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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

1 July 2025

A proposito di psicologia dell’aviazione

di PopMed

Abbiamo chiesto alla professoressa Claudia Ricco dell’Università di Torino e al pilota Alessandro Sommacale un commento a proposito di una figura relativamente nuova per il mondo degli psicologi/psicoterapeuti, lo psicologo dell’aviazione.

In linea con le direttive europee, è previsto infatti da alcuni anni che una figura di formazione psicologica venga impiegata in diversi momenti del “lavoro” in ambito di aviazione, dallo screening relativo alla personalità dei futuri piloti e membri della crew, alla gestione degli aspetti di emergenza, ai problemi generali del pubblico durante un volo.

In questa intervista ci hanno spiegato cos’è e cosa fa uno psicologo dell’aviazione, come viene formato e con quali obiettivi, e ci hanno presentato un corso che partirà da settembre a Torino, che rilascerà il titolo da poter spendere negli aeroporti d’Italia. Il link per accedere al corso è questo.

Di particolare interesse l’accento messo dalla Prof.ssa Ricco e da Sommacale a proposito della necessità di imparare attraverso simulazioni, elemento che nel corso verrà usato come strumento centrale, al fine di evitare un “troppo teorico” che sgancerebbe gli allievi dal lavoro sul campo.

->continua su POPMed

Article by admin / Generale / interviste, psicoanalisi, psicologia

30 June 2025

Clinica del trauma oggi: un approfondimento da POPMed

PREMESSA: da diversi anni questo blog si occupa di trauma e sindromi dissociative. Qui sono raccolti i contributi che fino ad ora abbiamo pubblicato sul tema. Ultimamente POPMed si è occupato di stilare una lista di 10 studi che raccontano le ultime evidenze a tema #ptsd, che troverete al link a fondo pagina.
 
di PopMed
 

Clinica del Trauma Oggi: Rassegna teorica, dati emergenti e applicazione terapeutica

Negli ultimi decenni, la comprensione clinica e neuroscientifica del trauma si è significativamente evoluta, portando a una ridefinizione del Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e al riconoscimento della sua forma più grave e pervasiva: il Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (C-PTSD). Questo documento propone una panoramica strutturata e critica dell’attuale conoscenza su questi disturbi, offrendo al lettore un accesso guidato e approfondito a tre componenti fondamentali: un’analisi teorico-clinica, una rassegna delle più recenti pubblicazioni accademiche, e un caso clinico rappresentativo con protocollo terapeutico completo.

La prima parte prende in esame una review clinica pubblicata su Frontiers in Psychiatry, che introduce e approfondisce un modello psicoterapico innovativo, noto come Cortina Method. Tale approccio si distacca dalle terapie espositive convenzionali e propone una via trasformativa indiretta per il trattamento del trauma, basata su processi di riconsolidamento della memoria e stati di plasticità neuropsicologica. Viene discusso il potenziale di questa metodologia per trattare pazienti affetti da C-PTSD, in particolare quelli con dissociazione, evitamento e trauma relazionale precoce. La review funge da base teorica per comprendere come le terapie possano essere adattate a quadri clinici complessi.

La seconda parte presenta una selezione ragionata di dieci articoli scientifici open access pubblicati tra il 2024 e il 2025, che esplorano il tema da prospettive cliniche, neuropsicologiche, sociali e terapeutiche. La rassegna include meta-analisi, studi clinici randomizzati, modelli di trattamento sperimentali, e approfondimenti su fattori culturali e relazionali che influenzano la risposta al trauma. Sono illustrati approcci evidence-based come TF-CBT, STAIR, MBT, Narrative Therapy e tecniche somatiche. Ogni studio è accompagnato da un riassunto critico che ne evidenzia contenuto, risultati e rilevanza clinica. Questa sezione ha l’obiettivo di orientare il lettore tra le evidenze più recenti e supportare una lettura comparativa tra i diversi modelli di intervento.

La terza parte si focalizza su un caso clinico documentato in letteratura (Elsevier, 2024) che descrive un trattamento intensivo basato sulla Trauma-Focused Art Therapy (TFAT). Si tratta di una giovane donna con trauma complesso, trattata attraverso un protocollo strutturato in tre fasi: stabilizzazione, esplorazione narrativa simbolica ed elaborazione. Il lavoro si svolge mediante tecniche non verbali – come disegno, collage e costruzione narrativa visiva – che permettono l’elaborazione di memorie traumatiche altrimenti inaccessibili. Il trattamento ha portato a una significativa riduzione dei sintomi PTSD, della depressione e a un miglioramento dell’autoefficacia e della resilienza. Questo caso illustra con chiarezza il potenziale delle modalità creative e sensomotorie nel trattamento del trauma complesso, e ne evidenzia l’integrazione possibile in protocolli strutturati.

In sintesi, il documento accompagna il lettore in un viaggio critico attraverso i modelli teorici, le evidenze empiriche recenti, e un esempio clinico applicato, con l’obiettivo di fornire una visione completa, aggiornata e integrata del trattamento del PTSD e del trauma complesso in ottica multidisciplinare. La struttura progressiva delle tre sezioni consente di passare dalla teoria alla pratica, offrendo strumenti di riflessione e applicazione clinica fondati scientificamente.


Parte 1: Sinossi di una Review/Meta-Analisi

Titolo: A New Psychotherapy That May Treat PTSD in One Session
Autore: E. G. Howe
Rivista: Frontiers in Psychiatry
Anno: 2024
Link all’articolo open access

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Introduzione

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) rappresenta una condizione debilitante che, in una percentuale rilevante di pazienti, si rivela resistente ai trattamenti psicoterapeutici convenzionali, come la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) o l’EMDR. In questo contesto si inserisce la Cortina Method (TCM), una nuova forma di psicoterapia breve che si propone di offrire sollievo immediato e duraturo ai sintomi del PTSD, anche in forme croniche e complesse. Secondo i dati aneddotici presentati, questa terapia può produrre risultati clinicamente significativi già dopo una singola seduta.

Metodo e Struttura del Trattamento

Contesto metodologico

La TCM si configura come una psicoterapia breve e non convenzionale, progettata per intervenire sul carico emotivo associato alle memorie traumatiche senza esporre direttamente il paziente alla narrazione dell’evento traumatico. La terapia si sviluppa in un formato semi-strutturato a sessione singola o breve ciclo, con una durata compresa tra 60 e 120 minuti.

Struttura e Tecniche Operative

La TCM non si fonda su un’unica tecnica, ma integra componenti multimodali, che includono:

  • Attivazione immaginativa guidata: il paziente è guidato in un percorso visivo e sensoriale interno per modificare il contenuto emotivo del ricordo senza riviverlo.
  • Tecniche somato-sensoriali: attività che coinvolgono il corpo (es. movimento sincronico, taping, respirazione guidata) per favorire il rilascio somatico del trauma.
  • Interventi di desensibilizzazione simbolica: utilizzo di immagini metaforiche per “ristrutturare” simbolicamente la scena traumatica (es. visualizzare la dissoluzione di un aggressore, la trasformazione di un ricordo in un oggetto neutro).
  • Azioni multitasking e non-semantiche: il paziente esegue compiti a bassa intensità cognitiva ma ad alta attivazione percettiva (es. movimento alternato, stimoli ripetitivi non verbali) per interferire con il circuito di consolidamento emotivo.

Meccanismo d’Azione Presunto

L’ipotesi teorica alla base del metodo è che tali tecniche attivino una finestra neurobiologica nota come reconsolidamento della memoria, in cui il ricordo, una volta “riattivato” in un contesto sicuro, può essere modificato prima di essere nuovamente consolidato nel sistema limbico.
In parallelo, l’attivazione di reti corporee (approccio bottom-up) consente al sistema nervoso autonomo di uscire da stati di freeze o iperarousal, creando le condizioni neurofisiologiche per un cambiamento duraturo.

Setting e Somministrazione

  • Ambiente terapeutico: deve essere calmo, contenitivo e guidato da un terapeuta formato. Non è necessaria la narrazione del trauma.
  • Ruolo del terapeuta: funge da facilitatore di sequenze esperienziali, non da interprete. L’approccio è centrato sulla fiducia implicita nelle risorse trasformative del paziente.
  • Materiale richiesto: solo la presenza fisica e attenzione condivisa del terapeuta e del paziente; non sono richiesti strumenti o software.

Evidenza empirica

Ad oggi non sono ancora disponibili studi RCT o protocolli manualizzati pubblicati in letteratura peer-reviewed. Tuttavia, l’articolo presenta testimonianze qualitative, osservazioni cliniche dirette e video di sessioni, che documentano miglioramenti significativi anche in pazienti refrattari.

Questa riformulazione rende chiara la natura composita e neuroesperienziale del metodo, ne chiarisce i fondamenti neurobiologici teorici, e lo distingue da approcci standard basati su esposizione e ristrutturazione cognitiva.

Risultati e Osservazioni Cliniche

Numerosi casi clinici, presentati sotto forma di testimonianze video e scritte, suggeriscono che il trattamento abbia effetti rapidi e profondi anche in pazienti con traumi gravi: veterani, vittime di torture, abusi sessuali e gravi incidenti. È riportata la riduzione o scomparsa dei sintomi ansiosi, flashback, dissociazione e iperarousal. Alcuni pazienti riferiscono un miglioramento superiore a quello ottenuto dopo anni di terapia tradizionale. Il trattamento sembra efficace anche in contesti complessi di trauma cumulativo e C-PTSD.

Impatto Teorico e Neuroscientifico

Il fondamento neurobiologico si rifà alle ricerche sul reconsolidamento della memoria (es. Kindt, Schiller), secondo cui ogni riattivazione mnestica è un’opportunità per la modificazione del contenuto emotivo della memoria. Inoltre, l’autore collega la TCM ai principi dell’ipnosi conversazionale di Milton Erickson e alle teorie di Bessel van der Kolk sull’impatto somatico del trauma. L’approccio integra dunque teoria dell’attaccamento, neurobiologia e tecniche esperienziali non invasive.

