di Raffaele Avico
In questo post prendiamo alcuni spunti dal lavoro di ricerca a proposito del suicidio effettuato da Maurizio Pompili, a sua volta ispiratosi al padre della suicidologia moderna, Edwin Shneidman.
Esistono aree di sovrapposizione tra i contenuti dei due autori, e peculiarità mutuate dai singoli apporti. Da una scorsa generale del lavoro di entrambi, emergono due aspetti centrali:
- il suicidio è un tentativo estremo di riprendere il controllo, di fronte a un dolore mentale percepito come insopportabile. Il fine del suicidio in questo senso non sembra tanto il non vivere, quanto lo spegnere la coscienza e con essa il dolore. Può sembrare paradossale, ma può essere in questo senso pensato come un movimento di autoaffermazione liberatoria, un gesto affermativo.
- Il gesto del suicidio viene spesso eseguito in una condizione di “visione a tunnel”: è spesso un gesto impulsivo che libera il soggetto da uno stato mentale rigido, costrittivo e intollerabile.
Vediamo alcuni spunti dal lavoro di Pompili e Shneidman.
- In senso psicologico, sono 3 le caratteristiche della persona suicida:
- ambivalenza (fino alla fine il soggetto è combattuto nel suo intento suicidario: il dialogo a proposito del “sì o del no” permane fino al momento dell’attuazione)
- impulsività (di fronte alla prima citata ambivalenza, il gesto suicidario viene eseguito dando spazio a un impulso che sopravviene e porta il soggetto ad auto-annientarsi)
- rigidità e pensiero limitato/visione “tunnel” (lo stato mentale pre-suicidario viene spesso descritto come alterato/dissociato, in particolare nei momenti precedenti l’atto; durante invece il periodo temporalmente precedente il suicidio stesso, è stata osservata la presenza di una visione particolarmente limitata e rigida in senso cognitivo, con una concezione rigidamente pessimistica sulla realtà, e poca libertà di pensiero)
- fino a due terzi delle persone che commettono suicidio, lasciano segnali che vanno presi sul serio, soprattutto in età adulta: si veda questo studio.
- più che “depressivo”, si potrebbe definire lo stato mentale del suicida come caratterizzato da disperazione o hopelessness, un costrutto psicologico che si riferisce a quegli schemi cognitivi nei quali il comune denominatore è l’aspettativa negativa verso il futuro; gli individui ritengono che nulla si rivelerà a loro favore, che non avranno mai successo nel corso della vita, che i loro obiettivi importanti non saranno raggiunti e che i loro problemi non verranno risolti. Al senso di hopelessness si accompagna spesso il senso di helplessness, la convinzione di non poter essere aiutato e soprattutto di non potere aiutarsi, di non avere il controllo sugli eventi
- Nel mondo occidentale attuale il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso alle prese con un problema, che considera il suicidio come la migliore soluzione.
- La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in uno stato chiamato comunemente stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine dolore mentale/psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto che si suicida nel quale la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura, l’ansia sono caratteristiche facilmente identificabili. L’individuo ha dunque necessità di porre fine a tale stato; il rischio di suicidio diviene grave quando quel soggetto lo considera come la migliore ed unica soluzione per porre fine a quel grande dolore psicologico.
- L’individuo sperimenta come prima accennato uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi: avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile.
- Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni: il soggetto trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
- C’è un dolore mentale che, quando risolto, allontana le idee suicidarie: Pompili dà molta più importanza alla presenza di dolore mentale (qui un approfondimento su questo) come elemento di diagnosi, che non ad altri fattori. La sua tesi è che proprio questo elemento, il “dolore mentale”, rappresenti il punto chiave, il sintomo da ricercare per eseguire una corretta formulazione del rischio suicidario. Si veda: The relationship between mental pain, suicide risk, and childhood traumatic experiences: results from a multicenter study.
- Valutare il rischio di suicidio è un compito particolarmente arduo. Questa complessa meta-analisi della letteratura esistente sull’argomento ha portato alla constatazione che i fattori di rischio sono predittori deboli e imprecisi del comportamento suicidario: in questo studio gli autori concludono che la capacità predittiva dei fattori di rischio non è migliorata negli ultimi cinquant’anni e che, anzi, è rimasta modesta anche nei periodi di follow-up più frequenti rispetto alla norma. I segnali d’allarme vengono spesso raccolti in un acronimo utile a elencarli, per tenerli a mente: in inglese, IS PATHWARM?
