di Raffaele Avico, Gianluca D’Amico
INTRODUZIONE
Basaglia diceva che è necessario, in qualsiasi opera di cambiamento sociale, essere dei buoni inventori e dei buoni narratori. Si tratta dell’annosa questione della relazione tra teoria e pratica. È sufficiente ragionare e ragionare insieme per cambiare la realtà oppure è sufficiente tuffarcisi dentro alla realtà per cambiare, per sentirne la puzza, per attraversarne le contraddizioni?
È chiaro come entrambi i momenti siano strettamente necessari, ma la questione di fondo è come decliniamo il rapporto tra questi due momenti. Basaglia, nella sue due anime da grande psicopatologo e da grande distruttore di vecchie istituzioni e di inventore di nuove istituzioni (costruite con l’intenzione di distruggerle all’infinito per crearne sempre di nuove), ci insegna che il nostro fine di operatori della salute mentale non è tanto quello di vincere e quindi di raggiungere un determinato obbiettivo che ci eravamo prefissi a scapito di altri che la pensano diversamente da noi, ma piuttosto è quello di convincere: di dimostrare che un altro modo di stare con l’Altro è possibile, che possiamo inventarci altri modi di costruire la salute delle persone, con le persone.
Aprire le pratiche e la teoria a possibilità diverse, fare un passo indietro e di lato rispetto al si-fa-così-perchè-si-è-sempre-fatto-così; fare epochè, che semplicemente significa mettersi in discussione, farsi travolgere, di fronte all’Altro, dal dubbio, farci assediare dal nostro balbettio, prendere distanze e tempo al fine di costruire, sempre con l’altro, un modo diverso di fare salute.
Dicevamo, non ci interessa il fine, non ci interessa raggiungere uno standard migliore (qualsiasi cosa significhi) nei nostri servizi di salute mentale; da qui il mio personale dubbio sull’utilizzo del termine “modello”. Nella mia testa un modello (seppur in scienza e coscienza) ha le caratteristiche della completezza e della compiutezza ed è per questo che mi restituisce un’idea di staticità.
Esiste un modello triestino? Le Microaree rappresentano il modello triestino? Non lo so e pare (per fortuna) che nemmeno chi ci lavora abbia le risposte a quelle domande.
Mi pare, al netto dell’ambiguità del termine “modello”, che le Microaree abitino a pieno le contraddizioni del territorio triestino e che non si siano fatte travolgere (questo lo intuisco dalle parole degli operatori) dalla smania di dover tutto codificare, tutto matematizzare e tutto staticizzare. Mi pare che il progetto delle Microaree incarni quello spirito di eterna innovazione e invenzione che portò ad una legge stupenda che è la legge 180 del 1978; mi pare che gli operatori che hanno inventato e ragionato queste istituzioni oscillino elegantemente e con consapevolezza tra il desiderio di reinventare e reinventarsi continuamente e il desiderio (il pericolo) di aver raggiunto, una volta per tutte, il modo migliore per fare salute mentale -un modello appunto. (G.D.)
LE MICROAREE: INTERVISTA A MARIAGRAZIA COGLIATI DEZZA
Con i colleghi e amici di Psicologia fenomenologica abbiamo voluto approfondire il modello triestino (cosa lo differenzia dal restante territorio italiano, in termini di presa in carico di persone in difficoltà -e in particolare utenti psichiatrici?).
Il nostro podcast ha l’obiettivo di creare dei confronti tra modelli di gestione e presa in carico, tra paesi diversi (Italia vs Belgio, per esempio, o Italia vs Svizzera). In questo caso abbiamo fatto un’eccezione, decidendo di addentrarci meglio nel lavoro dell’area di Trieste.
A questo fine abbiamo intervistato Maria Grazia Cogliati Dezza, psichiatra, curatrice del libro La città che cura, che abbiamo qui recensito, ex dirigente dell’azienda sanitaria triestina e promotrice del progetto Microaree, su cui l’intervista si è focalizzata.
