinare le risposte “automatiche” e “autonomiche” che alcuni disturbi portano con sé. Il farmaco psichedelico sembra intervenire su un livello più emotivo o come direbbero gli strategici percettivo/reattivo, inerente le risposte del corpo, senza passare dal linguaggio o dal semplice “pensiero a proposito del disturbo stesso”. La differenza che esiste insomma tra il “parlare” di un disturbo dell’attaccamento  -per esempio-, e vivere un’esperienza correttiva con qualcuno che ci possa far sperimentare dal vivo un modo “diverso”, e farcelo interiorizzare.

Ci troviamo all’interno di un luogo, di un ambito di “intervento” della psicoterapia non necessariamente misurato dal linguaggio, che ricorda la “psicoterapia con l’emisfero destro” di Schore, le metafore/aneddoti “terapeutici” di Milton Erickson, le suggestioni degli strategici, gli interventi sul corpo per il PTSD. Non sempre infatti la razionalità aiuta nel rileggere in modo terapeutico i disturbi: il potere della cura passa a volte da altro, da altre esperienze, dallo sperimentare modalità nuove, dal rileggere la propria situazione per via di metafore e immagini potenti (pensiamo solo all’immagine/concetto del confine interpersonale), dall’esporsi a situazioni temute (e qui rimandiamo agli articoli a proposito del lavoro di Emiliano Toso che su questo blog abbiamo più volte citato). Avevamo scritto in precedenza a proposito dell’inconscio non rimosso, il luogo di “deposito” delle esperienze primarie inerenti l’attaccamento, non rimosse perché pre-cognitive e pre-linguistiche, “incarnate” senza passare dal pensiero. I farmaci psichedelici promettono di poter “arrivare” anche lì in senso psicoterapico, “bypassando” per certi versi il pensiero stesso.

Estremamente interessanti le osservazioni fatte dai relatori a proposito della “ego death”, e su come il disturbo venga – a volte- fatto proprio dal paziente, e diventi un aspetto della sua identità/personalità: il lavoro con gli psichedelici aiuterebbe -anche- a lasciarlo andare, o a promuovere una dis-identificazione dallo stesso.

Qui il video:

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Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, PTSD

18 July 2024

L'”IMAGERY RESCRIPTING” NEL PTSD

di Raffaele Avico

PREMESSA: questo breve articolo è estratto da POPMed

60 pazienti diagnosticati con PTSD primario, trattati solamente con la tecnica dell’Imagery Rescripting. Quali risultati? Facciamo un passo indietro e diamo una definizione di Imagery Rescripting: si tratta di uno strumento della psicoterapia CBT finalizzato a cambiare la risposta emotiva alle memorie traumatiche modificando il contenuto delle immagini associate ad esse.

Si basa sull’idea che le memorie traumatiche siano immagazzinate sottoforma di immagini e che queste immagini possano essere accessibili e modificate attraverso tecniche di visualizzazione.

L’applicazione del protocollo prevede di guidare il paziente a immaginare l’evento traumatico in modo diverso, al fine di ridurre la risposta emotiva (la fear response) associato alla memoria, con l’obiettivo di creare una nuova immagine meno disturbante che possa essere utilizzata come alternativa alla memoria originale.

Al di là dei risultati dello studio in sé, troviamo riassunte nell’articolo che vi proponiamo le fasi dell’Imagery Rescripting, che sono 3 (da un’immagine tratta dall’articolo, tradotta):

  • Fase 1: i pazienti vengono invitati a immaginare un’esperienza traumatica dell’infanzia con gli occhi chiusi il più vividamente possibile dal punto di vista del bambino. Non appena vengono attivate forti emozioni legate al trauma, il terapeuta e il paziente passano alla fase successiva.
  • Fase 2: i pazienti entrano nell’immagine come adulti che assistono alla situazione e vengono incoraggiati a intervenire e fare ciò che ritengono necessario.
  • Fase 3: in cui i pazienti immaginano la scena nuovamente come un bambino e sperimentano l’intervento dell’adulto sviluppato nella Fase 2 dal punto di vista del bambino. 

Trovate qui l’articolo: Imagery Rescripting as a stand-alone treatment for posttraumatic stress disorder related to childhood abuse: A randomized controlled trial

PS sulle tecniche immaginative da usare per il trattamento del trauma, si veda anche questo. Sul trauma invece in generale, qui.

Article by admin / Formazione / PTSD

24 June 2024

Attaccamento traumatico: facciamo chiarezza (di Andrea Zagaria)

PREMESSA: un approfondimento a cura di Andrea Zagaria dell’Università di Trento sul concetto di “attaccamento traumatico”, ovvero sulle consueguenze di “esperienze emotivamente soverchianti all’interno di una relazione di attaccamento”. Interessante osservare come si parli non solo di età infantile, ma anche di età adulta: “un’esperienza soverchiante in una relazione di attaccamento adulta può avere conseguenze simili alle esperienze soverchianti vissute da bambini”. (R. Avico)

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Attaccamento traumatico: facciamo chiarezza (di Andrea Zagaria)

A chiunque di noi è capitato di pensare di avere dei “traumi infantili”. Nella lingua parlata, l’espressione è ormai diventata di uso comune, spesso anche ironico: “Questa cosa mi ha fatto venire un trauma!” o “Lei deve avere proprio tanti traumi, se si comporta così!”.

In effetti, una delle principali scoperte della psicologia clinica è che le esperienze traumatiche, specie se situate con le figure importanti della nostra vita (es. madre, padre, partner, fratello, sorella), possono avere una grande ripercussione sulla nostra vita adulta. Janet, Breuer, Charcot e Freud, tra i principali fondatori della moderna psicologia clinica a fine Ottocento, si sono tutti dedicati, in diversi modi, allo studio delle esperienze traumatiche infantili e dei loro effetti.

L’assunzione che le esperienze infantili siano fondamentali per determinare la nostra salute mentale è rimasta un bagaglio teorico della psicologia clinica attraverso tutto il Novecento. Tuttavia, è solo dagli anni ‘80, e specificatamente dagli anni ‘90, che la ricerca scientifica ha cominciato a riprendere sul serio il concetto di trauma, e in particolare il trauma infantile.

Negli ultimi anni, in particolare, si è diffuso un nuovo concetto: quello di attaccamento traumatico, ossia di trauma legato al sistema di attaccamento. Definiremo precisamente cos’è più avanti; per ora ci basti sapere che indica una serie di conseguenze psicologiche derivanti da un’esperienza soverchiante che si verifica in una relazione in cui siamo vulnerabili, dipendenti e bisognosi di aiuto (una relazione di attaccamento, appunto). Il fatto che siamo “aperti” e “vulnerabili” e che ci aspettiamo aiuto e comprensione, ma riceviamo invece “indietro” qualcosa di disturbante, soverchiante e spaventoso, determina delle conseguenze disastrose sulla nostra salute mentale.