Rilevanza Clinica ed Etica

  • Efficacia percepita: risultati promettenti anche nei casi clinici più gravi e cronici.
  • Accessibilità: possibile apprendimento da parte di terapeuti con training breve.
  • Adattabilità: idoneo per pazienti con evitamento marcato, dissociazione o storia di fallimenti terapeutici.
  • Etica e limiti: mancano RCTs e studi longitudinali, ma l’assenza di effetti collaterali suggerisce l’opportunità di studi pilota in ambienti clinici protetti.

Conclusione

La Cortina Method rappresenta una potenziale innovazione nel trattamento del PTSD, soprattutto per forme complesse e refrattarie. La sua promessa terapeutica risiede nell’accesso indiretto alla memoria traumatica e nella valorizzazione delle risorse interne del paziente. Sebbene le evidenze attuali siano di natura aneddotica, l’interesse clinico e teorico è tale da giustificare lo sviluppo di studi sistematici.


Parte 2: Articoli Recenti

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Article by admin / Generale, Formazione / PTSD

11 June 2025

Collegno: la quarta edizione del Fòl Fest (“Quando cantavo dov’eri tu?”)

di Raffaele Avico

Da qualche anno a Collegno (TO) è organizzato un festival a tema salute mentale, ispirato dal Màt di Modena, a nome Fòl Fest.

I promotori e gli ideatori di questo importante evento, simbolicamente inserito nella suggestiva location dell’ex manicomio di Collegno, struttura bellissima ed enorme, sono -insieme ad altri- il gruppo di lavoro IESA, coordinato da Gianfranco Aluffi.
Sullo IESA abbiamo qui scritto in molteplici occasioni, essendo il progetto IESA una sperimentazione di inserimento “reale” di pazienti psicotici sul territorio cittadino, entro famiglie comuni che decidono di ospitarne un* per un tempo concordato, nel tentativo di superare in modo non solo verbale ma nei fatti il modello manicomiale/custodialistico, come auspicato dalla legge Basaglia a fine anni ‘70.

Lo IESA è un progetto ormai diffuso e vasto, radicato non solo in Italia, ma in tutta Europa (qui per chi volesse approfondire).

Il Fòl fest promuove molteplici attività organizzate nei locali della ex certosa di Collegno, su temi vari ma connessi al disagio mentale, con l’obiettivo di risolvere lo stigma ancora gravante sul tema e sugli individui colpiti dal problema.

Qui il sito di riferimento, con le informazioni per aderire all’iniziativa.

Qui invece la presentazione del progetto:

Collegno Fòl Fest: IV Edizione dal 7 al 15 giugno 2025

“…sono solo un pagliaccio un povero pagliaccio vestito di stracci vedete questo vestito ha un taschino un taschino per il cuore… Anche voi siete vestiti ma siete così stanchi, così confusi, cosi impauriti, sembrate voi i pazzi e ubriachi”.

Sembriamo noi, che siamo “fuori” dalle mura e non abbiamo conosciuto reclusione e stigma, i fragili, i disagiati, gli esclusi dalla società. Siamo noi, quelli interrogati dalla poesia di Lucia Saltarin che ci regala il claim Quando cantavo dov’eri tu?, per la IV edizione della Collegno Fòl Fest, da sabato 7 a domenica 15 giugno 2025, nel parco della Certosa Reale, dove la follia non è più muro che esclude, ma arte, talento, cultura, scienza.

Anche quest’anno, la festa dedicata alla salute delle menti ripropone, con forza, i temi dell’inclusione e della cittadinanza e, sulla scia dei versi di Lucia, guarda oltre il marchio imposto al disagio mentale, rilegge la storia della città e del suo manicomio, guarda ai passi fatti dalla psichiatria, richiama l’attenzione sugli studi in corso e sulle prospettive di cura, ricorda che le psicosi non annientano la creatività e l’espressione artistica. E lo fa seguendo un filo rosso e dedicato al femminile.

Due donne sono i volti simbolo dell’edizione di Fòl Fest 2025. Lucia Saltarin e Camille Claudel, artiste, finalmente riconosciute come persone, senza etichette diffamanti. Lucia e Camille sono il simbolo dell’oppressione, della negazione dell’identità e del genio che resiste al sopruso.

Il claim della festa e la rima del fumo, che sale nell’immagine di copertina dalla pipa del profilo bifronte, ci proiettano addosso l’altra Lucia, che il disagio non ha saputo annientare. Quella celebrata da Mauro Ermanno Giovanardi giovedì 12 giugno, nella performance artistica Quando cantavo dov’eri tu?, sospesa tra concerto e poesia, in cui il leader dei La Crus colora di sfumature le parole della poetessa internata a Collegno.

Così, le emozioni irrequiete e i tradimenti ossessivi della mente non hanno umiliato la creatività di Camille, scultrice, sepolta viva nel manicomio di Montfavet e riconsegnata all’arte che, oggi, le riconosce un talento fuori dal comune. E’ lei la protagonista dello spettacolo teatrale Camille Claudel. La scultura come emancipazione, la follia come punizione, in scena sabato 14 giugno.

Oltre a riscoprire il valore storico e sociale dei padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico, Collegno Fòl Fest è un festival multidisciplinare, che promuove inclusione e consapevolezza, mettendo a confronto punti di vista, pareri, prospettive, risorse, talenti. La psichiatria torna protagonista nei luoghi in cui è stata discussa e lo fa guardando alla persona, alle sfaccettature della malattia e a quelle della cura.

Come ogni anno, un focus è dedicato ai più giovani e al loro male di vivere, che continua a registrare dati in salita. L’appuntamento di riferimento, sul tema, è giovedì 12 giugno, con Ipercollegati e scollegati: il disagio giovanile contemporaneo, lectio magistralis di Massimo Recalcati, psicanalista e autore di saggi, volto televisivo e docente universitari .

Il programma dei 9 giorni è la sintesi delle proposte elaborate dagli organizzatori – Comune di Collegno, ASL TO3, Arci Valle Susa-Pinerolo APS, Cooperativa Il Margine e Lavanderia a Vapore – e di quelle presentate dalle altre realtà pubbliche e private, che hanno aderito al Concorso d’idee aperto dal 15 novembre 2024 al 15 gennaio 2025.

Sono 63 gli eventi, molti gli appuntamenti scientifici organizzati da Asl TO3 e dal suo Servizio IESA, oltre all’Università degli Studi di Torino: conferenze, tavole rotonde, workshop, approfondimenti con medici e ricercatori. Un programma di studi che, sabato 7 giugno, apre “in leggerezza”, con Una poesia X l’inclusione show, tappa finale dell’omonimo concorso letterario, organizzato per sensibilizzare sui temi della salute mentale e dell’accoglienza come metodo di cura. La premiazione delle poesie finaliste è animata dallo spettacolo di Gianpiero Perone, con i protagonisti di Zelig e Colorado.

Sono il ponte tra l’espressione artistica e l’aspetto scientifico le 5 mostre, allestite tra Villa 5 e la Sala delle Arti, con taglio del nastro sabato 7 giugno nel pomeriggio.

Domenica 8 giugno la tradizionale Fòl Parade sfila nel parco della Certosa, dal Vascone di piazza della Pace all’Orto che Cura, guidata dall’Orchestra Fiati della Città di Collegno, con le Masche dell’Associazione San Lorenzo. I saluti del sindaco di Collegno, Matteo Cavallone, e dell’assessore Clara Bertolo, danno il via ufficiale alla festa e introducono l’installazione collettiva Reaction-Steli, con il pubblico protagonista.

Tutta l’area aulica del parco vive di Fòl Fest, con due luoghi simbolici, che si confermano il cuore della festa. Il punto di riferimento è l’Orto che Cura – progetto ed esperienza di rigenerazione ambientale, umana, urbana – che, oltre a ospitare appuntamenti, è sede della Libreria della Fòl Fest e dei suoi incontri con gli autori. Sempre piazza Avis 3 è l’indirizzo per una pausa all’insegna di Food all’orto, il progetto di ristorazione inclusiva a cura della cooperativa Il Margine, per sviluppare l’esperienza lavorativa di chi frequenta il servizio riabilitativo. Qui è l’area food della Fòl Fest.

All’altra estremità della linea simbolica, che attraversa il parco e coinvolge i suoi spazi, Fòl Fest anche quest’anno trova il palco ideale, per spettacoli e performance artistiche, nella Lavanderia a Vapore, casa europea della danza e centro di ricerca per la sperimentazione artistica contemporanea. Alla Lavanderia si scopre anche Square Collegno, installazione olofonica interattiva realizzata dall’artista Lorenzo Bianchi Hoesch, che attraverso il cellulare introduce il pubblico in un luogo ambiguo, abitato dal suono, dove è difficile separare il reale dal possibile, il concreto dall’immaginario. Square Collegno è un’esperienza che conduce attraverso gli spazi dell’ex ospedale psichiatrico, offrendo un ascolto del luogo esplorato e valorizzando la Lavanderia e la sua cornice.

Collegno Fòl Fest è ideata e promossa da Città di Collegno, Asl TO3, Arci Valle Susa- Pinerolo APS, Cooperativa Il Margine/Orto che cura e Lavanderia a Vapore, con il sostegno e il patrocinio di UniVerso programma culturale dell’Università degli Studi di Torino.

I NUMERI DEL COLLEGNO FÒL FEST

9 giorni
12 location
63 eventi
19 appuntamenti scientifici 8 spettacoli teatrali
6 concerti
6 presentazioni di libri
7 mostre
3 visite guidate
1 parata inaugurale

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Qui il sito ufficiale.

Article by admin / Generale / psichiatria

15 May 2025

L’EMDR: AGGIORNAMENTO, CONTROVERSIE E IPOTESI DI FUNZIONAMENTO

di Raffaele Avico

Le recentissime e autorevoli linee guida APA per il trattamento per i PTSD, hanno declassato l’EMDR a seconda scelta per il trattamento del trauma psicologico, tema su cui su questo blog abbiamo scritto molto. Le linee guida attuali sono un aggiornamento delle linee guida pubblicate nel 2017.

Su POPMed, abbiamo fatto fare alla “macchina” un lavoro enorme di confronto tra le fonti, che ha confermato, alimentando, molti dei dubbi che qui avevamo già espresso a riguardo dell’EMDR. L’approfondimento si trova qui.