Le microaree sono una realtà unica in Italia: nascono nel 2004/2005, in ragione della necessità di copertura sociosanitaria di alcune zone della città di Trieste altamente sofferenti e segnate da profonde diseguaglianze interne. Come si ascolta nell’intervista, le microaree nacquero dal convergere degli intenti di 3 enti territoriali, uniti in nome di una medicina (più) territoriale:
- azienda sanitaria locale
- comune di Trieste
- ATER di Trieste (ente per l’assegnazione delle case popolari della città)
..con dieci obiettivi iniziali:
- Realizzare il massimo di conoscenza sui problemi di salute delle persone residenti nelle Microaree.
- Ottimizzare gli interventi per la permanenza nel proprio domicilio ove ottenere tutta l’assistenza necessaria (e contrastare l’istituzionalizzazione)
- Elevare l’appropriatezza nell’uso di farmaci.
- Elevare l’appropriatezza per prestazioni diagnostiche.
- Elevare l’appropriatezza per prestazioni terapeutiche (curative e riabilitative).
- Promuovere iniziative di auto-aiuto ed etero-aiuto da parte di non professionali (costruire comunità).
- Promuovere la collaborazione di enti, associazioni e organismi profit e no profit per elevare il ben-essere della popolazione di riferimento (mappatura e sviluppo).
- Realizzare un ottimale coordinamento fra servizi diversi che agiscono sullo stesso individuo singolo o sulla famiglia.
- Promuovere equità nell’accesso alle prestazioni (più qualità per cittadini più vulnerabili).
- Elevare il livello di qualità della vita quotidiana di persone a più alta fragilità (per una vita attiva ed indipendente).
Per dare forma al progetto, nato nell’idea iniziale di sviluppare comunità, vennero create delle sedi dedicate (portierati sociali) coordinate da un referente dissociato dell’azienda sanitaria (spesso un infermiere), che sarebbero state frequentate in seguito da utenti di varia estrazione (ex tossicodipendenti, utenti psichiatrici, utenti “sociali”, anziani del luogo, bambini) ma strettamente legati al luogo.
Ogni microarea, infatti (allo stato attuale ne esistono 17), risponde a un bacino di cittadini specifico: la sua giurisdizione, o la sua copertura, si rivolge a un numero limitato di persone, che abitano quella parte di città.
Qui l’intervista:
IL DOCUMENTARIO “LA CITTÁ CHE CURA”
Già qui avevamo scritto a proposito del libro la città che cura, a proposito del concetto di microaree di Trieste.
Il film/documentario che su quel libro è stato costruito e diffuso, la cui regia è di Erika Rossi, intreccia due filoni narrativi distinti: l’attività di Monica (operatrice di una microarea di Trieste) sul territorio, impegnata a seguire diversi soggetti colpiti da diverse problematiche tali da necessitare un monitoraggio continuo fatto in modo domiciliare, e lo svolgersi di un’equipe di lavoro proprio tra operatori delle microaree, che discutono a proposito del loro stesso lavoro.
Va chiarito che il modello per microaree è unico in tutta Europa, come specificato a fine film, se non del mondo. Il modello triestino è per questo riconosciuto a livello internazionale come “punta di diamante” tra i modelli psichiatrici diffusi, che in Italia diremmo ispirati al lavoro di Basaglia verso una psichiatria maggiormente democratica.
Vediamo per punti quali sono gli aspetti salienti del modello triestino e cosa emerge dalla visione del film:
- il lavoro di Monica non è solo quello di presiedere e aprire il portierato sociale (o microarea) del quartiere in cui lavora a Trieste: il suo lavoro è un lavoro domiciliare in senso reale, con visite fatte quotidianamente a casa di pazienti in carico a diversi servizi (dai CSM ai Sert) che in altro modo non sarebbero stati tenuti in carico, probabilmente destinati a “scomparire” agli occhi dei servizi
- quello che si osserva è un luogo, quello della microarea, in cui convergono diversi tipi di utenti di provenienza differente: è quindi, la microarea, un luogo ibrido e aperto a persone anziane e magari sole, ex tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, bambini
- la microarea, come questa intervista fatta a Roberta Balestra (ex dirigente SerD Trieste) per il nostro podcast ben chiarisce, è un luogo di ascolto, un luogo di ricezione dei bisogni del quartiere, un anello tra il territorio e l’ASL, destinato a introdursi in modo capillare nelle pieghe di un tessuto sociale complesso come quello dei quartieri difficili di Trieste. La microarea si costituisce in questo modo come l’ultimo passaggio di una filiera sanitaria, una catena di servizi che va dall’ospedale all’abitazione di un potenziale utente;
- viene evidenziato in un passaggio del film, durante la riunione di equipe tra operatori delle microaree, come il modello stesso spesso sia difficilmente sintetizzabile, rappresentabile e narrabile. Di fatto, al momento, è un modello non conosciuto e soprattutto poco riconosciuto, a rischio di essere, come sottolinea un operatore ripreso nel film, “inchiodato” da statistiche e numeri in grado di, così, farlo “morire”. Si tratta di un modello che fornisce assistenza particolareggiata e presenza costante degli operatori in quartieri e zone che altrimenti non sarebbero raggiunti dai servizi territoriali.