Secondo Shneidman (1996) ci sono 10 elementi che sono presenti in almeno il 95% dei soggetti suicidi; egli li chiama Commonalities of Suicide:
- Lo scopo del suicidio è trovare una soluzione; non si tratta mai di un atto privo di fine. Si riferisce invece al voler uscire da una crisi, da una situazione insopportabile che genera il dolore psicologico;
- Il fine del suicidio è quello della cessazione della coscienza. Si può meglio comprendere il suicidio se lo si considera come un atto che abolisce la coscienza dell’individuo dove alberga il dolore mentale insopportabile e perciò si propone come la migliore soluzione per l’individuo. È questa la miscela esplosiva per il suicidio, ossia il momento in cui l’individuo, abbandonate altre possibilità di soluzione, inizia l’organizzazione dell’atto letale;
- Lo stimolo al suicidio è il dolore psicologico. Se la cessazione è ciò che l’individuo cerca di ottenere, il dolore psicologico è ciò da cui l’individuo cerca di fuggire. Nei suicidi si ritrova, ad un’attenta analisi, la combinazione tra volere la cessazione della coscienza e l’allontanamento dal dolore psicologico insopportabile. Il suicidio non esita mai dai momenti felici. I pazienti descrivono tale dolore in molti modi come “Sono morto dentro”, “Sentivo un dolore fortissimo dentro”; “Sentivo onde di dolore propagarsi nel mio corpo”. Il suicidio è una risposta ad appannaggio esclusivo dell’uomo nei confronti di un dolore psicologico estremo. Se si riduce il livello di sofferenza il suicidio non si verifica;
- Lo stressor comune nei suicidi si riferisce ai bisogni psicologici insoddisfatti. Paradossalmente, il soggetto suicida tenta la carta del suicidio per soddisfare bisogni psicologici vitali rimasti frustrati. Questo porta nuovamamente a concludere che possono esserci molte morti nelle quali manca la motivazione del soggetto (incidenti, morti naturali), ma ogni suicidio riflette alcuni bisogni psicologici non soddisfatti;
- Lo stato emotivo dei soggetti suicidi è riferibile all’hopelessness-helplessness. Questi soggetti affermano “Non c’è nulla che io possa fare (oltre al suicidio) e non c’è nessuno che possa aiutarmi (con il dolore che sto soffrendo);
- Lo stato cognitivo tipico del soggetto suicida è l’ambivalenza. I soggetti suicidi sono caratterizzati dall’ambivalenza tra la vita e la morte fino al compimento dell’atto letale. Sebbene si apprestino alla morte desiderano ardentemente essere salvati;
- I soggetti suicidi presentano uno stato di costrizione mentale. Il suicidio può essere compreso come uno stato di costrizione psicologica transitoria che coinvolge le emozioni e l’intelletto. I soggetti suicidi infatti affermano “Non c’era altro che potessi fare”, “L’unica via di uscita era la morte”, “L’unica cosa che potessi fare era uccidermi”. È questa la visione tunnel di cui spesso si parla, nella quale vi è un restringimento del campo delle opzioni disponibili; e nel quale la mente è sintonizzata su due sole possibilità: una soluzione lieta (quasi magica) oppure la cessazione, il suicidio. In questi casi vige la legge del tutto o del nulla.
- L’azione tipica dei suicidi è la fuga, un esodo da qualcosa di angosciante;
- L’atto interpersonale tipico dei soggetti suicidi è la comunicazione dell’intenzione. Dalle prime autopsie psicologiche è emerso che nelle morti equivoche, poi classificate come suicidi, veniva comunicato l’intento suicidario in modo più o meno esplicito. Questi soggetti, piuttosto che comunicare ostilità, rabbia o depressione, comunicavano verbalmente o con il loro comportamento il fatto che si sarebbero uccisi;
- I pattern del suicidio sono assimilabili agli schemi adattativi della vita dell’individuo suicida. In altre parole, osservando come una certa persona si è comportata in altri momenti difficili della propria vita si può prevedere come quella persona si approcci al suicidio. Probabilmente durante altre difficoltà quella persona ha sperimentato la tendenza al pensiero dicotomico e alla fuga dal dolore. Sebbene il suicidio, per definizione, sia un evento mai sperimentato in precedenza, possiamo indagare la mente dei soggetti nei confronti del gesto letale analizzando lutti, separazioni, perdite di vario genere.
