di Raffaele Avico
Gestire una dipendenza, in qualunque forma questa si manifesti, non è una cosa semplice. Possiamo suddividere due tipologie di dipendenza, a seconda che questa si esprima nei confronti di una sostanza, o di un comportamento.
Per esempio, la dipendenza da cocaina prevede l’intermezzo di una sostanza assunta dall’individuo. La dipendenza da smartphone e dal gioco, invece, è una dipendenza che si struttura intorno a un comportamento.
Entrambi questi macro-settori, hanno in comune meccanismi neurobiologici che riguardano il circuito di reward e la dopamina. Abbiamo qui approfondito il tema.
Il gestirla, invece, una dipendenza, richiede una serie di azioni non sempre facili per l’individuo. Se esistono servizi preposti dal sistema sanitario nazionale al trattamento dei disturbi da addiction, d’altronde, è perché un comportamento di dipendenza può arrivare a rappresentare un problema enorme nella vita di un individuo, altamente compromettente.
Esistono diversi piani su cui si può impostare un trattamento per un problema di dipendenza. É da notare che questi approcci al problema, dovrebbero essere messi in atto in contemporanea, senza considerare un approccio superiore o più potente degli altri. Spesso mettere in campo uno solo di questi “strumenti” o piani di intervento, non è sufficiente:
- piano farmacologico: utile quando l’individuo sia pesantemente invischiato in uso di sostanze che producono grande dipendenza fisica, come l’eroina, il crack, l’alcol. Utile inoltre quando l’individuo sia assolutamente non in grado di gestire la sua impulsività, e la sua compulsività, nei confronti dell’oggetto di dipendenza. Una visita psichiatrica è indispensabile, inoltre, per valutare se e in che modo un farmaco possa aiutare il soggetto nei confronti delle ricadute psicopatologiche della dipendenza sulle altre aree della vita.
- piano comportamentale: per vincere una dipendenza, seguendo questo tipo di approccio, occorrerà sostituire un’abitudine negativa con un’abitudine più salutare o innocua. Per fare questo, occorrerà agire in modo molto concreto sul comportamento. Dovremo quindi fare in modo di allontanare l’individuo dal suo oggetto di dipendenza, prima di tutto fisicamente. Ancora oggi le comunità residenziali per soggetti con tossicodipendenza, rappresentano un strumento potente per allontanare il soggetto dal suo oggetto di dipendenza, consentirgli un “wash out” dalla sostanza, aiutarlo/a nell’elaborare forme “nuove” di interazione con la realtà e impostare una terapia adeguata in senso farmacologico. Alcuni soggetti sono stati letteralmente salvati dalle strutture residenziali, da provvedimenti disciplinari o addirittura dal carcere. Quando infatti la forza del singolo è insufficiente, è opportuno valutare l’ipotesi di un intervento coercitivo/superiore a lui/lei in termini di “forza”. Il dramma di alcuni soggetti tossicodipendenti, è un dramma che riguarda la forza dell’Io, la forza di imporsi su se stessi e la propria impulsività.
- piano psicoterapico: il lavoro interno da fare, quando si abbia a che fare con una dipendenza, riguarda diversi aspetti. Alcuni, più importanti di altri, riguardano la capacità di regolare l’emotività, il comprendere il significato dell’assunzione della sostanza o del ricorso al comportamento di dipendenza (significato ricreativo, socializzante, auto-terapeutico, di protesta?), i vuoti o i conflitti di natura affettiva che la dipendenza va a colmare, la presenza o meno di disturbi sottostanti o precedenti la dipendenza stessa. Un aspetto importante, riguarda il posizionamento (un aspetto chiarito in fondo a questo articolo).
- piano sociale: l’individuo tossicodipendente, è un individuo immerso in un contesto. Questo contesto è spesso patologico o foriero di occasioni di consumo. Per un cocainomane, vivere in una grande città è differente dal vivere in un piccolo paese di montagna, anche solo per le occasioni di contatto con l’oggetto di dipendenza. Se il contesto deve cambiare, occorrerà che le abitudini del soggetto cambino, in relazione a questo contesto. Rinunciando a una sostanza come la cocaina, di nuovo, un individuo dovrà sacrificare molteplici abitudini spesso molto radicate nel suo quotidiano agire. Vorrà dire dunque cambiare luoghi di frequentazione, compagnie, amici. È frequentissimo trovare individui che, usciti da una dipendenza, si trovino soli, isolati socialmente, dato che le frequentazioni prima intercorse sembravano incentrate sul comportamento di dipendenza.
Contesto, inoltre, vuol dire reinserimento lavorativo e abitazione. Aspetti di sanità territoriale fondamentali, che riguardano il reinserimento del paziente (parliamo qui di casi gravi, “sociali”), a carico dei SerD e dei servizi sociali di riferimento. La dimensione del territorio è fondamentale: il rischio di reinserire il paziente in un contesto a rischio, vanificando di fatto tutto il ”lavoro” fatto prima, è altissimo: è forse questo l’anello debole della filiera terapeutica, pur essendo uno dei più importanti. Sulla questione del territorio abbiamo qui approfondito il modello triestino e il servizio IESA.
