di Raffaele Avico
Perchè guardare, su Netflix, The Social Dilemma?
The Social Dilemma è un documentario che intreccia due filoni di narrazione: contiene in sè sia una parte di documentario con interviste a ex programmatori/informatici di Facebook, Pinterest, Google, quindi direttamente coinvolti nella stessa nascita di questi social media, sia una parte più narrativa con la storia di un ragazzo “pilotato”, “radicalizzato” dai social media.
Il messaggio che ne è esce è chiaro: “we have to“, “dobbiamo” cambiare qualcosa nel modo di fruire dei Social, visto che questi stessi Social sembrano sempre più programmati per “pilotarci” in senso comportamentale a fini sia commerciali, che politici. Tutto questo, sfruttando meccanismi paleopsicologici, atavici, come l’induzione di panico, o la gratificazione mediata da dopamina.
Vedere questo documentario consente una presa di consapevolezza, per tentare di mettere in atto comportamenti di “difesa”.
É stato osservato come, ogni qualvolta all’interno del mercato tecnologico venga inserito un nuovo strumento, le persone assumano due posizioni stereotipiche che vedono da una parte gli entusiasti/ottimisti, dall’altra i catastrofisti/luddisti. Spesso il tutto prende una connotazione politica, a seconda che si decida di appoggiare o meno una posizione “liberale”, con l’individuo più o meno responsabile di sè nella società del consumo. In questi ultimi anni, con la nascita dei Social Network, sembra essersi riproposta la stessa dinamica: da una parte gli entusiasti, dall’altra gli scettici/catastrofisti/reazionari. Nelle discussioni accademiche -o anche cliniche- si arriva a una conclusione che è sempre la stessa: sarà necessario, nel tempo, normalizzare l’uso dei social attraverso un’educazione al buon uso: questo però ha come presupposto e assunto fondamentale il fatto che la responsabilità dell’uso di uno strumento di così forte impatto -Facebook o qualunque altro social, come Tik Tok- dipenda esclusivamente dal singolo cittadino. Il problema, in questi termini, non sarebbero tanto Facebook nè TikTok in sé, quanto l’uso che se ne fa. Così come si fa con un bambino che viene educato al buon consumo del cibo, si tratterebbe di fornire al cittadino gli strumenti per difendersi dai rischi dei social media/Facebook, cosicchè in autonomia possa auto-limitarsi, imparare a controllarsi.
Spostiamo per un attimo la questione e allarghiamola, confrontando il problema dell’uso dei Social con la questione sull’uso improprio di armi dove queste siano di facile accesso. Oppure proviamo a metterlo a paragone con il problema del gioco d’azzardo, il gambling. Il problema diviene subito prettamente politico e ruota intorno alla questione se lo Stato debba impegnarsi o meno per proteggere la cittadinanza da sé stessa, cioè dai propri impulsi più basici (rabbia, paura dell’ignoto, questioni di tipo territoriale).
Se assumiamo che la cittadinanza abbia pieno controllo di sé e dei propri impulsi, facciamo forse un errore di sopravvalutazione delle risorse degli individui: il problema del gambling in Italia, o la questione dell’uso di armi negli USA, per esempio, hanno sollevato la questione sul libero accesso alle “fonti” (slot-machines, armi), soprattutto quando ad accedervi siano persone con difficoltà sociali, magari provenienti da contesti a rischio. Se ci arrendiamo al fatto che i cittadini non sempre siano in grado, da soli, di controllare i propri impulsi -razionalizzandoli, “sublimandoli” o “intellettualizzandoli”-, l’utilizzo di social come Facebook, Instagram o TikTok non diviene più solamente una questione di libertà e controllo individuale, divenendo un problema politico nel senso più ampio del termine, ovvero di “gestione della collettività” che dovrebbe essere in particolar modo considerato in relazione alla cittadinanza con meno risorse personali, ovvero ai soggetti più deboli.
I PIANI DEL RISCHIO
Come si osserverà a seguito della visione di The Social Dilemma, la natura controversa di strumenti come TikTok o Facebook (Facebook viene descritto come particolarmente nefasto in quanto a strumento di comunicazione: sappiamo tra l’altro che è ormai in pieno declino, soprattutto tra i più giovani) ha quindi piani diversi che riguardano:
- la questione della dipendenza e dell’accesso a uno strumento estremamente dipendentogeno (cioè in grado di provocare assuefazione e grande dipendenza): c’è da chiedersi quanto la persona sia realmente libera di controllare i propri impulsi, generati su bisogni altrettanto basici, come l’appartenere, o il sedurre. Se rispondiamo a questa domanda (quanto la cittadinanza è in grado di padroneggiare i propri impulsi?), su cui non possiamo essere neutrali e su cui è importante interrogarci, dobbiamo per forza di cose schierarci a favore o contro, di fatto assumendo una posizione educativa, come un genitore fa istintivamente, per esempio, ogni qualvolta al figlio di 5 anni venga messo in mano un tablet o un device tecnologico. L’istinto che muove un padre a proteggere il figlio dall’uso di uno strumento come Internet -e i Social- dovrebbe farci riflettere su quanto tutti noi ci si renda conto, anche se ingenuamente, di quali pericoli di assuefazione e dipendenza rechi con sé uno strumento come Facebook, o qualunque altro social. Come sappiamo, la dipendenza si crea dove c’è gratificazione.