Alcuni di questi dubbi sono:

  • Perché l’EMDR dovrebbe funzionare sia sulla depressione, che sul trauma? Oppure, sia sul DOC, che sul trauma?
  • Perchè l’EMDR funziona con i movimenti oculari, ma anche senza? Non era forse partito come uno strumento che faceva dei movimenti oculari il suo punto di forza?
  • In che modo esattamente muovere o tamburellare -più o meno velocemente- le dita, potrebbe dare risultati diversi? Nei corsi si insegna che la velocità della stimolazione cambia il risultato finale: in che modo?

Il dubbio è che si tratti di una sofisticazione di una procedura espositiva: l’EMDR non sarebbe altro in questo caso che un modo come un altro di esporre il paziente ad alcuni vissuti dolorosi -con un protocollo rassicurante da seguire nel farlo. Potrebbe essere fatto allo stesso modo quindi, quel procedimento espositivo, toccando oggetti che vibrano, o masticando caramelle dal gusto forte: allo stesso modo l’”imbuto percettivo” verrebbe saturato (per via di un doppio compito) e il ricordo passerebbe -depotenziato- alla coscienza. Si tratterebbe di una sorta di esposizione mediata da un compito, da effettuarsi nel momento in cui ci si espone al ricordo traumatico stesso. Si tratterebbe cioè di gestire l’attivazione allarmata ansiosa, per via di un atto di “grounding” (si veda più avanti per un chiarimento su questo punto). Il protocollo aiuterebbe a “distrarre” l’attivazione ansiosa durante la rievocazione dell’evento traumatico: l’EMDR metterebbe insieme, quindi, un evento espositivo, a un evento di doppio compito: quindi rievocare e insieme reindirizzare l’attenzione altrove, permettendo al ricordo di arrivare alla coscienza per essere affrontato/elaborato.
Lo stesso effetto, partendo dallo stesso razionale, potrebbe essere ottenuto tramite la scrittura: esporsi e insieme portare una quota dell’attenzione al creare- scrivendo.

La teoria del doppio compito sembra in effetti la più plausibile, il che tuttavia inserisce l’EMDR nell’insieme delle terapie espositive, con però un protocollo rigido da seguire, il che andrebbe a giovare alle ansie del terapeuta stesso.

Come prima accennato, su POPMed un lungo approfondimento/review della letteratura a proposito dell’EMDR, raggiungibile da qui. Lo mettiamo anche qui in PDF, per chi volessere scaricarlo.

Infine, un cenno alle ipotesi alla base del funzionamento dell’EMDR, qui si seguito, aggregato da Chatgpt. Come si nota, le ipotesi più plausibili sembrano essere quella sul doppio compito, e quella sul riconsolidamento mnestico.

Le principali ipotesi sul funzionamento dell’EMDR

Introduzione: L’EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una terapia utilizzata con successo per elaborare ricordi traumatici e ridurre i sintomi del PTSD. Ma come funziona esattamente? Nel corso degli anni, ricercatori e clinici hanno proposto diverse ipotesi per spiegare l’efficacia dell’EMDR. Di seguito presentiamo, in modo chiaro e non troppo tecnico, cinque delle principali teorie sul meccanismo d’azione dell’EMDR, ognuna delle quali offre una prospettiva diversa su come i movimenti oculari e la stimolazione bilaterale possano aiutare a desensibilizzare e rielaborare i ricordi traumatici.

L’ipotesi del doppio compito (dual-task)

Secondo l’ipotesi del doppio compito, l’efficacia dell’EMDR dipende dal fatto che il paziente deve svolgere due compiti contemporaneamente: da un lato richiamare alla mente il ricordo traumatico (con le sue immagini ed emozioni) e dall’altro seguire lo stimolo bilaterale (come il movimento delle dita del terapeuta, suoni alternati o tocchi). Questa situazione impegna fortemente la memoria di lavoro del cervello, che ha capacità limitate (ifemdr.fr). In parole semplici, non riusciamo a prestare attenzione massima a due cose nello stesso momento: se dividiamo l’attenzione fra il ricordo e un secondo compito (i movimenti oculari), il cervello non riesce a mantenere il ricordo vivido e carico di emozione come farebbe normalmente (ifemdr.fr). Di conseguenza, l’immagine traumatica appare meno nitida e meno disturbante, il che aiuta il paziente a riesaminarla senza esserne sopraffatto. Questo potrebbe spiegare perché, seduta dopo seduta, il ricordo perde la sua carica emotiva negativa: riducendone l’intensità emotiva e visiva, il cervello può “riscriverlo” in modo più adattivo (trailheadcounselingks.com). In sintesi, l’EMDR “sovraccarica” la memoria di lavoro con un doppio compito, togliendo potenza al ricordo traumatico e rendendolo più gestibile durante la terapia.

L’integrazione interemisferica

Un’altra ipotesi suggerisce che l’EMDR funzioni grazie a una maggiore integrazione tra i due emisferi cerebrali (sinistro e destro). I movimenti oculari orizzontali alternati (o altri stimoli bilaterali) stimolano alternativamente entrambi gli emisferi, aumentando la loro comunicazione reciproca (ifemdr.frifemdr.fr). Ma perché questo aiuterebbe con i traumi? Si pensa che i ricordi traumatici “bloccati” siano memorizzati in modo disfunzionale, magari legati più a un emisfero (per esempio, le emozioni e le immagini nel destro) senza la dovuta integrazione con l’altro emisfero (ad es. il sinistro, più analitico e linguistico). Aumentando la comunicazione interemisferica, l’EMDR potrebbe facilitare il ricollegamento e l’elaborazione completa di quei ricordi: il contenuto emotivo, visivo e sensoriale del trauma verrebbe integrato con una comprensione razionale e contestuale più ampia (ifemdr.fr). In effetti, esperimenti hanno mostrato che movimenti oculari saccadici (rapidi) orizzontali migliorano la capacità di richiamare ricordi episodici, molto più di movimenti verticali o di non muovere affatto gli occhi (ifemdr.frifemdr.fr). Ciò indica che le stimolazioni bilaterali accrescono la cooperazione tra emisfero destro e sinistro, aiutando a “riorganizzare” il ricordo traumatico e ad integrarlo nella memoria autobiografica in forma meno dolorosa. Inoltre, una migliore integrazione tra emisferi è stata associata anche a una riduzione dello stress (ifemdr.fr), il che spiegherebbe la diminuzione del disagio emotivo man mano che il ricordo viene rielaborato. In sintesi, l’ipotesi interemisferica vede l’EMDR come un “ponte” tra i due lati del cervello, che permette di rimettere insieme i pezzi del ricordo traumatico e archiviarlo correttamente.

Il riflesso di orientamento

Il riflesso di orientamento è una risposta automatica del nostro organismo quando veniamo esposti a uno stimolo nuovo o inaspettato: è quel meccanismo evolutivo che ci fa sobbalzare leggermente e concentrare l’attenzione ogni volta che c’è un cambiamento improvviso nell’ambiente (un rumore improvviso, qualcosa che si muove nel nostro campo visivo, ecc.). Alcuni studiosi hanno proposto che i movimenti alternati dell’EMDR sfruttino proprio questo riflesso (emdr.com). In pratica, ogni volta che seguiamo con gli occhi il dito del terapeuta (o percepiamo un suono/tocco alternato), il nostro cervello interpreta lo stimolo come qualcosa di nuovo: ciò cattura l’attenzione in modo ripetuto e innesca una breve reazione di “allerta” seguita subito da una valutazione di sicurezza (“non c’è pericolo”) (emdr.com). Questa continua reazione di orientamento ha due possibili effetti benefici. Primo, interrompe e disturba momentaneamente il network del ricordo traumatico: in altre parole, spezza il filo dei pensieri ed emozioni negative collegate al trauma, dando la possibilità di inserire nuove associazioni più positive o neutre (emdr.com). Secondo, dopo l’istante di allerta iniziale, subentra una risposta di rilassamento quando il cervello si accorge che lo stimolo non è una minaccia (emdr.com). Questo riflesso investigatorio che sfocia in un rilassamento può attivare un meccanismo di “inibizione reciproca”: la calma fisiologica indotta contrasta l’ansia e la paura legate al ricordo, permettendo di riesaminarlo senza lo stesso livello di turbamento emotivo (emdr.com). In sostanza, l’EMDR potrebbe funzionare perché trasforma una sessione di terapia in una serie di piccoli momenti di orientamento: il cervello viene continuamente distratto dal trauma e rassicurato che adesso è al sicuro, il che facilita l’elaborazione. Questa teoria è supportata anche da misurazioni fisiologiche che mostrano un calo dell’attivazione nervosa durante l’EMDR: in altre parole, la stimolazione bilaterale genera un orienting reflex che abbassa temporaneamente l’arousal (attivazione emotiva), aiutando il paziente a rimanere nel ricordo senza esserne travolto (emdr.comemdr.com).