I modi in cui l’attaccamento traumatico si rende evidente da adolescenti ed adulti sono i più disparati: disturbi da dipendenza di sostanze, disturbi d’ansia, disturbi dell’umore tra cui depressione, disturbi post-traumatici, disturbi alimentari, disturbi di personalità… Insomma, un insieme molto eterogeneo.

I professionisti sanno bene che, tra gli altri, autori come Giovanni Liotti, Alan Schore, Jon Allen, Peter Fonagy, Patricia Crittenden e Julian Ford hanno parlato di attaccamento traumatico.

Tuttavia, questa nozione è per ora solo un’euristica clinica, ossia un concetto utile ai terapeuti che cercano di aiutare i loro pazienti. Vale a dire: i terapeuti che investigano le vite di coloro che soffrono molto da adulti spesso scoprono che queste persone sono state esposte a esperienze traumatiche quando erano molto giovani. Ed emerge anche che se si “aggiusta” il funzionamento del sistema di attaccamento attraverso la relazione terapeutica, queste persone stanno meglio.

Tuttavia, non è chiaro se, oltre ad essere un concetto clinico “retrospettivo”, l’attaccamento traumatico sia qualcosa di misurabile oggettivamente, qualcosa che può essere messo al vaglio della ricerca scientifica.

Chi scrive questo articolo ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a studiare il concetto di attaccamento traumatico.

Come ne hanno parlato i ricercatori? Come lo hanno reso misurabile? Che cosa ci dice, in sintesi, la letteratura scientifica a riguardo?

Abbiamo da poco pubblicato una rassegna proprio su questo argomento, sul giornale European Journal of Trauma and Dissociation, l’outlet ufficiale dell’European Society for Trauma and Dissociation. Dopo aver investigato in modo approfondito la letteratura, abbiamo scoperto qualcosa di inquietante e affascinante allo stesso tempo: nessuno è d’accordo su questo tema. La confusione regna sovrana.

Tutti sembrano parlare della stessa cosa o di fenomeni molto simili tra loro. Eppure, ognuno sa cosa accade esclusivamente nel proprio “giardinetto” e, nel migliore dei casi, ignora cosa viene fatto in un campo di ricerca “fratello”. Nel peggiore, lo conosce ma lo critica.

E così troviamo diversi concetti collegati tra di loro, come l’attaccamento disorganizzato nei bambini, lo stato della mente non risolto negli adulti, l’attaccamento “spaventato” misurato attraverso i questionari auto-compilati; ma anche il disturbo post-traumatico complesso, le esperienze infantili avverse, e infine la biologia e le neuroscienze del trauma. Per non parlare della teoria del trauma da tradimento, il trauma interpersonale, il trauma relazionale precoce…

Tuttavia, raramente qualcuno all’interno di queste tradizioni di ricerca cita o si rivolge a concetti nati in altre tradizioni “parenti”. Insomma, una sorta di “campanilismo” scientifico, che è tutto fuorché raro in Psicologia!

Il risultato? Una schiera di risultati in qualche senso connessi, eppure frammentari, contrastanti e in sostanza incommensurabili, cioè non “sommabili” l’uno con l’altro dal punto di vista della misurazione.

Una vecchia favola buddhista, risalente al VI secolo a.C., sembra descrivere bene la situazione.

La storia racconta di alcuni uomini ciechi alla nascita che vengono condotti a conoscere un elefante. Nessuno di loro ha mai potuto toccare o sentire parlare di un elefante prima di quell’occasione, quindi la loro conoscenza di questo animale è nulla. Dopo che si sono avvicinati, ogni cieco ha occasione di toccare una parte diversa del pachiderma. Ciascuno trae dunque le sue conclusioni, basandosi esclusivamente sulla parte che riesce a esplorare con le proprie mani.

Il primo tocca la zampa e conclude che un elefante è simile a un tronco d’albero; un altro tocca la coda e pensa che sia come un serpente; un terzo tocca l’orecchio e lo descrive come un enorme ventaglio, e così via. Le discussioni tra i diversi uomini ciechi su cos’è un elefante diventano quindi molto accese, ed essi finiscono per insultarsi l’un l’altro, arrivando talvolta alle mani.

Le tradizioni di ricerca sembravano apparire proprio come questi uomini ciechi.

Studiando ciascuna di queste diverse linee di ricerca, io e i miei colleghi abbiamo deciso di provare a chiarire chi stava studiando cosa. Chi è e come si chiama l’uomo che sta tendendo stretta la zampa? Che cosa significa, nell’economia della comprensione dell’elefante, tenere stretta solo la zampa? E come devono essere interpretati i racconti dell’uomo che è sopra l’elefante e sta toccando solo il suo orecchio?

Ovviamente, pensare di aver trovato l’elefante attraverso l’analisi accurata dei racconti di ognuno dei ciechi sarebbe trionfalistico e un po’ narcisistico. Qualcuno potrebbe anche accusarci una sorta di “apofenia”, ossia la tendenza di vedere collegate cose tra loro che in realtà non lo sono. Rispettosamente, dissentiamo.

Quello che speriamo di aver fatto è innanzitutto chiarire che ci sono sei uomini diversi, che spesso ignorano addirittura l’esistenza dei loro compagni, anche se l’oggetto di ricerca è sostanzialmente lo stesso.

In particolare, questi sei uomini sono stati categorizzati come segue.

Le prime tre linee, collegate alla tradizione dell’attaccamento, sono:

  1. L’attaccamento disorganizzato infantile, operazionalizzato nella Strange Situation Procedure (SSP)
  2. Lo stato mentale adulto non risolto/disorganizzato, emergente nelle trascrizioni dell’ Adult Attachment Interview (AAI)
  3. L’attaccamento adulto spaventato (“fearful”) della psicologia dellapersonalità/sociale, valutato tramite questionari auto-compilati

Le restanti tre linee di ricerca sono collegate agli studi sul trauma:

  1. Gli studi sul Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (cPTSD), una sindrome clinica associata all’esposizione prolungata e sistematica a traumi cumulativi
  2. La linea di ricerca che studia le esperienze infantili avverse, prevalentemente tramite l’uso di questionari
  3. I lavori neuroscientifici e psicofisiologici riguardo la psicologia del trauma e specialmente del trauma relazionale precoce

Riconoscere questi “sei uomini” e evidenziare che essi potrebbero stare guardando lo stesso problema da sei angolature diverse è si è configurato come un primo significativo passo in avanti.

