di Raffaele Avico
Un’intervista a Davide Sisto, fondatore del blog Si può dire morte. Buona lettura!
- Davide, ci racconti qual è la tua figura,e di cosa ti occupi?
Sono un ricercatore universitario in ambito filosofico e mi sono specializzato, nel corso degli ultimi dieci-quindici anni, nella cosiddetta “tanatologia digitale”. Mi occupo cioè di come le tecnologie digitali hanno modificato il nostro rapporto con la morte, con l’elaborazione del lutto, con la memoria e con l’immortalità. Collaboro anche con associazioni e fondazioni che si occupano di lutto e, in generale, che cercano di riportare il discorso della morte nello spazio pubblico. Infine, faccio consulenze per start up impegnate nel campo dell’eredità digitale. Diciamo che, oltre alle canoniche attività di natura accademica, mi piace sviluppare collaborazioni con ambiti differenti dal mio ma fortemente condizionati dalla metamorfosi antropologica in corso, a causa delle tecnologie digitali, e da modalità inedite di attribuire un senso e un significato al nostro rapporto con la morte.
- Davide, cosa si intende con tanatologia, e attorno a quali temi verte il tuo lavoro di ricerca?
Il concetto di tanatologia ha un’origine abbastanza remota e indica quell’ambito specifico della medicina legale che si occupa dello studio delle cause di morte e delle modificazioni organiche che ne conseguono. In tal modo, è possibile accertare giuridicamente il momento del decesso. Nel Settecento, per esempio, il problema maggiore che riguardava la tanatologia medica era quello di non dichiarare come morta una persona che di fatto non lo era ancora. Nel corso dei secoli e, in particolare, nel Novecento la tanatologia ha cominciato ad affermarsi nel campo delle discipline umanistiche, sviluppando caratteristiche di natura psicologica, sociologica, antropologica, giuridica e filosofica. In altre parole, con il termine “tanatologia” si è cominciato a indicare tutto ciò che riguarda il nostro rapporto con la morte. Il mio lavoro di ricerca che, come dicevo sopra, è prevalentemente di natura filosofica mira a unire insieme le interpretazioni dei nostri comportamenti in merito alla relazione tra la vita e la morte, i percorsi di Death Education con partner lavorativi o formativi nei campi della psicologia, delle cure palliative, della pedagogia, ecc., lo studio della Digital Death o tanatologia digitale, come indicato nella risposta precedente.
- Davide, che rapporto intratteniamo con la morte, qui in Occidente? Che differenze noti con il modo di concettualizzare la morte presso altre culture?
Un discorso generale è alquanto difficile da fare, tenuto conto delle differenze territoriali, religiose e culturali. Tuttavia, è abbastanza riconosciuto tra gli studiosi nel campo della tanatologia il problema della rimozione sociale e culturale della morte nel corso del Novecento. Ci sono studiosi fondamentali che ne hanno parlato, da Philippe Aries a Norbert Elias, da Geoffrey Gorer a Bauman. In ambito filosofico resta, senza dubbio, centrale il pensiero di Martin Heidegger ispirato dal grande classico letterario “La morte di Ivan Il’Ich” di Tolstoj. Diciamo che il problema della rimozione sociale e culturale della morte l’ha trasformata in un tabù, di cui si parla il meno possibile. Si cerca di non pronunciare nemmeno la parola “morte”, quasi fosse una bestemmia o un termine inopportuno e inelegante. Insieme a Marina Sozzi e ad Ana Cristina Vargas gestisco un blog chiamato opportunamente “Si può dire morte”. Le ragioni della rimozione della morte sono numerose e collegate alle trasformazioni mediche, scientifiche, economiche e politiche della nostra società contemporanea. L’ospedalizzazione dei morenti ci ha abituato a non vederne traccia negli spazi in cui svolgiamo le attività quotidiane. L’aumento vertiginoso della durata media della vita ha fatto sì che ci abituiamo a pensarci quasi immortali e a non esperire fino all’età adulta a morti dolorose nel cerchio delle nostre famiglie, ovviamente tenendo conto di tutte le eccezioni possibili. La difficoltà maggiore che ne deriva è l’accettazione della nostra fragilità costitutiva, per cui seguono comportamenti malsani sia in ambito medico che in quello socio-culturale. Ne abbiamo fatto esperienza durante il Covid-19. Moltissime persone hanno manifestato forme di grave ansia personale nel momento in cui hanno preso coscienza del pericolo mortale. Al tempo stesso, la non abitudine a scendere a patti con la propria mortalità e con l’idea che si può morire da un momento all’altro produce comportamenti di autentico terrore, nell’istante in cui si ragiona su questo fatto, o di onnipotenza, là dove si rimuove completamente da sé l’opzione della mortalità. Non è un caso che oggi si stiano sviluppando sempre più iniziative pubbliche per recuperare il discorso relativo al fine vita: Death Cafè, letture specifiche nelle biblioteche, percorsi di Death Education nelle scuole e nelle Università, ecc.
- Davide, hai spunti di lettura, film o articoli da consigliare?
Per quanto riguarda i film e le serie televisive, meritano senz’altro “After Life” di Ricky Gervais su Netflix, serie che affronta con intelligenza il tema del lutto, “Truman. Un amico è per sempre” e “Il quaderno di Tomy”, due film argentini che si soffermano sul rapporto con la malattia tumorale. Il secondo film è ispirato a una storia vera. Per quanto riguarda le letture, oltre ai nomi che ho già menzionato, consiglio certamente di leggere tutti quegli studiosi e quelle studiose italiane che si stanno impegnando nel campo dei Death Studies: Ines Testoni, Marina Sozzi, Ana Cristina Vargas, Laura Campanello, Nicola Ferrari, Maria Angela Gelati e tanti altri che collaborano con queste persone. Meritano anche di essere seguite le principali attività pubbliche nel campo: dal Rumore del Lutto al Master “Death Studies & the End of Life” dell’Università di Padova, così come quelle dell’Associazione Zero K di Carpi e della Fondazione Ariodante Fabretti
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