La simulazione del sonno REM

Un’ipotesi affascinante sostiene che l’EMDR riproduca nel cervello uno stato simile a quello del sonno in cui normalmente avviene l’elaborazione della memoria. In particolare, inizialmente si è pensato al sonno REM (la fase del sonno in cui si hanno movimenti oculari rapidi e sogni vividi) perché è noto che durante la fase REM il cervello processa attivamente le esperienze emotive, consolidando i ricordi e integrandoli con le nostre conoscenze precedenti (ifemdr.fr). Il ricercatore Robert Stickgold, ad esempio, ha ipotizzato che i movimenti oculari dell’EMDR inducano uno stato neurobiologico simile al sonno REM, attivando nel cervello i sistemi di rielaborazione della memoria che normalmente operano durante quel periodo della notte (ifemdr.fr). In condizioni di sonno, soprattutto nelle fasi REM (ma anche nel sonno profondo non-REM), avviene il trasferimento dei ricordi dall’ippocampo (dove si formano i ricordi episodici “grezzi”) alla corteccia cerebrale, integrandoli nella memoria a lungo termine e riducendone la carica emotiva (ifemdr.fr). L’EMDR, con la sua stimolazione bilaterale ritmica, sembra innescare un processo analogo: il cervello entra in una sorta di “modalità elaborativa” tipica del sonno (ifemdr.fr), in cui può finalmente digerire il ricordo traumatico. Studi EEG sostengono questa ipotesi mostrando che durante i set di stimolazione bilaterale si rilevano onde cerebrali molto simili a quelle del sonno ad onde lente (fasi profonde del sonno non-REM) (trailheadcounselingks.com). Ciò suggerisce che l’EMDR possa effettivamente simulare alcune condizioni neurofisiologiche del sonno (REM e non-REM) favorevoli alla rielaborazione: il cervello, pur essendo sveglio, lavora sul ricordo come farebbe di notte, archiviamolo in modo adeguato e attenuandone l’impatto emotivo. Questo spiegherebbe perché dopo l’EMDR molti pazienti riferiscono che il ricordo traumatico appare distante, sfuocato o “come un sogno” invece che vivido e presente. In breve, l’EMDR potrebbe funzionare perché “fa fare al cervello di giorno il lavoro che normalmente fa di notte” per elaborare e depotenziare i ricordi dolorosi (ifemdr.fr).

La teoria della riconsolidazione mnestica

L’ultima ipotesi di cui parliamo si basa sulle scoperte nel campo delle neuroscienze della memoria, in particolare sul riconsolidamento dei ricordi (detto anche riconsolidamento mnestico). Per molti anni si è creduto che una volta formato un ricordo nel cervello fosse stabile e immodificabile; invece, la teoria del riconsolidamento ha dimostrato che quando richiamiamo un ricordo possiamo aprire una “finestra” temporanea in cui quel ricordo diventa nuovamente instabile e modificabile (trailheadcounselingks.com). In altre parole, ripensare a un’esperienza passata la rende momentaneamente fragile, offrendo l’opportunità di aggiornarla con nuove informazioni o associazioni emotive prima che venga “salvata” di nuovo in memoria. Come si applica questo concetto all’EMDR? Durante le sedute EMDR, il paziente riattiva intenzionalmente il ricordo traumatico (parlandone e concentrandosi su di esso) mentre riceve la stimolazione bilaterale. Secondo la teoria del riconsolidamento, questa procedura fa sì che il ricordo entri in quello stato labile in cui può essere ristrutturato con elementi nuovi e meno disturbanti(trailheadcounselingks.com). Ad esempio, attraverso l’EMDR la persona potrebbe associare al ricordo originale sensazioni di sicurezza, nuove interpretazioni cognitive o semplicemente sperimentare che può pensarci senza esserne annientato emotivamente. Tutte queste nuove esperienze vengono integrate nel ricordo durante la finestra di riconsolidamento, cosicché il cervello “risalva” il ricordo in forma attenuata – con un peso emotivo minore e con significati diversi. Alcuni ricercatori hanno sottolineato che l’EMDR, anche se nato da osservazioni cliniche, inconsapevolmente sfrutta proprio il meccanismo del riconsolidamento (trailheadcounselingks.com). In effetti, dopo una rielaborazione completa in EMDR, si ritiene che il ricordo originario venga alterato attraverso processi di integrazione e riconsolidamento (viene ricodificato nel cervello in modo non traumatico) (psicologo-mantova.net). Questo spiegherebbe perché, una volta conclusa la terapia, i ricordi che prima causavano intense reazioni emotive diventano ricordi “neutralizzati”: sono sempre parte della propria storia, ma non provocano più il dolore di un tempo, perché il cervello li ha riscritti e ricollocati in modo adattivo.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione, Generale / PTSD

6 May 2025

NEUROCRIMINOLOGIA: ANNA SARA LIBERATI

di Raffaele Avico

Per POPMed, un’intervista a Anna Sara Liberati, neurocriminologa. Qui il suo sito. Anna Sara ci ha fornito anche una corposa bibliografia, insieme ad altri spunti.

QUI l’intervista.

Tutte le interviste raccolte su questo blog sono qui raggiungibili.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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29 April 2025

INTRODUZIONE AL LAVORO DI FLAVIO CANNISTRÀ

di Raffaele Avico

Per POPMed, sbbiamo chiesto a Flavio Cannistrà di chiarirci le “basi” teoriche della psicoterapia a seduta singola: Flavio ci ha spiegato da dove viene questo approccio, chi l’ha teorizzato, come si svolge un lavoro clinico impostato in questo modo e ci ha fornito alcune indicazioni di approfondimento (che riportiamo in calce).

Approcciarsi a un paziente in questo modo significa dare valore e importanza a ogni singolo incontro: Cannistrà ci ricorda che “una singola seduta” è statisticamente il dato che più ricorre tra chi si approcci alla psicoterapia.
Partendo da questo assunto, l’approccio a seduta singola sviluppa un metodo che pensa al paziente come ad un soggetto attivo, saldamente alleato con il/la terapeuta, in grado di fare molto lavoro anche “in autonomia”. Sempre di Cannistrà, abbiamo anche recensito di recente questo saggio.

Vi invitiamo a dare un’occhiata anche alla scuola fondata di Cannistrà insieme a Federico Piccirilli, a questo sito.

Di seguito la bibliografia consigliataci da Cannistrà, per chi volesse approfondire:

  1. Bennett, S. D., Myles-Hooton, P., Schleider, J. L., & Shafran, R. (Eds.) (2022). The Oxford Guide to Brief and Low Intensity Interventions for Children and Young People. Oxford University Press.
  2. Cannistrà, F. & Hoyt, M. F. (2025). Single Session Therapies. Why and How One-At-A-Time Mindsets are Effective. Routledge.
  3. Cannistrà, F. & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti.
  4. Hoyt, M. F. & Cannistrà, F. (2023). Conversazioni di terapia breve. EPC.
  5. Hoyt, M. F. & Talmon, M. (2014). Capturing the moment. (tr. it. Terapia a seduta singola e servizi walk-in. Capturing the moment. CISU, 2018).
  6. Schleider, J. L., Zapata J.P., Rapoport, A., Wescott, A., Ghosh, A., Kaveladze, B., Szkody, E., & Ahuvia I. (2025). Single-session interventions for mental health problems and service engagement: umbrella review of systematic reviews and meta-analyses. Annual Review of Clinical Psychology, 21.
  7. Talmon, M. (1990). Single Session Therapy. Jossey-Bass (tr. it. Psicoterapia a seduta singola. Erickson, 1996).

Qui di seguito l’intervista, buona visione!

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NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti

Article by admin / Generale, Formazione / interviste

23 April 2025

L’UOMO SOVRASOCIALIZZATO. INTRODUZIONE AL PENSIERO DI Ted Kaczynski (UNABOMBER)


di Raffaele Avico

PREMESSA: il pensiero di Unabomber può apparire controverso, di difficile inquadramento ideologico. Qui lo pubblichiamo perché riteniamo che le riflessioni formulate da Ted Kaczynski negli anni ’90 (più di trent’anni fa) mettano in luce con estrema lucidità molte delle storture che oggi viviamo quotidianamente. Unabomber è stato diagnosticato con la pesante etichetta di schizofrenico paranoide, ma fino alla fine del suo processo rivendicò la propria lucidità mentale, rinunciando alle attenuanti che quella diagnosi gli avrebbe concesso. Il suo pensiero sembra, piuttosto, il risultato di un percorso di osservazione di incredibile penetranza sulle dinamiche psicologiche dell’uomo “immerso” nel sistema tecnologico moderno. Le critiche che rivolge, in modo molto netto, alla sinistra liberale americana non sono, a mio parere, necessariamente da intendersi come una rivendicazione di appartenenza alla destra, quanto più una critica a un partito che Kaczynski riteneva, in ultima analisi, difendere il sistema dominante — la “macchina”— attraverso continue scissioni interne e battaglie -a suo giudizio- pretestuose. Il suo pensiero si colloca su una linea di confine tra diverse ideologie, risultando di interesse tra attivisti eco-ambientali, militanti di destra o di sinistra estrema. Al di là delle appartenenze, che in questo caso risultano poco rilevanti, spicca l’assoluta potenza interpretativa e analitica delle idee di “Ted”, formulate in un’epoca in cui i social media non esistevano ancora e Internet era agli albori. In questo articolo verranno messi in luce aspetti inerenti alcune dinamiche psicologiche che Kaczynski aveva individuato, per lo più risultanti, dal suo punto di vista, dall’impatto del sistema tecnocratico sull’uomo moderno. L’ambiente, così come è costruito, risulta essere estremamente nevrotizzante per la psiche umana, con un potere coercitivo e liberticida che si origina dalla soppressione continua e subdola di istinti primari (come si leggerà in merito al tema “potere e autonomia”), insieme a una spinta verso un conformismo totale che — secondo Unabomber — passa attraverso la tecnologia (ormai “cuore della politica”) e i bisogni da essa indotti. Al di là, dunque, degli aspetti ideologici — qui poco utili — si tratta di un pensatore “folle”, lucidissimo sul presente e profetico se si considera che i suoi testi, come si diceva, sono stati scritti trent’anni fa. (R. A.)

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Il manifesto politico di Unabomber è da poco stato pubblicato per D edizioni: si tratta di un testo rimaneggiato e lavorato da Ted Kaczynski poco prima della sua morte -avvenuta nel 2023.

Kaczynski era un matematico di Berkeley, nel cuore della sua carriera ritiratosi a vita anarco-primitivista nei boschi del Montana -e da lì proseguiva la sua attività di attivista “contro il sistema tecnologico).  Il messaggio che Unabomber lancia da questo manifesto, scritto sotto forma di pensieri/note tra loro indipendenti ma raccolti in capitoli ognuno con un “tema”, è una pesante critica al sistema americano e al turbocapitalismo, e all’”inevitabilismo” del progresso tecnologico portato avanti da tecnocrati interessati al profitto.