In secondo luogo, abbiamo cercato di chiarire quale parte dell’elefante ognuna di queste linee stava analizzando, cioè in che modo queste tradizioni di ricerca erano simili e in che modo erano diverse tra loro. Proprio grazie a questa opera di integrazione concettuale abbiamo cercato di delineare una possibile silhouette dell’elefante (fuor di metafora: l’attaccamento traumatico) e di offrirne una definizione.

La nostra nuova definizione di attaccamento traumatico recita così:

“Variabili e durature conseguenze biologiche, psicologiche e relazionali derivanti da una mancata codificazione e integrazione di esperienze emotivamente soverchianti all’interno di una relazione di attaccamento.”

La definizione può apparire complessa, e infatti va analizzata parola per parola, come abbiamo fatto nella nostra review. Ognuno di questi termini reca con sé un universo concettuale da spiegare e delimitare molto dettagliatamente. Purtroppo, questa sede non offre il necessario spazio per tale operazione, ma il lettore interessato potrà trovarla direttamente nel paper originale in inglese.

Tuttavia, vale la pena notare che abbiamo delimitato il costrutto di trauma a quello di “conseguenze”. In letteratura (anche tra esperti) vige la confusione più assoluta riguardo all’accezione di questo termine. Non è ben chiaro se esso indichi l’evento traumatico, l’emozioni soggettive esperite durante questo evento (es. terrore), o le conseguenze evidenziabili a breve, medio e lungo termine sul sistema psicosomatico dell’individuo (es. flashback, pensieri intrusivi, disregolazione affettiva, etc).

In questa definizione di attaccamento traumatico, abbiamo delimitato il concetto di trauma a quello di conseguenze.

Dopotutto, l’etimologia di trauma è proprio quella di “ferita”, e in questo senso il termine viene usato in medicina. Perché non utilizzare anche la stessa accezione in psicologia?

Un altro conundrum da sciogliere in letteratura era quello della delimitazione concettuale del sistema di attaccamento, ossia la motivazione profonda in ciascuno di noi a monitorare la presenza di qualcuno di fidato attorno a noi e a rivolgerci allo stesso per chiedere aiuto quando ci sentiamo minacciati.

Alcuni psicologi dello sviluppo pensano che questa motivazione sia investigabile quasi esclusivamente nei bambini e meno negli adulti. Altri, tra cui molti psicologi della personalità e alcuni clinici, pensano che invece sia presente anche negli adulti. Dopo avere analizzato il sistema di attaccamento dal punto di vista evoluzionistico, ontogenetico, biologico e cognitivo, abbiamo supportato la scelta che vede il sistema di attaccamento attivato – anche negli adulti! – qualora l’individuo si senta minacciato e sia incapace di porre fine alla minaccia in modo indipendente.

Per riassumere, la definizione proposta di attaccamento traumatico tenta di conciliare le diverse sfumature concettuali evidenziate da differenti filoni della letteratura, attraverso le due macro-tradizioni dell’attaccamento e del trauma.

L’attaccamento traumatico (“Variabili e durature conseguenze biologiche, psicologiche e relazionali derivanti da una mancata codificazione e integrazione di esperienze emotivamente soverchianti all’interno di una relazione di attaccamento”) è stato dunque inquadrato come un insieme diversificato di adattamenti a esperienze emotivamente soverchianti verificatesi all’interno di una relazione di attaccamento.

Una caratteristica distintiva dell’attaccamento traumatico è che esso implica divisione, o, in altre parole, dissociazione strutturale. Ossia, i ricordi traumatici sono dissociati peri- traumaticamente, ossia nel momento dell’esperienza traumatica, quando vengono codificati in parallelo nella memoria, in due sistemi non comunicanti (la memoria sensoriale/emotiva e memoria contestuale/cognitiva). Essi rimangono dis-integrati tra di loro a medio e lungo termine, esercitando il loro potere angosciante tramite la re-intrusione coatta nella coscienza proprio perché non comunicanti tra loro!

Le linee di ricerca collegate all’attaccamento disorganizzato e allo stato della mente non risolto dimostrano chiaramente come le memorie dissociate determinino i comportamenti infantili osservabili nella Strange Situation Procedure e i lapsus osservabili nei trascritti dell’Adult Attachment Interview.

Il conflitto avvicinamento-allontanamento e la paura dell’intimità mostrati negli individui con attaccamento “impaurito”/fearful studiati nella tradizione della psicologia della personalità, d’altro canto, sono facilmente ricollegabili anch’essi a tendenze compartimentate (“mi voglio avvicinare…ma voglio anche scappare!”).

La sezione sui correlati biologici del trauma dettaglia in profondità come la disintegrazione/dissociazione della memoria e del sé sia associata a una vasta gamma di correlati psicofisiologici, come un’attivazione abnormale del sistema ortosimpatico e parasimpatico, una sovrelevata attivazione dell’asse ipolatamico-ipofisario-adrenale, una mancata comunicazione tra le aree prefrontali e quelle limbiche, un malfunzionamento dei large-scale-networks collegati al senso di sé, alla attribuzione della salienza degli stimoli, e alla pianificazione dei compiti, e ad un’abnormale produzione di oppioidi ed endocannabinoidi. Per citarne solo alcuni.

Le conseguenze (traumatiche) – che si estrinsecano in un’ampia gamma di risultati a seconda delle variabili individuali e ambientali, tra cui il sesso, l’età di esposizione, il supporto sociale, il tipo di trauma (es. deprivazione o minaccia), etc.- possono essere ricondotte sotto lo stesso ombrello (l’attaccamento traumatico) a causa della natura evoluzionistica e biologica del legame di attaccamento. Quello che riunisce concettualmente queste esperienze insieme è che derivano tutte dalla disintegrazione della stessa relazione determinata evoluzionisticamente – il sistema di attaccamento!

La natura dell’attaccamento stabilisce infatti gli schemi interpersonali che guidano lo sviluppo della personalità – i famosi Modelli Operativi Interni (MOI). Se tali schemi sono dissociati, la vita dell’individuo ne è profondamente influenzata. Ne segue, logicamente, che l’attaccamento traumatico è concepito come una caratteristica strutturale e duratura di una persona.

Alcuni clinici sono tentati di applicare il concetto di attaccamento traumatico prevalentemente alla popolazione clinica. Tuttavia, riteniamo che questa nozione non debba essere confinata esclusivamente alla “patologia”. Gli approcci e evoluzionistici delle esperienze di vita precoce avverse sottolineano come l’AT possa essere inquadrato anche come un adattamento. L’attaccamento traumatico può essere vantaggioso in determinate circostanze, anche se tipicamente associato ad alti costi per la salute mentale di chi ne è affetto. Quello che succede tipicamente è che adattamenti efficaci in alcune fasi di vita (es. infanzia, adolescenza) diventano improduttivi, se non nocivi, in età adulta.