- In senso più sociale e interpersonale, l’assenza di moderatori conduce, come osserviamo tutti i giorni, a una libertà di parola totale con le conseguenze inevitabili di un “aprire le gabbie”: pensiamo per esempio al revenge-porn, o al cyber-bullismo (che da virtuale diviene paurosamente incarnato e reale). In questo caso Facebook -ma anche gli altri social- sono un’agorà virtuale in cui vale tutto, all’interno della quale permettiamo ai nostri avatar di confrontarsi in modo spietato, salvo poi accorgerci che questi stessi avatar qualcosa di noi hanno e che le parole hanno un loro peso, che rimane anche una volta spento lo schermo. Raffaele Alberto Ventura ne parla nel suo “La guerra di tutti” a proposito dell’effetto “mimesi”, ovvero quando lo spettacolare deborda nel reale, contaminandolo.
- Al di là del problema dell’uso dipendentogeno dei Social e in particolar modo di Facebook, la discussione a proposito della qualità dell’informazione ha messo al centro dell’attenzione un ulteriore piano di pericolo, questa volta a proposito dei contenuti e in particolare a riguardo delle bolle informative e delle fake news. Queste ultime sono da interpretarsi come operazioni, strumenti di marketing (un giornalista, in accordo con la redazione per cui lavora, modifica a piacimento la notizia al fine di renderla più appetibile al grande pubblico, al fine di conquistare più audience, e quindi più click e più soldi): niente di nuovo in termini di media. Giornalismo ed entertainement si confondono. Quello che però appare come un fenomeno relativamente nuovo è quello appunto delle bolle informatiche, questione che va pensata a partire dal tema ormai noto, più ampio, di come sono manipolati i contenuti dei Social e dei motori di ricerca che usiamo quotidianamente a fini commerciali. Esistono, come sappiamo, algoritmi e software che, dopo aver tracciato un profilo di ciò che siamo a livello di consumatori web, ci propongono risultati e avvertimenti pubblicitari che si confanno al nostro gusto, a fini sempre di (web) marketing. Questo rende la nostra conoscenza ricorsiva, mai veramente aperta a ciò che è diverso dal nostro gusto personale. In questo senso si parla di “bolla informativa”: immaginiamo un bozzolo di risultati Google e advertisement Facebook che ci avviluppa costruito a nostra immagine e somiglianza e pensato per far sì che noi ci si avvicini a ciò che si confà ai nostri gusti. É facile capire quanto questo precluda uno sguardo più ampio sulla realtà e quanto rappresenti una minaccia alla democrazia mediatica (questo aspetto è forse il più evidenziato da The Social Dilemma)
Su queste tematiche diversi soggetti, in rete, stanno tentando un lavoro di prevenzione, come Tlon (qui un intervento molto lungo e denso sul libro “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” di Jaron Lanier), o alcuni youtuber come Federico Pistono.
“WE HAVE TO”
Così come è accaduto nei decenni scorsi per le operazioni giganti di prevenzione ai rischi connessi al mondo del tabacco (ci sono voluti decenni), ciò che va fatto è prendere coscienza in pieno dei rischi di questo strumento, per poi (tentare di) abbandonarlo come si fa con una cattiva abitudine (chi progressivamente, chi operando un taglio netto). I soggetti più a rischio, come evidenzia The Social Dilemma, sono coloro i quali possiedono meno strumenti protettivi in termini di rischio di dipendenza e manipolabilità (i bambini, adolescenti con funzioni esecutive deboli -più predisposti a sviluppare addiction-, i deprivati, le persone con meno rete sociale o pochi familiari di supporto, in generale i fragili): Facebook, insieme agli altri Social, li troverà pronti e affamati.
É probabile che su questo l’opinione pubblica dovrà fare alcuni step, con lo stesso iter che già osservammo per altri oggetti di dipendenza nei decenni scorsi: novità, “coolness”, assenza di consapevolezza, prodromi (fase in cui siamo ora), sintomi, presa di coscienza, diagnosi, problematizzazione e infine (ri)posizionamento.
Siamo solo all’inizio.
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