Il libro ruota intorno alla possibilità immaginata da K. di avviare un cambiamento rivoluzionario, un collasso del sistema tecnologico ad opera di individui che decidessero di attaccarlo in modo diretto: il suo stile mette insieme una forte ideologia luddista e anarchica, a un pragmatismo tutto americano. Unabomber credeva fermamente nel suo progetto di rivolta, e incarnò per primo il cambiamente che voleva accadesse, a partire dalle precoci dimissioni da Berkeley -precedenti a un periodo di isolamento nella natura selvaggia: a 29 anni, Kaczynski si trasferì in una baracca di undici metri quadri senza elettricità né acqua, nei pressi di Lincoln, nel Montana. Da lì partì il progetto “Freedom Club” e il suo proposito di divulgare il suo manifesto, “La società industriale e il suo futuro”, diffuso tramite quotidiani negli anni a seguire -sotto minacce di ulteriori attentati dinamitardi.

“La società industriale e il suo futuro” contiene molteplici spunti di riflessione che vale la pena riprendere, soprattutto nelle sue riflessioni “psicologiche”, e inerenti l’impatto della società sulla psicologia dell’individuo. Uno dei primi capitoli presenta il concetto di “sovrasocializzazione“. Secondo K., l’uomo moderno viene esposto da quando nasce a un sistema di leggi e convenzioni sociali, al fine di “socializzarlo” correttamente. Ma cosa accade a un individuo che assorba e si identifichi “troppo” a questo insieme di regolamentazioni e usi “normali”? Unabomber parla di sovrasocializzazione, un processo in cui gli individui, sin dall’infanzia, vengono condizionati in modo così intenso dalle norme, dai valori e dalle aspettative della società, che perdono la loro capacità di pensare in modo indipendente e agire in base ai propri istinti e desideri. Lo declina attraverso quattro punti:

  1. Conformità estesa: Gli individui sovrasocializzati interiorizzano le norme sociali in modo così profondo che ogni pensiero o azione che si discosti da queste norme provoca in loro un senso di colpa o vergogna. Kaczynski sostiene che questa conformità estrema soffochi la creatività e l’individualità.
  2. Colpa e vergogna: Le persone sovrasocializzate non solo seguono le regole della società, ma sono anche fortemente influenzate da sensi di colpa e vergogna quando avvertono di deviare, anche minimamente, da tali regole. Questo li rende particolarmente vulnerabili al controllo sociale e alla manipolazione.
  3. Senso di inferiorità: Secondo Kaczynski, la sovrasocializzazione contribuisce a creare un senso di inferiorità negli individui: rendere prioritaria la difesa dei diritti inerenti la collettività a scapito dell’individuo, rivelerebbe un senso di difficoltà da parte degli individui nel “vivere lontano dal branco” (da qui l’esasperata tensione alla difesa delle minoranze, qualunque esse siano)
  4. Dipendenza dalla società: Le persone sovrasocializzate dipendono dalla società per definire i loro valori, obiettivi e identità, perdendo la capacità di sviluppare un senso autonomo di sé. Questo porta alla perdita di libertà individuale, poiché ogni aspetto della loro vita è governato dalle aspettative sociali.

Kaczynski vede la sovrasocializzazione come un prodotto della società industriale, che richiede un elevato grado di conformità per mantenere l’ordine e l’efficienza. Nel suo manifesto, critica aspramente questa tendenza, sostenendo che è una delle ragioni per cui gli individui non sono più liberi e sono invece intrappolati in un sistema che li opprime e li aliena.
Nel testo, Unabomber critica poi la categoria dei “liberali”, accusati di nascondere al di sotto di tematiche universali come la lotta all’immigrazione e alla violenza sulle donne, desideri nascosti di autoritarismo e potere. La sua idea è che le minoranze vengano utilizzate dalla “sinistra moderna” come pretesto per rinforzare la compattezza politica dei partiti stessi, senza compiere un vero attacco nei confronti delle spinte andidemocratiche -anzi, colludendo con le stesse; fa inoltre riferimento al prima citato fenomeno della sovrasocializzazione, di cui gli individui che si definiscono progressisti e “liberal” sarebbero particolarmente affetti.
Nella pagina dedicata a Kaczynski di Anarcopedia, viene chiaramente spiegato il suo pensiero. Leggiamo:

“Il pensiero di Theodore Kaczynski, esplicitato nel suo Manifesto (La Società Industriale e il Suo Futuro), è riassumibile in quattro punti fondamentali:

  • Il progresso tecnologico comporta un inevitabile disastro ecologico.
  • Solo il crollo della civiltà moderna può prevenire un disastro.
  • La sinistra politica è in prima linea in difesa della società tecnologica alienante.
  • Ciò che serve è un nuovo movimento rivoluzionario che si batta contro la società tecnologica e adotti misure per impedire alla sinistra di nuocere i rivoluzionari con il suo senso d’inferiorità che trasmette agli individui e con le politiche di sovrasocializzazione.

Secondo Kaczynski la “sinistra” è la corrente dei perdenti, poiché difende chi ha di meno, chi è emarginato, chi è sfruttato, cioè chi sta perdendo nei confronti della società. Egli ritiene che la sinistra non vuole abbattere le strutture che hanno causato determinate ingiustizie, ma pretende una “semplice” rivincita dei perdenti sui padroni rimanendo all’interno della stessa organizzazione statale. Per ottenere questa rivincita, la “sinistra” auspica la presenza invasiva dello Stato e così facendo, sostiene Kaczynski, si sovrasocializza l’individuo, cioè lo si vincola in maniera così totalizzante che questo non avrà più alcuna libertà.

Kaczynski giustifica apertamente la violenza dei suoi atti: «A mio modesto parere, l’uso della violenza (ad esempio contro la realizzazione di una società tecnologica disumana) è auto-difesa. Alcuni possono obiettare, naturalmente. Se pensate che sia immorale e scorretto, allora si dovrebbe evitare qualsiasi uso della violenza. Ma ho una domanda per voi in questo contesto: che tipo di violenza ha causato i danni maggiori nella storia del genere umano? La violenza che fu sancita dagli Stati (società, cultura, ideologia). O la violenza che fu usata senza sanzioni, da parte di individui?»

Egli ritiene che la rivoluzione industriale abbia portato ad un ordine economico e politico che si pone in antitesi all’ordine naturale; che riduce la libertà individuale, trasforma l’uomo in un semplice ingranaggio del sistema tecnologico e in breve tempo distruggerà la razza umana stesso. La conseguenza è che non ci sono margini per riformare la società perché «questo sistema non esiste per soddisfare i bisogni umani, non ne è capace. I desideri e i comportamenti degli uomini devono essere modificati per soddisfare le esigenze di questo sistema».

Ted Kaczynski sostiene quindi l’impossibilità di scendere a compromessi con la civiltà industriale. Egli ritiene inoltre che le specifiche lotte – ecologiste\animaliste\sociali – (liberazione animale, lotta all’inquinamento, lotta per le rivendicazioni sindacali ecc.), seppur lodevoli, non intaccano in alcun modo il sistema industriale, per questo sostiene che, se si vuol distruggere la civiltà moderna, sia necessario colpire i suoi gangli vitali: per es. il sistema delle telecomunicazioni, il sistema dell’energia elettrica, gli apparati dell’istruzione scientifica ecc.

Il suo pensiero è per molti tratti affine alle correnti maggiormente radicali dell’eco-anarchismo. Il movimento anarchico è però diviso riguardo alle azioni di Kaczynski: una parte, formata principalmente da individualisti e primitivisti (es. John Moore e John Zerzan), lo ritiene un anarchico a tutti gli effetti, seppur non condivida al 100% il suo pensiero; un’altra parte invece non lo considera per nulla anarchico quanto piuttosto un ecologista radicale”.

Unabomber aveva però idee molto lucide relativamente a problemi diversi, che qui tenteremo di formalizzare usando la funzione deepresearch di Chatgpt, suddivisi per argomento. Il testo è supervisionato e controllato, e non presenta inesattezze di concetto.
Tra parentesi, le fonti cliccabili.

POTERE, AUTODETERMINAZIONE E ATTIVITÁ SURROGATE

“Un concetto centrale nell’analisi di Kaczynski è quello di “processo del potere” (power process). Con questo termine egli indica l’insieme di quattro elementi fondamentali per la salute psicologica dell’individuo: l’avere obiettivi da raggiungere, l’intraprendere sforzi autonomi per perseguirli, il raggiungimento (anche parziale) di tali scopi, e un certo grado di autonomia nel tutto (thetedkarchive.comthetedkarchive.com). Kaczynski, rifacendosi implicitamente a idee etologiche ed evolutive, sostiene che l’essere umano ha bisogno di sperimentare questo processo per sentirsi realizzato. Se una persona viene privata della possibilità di fissare mete significative e di lottare per esse, subirà gravi conseguenze psicologiche: “la mancata realizzazione di scopi importanti provoca frustrazione… Il fallimento costante nel raggiungere obiettivi porta a sconforto, bassa autostima o depressione. Dunque, per evitare seri problemi psicologici, un essere umano ha bisogno di obiettivi il cui raggiungimento richieda impegno, e deve avere un ragionevole tasso di successo nel conseguirli (thetedkarchive.com). In altre parole, non è il potere in sé ad essere necessario, ma l’esperienza di un percorso di autodeterminazione. Senza questo, l’individuo cade in apatia, sente di non avere controllo sulla propria vita e sviluppa patologie come senso di inferiorità e depressione.

Kaczynski argomenta che la società moderna ha interrotto il processo del potere per la maggior parte degli individui. Nelle condizioni preindustriali, raggiungere i propri mezzi di sussistenza (cibo, riparo, sicurezza) richiedeva sforzo, ingegno e autonomia, fornendo così soddisfazione psicologica una volta ottenuti risultati. Nel mondo industriale avanzato, al contrario, “uno sforzo minimo è necessario per soddisfare i propri bisogni fisici”: basta acquisire qualche competenza tecnica, trovare un impiego e “soprattutto [mostrare] semplice obbedienza” per essere mantenuti “dalla culla alla tomba” dal sistema (web.cs.ucdavis.edu). Il benessere materiale “automatico” erogato dalla società tecnologica, se da un lato elimina molte fatiche pratiche, dall’altro svuota l’esistenza di sfide personali autentiche. Gli uomini e le donne comuni non devono più lottare quotidianamente per la sopravvivenza o prendere grandi decisioni autonome: istruiti a svolgere un ruolo specialistico, inseriti in organizzazioni gerarchiche, funzionano come parti di un ingranaggio più grande. In questa condizione di eterodirezione, il naturale bisogno umano di impiegare energie verso mete significative non scompare, ma viene reindirizzato verso scopi artificiali. Kaczynski chiama questi surrogati di scopi “attività surrogate” (surrogate activities).