Inoltre, sosteniamo che, sebbene il paziente “tipico” con attaccamento traumatico sia colpito pervasivamente, potrebbero esistere forme “puntiformi” o “isolate” di questo fenomeno che non sono necessariamente legate a un funzionamento globalmente compromesso.

In seguito, dopo aver proposto la nostra nuova definizione di attaccamento traumatico, abbiamo dimostrato come esso potrebbe configurarsi come un nuovo paradigma di ricerca.

Come prima cosa, abbiamo proceduto nel chiarire come ognuna delle linee di ricerca si rivolge a questo primo da diverse prospettive.

Per esempio, l’attaccamento disorganizzato sembra essere esclusivamente una manifestazione comportamentale infantile dell’attaccamento traumatico.

Entrambi i concetti, tuttavia, mantengano la loro autonomia. Infatti, contrariamente a una diffusa vulgata, l’attaccamento disorganizzato (DA) è esclusivamente un set di comportamenti osservati sperimentalmente dai 12 ai 20 mesi di età e non una caratteristica diagnostica o un tratto che può persistere nell’età adulta. L’attaccamento traumatico, invece, rappresenta un concetto più ampio, e racchiude al suo interno le conseguenze psicobiologiche dovute a un’esperienza soverchiante avvenuta in una relazione di attaccamento, ed è collegato, ma indipendente, rispetto ai pattern infantili di approccio-evitamento e di paura del caregiver tipici dell’attaccamento disorganizzato.

Allo stesso modo, abbiamo cercato di chiarire tutte le altre sei linee di ricerca.

Il lettore può trovare tutte le distinzioni emerse dalla nostra review integrative nel paper online.

Infine, abbiamo proceduto a dimostrare come il concetto di attaccamento potrebbe portare a nuove predizioni empiriche.

Ricordiamo che, avendo definito il sistema di attaccamento come operante sia nei bambini sia negli adulti, ne consegue, almeno teoricamente, che alcune istanze di attaccamento traumatico possono avere radici non nell’infanzia, ma esclusivamente in relazioni di attaccamento adulte.

Proprio a questo riguardo esiste una forma di cPTSD non esplicitamente legata a traumi infantili, ma derivante dalla violenza subita da o agita verso un partner romantico (Intimate Partner Violence; IPV).

Le evidenze empiriche sembrano indicare che l’IPV non sia collegabile in modo inequivocabile a traumi infantili. Ossia: si può subire o agire IPV senza essere stati abusati durante l’infanzia (e in una quota considerevole di casi!).

Sebbene questo possa sembrare confondente a prima vista rispetto a tutto quanto abbiamo detto finora, è in realtà una prova a sostegno della nostra riconcettualizzazione di attaccamento traumatico. Un’esperienza soverchiante in una relazione di attaccamento adulta può avere conseguenze simili alle esperienze soverchianti vissute da bambini.

Alcune evidenze preliminari sembrano supportare la nostra previsione. Un recente studio mostra come i sintomi del cPTSD nelle vittime di IPV siano significativamente predetti dall’abuso nelle relazioni di attaccamento adulte, ma non dai traumi precedenti. Ovviamente, futuri studi dovrebbero approfondire la questione.

Per concludere: il concetto di attaccamento traumatico, come definito in questo documento (“conseguenze biologiche, psicologiche e relazionali variabili e durature derivanti dall’incompleta codifica e integrazione di esperienze emotivamente travolgenti all’interno di una relazione di attaccamento“), sembra non solo riconciliare con successo un insieme eterogeneo di tradizioni di ricerca, ma anche chiarire le loro differenze.

Riteniamo che la nostra formulazione abbia molti punti di forza:

  1. Si basa su un concetto biologico ed evoluzionistico: il sistema motivazionale dell’attaccamento. L’architettura biologica ed evoluzionistica dell’attaccamento è ciò che fa risaltare il concetto di attaccamento traumatico rispetto alle sue alternative (trauma relazionale, trauma da tradimento, ecc.) in termini di solidità e potere esplicativo.
  2. Non è centrata esclusivamente sulla patologia ma sottolinea anche il lato adattativo dell’attaccamento traumatico. Sebbene esso sia di norma una condizione indesiderabile legata a molte conseguenze negative, il suo lato adattativo va anche sottolineato.
  3. Implica una nuova predizione empirica, ossia la separazione concettuale tra l’attaccamento traumatico che si verifica nell’infanzia e quello che si verifica nell’età adulta. Anche se alcune evidenze sembrano sostenere la nostra visione, futuri lavori empirici dovrebbero indagare più a fondo quanto sia sostenibile.
  4. Infine, la nostra formulazione fa da ponte a linee di ricerche tradizionalmente separate e mira ad aprire il campo a un nuovo programma di ricerca. Questo programma aspira ad avvicinare la teoria dell’attaccamento e la teoria del trauma.

L’attaccamento traumatico è conosciuto da lungo tempo nella pratica clinica, sotto questo o altri nomi. Sebbene la pratica clinica abbia da tempo riconosciuto l’importanza fondamentale di questo concetto, la ricerca sembra non aver ancora catturato accuratamente questa intuizione. Con questo paper, speriamo di aver fornito un contributo in questa direzione.

Riferimenti Andrea Zagaria: Ig/tunonseimicanormale/, zagaria.andrea@gmail.com


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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9 April 2024

INCONSCIO NON RIMOSSO E MEMORIA IMPLICITA: UNA RECENSIONE

di Raffaele Avico

Questo volume raccoglie molteplici contributi di personalità legate alla neuropsicoanalisi, al mondo della psicoanalisi e delle neuroscienze a proposito del concetto psicoanalitico di inconscio non rimosso.

Vi trovano spazio nomi di assoluto spessore nel panorama attuale, da Solms, padre della moderna neuropsicoanalisi, al nostro Giovanni Liotti, a Clara Mucci, a Mauro Mancia.

Il volume è curato da Giuseppe Craparo (che su questo blog abbiamo già incontrato) e Clara Mucci per la collana sul trauma che dirige lo stesso Craparo, edita da Giunti.

Il concetto di inconscio non rimosso si configura come una sorta di evoluzione, o allargamento del concetto freudiano di inconscio. Muove dal concetto “classico” di inconscio freudiano, per il quale veniva ipotizzata la presenza di un atto di rimozione da parte dell’individuo, per descrivere un territorio della psiche caratterizzato da elementi pre-verbali e pre-simbolici, stratificatosi nei primi anni di vita del bambino, entro una dimensione per lo più interpersonale.

