di Raffaele Avico
Change è un libro di Watzlawick e bla bla bla (qui una recensione del libro). In questo articolo cerchiamo di fare alcune riflessioni sugli aspetti da tenere a mente o da mettere in discussione del libro.
Watzlawick è un teorico realmente geniale: si veda per esempio questo video:
CHANGE: PUNTI A FAVORE
- gli autori ragionano sul tema generale del cambiamento, distinguendone due tipologie : il cambiamento di tipo 1, interno al gioco che contempla gli elementi che partecipano al gioco stesso (le pedine della scacchiera e come muoverle), e il cambiamento di tipo 2, su di un livello logico superiore (le regole del gioco stesso degli scacchi). Per ottenere un vero cambiamento, gli autori osservano, è importante che il cambiamento sia di tipo 2: dovremo agire cioè per cambiare le regole del gioco stesso (che alimentano l’immobilità del gioco in sè). Questo, già di per sè, pone a favore del libro, realmente geniale. La scuola di Palo Alto già aveva fatto parlare di sè con il fondamentale “pragmatica della comunicazione umana”, antecedente.
- come fare a cambiare? Gli autori ci invitano a considerare come, per arrivare a un vero cambiamento, questo dovrà essere attuato facendo un “passo indietro” a riguardo della situazione che si desidera cambiare, in modo da poterne avere una visione “dall’alto”. Così, scopriremo che spesso ciò che mantiene in piedi un problema, è il tentativo che facciamo di risolverlo, quello che gli autori chiamano tentata soluzione. Per cambiare, dovremo quindi lavorare su questa tentata soluzione. Esempio: se mi sforzo di addormentarmi, quando insonne, è più che probabile che rimarrò sveglio, incastrato in uno sforzo paradossale. Per risolvere questo problema, dovrò, contro-paradossalmente, tentare di stare sveglio, rompendo il paradasso originario
- la logica del paradosso e del contro paradosso, ha ispirato sia la psicoterapia sistemica in senso lato, che la psicoterapia breve strategica (quest’ultima in particolare). La “prescrizione del sintomo” (l’intervento paradossale) viene usata in entrambi questi approcci alla psicoterapia
- quando vi sia una stratificazione del pensiero, e la messa in piedi di “tentate soluzioni” basate sull’evitamento e sul controllo (in particolar modo nei disturbi da attacco di panico, nei disturbi fobici, in alcune forme di disturbo sessuale e di DOC -ovunque cioè vi sia una parte della mente impegnata attivamente a controllare o a gestirne un’altra), la logica contro-paradossale assume un’enorme portata in termini di efficacia. A volte un intervento può essere risolutivo, o in ogni caso molto efficace
- l’approccio degli autori alla psicoterapia, è un approccio pragmatico, americano: si ragiona sul qui e ora, per obiettivi chiari e tempi definiti. Il problema prima di tutto dev’essere riconosciuto e vissuto dal soggetto come un problema: in caso contrario non avrebbe senso approcciarvisi.
- il libro chiarisce bene che tentare di approcciare il problema “dall’interno”, usando per così dire lo stesso “suo” linguaggio, non serve: il problema viene mantenuto. Occorre capire come fuoriuscirne cambiando i presupposti sui cui si fonda. Molto importante il riferimento alle 4 fasi del cambiamento promosse dagli autori:
- Una definizione chiara del problema in termini concreti;
- Un’analisi della soluzione finora tentata;
- Una chiara definizione del cambiamento concreto da effettuare;
- La formulazione e la messa in atto di un piano per provocare tale cambiamento.
- Il cambio di paradigma suggerito dagli autori si basa sostanzialmente sul passaggio dal PERCHÉ al COME. Gli autori propongono di non cercare necessariamente un insight, una comprensione profonda del problema: è più importante concentrarsi su come quello stesso problema si mantiene, quali sono i fattori contestuali e di comportamento che mantengano quella stesso problema in piedi.