Le attività surrogate sono definite come quei progetti o occupazioni che “sono rivolti a un fine artificiale che le persone si prefiggono al solo scopo di avere qualche obiettivo da perseguire, o, per così dire, unicamente per il ‘soddisfacimento’ che deriva dal perseguimento dell’obiettivo” (thetedkarchive.com). In pratica, si tratta di obiettivi auto-imposti che non rispondono a bisogni biologici o necessità reali, ma che servono a compensare la mancanza di sfide significative. Kaczynski porta alcuni esempi storici e contemporanei: gli aristocratici annoiati dell’antica Roma si dedicavano ossessivamente alla retorica o alla caccia sportiva pur non avendone bisogno alimentare (web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu); l’imperatore giapponese Hirohito divenne un rinomato esperto di biologia marina – “un’attività surrogata, poiché se avesse dovuto spendere il suo tempo a procurarsi il necessario per vivere con attività pratiche varie e interessanti, non avrebbe sentito la mancanza di conoscere tutto sull’anatomia degli animali marini” (web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu). Nella società moderna, afferma Kaczynski, le attività surrogate abbondano: “la società moderna è piena di attività surrogate. Queste includono il lavoro scientifico, il raggiungimento atletico, l’impegno umanitario, la creazione artistica e letteraria, la scalata della gerarchia aziendale, l’acquisizione di denaro e beni oltre il punto in cui aggiungono soddisfazione fisica, e l’attivismo sociale su questioni marginali”(web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu). Molte di queste occupazioni – ricerca scientifica, sport, volontariato, collezionismo, perfino alcuni tipi di militanza politica – fungono da valvole di sfogo: canalizzano l’energia e l’ansia dell’individuo dandogli qualcosa da fare, un obiettivo arbitrario su cui concentrarsi, in assenza di scopi più fondamentali.

Secondo Kaczynski, le attività surrogate hanno una duplice natura. Da un lato, possono offrire un certo grado di soddisfazione: spesso chi vi si dedica trae più appagamento emotivo da esse che non dalle attività “banali” con cui soddisfa i propri bisogni primari (web.cs.ucdavis.edu). Ciò accade perché, a differenza del lavoro necessario imposto dalle esigenze del sistema, i progetti surrogati sono scelti volontariamente e permettono all’individuo di esercitare creatività e decisione. Kaczynski nota infatti che nelle attività surrogate “le persone generalmente hanno un ampio margine di autonomia nel perseguirle”, mentre “nella nostra società [le persone] non soddisfano i bisogni biologici in modo autonomo, ma funzionando come parti di un’immensa macchina sociale”(web.cs.ucdavis.edu). Questa autonomia relativa spiega il senso di realizzazione che, ad esempio, uno scienziato può provare nel portare avanti le proprie ricerche o un collezionista nel completare la propria collezione, anche se tali obiettivi non hanno un’utilità pratica diretta. D’altro canto, Kaczynski sottolinea che le mete surrogate rimangono, in ultima analisi, meno appaganti di quelle reali legate al processo del potere. Esse raramente conferiscono un senso di completo appagamento interiore: “per molti, se non per la maggior parte delle persone, le attività surrogate sono meno soddisfacenti della ricerca di obiettivi reali (cioè obiettivi che si vorrebbero raggiungere anche se il proprio bisogno del processo del potere fosse già soddisfatto). Un segno di ciò è il fatto che, in molti casi, le persone profondamente coinvolte in attività surrogate non sono mai soddisfatte, mai in quiete”(web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu). Infatti chi si dedica a un’attività surrogata tende a non accontentarsi mai del risultato raggiunto: “il cercatore di denaro cerca costantemente sempre più ricchezza. Lo scienziato, appena risolve un problema, passa al successivo. Il corridore di maratone si sforza di correre sempre più lontano e più veloce”(web.cs.ucdavis.edu). Questa corsa senza fine indica che i surrogati non colmano veramente il vuoto di significato lasciato dalla mancanza di un vero processo autodeterminato. Molti ammettono di dedicarsi con più entusiasmo ai loro hobby o carriere che non alla “noiosa” routine di mantenimento della vita, “ma ciò avviene perché nella nostra società lo sforzo necessario a soddisfare i bisogni biologici è stato ridotto alla banalità”. In definitiva, argomenta Kaczynski, le attività surrogate sono palliativi: alleviano in parte la tensione psicologica provocata dall’assenza di sfide significative, ma non possono eliminarla. Per molte persone “queste forme artificiali di processo del potere sono insufficienti”(web.cs.ucdavis.edu), il che le lascia in uno stato di perenne inquietudine. L’uomo moderno cerca disperatamente scopi da perseguire, ma finché resta all’interno del sistema tecnologico, sostiene Kaczynski, non potrà trovare una realizzazione autentica, poiché gli mancano sia la necessità sia la libertà di condurre una vita pienamente autodeterminata.”

PERDITA DI AUTONOMIA 

Strettamente legata al tema precedente è la denuncia della perdita di autonomia dell’individuo nella società tecnologica. Per Kaczynski, l’avanzare del sistema industriale ha progressivamente eroso la capacità degli individui di dirigere la propria vita. Le decisioni un tempo prese a livello personale o comunitario vengono inglobate in meccanismi più vasti, e il comportamento umano è sempre più eterodiretto da esigenze tecniche. Nel manifesto si legge che “il sistema deve regolare da vicino il comportamento umano per poter funzionare” (thetedkarchive.com). Questa frase coglie la logica interna di una società iper-organizzata: per far sì che milioni di persone cooperino all’interno di strutture complesse (fabbriche, burocrazie, eserciti, reti globali), il sistema impone regole, routine e norme che lasciano poco spazio all’iniziativa individuale. Kaczynski fa notare come persino le scelte educative e i valori siano plasmati in funzione della macchina sociale: “se il sistema ha bisogno di scienziati e matematici, viene organizzata una campagna per spingere i giovani a studiare queste materie” (thetedkarchive.com). In questo modo, il rapporto mezzi-fini si inverte: invece che la tecnologia servire ai bisogni umani, sono gli esseri umani ad essere formati e indirizzati per servire le necessità del sistema tecnologico. L’uso di termini come “il sistema ha bisogno di…” (quasi fosse un soggetto vivo) evidenzia, come nota anche Michel Foucault, una capovolgimento dell’agency: il potere e l’iniziativa risiedono nel sistema, mentre le persone diventano semplici esecutori (thetedkarchive.com).

Kaczynski insiste sul fatto che la dipendenza degli individui dal sistema è ormai totale: l’uomo moderno non saprebbe sopravvivere al di fuori delle strutture fornite dalla società industriale, e per usufruirne deve conformarsi. Egli “non soddisfa i propri bisogni biologici autonomamente, ma funzionando come parte di un’immensa macchina sociale” (web.cs.ucdavis.edu). Ciò rappresenta una perdita di libertà sostanziale, anche se mascherata dall’apparente comodità. L’autonomia, intesa come capacità di auto-determinazione, viene sacrificata in nome dell’efficienza e della sicurezza materiale offerte dal sistema. Kaczynski afferma esplicitamente che “non c’è modo di riformare o modificare il sistema in modo da impedirgli di privare le persone della dignità e dell’autonomia” (web.cs.ucdavis.edu). In una società tecnologica avanzata, infatti, la maggior parte delle decisioni importanti (cosa produrre, come distribuirlo, quali rischi accettare, quali comportamenti sono consentiti) viene presa da apparati tecnici o burocratici che operano su scala di massa, mentre all’individuo resta solo la scelta tra opzioni preconfezionate (libertà formale ma non sostanziale). Kaczynski teme che col tempo la situazione peggiori: più il sistema diventa complesso, più stringenti saranno i vincoli sul comportamento dei singoli, fino a potenziali estremi di controllo bio-tecnologico dell’essere umano (un’ipotesi che anticipa le odierne discussioni su sorveglianza digitale, ingegneria genetica, ecc.). In sintesi, l’individuo viene addomesticato dal sistema. Questa idea di Kaczynski richiama la descrizione foucaultiana della modernità come fabbrica di “corpi docili”, ovvero individui resi docili e utili tramite disciplina e addestramento. Foucault nota che “la disciplina crea ‘corpi docili’, ideali per le esigenze dell’economia, della politica e della guerra nell’era industriale – corpi che funzionano in fabbrica, in reggimenti militari, in aule scolastiche”(en.wikipedia.org). Similmente, Kaczynski vede l’uomo tecnologico come un ingranaggio obbediente, formato per occupare efficacemente la propria casella (di produttore, consumatore, impiegato, ecc.) ma privo di autentica indipendenza.

Un altro aspetto della perdita di autonomia, secondo Kaczynski, è la progressiva scomparsa delle decisioni su piccola scala. Nel passato, molte questioni venivano risolte a livello individuale o nelle comunità locali (come costruire una casa, procurarsi il cibo, risolvere dispute); oggi, invece, si dipende da sistemi centralizzati e si è vincolati da leggi e procedure impersonali. Anche quando si crede di agire per scelta propria, spesso si sta solo seguendo un percorso prefabbricato. Kaczynski fa l’esempio dei lavori moderni: il lavoratore contemporaneo, pur impegnandosi intensamente per “guadagnarsi da vivere”, in realtà dedica la sua vita a eseguire compiti decisi da altri, perseguendo obiettivi aziendali o burocratici che non ha scelto. Egli “svolge i propri sforzi come parte di un’organizzazione enorme, sotto ordini rigidi, senza margine per decisioni o iniziative autonome”(web.cs.ucdavis.edu). Questo equivale a delegare la propria volontà al sistema. Alcuni individui, ammette Kaczynski, sembrano adattarsi a questa condizione: c’è chi ha uno scarso bisogno di autonomia personale e magari trova soddisfazione identificandosi con un’organizzazione potente (lo “sbirro buono” o il soldato modello che trae senso di potere dall’obbedire e appartenere a un corpo armato) (web.cs.ucdavis.edu). Ma per la maggioranza delle persone, egli sostiene, vivere senza sufficiente autonomia nel fissare e perseguire scopi porta a profonde sofferenze interiori. In definitiva, Kaczynski vede nella modernità una contraddizione insanabile: da un lato l’uomo necessita di autonomia per essere psicologicamente sano, dall’altro la mega-società tecnologica richiede obbedienza e conformità. La sua risposta, per quanto estrema, è risolvere la contraddizione eliminando il secondo termine: distruggere il sistema e tornare a condizioni in cui i singoli (o piccole comunità) possano riprendere in mano il controllo della propria esistenza.