Alcune riflessioni a riguardo:

  1. è indicativo che un libro sull’inconscio non rimosso venga incluso in una collana sul trauma. In effetti, le scoperte più recenti sul trauma convergono con gli studi psicoanalitici inerenti le traumatizzazioni più precoci, neanche arrivate a essere rimosse (essendo, come leggiamo qui, che la rimozioni prevede l’uso del pensiero simbolico e del linguaggio), ma dissociate e depositate in un luogo pre-verbale e pre-psichico o, se vogliamo, entro la memoria “implicita”, incarnata
  2. l’inconscio non rimosso viene concettualizzato in questo volume come un contenitore, un deposito delle memorie relazionali più precoci; non essendo possibile per il bambino rimuoverle attivamente, queste ultime produrranno molteplici conseguenze sullo sviluppo della sua psiche, ri-attivandosi in condizioni peculiari in senso relazionale, nel contesto del transfert con l’analista, o attraverso enactment (ne avevamo scritto qui). É il capitolo scritto da Clara Mucci a fornircene la definizione più chiara; immaginiamo l’inconscio come un deposito, un contenitore; al suo interno, solo una parte dei ricordi sono ricordi rimossi: larga parte del restante spazio psichico, è abitato da memorie relazioni primordiali, precedenti a ogni possibile rimozione
  3. I capitoli scritti da Mauro Mancia e Liotti brillano per particolare semplicità, chiarezza e coerenza. Liotti cita Mancia più volte nel suo lavoro; notevole osservare come i due articoli presenti nel volume arrivino presto a convergere: Liotti riprende Mancia proprio sul concetto di inconscio non rimosso, citandolo più volte. Come sappiamo, e come su questo blog più volte abbiamo osservato, Gianni Liotti sapeva attingere da differenti matrici teoriche per formulare idee originali e geniali a riguardo della psicopatologia: all’interno di questo volume, nel suo capitolo, Liotti integra il concetto di inconscio non rimosso al suo modello sui sistemi motivazionali opposti e contraddittori, tipici di uno “sviluppo traumatico”.
    Sarebbe infatti la compresenza di sistemi motivazionali opposti verso la madre (paura e attaccamento) a generare nel bambino rappresentazioni di sé dissonanti e conflittuali, riproposte -nella vita adulta- all’interno dei rapporti significativi. Liotti appoggia in pieno il concetto di inconscio non rimosso, apportando ad esso alcune puntualizzazioni, e spingendo per un superamento del modello pulsionale inerente la formazione dell’inconscio (l’inconscio non si costituirebbe come un contenitore di fantasie pulsionali inaccettabili, ma -di nuovo- si formerebbe per via di memorie relazionali primarie, introiettate nei primi anni di vita). Liotti era un bowlbiano convinto, e in questo lavoro lo sottolinea un’altra volta
  4. la comunicazione madre-caregiver-bambino, nei primi, anni, è una comunicazione “tra emisferi destri” (ovvero, tra emisferi dominanti); il capitolo di Schore, autore del volume Psicoterapia con l’emisfero destro, rappresenta un aggiornamento sulle scoperte neuroscientifiche più recenti a riguardo proprio della neuroanatomia della vita relazionale precoce, che coinvolgerebbe per lo più struttura sottocorticali dell’emisfero destro, sede fisica di quelle tracce mnestiche implicite, seminali e iniziali, chiamate qui “inconscio non rimosso”. Sulla dominanza dell’emisfero destro, avevamo scritto estesamente qui recensendo “The master and his emissary”
  5. il capitolo di Clara Mucci riprende e dilata il contributo di Schore, e rappresenta il “centro di gravità” del volume, essendo che la Mucci contestualizza il lavoro teorico sull’inconscio non rimosso nella cornice dei paradigmi attuali riguardanti la psicoanalisi, con critiche abbastanza pesanti alla visione freudiana, troppo individualistica e intrapsichica, in favore di un paradigma maggiormente relazionale e in linea con le evidenze più attuali in ambito di psicotraumatologia.
    La Mucci è conosciuta per il suo lavoro sulle ipotesi eziopatogenetiche dei disturbi di personalità più gravi, in particolare è conosciuta per la sua ipotesi psicotraumatologica nella genesi del disturbo borderline. Nel suo capitolo riprende un modello di mente, e di sviluppo della mente, che avevamo già trovato qui riprendendo idee di Janet.
    La patogenesi dei disturbi di personalità più gravi, sarebbe cioè da rintracciarsi nella fase pre-verbale, pre-cognitiva dello sviluppo del bambino, non ancora in grado di “rimuovere attivamente” i contenuti traumatici dalla sua coscienza. Come prima anticipato, il contenitore dell’inconscio sarebbe formato solo in parte dai contenuti rimossi: una larga parte dei suoi elementi costitutivi, sarebbe rappresentata dai contenuti “non rimossi” e implicitamente memorizzati nelle prime, fondamentali fasi dello sviluppo. La stessa pulsione di morte, la Mucci propone, sarebbe da attribuire a introiezioni problematiche di oggetti interni persecutori, una spinta insomma figlia di elementi relazionali inter-psicologici; sarebbe incorretto, seguendo Freud, attribuirla a una spinta “innata”. Inoltre, la Mucci evidenzia un oscurantismo freudiano a proposito del fenomeno clinico della dissociazione, sviluppato come sappiamo da Janet in parallelo a Freud, e poi da altri pionieri del trauma, come Ferenczi.
  6. nel suo capitolo, Craparo distingue in maniera fruttuosa i concetti di acting out da quello di enactment: quest’ultimi sarebbero da imputare a un processo di evacuazione di materiale non rimosso, ad una riattualizzazione in chiave relazionale/intersoggettiva di modalità interpersonali racchiuse -di nuovo- nel “contenitore” dell’inconscio non rimosso.

Per concludere, troviamo nel concetto di inconscio non rimosso un punto di congiunzione, e di saldatura, tra differenti approcci.

Le teorie di Liotti sull’attaccamento disorganizzato e la creazione di rappresentazioni dissonanti di sé, i molti studi sulle esperienze avverse infantili e la patogenesi della dissociazione, il concetto di scissione in età precoce raccontato dagli analisti: tutte queste formulazioni teoriche convergono in questo volume presentandoci l’immagine di un “terreno” psichico entro cui, precocemente, si crearono le prime -implicite- memorie relazionali, in grado di influenzare in modo radicale il successivo sviluppo della mente dell’individuo.

Come osserviamo, Giovanni Liotti ancora una volta si dimostra in grado di incarnare questa integrazione nelle sue formulazioni teoriche, portando la teoria dell’attaccamento e la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali (innati) a completamento delle concettualizzazioni psicoanalitiche inerenti la nascita (intersoggettiva) del pensiero. Viene qui illuminata inoltre una concezione dell’inconscio solamente, intrinsecamente interpersonale, post-freudiana, evoluzionisticamente giustificata, svuotata dei suoi aspetti scabrosi inerenti le pulsioni sessuali, “moralmente” bonificata.