CHANGE: PUNTI CONTRO
- la logica paradossale, non può essere applicata a qualunque problema, specialmente in ambito clinico; non tutti i problemi infatti si basano sul paradosso, nè sulle tentate soluzioni. L’anoressia, per esempio, non è una tentata soluzione a riguardo di un altro problema, ma un modo d’essere che trova le sue radici in questioni esistenziali e affettive, così come la depressione, ruotante intorno a tematiche inerenti il lutto, la colpa, la perdita. Non sembra possibile cioè risolvere la questione nei termini di un singolo problema, unico, che debba essere “disciolto o sbloccato”. Vedere in tutti i problemi delle tentate soluzioni rischia di divenire -questo sì- un bias cognitivo, un po’ come succede ai “pantraumatologi” che ricercano, dietro ogni disturbo, la presenza di uno stress post traumatico
- questa visione “risolutoria” (che si radicalizza con i teorici della “seduta singola”) viene denigrata dagli “ortodossi” della psicologia clinica anche se, va detto, non tutto ciò che storicamente produsse scetticismo si rivelò sbagliato. La stessa psicoanalisi inizialmente destava scandalo. Qui potremmo però ipotizzare un errore strutturale: pensare di “sbloccare” un paziente, significa avere una considerazione del suo problema basata sulla presenza di un errore di fondo, come un passaggio sbagliato fatto nella risoluzione di un’equazione complessa che quindi, se corretto, porti infine al risultato giusto. Il punto centrale è che chiunque lavori con pazienti gravi, si rende conto che la mente non funziona in questo modo, la psicoterapia non può divenire un’indagine diagnostica che ha dell’investigativo, non può limitarsi alla ricerca del “bias” (cioè dell’errore), dato che non è risolvendo un errore del pensiero che si cura uno stato di malessere soggettivo, che prescinde spesso dal pensiero stesso. Invece di “domandare”, “esplorare”, “sentire”, “osservare”, osserviamo qui l’utilizzo di altri verbi, mutuati da un approccio “risolutorio” alla psicologia clinica, da una modellizzazione della mente per certi versi cibernetica, “algoritmica”: “sbloccare”, “disinstallare”, “risolvere”, il che risulta sospetto, per lo meno limitato, insufficiente.
- il tipo d’intervento che gli autori propongono, è un intervento che si fonda sull’assunto che la persona possieda una fiducia totale in quello che i terapeuti gli propongono. Parlano di prescrizioni da seguire, non facendo tuttavia i conti con chi si ponga in modo scettico, chi si possa sentire manipolato, chi non ritenga sufficiente che “il dottore abbia capito, anche se io no”; di fatto ritengono sufficiente che sia il comportamento a cambiare: il pensiero arriverà dopo; il paziente arriverà in seguito a capire -se mai lo farà- la logica sottesa all’intervento, al suo razionale clinico.
- La teoria che fonda questo approccio, non ha prodotto in seguito nessun filone serio di ricerca scientifica. Come mai? In “Change” vengono citati sia Bateson che Milton Erickson, riferimenti teorici del movimento (l’uno per via del lavoro sulla teoria dei giochi e del paradosso, l’altro grazie alle sue capacità –geniali– suggestivo/ipnotiche). Questo alimenta personalizzazioni e dogmatismi incentrati su persone singole, benché carismatiche. Quello che dobbiamo ricordare è che nelle professioni di cura, il curante dovrebbe essere un funzionario: altrimenti, andremo dal suo “nome” e non dalla sua “tecnica”. Quindi: dove stanno la ricerca, le prove di efficacia, in tutto questo? Dov’è la famosa peer review? C’è da considerare tuttavia che il libro rappresenta un impulso, un incipit a qualcosa che sarebbe avvenuto da lì in avanti; in questo sta, al di là di tutto, il suo peso specifico. Il problema della terapia strategica e delle prove di efficacia scarse, tuttavia, rimane.
Per concludere con un solo aggettivo, Change è imprescindibile per chiunque si occupi di clinica e di “cambiamento” in senso lato, soprattutto per l’accento posto sui temi del paradosso, delle tentate soluzioni e della causalità circolare (sempre più attuale in clinica, come qui approfondito). Gli autori possiedono un brillante, realmente complesso punto di vista sul modo di ragionare, pensare, vivere dell’essere umano, dimostrandosi paurosamente consapevoli di come il soggetto viva e sappia mettere in atto dei comportamenti e delle reazioni all’ambiente circostante a scapito di se stesso, spesso in modo non consapevole.
L’accento messo sugli aspetti suggestivi, infine, ci racconta di una precoce saggezza degli autori su tutto ciò che oggi chiamiamo “effetto placebo”, cioè sull’importanza degli aspetti relazionali, contestuali, relativi al come viene percepito il terapeuta del paziente, sull’importanza cioè della fiducia in clinica (qui un approfondimento a proposito del lavoro di Fabrizio Benedetti, italiano tra i massimi esperti di effetto placebo in senso internazionale).
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