- L’operatore (lo si osserva dal lavoro di Monica nel film) si costituisce come figura ibrida, ausiliaria del soggetto, in grado di aiutare il paziente su più livelli, un po’ come fa un operatore di comunità residenziale, ma sul territorio; di fatto le ASL erogano anche altrove, non solo a Trieste, assistenza domiciliare: la differenza del modello triestino è appunto la presenza di luoghi in cui gli stessi bisogni vengono meglio intercettati e presi in carico in modo più puntuale
Quali sono dunque i punti di forza del modello triestino?
Abbiamo attraverso il Podcast de Il Foglio Psichiatrico iniziato un lavoro di raffronto dialettico tra modelli di presa in carico psichiatrica in paesi diversi. Per ora, abbiamo intervistato psichiatri provenienti da contesti molto diversi (Belgio, USA, Svizzera): il nostro obiettivo è valutare il modello italiano in confronto con i modelli stranieri, per capirne le caratteristiche e le aree di miglioramento.
Quello che sembra emergere è una sostanziale sovrapposizione per quanto riguarda ciò che avviene all’interno degli ospedali: qui, si lavora, bene o male, allineati su linee guida generali e senza differenze sostanziali. La differenza, così sembra, la fa il territorio, quello che avviene nel momento in cui un paziente venga dimesso dall’ospedale e ritorni a casa, le modalità insomma del suo inserimento.
Troviamo qui molteplici differenze, a seconda del grado di territorializzazione della presa in carico psichiatrica di un determinato soggetto.
Il modello triestino non si limita in questo senso a predisporre un certo numero di colloqui, per esempio, di psicoterapia, da effettuare da parte del paziente quando questi sia tornato a casa, per un certo periodo, così da monitorare la situazione ed effettuare costanti follow-up.
Qui l’idea (e da qui il titolo del film documentario, La città che cura) è costruire un apparato infrastrutturale pervasivo, realmente presente, realmente supportivo, al fianco delle persone, restituendo così l’individuo alla sua comunità, nell’idea di una più utile domiciliarizzazione dei servizi.
Un aspetto che emerge dall’intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza, è la volontà da parte dei promotori del progetto di mettere insieme una filiera di servizi “forte”, che riuscisse a produrre un miglior livello di assistenza sul territorio per pazienti psichiatrici, così limitando le cronicizzazioni (quello che chiamamiamo lungodegenze, spesso inevitabili -pi che altro per mancanza di alternative); la forza di questi stessi servizi, Cogliati Dezza sottolinea, consta di un’attenzione particolare ai luoghi stessi in cui questi servizi vengono erogati (con sedi “dignitose”), una maggiore copertura in termini di orario (ricordiamo che a Trieste i CSM sono aperti 7 giorni su 7 e contengono posti letto per effettuare ricoveri brevi -fino a 7 giorni), un generale ripensamento dell’idea di “fare salute” mettendo al centro il paziente nel “suo” ambiente.
Anche per questo, il modello triestino può essere annoverato tra gli strumenti reificati, tra le idee “messe a terra” a partire dall’impulso teorico di Basaglia, insieme ad altre buone pratiche come il reinserimento eterofamiliare assistito (IESA), qui descritto, presente invece in tutta Italia.
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