Infine, possiamo con questo volume osservare come l’interpsichico preceda l’intrapsichico: sarebbero le relazioni interpersonali a creare il sostrato di memorie implicite che determinerebbero la nostra vita adulta, le nostre scelte relazionali, i nostri transfert e i nostri enactment; l’inconscio stesso sarebbe un contenitore delle memorie implicite più antiche, e -in linea con la letteratura psicotraumatologica- l’ambiente di sviluppo avrebbe finalmente riacquistato una posizione centrale nella sviluppo della mente, con il bambino impegnato ad adattarsi ad esso, spinto da motivazioni innate interpersonali, impegnato nell’eseguire “adattamenti acrobatici” quando lo stesso ambiente fosse problematico, o traumatico.

Qui le altre recensioni presenti su questo blog.

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3 April 2024

UN FREE EBOOK (SUL TRAUMA) IN COLLABORAZIONE CON VALERIO ROSSO

di Raffaele Avico

In collaborazione con Valerio Rosso, abbiamo pubblicato un free ebook sul Trauma e sulla dissociazione, con diversi link di approfondimento, e la grafica realizzata da Andrea Pisano.

Qui l’indice, e in fondo il link per poterlo scaricare.

Qui per scaricarlo (sul blog di Valerio Rosso).

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  • LA (NEONATA) SIMEPSI E UN INTERVENTO DI FABIO VILLA SULLA TERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A LOSANNA 30 July 2024
  • L'”IMAGERY RESCRIPTING” NEL PTSD 18 July 2024
  • Intervista a Francesca Belgiojoso: le fotografie in psicoterapia 1 July 2024
  • Attaccamento traumatico: facciamo chiarezza (di Andrea Zagaria) 24 June 2024
  • KNOT GARDEN (A CURA DEL CENTRO VENETO DI PSICOANALISI) 10 June 2024
  • Costanza Jesurum: un’intervista all’autrice del blog “bei zauberei”, psicoanalista junghiana e scrittrice 3 June 2024
  • LA SVIZZERA, CUORE DEL RINASCIMENTO PSICHEDELICO EUROPEO 29 May 2024
  • Un’alternativa alla psicopatologia categoriale: Hierarchical Taxonomy of Psychopathology (HiTOP) 9 May 2024
  • INVITO A BION 8 May 2024
  • INTERVISTA A FEDERICO SERAGNOLI: IL VIDEO 18 April 2024
  • INCONSCIO NON RIMOSSO E MEMORIA IMPLICITA: UNA RECENSIONE 9 April 2024
  • UN FREE EBOOK (SUL TRAUMA) IN COLLABORAZIONE CON VALERIO ROSSO 3 April 2024
  • GLI INCONTRI DI AISTED: LA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A GINEVRA (16 APRILE 2024) 28 March 2024
  • La teoria del ‘personaggio’ nell’opera di Antonino Ferro 21 March 2024
  • Psicoterapia assistita da psichedelici: intervista a Matteo Buonarroti 14 March 2024
  • BRESCIA, FEBBRAIO 2024: DUE ESTRATTI DALLA MASTERCLASS “VERSO UNA NUOVA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE” 27 February 2024
  • CAPIRE LA DISPNEA PSICOGENA: DA “SENZA FIATO” DI GIORGIO NARDONE 14 February 2024
  • POPMED TALKS 5 February 2024
  • NASCE L’ASSOCIAZIONE COALA (TORINO) 1 February 2024
  • Camilla Stellato: “Diventare genitori” 29 January 2024
  • Offline is the new luxury, un documentario 22 January 2024
  • MARCO ROVELLI, LA POLITICIZZAZIONE DEL DISAGIO PSICHICO E UN PODCAST DI psicologia fenomenologica 10 January 2024
  • La terapia espositiva enterocettiva (per il disturbo di panico) – di Emiliano Toso 8 January 2024
  • INTRODUZIONE A VIKTOR FRANKL 27 December 2023
  • UN APPROFONDIMENTO DI MAURIZIO CECCARELLI SULLA CONCEZIONE NEO-JACKSONIANA DELLE FUNZIONI MENTALI 14 December 2023
  • 3 MODI DI INTENDERE LA DISSOCIAZIONE: DA UN INTERVENTO DI BENEDETTO FARINA 12 December 2023
  • Il burnout oltre i luoghi comuni (DI RICCARDO GERMANI) 23 November 2023
  • TRATTAMENTO INTEGRATO DELL’ANSIA: INTERVISTA A MASSIMO AGNOLETTI ED EMILIANO TOSO 9 November 2023
  • 10 ARTICOLI SUL JOURNALING E SUI BENEFICI DELLO SCRIVERE 6 November 2023
  • UN’INTERVISTA A GIUSEPPE CRAPARO SU PIERRE JANET 30 October 2023
  • CONTRASTARE IL DECADIMENTO COGNITIVO: ALCUNI SPUNTI PRATICI 26 October 2023
  • PTSD (in podcast) 25 October 2023
  • ANIMALI CHE SI DROGANO, DI GIORGIO SAMORINI 12 October 2023
  • VERSO UNA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE: PREFAZIONE 7 October 2023
  • Congresso Bari SITCC 2023: un REPORT 2 October 2023
  • GLI INCONTRI ORGANIZZATI DA AISTED, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione 25 September 2023
  • CANNABISCIENZA.IT 22 September 2023
  • TERAPIA ESPOSITIVA (IN PODCAST) 18 September 2023
  • TERAPIA ESPOSITIVA: INTERVISTA A EMILIANO TOSO (PARTE SECONDA) 4 September 2023
  • POPMED: 10 articoli/novità dal mondo della letteratura scientifica in ambito “psi” (ogni 15 giorni) 30 August 2023
  • DIFFUSIONE PATOLOGICA DELL’ATTENZIONE E SUPERFICIALITÀ DIGITALE. UN ESTRATTO DA “PSIQ” di VALERIO ROSSO 23 August 2023
  • LE FRONTIERE DELLA TERAPIA ESPOSITIVA. INTERVISTA A EMILIANO TOSO 12 August 2023
  • NIENTE COME PRIMA, DI MANGIASOGNI 8 August 2023
  • NASCE IL “GRUPPO DI INTERESSE SULLA PSICOPATOLOGIA” DI AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione) 26 July 2023
  • Psychedelic Science Conference 2023 – lo stato dell’arte sulle terapie psichedeliche  15 July 2023
  • RENDERE NON NECESSARIA LA DISSOCIAZIONE: DA UN ARTICOLO DI VAN DER HART, STEELE, NIJENHUIS 29 June 2023
  • EMBODIED MINDS: INTERVISTA A SARA CARLETTO 21 June 2023
  • Psychiatry On Line Italia: 10 rubriche da non perdere! 7 June 2023
  • CURARE LA PSICHIATRIA DI ANDREA VALLARINO (INTRODUZIONE) 1 June 2023
  • UN RICORDO DI LUIGI CHIRIATTI, STUDIOSO DI TARANTISMO 30 May 2023
  • PHENOMENAUTICS 20 May 2023
  • 6 MESI DI POPMED, PER TORNARE ALLA FONTE 18 May 2023
  • GLI PSICOFARMACI PER LO STRESS POST TRAUMATICO (PTSD) 8 May 2023
  • ILLUSIONI IPNAGOGICHE, SONNO E PTSD 4 May 2023
  • SI PUÓ DIRE MORTE? INTERVISTA A DAVIDE SISTO 27 April 2023
  • CENTRO SORANZO: INTERVISTA A MAURO SEMENZATO 12 April 2023
  • Laetrodectus, che morde di nascosto 6 April 2023
  • STABILIZZAZIONE E CONFINI: METTERE PALETTI PER REGOLARSI 4 April 2023
  • L’eredità teorica di Giovanni Liotti 31 March 2023
  • “UN RITMO PER L’ANIMA”, TARANTISMO E DINTORNI 7 March 2023
  • SUICIDIO: SPUNTI DAL LAVORO DI MAURIZIO POMPILI E EDWIN SHNEIDMAN 9 January 2023
  • SUPERHERO THERAPY. INTERVISTA A MARTINA MIGLIORE 5 December 2022
  • Allucinazioni nel trauma e nella psicosi. Un confronto psicopatologico 26 November 2022
  • FUGA DI CERVELLI 15 November 2022
  • PSICOTERAPIA DELL’ANSIA: ALCUNI SPUNTI 7 November 2022
  • LA Q DI QOMPLOTTO 25 October 2022