Possiamo immaginare questi vettori di intervento, divisi in due grandi classi: gli interventi bottom up (dal basso verso l’alto, che riguardano prima l’individuo e poi la sua realtà -interventi come la psicoterapia e la farmacoterapia), e gli interventi top down (che riguardano tutto ciò che viene calato dall’alto, in ragione di una supposta eccessiva debolezza dell’individuo nei confronti della sua stessa dipendenza, come i ricoveri prescritti da uno psichiatra o un periodo di “ritiro” in una comunità residenziale ordinato da un tribunale).
Questi due interventi, soprattutto nei casi difficili, andrebbero messi in atto insieme, integrati.
Per questo, un primo passaggio per chi voglia affrontare un problema di addiction (di qualsiasi entità), è richiedere una presa in carico doppia (psichiatra+psicoterapeuta).
Un aspetto importante, riguarda il posizionamento nei confronti della sostanza. Posizionamento oscillante, con fasi di “evoluzione” e fasi di regressione.
Cosa significa posizionamento?
Immaginiamo di intrattenere rapporti con una persona che ci procura, per il modo in cui ci tratta, profondo malessere. Superata una fase iniziale di entusiasmo e gioia, intravediamo gli effetti negativi che la presenza e l’atteggiamento di questa persona ha su di noi, sul nostro senso di stabilità e benessere psichico. Superata la “luna di miele iniziale”, ci scopriamo a vivere nei confronti di quella persona sentimenti contrastanti. Da una parte la sua presenza ci intriga e ci regala emozioni positive, dall’altra ci sono certe cose del suo comportamento che ci procurano troppo dolore per essere considerate in modo leggero.
Accorgerci di questi aspetti ci conduce a sviluppare sentimenti opposti e coesistenti: diventiamo ambivalenti. Sentiamo trasporto e gioia, da un lato; dall’altro, osserviamo il potere che il frequentare quella persona ha su di noi e le ripercussioni negative che questo ha sulla nostra salute psichica: arriviamo a sviluppare sentimenti di rabbia e odio.
Passare da uno stato di “innamoramento” iniziale a un’ambivalenza di sentimenti, succede anche in ambito di dipendenze. In un primo momento viviamo quella che viene gergalmente chiamata appunto luna di miele con la sostanza (per esempio la cannabis, ma il discorso vale anche per la dipendenza da social network) o con l’oggetto della nostra dipendenza, immergendocene. Con il tempo, ci scopriamo a odiarlo, quello stesso oggetto, per il potere che ha su di noi e per ciò che ci fa vivere.
Questa ambivalenza ci porta a posizionarci in modo diverso rispetto a quello stesso oggetto.
A sentimenti diversi corrispondono posizioni diverse: in un primo momento siamo vicinissimi all’oggetto della nostra dipendenza, collusi. Con l’emersione dei sentimenti di segno negativo (odio, delusione, senso di sottomissione, etc.) cominciamo a fare un “tira e molla” avvicinandoci e allontanandoci dal focus del nostro comportamento di dipendenza.
Moltissime persone vivono questa fase di ambivalenza e di mancato posizionamento per molto tempo, permanendo anni nel limbo dell’ambivalenza: da un lato ricercano la vicinanza del loro oggetto di dipendenza (sigaretta, sostanza o smartphone che sia), dall’altro cercano di disfarsene, arrivando spesso a delegare ad altri il compito di operare questo “taglio”.
Posizionarsi significa assumere una posizione sempre più consapevole e lucida rispetto alla propria dipendenza. Spesso questo implica un lavoro su di sè in cui si faccia chiarezza su quello che si sente e desidera, insieme a un bilancio molto reale dei vantaggi e degli svantaggi di quello stesso comportamento di dipendenza.
Raggiungere finalmente una posizione ferma e consapevole rispetto a una propria dipendenza (quando per esempio arriviamo a dire, essendone profondamente convinti, “non mi fa bene: preferisco evitare”), garantisce il mantenimento di una linea di condotta -come l’astinenza protratta o il sospirato “uso controllato” (so che “frequentare” quella cosa non mi fa bene, ma me lo concedo in modo saltuario, consapevole degli effetti collaterali).
Per concludere, alcuni autori hanno teorizzato che un importante fattore protettivo per lo sviluppo e il mantenimento di una dipendenza, sia il senso di connessione agli altri e verso la propria vita. Numerosi esperimenti hanno infatti notato come in ambienti definiti “arricchiti”, gli animali da esperimento tendessero a sviluppare poco, o a non sviluppare, dipendenza da “altro”. Si veda, su questo, il seguente video:
Alcuni aspetto teorici vengono approfonditi da Stefano Canali sul sito Psicoattivo.
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