Va notato che questa enfasi di Kaczynski sulla perdita di autonomia riprende motivi presenti in altre critiche della società industriale. Ad esempio, l’attivista e pensatore Ivan Illich negli anni ’70 analizzò come le istituzioni moderne (scuola, medicina, trasporti, ecc.) espropriano gli individui delle loro capacità, rendendoli dipendenti da esperti e macchine. Nel suo La convivialità (1973), Illich proponeva di limitare la scala della tecnologia e creare una “società conviviale” in cui “la libertà individuale [sia] realizzata nella reciprocità personale ed elevata a valore etico intrinseco”(cbhd.org). Egli denunciava il fatto che l’industrialismo ha “esternalizzato” bisogni e abilità umane in apparati tecnici, così che “le macchine sono divenute la fonte primaria di sussistenza nella nostra società, e l’uomo si limita ad operarle”(cbhd.org). Questo riecheggia la visione di Kaczynski dell’uomo moderno ridotto a operatore passivo di un sistema che lo nutre e lo controlla al contempo. La differenza è che Illich auspicava un cambiamento volontario e morale verso tecnologie adatte all’uomo (conviviali), mentre Kaczynski vede l’unica via in una rivoluzione contro l’intero apparato tecnologico.

SOVRASOCIALIZZAZIONE

Un altro concetto chiave nell’analisi psicologica di Kaczynski è quello di sovrasocializzazione (oversocialization), introdotto nel paragrafo 9 del suo manifesto. Per Kaczynski, la sovrasocializzazione è un processo attraverso il quale gli individui interiorizzano in modo eccessivo le norme e i valori imposti dalla società, fino al punto da soffocare l’autonomia, la spontaneità e la vitalità psichica. Egli scrive:

“Molti dei mali di cui soffre la nostra società moderna sono dovuti al fatto che essa forza la gente a comportarsi in modo eccessivamente socializzato.”

Per Kaczynski, essere socializzati è, in parte, inevitabile e necessario: ogni società insegna ai suoi membri a rispettare certe regole e comportamenti. Ma nella società industriale, questo processo si è iper-amplificato al punto da rendere molte persone psicologicamente ingabbiate.

La sovrasocializzazione crea soggetti iper-conformi, che reprimono i propri bisogni profondi per aderire al modello “giusto” definito dalla società moderna: produttivi, gentili, pacifici, cooperativi, “socialmente responsabili” – ma psicologicamente impoveriti.

Kaczynski osserva che la sovrasocializzazione è un potente strumento di controllo: se le persone si auto-puniscono per pensieri “sbagliati”, non c’è nemmeno bisogno della polizia o della censura. L’individuo interiorizza il sorvegliante.

In questo senso, il suo pensiero si avvicina a quello di Foucault, soprattutto all’idea di “governamentalità” e “potere pastorale”, per cui le società moderne esercitano il potere non solo attraverso la repressione esterna, ma attraverso l’introiezione del controllo.

Kaczynski, però, spinge la critica ancora oltre, affermando che la sovrasocializzazione non è solo un problema politico o etico, ma psicologico ed esistenziale: essa distrugge la possibilità dell’essere umano di svilupparsi in modo pieno, autonomo e vitale.

Un punto interessante che Kaczynski sviluppa è che molti attivisti progressisti, pur essendo critici verso aspetti della società, sono essi stessi sovrasocializzati. Per esempio, alcuni movimenti femministi, antirazzisti o ecologisti agiscono, secondo lui, più per senso di colpa e di dovere morale che per una spinta genuina di libertà. Scrive che questi attivisti:

“si sforzano di pensare e agire correttamente secondo gli standard della società, il che significa interiorizzare un gran numero di regole di comportamento e sentirsi in colpa per ogni pensiero o impulso che va contro queste regole”.

In questo, Kaczynski anticipa alcune critiche contemporanee al moralismo normativo e all’eccesso di “virtù pubblica” come forma di controllo.


Per chi volesse approfondire in modo integrale il pensiero di Unabomber, qui è possibile acquistare il suo manifesto. In alternativa, qui il libro in PDF (in inglese). Esistono in rete molti luoghi di approfondimento del suo affascinante e controverso modo di vedere il mondo: in particolare questo archivio, che raccoglie molto del materiale da lui pubblicato. Anche questo articolo. Progetto Razzia ha inoltre pubblicato qualche anno fa un video molto ben fatto, che richiede un ascolto attento. Meno di valore ma ugualmente interessante, le piattaforme hanno qualche anno fa divulgato la sua storia tramite una serie, Manhunt.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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1 April 2025

RICERCA E DIVULGAZIONE IN AMBITO DI PSICHEDELICI: 10 LINK

di Raffaele Avico


Raccogliamo qui una decina di link “strategici” per avventurarsi in questa “età dell’oro” della ricerca e dello studio sugli effetti delle sostanze psichedeliche, e per capire come questo lavoro di riscoperta impatterà il mondo della nuova psicoterapia e della psichiatria.
Eccoli.

  1. una selezione di documentari video accurata ed esaustiva sulla psichedelia mondiale
  2. l’incredibile lavoro di Andrew Gallimore sulla DMT. Gallimore ha tentato di “mappare” il mondo “creato” dall’utilizzo di DMT attraverso diversi libri; in questi anni si sta in particolare dedicando allo studio della DMT infusa in modo prolungato (si veda questo studio). Qui un’intervista significativa
  3. un ricercatore e divulgatore che sta imponendosi sulla scena psichedelica italiana, lavorando però da Londra -con David J. Nutt-, Tommaso Barba
  4. l’ecosistema dei contenuti emanati dal lavoro dell’Associazione Luca Coscioni, dal podcast Illuminismo psichedelico ai cerchi di integrazione psichedelica (fortemente avanguardistici in Italia). In particolare questo video uscito di recente a proposito del fine vita. 
  5. un blog di nicchia di cui abbiamo già parlato: le impressioni di un ricercatore che su di sé sperimenta sostanze psichedeliche, riportando fedelmente le sensazioni e il suo vissuto; scritto in modo magistrale: Phenomenautics
  6. Jon Hopkins ha pubblicato un disco (“Music for Psychedelic Therapy”) di musica elettronica pensato per fare da sottofondo a un’esperienza con psilocibina, avventurandosi in luoghi “selvaggi” per campionare suoni; il risultato è impressionante, lo si recupera qui
  7. la Svizzera è vicina all’italia ed è attualmente in Europa il luogo più avanzato in termini di studio, ricerca e utilizzo di sostanze psichedeliche in ambito psichiatrico. Ne abbiamo scritto qui e in precedenza avevamo intervistato Federico Seragnoli che segue percorsi di PAP (Psicoterapia Assistita da Psichedelici) in Svizzera
  8. la (relativamente) neonata SIMEPSI, Società Italiana di Medicina Psichedelica, già molto attiva -e già molto autorevole
  9. negli anni ‘90 una coppia di ricercatori indipendenti californiani, i coniugi Shulgin, sintetizzarono e provarono su loro stessi centinaia di molecole psichedeliche: i risultati di questi studi sono raccolti in due libri contigui, PiHKAL e TiHKAL. Qui il profilo Wikipedia dei coniugi, qui invece un video pubblicato anni fa da Vice con un’intervista alla coppia, e qui archiviati i diari scritti a mano dallo stesso Alexander Shulgin
  10. in ultimo, il pezzo forte, una selezione di 10 articoli “fondamentali” e solidi in senso statistico a cura di Studio Aegle, per POPMed.

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24 March 2025

INTERVISTA A MANGIASOGNI

di Raffaele Avico

PREMESSA: questa intervista a Mangiasogni è stata pubblicata su POPMED.INFO, un progetto di divulgazione scientifica di qualità in ambito di salute mentale.

Ciao Valerio, apprezziamo molto il tuo lavoro e vorremmo porti alcune domande per delineare meglio il tuo intento divulgativo e approfondire alcuni concetti che affronti. Partiamo. Per cominciare, potresti presentarti e raccontarci di cosa ti sei occupato negli ultimi anni?