  • POPMED: UN ESEMPIO DI NEWSLETTER 12 October 2022
  • INTERVISTA A MAURO BOLOGNA, PRESIDENTE SIPNEI 10 October 2022
  • IL “MANUALE DELLE TECNICHE PSICOLOGICHE” DI BERNARDO PAOLI ED ENRICO PARPAGLIONE 6 October 2022
  • POPMED, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO IN AREA “PSI”. PER TORNARE ALLA FONTE 30 September 2022
  • IL CONVEGNO SIPNEI DEL 1 E 2 OTTOBRE 2022 (FIRENZE): “LA PNEI NELLA CLINICA” 20 September 2022
  • LA TEORIA SULLA NASCITA DEL PENSIERO DI WILFRED BION 1 September 2022
  • NEUROFEEDBACK: INTERVISTA A SILVIA FOIS 10 August 2022
  • La depressione come auto-competizione fallimentare. Alcuni spunti da “La società della stanchezza” di Byung Chul Han 27 July 2022
  • SCOPRIRE LA SIPNEI. INTERVISTA A FRANCESCO BOTTACCIOLI 6 July 2022
  • PERFEZIONISMO: INTERVISTA A VERONICA CAVALLETTI (CENTRO TAGES ONLUS) 6 June 2022
  • AFFRONTARE IL DISTURBO DISSOCIATIVO DELL’IDENTITÁ 28 May 2022
  • GARBAGE IN, GARBAGE OUT.  INTERVISTA FIUME A ZIO HACK 21 May 2022
  • PTSD: ALCUNE SLIDE IN FREE DOWNLOAD 10 May 2022
  • MANAGEMENT DELL’INSONNIA 3 May 2022
  • “IL LAVORO NON TI AMA”: UN PODCAST SULLA HUSTLE CULTURE 27 April 2022
  • “QUI E ORA” DI RONALD SIEGEL. IL LIBRO PERFETTO PER INTRODURSI ALLA MINDFULNESS 20 April 2022
  • Considerazioni sul trattamento di bambini e adolescenti traumatizzati 11 April 2022
  • IL COLLASSO DEL CONTESTO NELLA PSICOTERAPIA ONLINE 31 March 2022
  • L’APPROCCIO “OPEN DIALOGUE”. INTERVISTA A RAFFAELLA POCOBELLO (CNR) 25 March 2022
  • IL CORPO, IL PANICO E UNA CORRETTA DIAGNOSI DIFFERENZIALE: INTERVISTA AD ANDREA VALLARINO 21 March 2022
  • RECENSIONE: L’EREDITÁ DI BION (A CURA DI ANTONIO CIOCCA) 20 March 2022
  • GLI PSICHEDELICI COME STRUMENTO TRANSDIAGNOSTICO DI CURA, IL MODELLO BIPARTITO DELLA SEROTONINA E L’INFLUENZA DELLA PSICOANALISI 7 March 2022
  • FOTOTERAPIA: JUDY WEISER e il lavoro con il lutto 1 March 2022
  • PLACEBO E DOLORE: IL POTERE DELLA MENTE (da un articolo di Fabrizio Benedetti) 14 February 2022
  • INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD 3 February 2022
  • SPIDER, CRONENBERG 26 January 2022
  • LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti) 17 January 2022
  • 24 MESI DI PSICOTERAPIA ONLINE 10 January 2022
  • LA TOSSICODIPENDENZA COME TENTATIVO DI AMMINISTRARE LA SINDROME POST-TRAUMATICA 7 January 2022
  • La Supervisione strategica nei contesti clinici (Il lavoro di gruppo con i professionisti della salute e la soluzione dei problemi nella clinica) 4 January 2022
  • PSICHEDELICI: LA SCIENZA DIETRO L’APP “LUMINATE” 21 December 2021
  • ASYLUMS DI ERVING GOFFMAN, PER PUNTI 14 December 2021
  • LA SINDROME DI ASPERGER IN BREVE 7 December 2021
  • IL CONVEGNO DI SAN DIEGO SULLA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI (marzo 2022) 2 December 2021
  • PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA E DEEP BRAIN REORIENTING. INTERVISTA A PAOLO RICCI (AISTED) 29 November 2021
  • INTERVISTA A SIMONE CHELI (ASSOCIAZIONE TAGES ONLUS) 25 November 2021
  • TRAUMA: IMPOSTAZIONE DEL PIANO DI CURA E PRIMO COLLOQUIO 16 November 2021
  • TEORIA POLIVAGALE E LAVORO CON I BAMBINI 9 November 2021
  • INTRODUZIONE A BYUNG-CHUL HAN: IL PROFUMO DEL TEMPO 3 November 2021
  • IT (STEPHEN KING) 27 October 2021
  • JUDITH LEWIS HERMAN: “GUARIRE DAL TRAUMA” 22 October 2021
  • ANCORA SU PIERRE JANET 15 October 2021
  • PSICONUTRIZIONE: IL LAVORO DI FELICE JACKA 3 October 2021
  • MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI: LE STRATEGIE DI CONTROLLO IN INFANZIA (PTSDc) 30 September 2021
  • OVERLOAD COGNITIVO ED ECOLOGIA MENTALE 21 September 2021
  • UN LUOGO SICURO 17 September 2021
  • 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD 13 September 2021
  • UN LIBRO PER L’ESTATE: “COME ANNOIARSI MEGLIO” DI PIETRO MINTO 6 August 2021
  • “I fondamenti emotivi della personalità”, JAAK PANKSEPP: TAKEAWAYS E RECENSIONE 3 August 2021
  • LIFESTYLE PSYCHIATRY 28 July 2021
  • LE DIVERSE FORME DI SINTOMO DISSOCIATIVO 26 July 2021
  • PRIMO LEVI, LA CARCERAZIONE E IL TRAUMA 19 July 2021
  • “IL PICCOLO PARANOICO” DI BERNARDO PAOLI. PARANOIA, AMBIVALENZA E MODELLO STRATEGICO 14 July 2021
  • RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE” 8 July 2021
  • I VIRUS: IL LORO RUOLO NELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE 7 July 2021
  • LA PLUSDOTAZIONE SPIEGATA IN BREVE 1 July 2021
  • COS’É LA COGNITIVE PROCESSING THERAPY? 24 June 2021
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE 19 June 2021
  • É USCITO IL SECONDO EBOOK PRODOTTO DA AISTED 15 June 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche -con il blog Psicologia Fenomenologica. 7 June 2021
  • PSICHIATRIA DI COMUNITÁ: LA SCELTA DI UN METODO 31 May 2021
  • PTSD E SPAZIO PERIPERSONALE: DA UN ARTICOLO DI DANIELA RABELLINO ET AL. 26 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI 22 May 2021
  • MDMA PER IL PTSD: NUOVE EVIDENZE 21 May 2021
  • MAP (MULTIPLE ACCESS PSYCHOTHERAPY): IL MODELLO DI PSICOTERAPIA AD APPROCCI COMBINATI CON ACCESSO MULTIPLO DI FABIO VEGLIA 18 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO GRATUITO ONLINE (21 MAGGIO) 13 May 2021
  • BALBUZIE: COME USCIRNE (il metodo PSICODIZIONE) 10 May 2021
  • PANICO: INTERVISTA AD ANDREA IENGO (PANICO.HELP) 7 May 2021
  • Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP) 4 May 2021
  • SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO. Liberalizzare come terapia: il problema dell’autocontrollo in clinica 30 April 2021
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO” 25 April 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche 25 April 2021
  • 3 STRUMENTI CONTRO IL TRAUMA (IN BREVE): TAVOLA DISSOCIATIVA, DISSOCIAZIONE VK E CAMBIO DI STORIA 23 April 2021
  • IL MALADAPTIVE DAYDREAMING SPIEGATO PER PUNTI 17 April 2021
  • UN VIDEO PER CAPIRE LA DISSOCIAZIONE 12 April 2021
  • CORRELATI MORFOLOGICI E FUNZIONALI DELL’EMDR: UNA PANORAMICA SULLA NEUROBIOLOGIA DEL TRATTAMENTO DEL PTSD 4 April 2021
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE IN ETÁ EVOLUTIVA: (VIDEO)INTERVISTA AD ANNALISA DI LUCA 1 April 2021
  • GLI EFFETTI POLARIZZANTI DELLA BOLLA INFORMATIVA. INTERVISTA A NICOLA ZAMPERINI DEL BLOG “DISOBBEDIENZE” 30 March 2021
  • SVILUPPARE IL PENSIERO LATERALE (EDWARD DE BONO) – RECENSIONE 24 March 2021
  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE 22 March 2021