SUGGERIMENTI PER LA GESTIONE DELLA CRISI SUICIDARIA
Come comunicare
- ascoltare attentamente, con calma
- comprendere i sentimenti dell’altro con empatia
- emettere segnali non verbali di accettazione e rispetto
- esprimere rispetto per le opinioni e i valori della persona in crisi
- parlare onestamente e con semplicità
- esprimere la propria preoccupazione, l’accudimento e la solidarietà
- concentrarsi sui sentimenti della persona in crisi
Come non comunicare
- interrompere troppo spesso
- esprimere il proprio disagio
- dare l’impressione di essere occupato e frettoloso
- dare ordini
- fare affermazioni intrusive o poco chiare
- fare troppe domande
Domande utili
- Ti senti triste?
- Senti che nessuno si prende cura di te?
- Pensi che non valga la pena di vivere?
- Pensi che vorresti suicidarti?
Indagine sulla pianificazione del suicidio
- Ti è capitato di fare piani per porre fine alla tua vita?
- Hai un idea di come farlo?
Indagine su possibili metodi di suicidio
- Possiedi farmaci, armi da fuoco o altri mezzi per commettere il suicidio?
- Sono facilmente accessibili e disponibili?
Indagine su un preciso lasso di tempo
- Hai deciso quando vuoi porre fine alla tua vita?
- Quando hai intenzione di farlo?
SUICIDIO ADULTO, ELEMENTI A CUI PRESTARE ATTENZIONE DURANTE IL COLLOQUIO CLINICO:
- parlare del suicidio o della morte
- dare segnali verbali come “Magari fossi morto” o “Ho intenzione di farla finita”
- oppure segnali meno diretti come “A che serve vivere?”, “Ben presto non dovrai più preoccuparti di me” e “A chi importase muoio?”
- isolarsi dagli amici e dalla famiglia
- esprimere la convinzione che la vita non ha senso e non ha speranza;
- disfarsi di cose care;
- mostrare un miglioramento improvviso e inspiegabile dell’umore dopo essere stato depresso;
- trascurare l’aspetto fisico e l’igiene
- con riferimento, agli anziani, ma non esclusivamente ad essi:
- mettere da parte farmaci
- comprare armi
- esprimere un improvviso interesse oppure perdere un interesse per la religione
- trascurare attività quotidiane di routine
- fissare un appuntamento medico anche per sintomi lievi
SUICIDIO GIOVANILE/ADOLESCENZIALE. ELEMENTI A CUI PRESTARE ATTENZIONE DURANTE IL COLLOQUIO CLINICO:
- mancanza di interesse per le attività abituali;
- generale calo delle qualità (attenzione, memoria etc.);
- mancanza o diminuzione della forza di volontà;
- comportamenti negligenti in classe;
- inspiegabile assenza o ripetute assenze ingiustificate;
- abuso di tabacco, alcool o droga (compresa la cannabis);
- coinvolgimento in atti di violenza tra studenti o atti che richiamano l’intervento della polizia;
- isolamento;
- hopelessness, cioè l’atteggiamento di mancanza di speranza;
- dichiarazioni scritte e verbali riguardanti la morte, l’intenzione di morire e la mancanza di voglia di vivere;
- attrazione per la morte ed il morire;
- disfarsi di beni o lasciare le proprie volontà;
- drastici cambiamenti del comportamento o della personalità, come trascurarsi nell’aspetto e isolarsi dagli amici e familiari.
CHE FARE?
Eseguita una valutazione del rischio, e quando in presenza di idee suicidarie ricorrenti, la linea guida generica da seguire la troviamo su molteplici siti a tema, tra cui questo. Viene sempre consigliato il ricorso a personale formato (meglio psichiatri) e, se in presenza di un soggetto in evidente “stato mentale perturbato” e mosso da impulsività suicidaria, la soluzione può essere quella di chiamare soccorsi che possano raggiungere l’individuo dove si trova fisicamente (quindi chiamando, per l’Italia, il 118). Ciò su cui si può intervenire, di fatto, è l’impulsività suicidaria, dal momento che risulta pressochè impossibile interrompere le pianificazioni suicidarie “lunghe”, eseguite a mente fredda.
Altri spunti: https://www.prevenireilsuicidio.it e questa rubrica su Psychiatry On Line.
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