  • 8 LIBRI FONDAMENTALI SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 14 March 2021
  • VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA 7 March 2021
  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD 2 March 2021
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA 25 February 2021
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1) 21 February 2021
  • FLOW: una definizione 15 February 2021
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD) 8 February 2021
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI 3 February 2021
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA 1 February 2021
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION? 25 January 2021
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA) 15 January 2021
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO 11 January 2021
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT 6 January 2021
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO 2 January 2021
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum) 28 December 2020
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI 18 December 2020
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti 14 December 2020
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO 10 December 2020
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino 8 December 2020
  • COME GESTIRE UNA DIPENDENZA? 4 PIANI DI INTERVENTO 3 December 2020
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP 28 November 2020
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA 20 November 2020
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO) 16 November 2020
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm) 12 November 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento 7 November 2020
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING 2 November 2020
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING) 28 October 2020
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al. 24 October 2020
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO 21 October 2020
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO 18 October 2020
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè 13 October 2020
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 6 October 2020
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI 30 September 2020
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix 28 September 2020
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico 21 September 2020
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura” 15 September 2020
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI 27 August 2020
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza 26 August 2020
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO 7 August 2020
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO 31 July 2020
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia 27 July 2020
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO 20 July 2020
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF) 14 July 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI 2 May 2020
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE” 30 April 2020
  • FOBIE SPECIFICHE IN BREVE 25 April 2020
  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
  • LO STATO DELL’ARTE INTORNO ALLA DIMENSIONE SOCIALE DELLA MEMORIA: SUL MODO IN CUI SI E’ ARRIVATI ALLA CREAZIONE DEL CONCETTO DI RICORDO CONGIUNTO E SU QUANTO LA VITA RELAZIONALE INFLUENZI I PROCESSI DI SVILUPPO DELLA MEMORIA 25 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI! 22 April 2020
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA? 21 April 2020
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI 17 April 2020
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO 13 April 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3 10 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF! 6 April 2020
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI 4 April 2020
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO? 31 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2 27 March 2020
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT 25 March 2020
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO 16 March 2020
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI 12 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1 6 March 2020
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN 29 February 2020
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD 13 February 2020
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET 3 February 2020
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM 17 January 2020
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO 15 January 2020
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO 30 December 2019
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI 27 December 2019
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA 19 December 2019
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER 12 December 2019
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA” 24 November 2019
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRI EY 15 November 2019
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi 4 November 2019
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE 29 October 2019
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO” 18 October 2019
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA 24 September 2019
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING 20 September 2019
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD 13 September 2019
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA 9 September 2019
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO 14 August 2019
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE? 8 August 2019
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE 28 July 2019
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI 24 July 2019
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA? 16 July 2019
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY: PERCHÉ ABBIAMO DUE EMISFERI? 8 July 2019
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA 28 June 2019
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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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