Certo. Mi chiamo Valerio, e sono nato nel 1993 a Portogruaro, in provincia diVenezia. Dopo tanti anni tra band giovanili e politica locale, a gennaio 2019 ho deciso di aprire la pagina Instagram Mangiasogni, che nel frattempo è diventata il luogo dove condivido storie illustrate su tanti temi che mi appassionano, alcune di taglio più intimo e introspettivo, altre più di critica sociale e politica.
Seguiamo il tuo lavoro da tempo e notiamo come spesso racconti il passaggio all’età adulta e l’abbrutimento imposto dal tardo capitalismo. Cosa ti ha spinto a esplorare sempre più a fondo queste tematiche?
Direi che è stata un’evoluzione spontanea. Quando ho iniziato, nel 2019, ero un neolaureato 25enne che aveva appena trovato il lavoro “da adulti”, e volevo raccontare quello: il passaggio da una certa spensieratezza adolescenziale all’età adulta, con tutto ciò che ne deriva in termini di nuove responsabilità, solitudine, compressione del tempo libero. Poi, disegnando e scrivendo sempre di più, e ricevendo feedback dalle persone che iniziavano a seguirmi, ho iniziato a chiedermi come mai così tanti miei coetanei avvertissero la stessa sensazione di smarrimento. E così ho provato ad ampliare lo sguardo, non più solo alle emozioni che ciascuno prova in determinati momenti della storia o della propria vita, ma alle cause sistemiche alla radice di questa situazione.
Abbiamo recensito qui il tuo libro: ci racconti come è nato e qual è stato l’intento che ti ha spinto a scriverlo?
Il libro nasce da un desiderio sempre più forte di poter raccontare storie e mandare messaggi in modo diverso dall’iper-velocità e superficialità tipica dei social media. Oggi questo è un tema sempre più caldo, ma a me tormenta già da molto: le storie che condivido sui social sono spesso lunghe, complesse, fin troppo ricche di testo, e hanno sempre tradito una mia insofferenza a quel modo di raccontare, acuita poi dallo spostamento verso la dimensione del reel o short-form content. E così è nato “Niente come prima”, la storia di Edoardo e Rebecca: un romanzo per dire cose che avrei potuto dire in un saggio o un libro non-fiction, ma che volevo vivessero attraverso le vite e i dialoghi di due 25enni di oggi, non diversi da noi, dal nostro vicino, dal collega di lavoro, dal figlio o la figlia.
Negli ultimi tempi abbiamo percepito un tono sempre più critico nei confronti della content economy e del tuo rapporto con l’algoritmo di Instagram, insomma, delle dinamiche che regolano il lavoro dei creator. Ci racconti la tua esperienza?
Inizierei dicendo che il mio rapporto con l’algoritmo è sempre stato conflittuale. Ho avuto delle belle soddisfazioni, è vero, ma per i temi che ho sempre trattato, e il modo con cui lo faccio, sono stato spesso penalizzato con shadowban e ripercussioni simili. Diciamo che mi è sempre stato chiaro che la pagina di Mangiasogni non è veramente mia, ma è uno spazio gentilmente concessomi da altri, che hanno un potere assoluto di vita e di morte. Questo è stato ancora più evidente quando dall’alto è stato imposto lo spostamento verso i video. Il modello è chiaramente quello della Burnout Economy, dove i creator devono postare tantissimo, sempre, sempre meglio, inseguendo ogni trend, per non finire nel dimenticatoio. Per questo ho iniziato a sentire l’esigenza di spazi che fossero più miei, come i libri, il sito, la newsletter, gli eventi nel mondo reale.
Hai parlato recentemente di un progressivo allontanamento dal mondo delle piattaforme. Cosa intendi esattamente e cosa ti ha portato a sviluppare questa posizione sempre più polemica nel tuo lavoro divulgativo?
Il tema mi ha appassionato sempre di più man mano che mi addentravo nelle contraddizioni dell’economia dell’attenzione. Come utente ho iniziato a soffrire il modo in cui spendevo il mio tempo, perso tra contenuti senz’anima e spesso privi di ogni valore, e questo ha imposto delle riflessioni anche sulla mia attività da Creator. L’economia dei social media vive dell’attività dei Creator, che con il loro lavoro sperano di avere bei numeri, collaborazioni, inviti a podcast… se loro non creassero non ci sarebbe nulla da vedere, e i proprietari delle piattaforme dovrebbero inventarsi altro per catturare il nostro tempo. Una cosa che secondo me hanno già visto anche loro: Connor Hayes di Meta ha annunciato che un obiettivo chiave della sua azienda sarà introdurre utenti e Creator che in realtà saranno bot AI. Probabilmente così riusciranno a prevenire possibili fughe dei Creator. Per tutti questi motivi, che secondo me vengono ancora prima delle collocazioni politiche dei vertici aziendali dopo le varie elezioni, penso sia sempre più necessario ricominciare a immaginare internet oltre e dopo le piattaforme. Parliamo di una delle infrastrutture più importanti della storia umana, ed è un peccato lasciarla nelle mani di pochissime, potentissime, miliardarissime mani. Questo passaggio però richiede uno sforzo congiunto di Creator e utenti: i Creator devono avere il coraggio di vedere un mondo oltre, gli utenti devono avere la forza di uscire da una fruizione di contenuti gratuita, iper-accessibile, frenetica e “brainrottante”
Restando in tema di piattaforme e Internet, oggi assistiamo a una polarizzazione estrema: da un lato gli apocalittici, dall’altro gli entusiasti. Tu dove ti collochi? E quale ruolo credi abbia l’infrastruttura mediatica in cui siamo immersi nel determinare lo stato mentale e il benessere psicologico degli individui? Alcuni sostengono che lo strumento sia neutrale e che tutto dipenda dall’uso che ne fa il singolo. Sei d’accordo?
Tra quei due estremi, direi gli apocalittici! La trasformazione a cui stiamo assistendo non va assolutamente sottovalutata. Le nostre vite ormai sono diventate ibride, con la componente online che ha avuto un ruolo sempre più importante fino a quasi diventare centrale. Internet è così ben inserito nelle nostre vite che ci accorgiamo della sua esistenza solo quando manca, per qualche motivo. Non possiamo non prenderci cura di questo aspetto e di tutto ciò che vi ruota attorno. Lo ripeto perché è importante: ad oggi internet è centralizzato, a scopo di lucro, nelle mani di pochissimi, che in questo momento storico hanno anche tutti la stessa collocazione politica. Quindi no, non sono d’accordo sul fatto che lo strumento sia neutrale. Lo strumento è nelle salde mani di corporation a scopo di lucro, che fanno dell’estrazione di tempo, attenzione e dati personali il loro core business, che premiano i creator in base a quanto riescono a tenere le persone incollate sullo schermo, spesso usando indignazione, rabbia e polarizzazione come esche per portarci e tenerci sugli schermi. Non c’è niente di neutrale in tutto questo, e per quanto sicuramente l’utente possa responsabilizzarsi verso condotte più virtuose e consapevoli, di certo le piattaforme social non sono esenti da responsabilità.
Ci racconti come ti prendi cura della tua salute mentale?
Innanzitutto, compatibilmente con i ritmi del lavoro e della vita, provo ad avere attenzione per le mie energie e il mio tempo, coltivando gli affetti e provando a non sovraccaricarmi troppo – non ci riesco spesso, anzi. In questo, anche il rapporto con i device fa la sua parte: ho già eliminato le serie TV e il binge watching dalla mia vita, e spero di avere presto un rapporto migliore con lo smartphone, magari per passare più tempo all’aperto. Su questo sto sperimentando sempre più spesso l’utilizzo di un cosiddetto dumb phone, ovvero un vecchio Nokia del 2008 di mio fratello, o lo sviluppo di un PC che possa solo accendersi e scrivere, sostanzialmente una macchina da scrivere digitale e portatile. Poi ovviamente ho seguito un percorso di terapia, un’esperienza che consiglio a chiunque ne abbia la possibilità, e che spero possa essere prestissimo per tutte le tasche.
Per concludere, ci suggeriresti alcuni spunti di riflessione? Libri, film o qualsiasi altra cosa che pensi possa arricchire chi ci segue.
Sicuramente consiglierei “Scansatevi dalla luce”, di James Williams, che fornisce un’interessante panoramica sull’economia dell’attenzione. Sempre come libro c’è “Riavviare il sistema” di Valerio Bassan, bella riflessione sulla storia di internet e la sua trasformazione nel tempo, con l’avvento delle piattaforme – non solo social, ma anche streaming, delivery ecc… in generale poi anche YouTube ha valide risorse sul punto, magari anche sul concetto di enshittification, legato proprio all’evoluzione delle piattaforme una volta che queste hanno preso pieno controllo di internet.

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5 March 2025

“LE CONSEGUENZE DEL TRAUMA PSICOLOGICO”, UN LIBRO SUL PTSD

di Raffaele Avico

A partire dal 2017, si sono qui susseguiti su questo blog molti contributi che hanno indagato la natura del vissuto post-traumatico.

Ho raccolto e sistematizzato i contributi sul PTSD in un libro, di cui riporto qui l’introduzione e l’indice.

Come si legge, l’idea che connette i vari lavori è che il trauma interrompa il normale lavoro di immagazzinamento e costruzione della trama dei ricordi, e che si installi nella memoria come una “pietra dura”, indigesta in senso psichico.

Il lavoro che se ne fa in psicoterapia, è quindi quello di aiutare la persona a digerire il trauma in senso psicologico, il che equivale a restituirlo al “logos”.
Jacques Lacan, a proposito di questo, riteneva che il trauma avviene quando ciò che chiama Reale irrompe nella vita di un individuo squarciando il “velo di simboli” che coprirebbe ogni elemento e cosa della nostra vita, rendendola possibile e pensabile. Una violenza, la brutalità di un’aggressione da parte di un predatore, ma anche un forte spavento, un trauma morale o un incontro inaspettato e prematuro con la morte: tutti esempi di come la natura “minerale”, non pensabile e assurda (Reale) della realtà possa irrompere nella vita di un individuo, squarciando la copertura simbolica di cui prima scrivevo.

La psicoterapia dovrebbe in questo caso aiutare a ricucire questo squarcio, trasformando quindi -come sintetizza Recalcati- il trauma in unatrama.

Esistono però molti altri aspetti della questione, per esempio le ricadute sul corpo dello stress post-traumatico, il problema dell’allarme continuo, i trigger che riattivano il ricordo del trauma in sé: questo volume tenta di fornire una griglia di lettura per chi voglia introdursi al tema, o per chi viva in uno stato di post-trauma e voglia tentare di aiutarsi nell’operazione di “tessitura” e integrazione prima citato.

Uno degli aspetti centrali su cui questo libro si sofferma, è l’idea che la risposta post-traumatica sia una forma di apprendimento distorta; questo apprendimento -questa forma di anticipazione– ci consente di mantenerci vigili nel post-trauma e idealmente meglio preparati al “prossimo evento problematico”. Sarebbe auspicabile però, che l’apprendimento possa essere “disappreso“, e qui osserviamo il punto centrale del disturbo post-traumatico: l’apprendimento dell’allarme relativo al trauma fatica a essere estinto, lasciando l’individuo in balìa di una condizione di allarme protratto, con il corpo prostrato dagli angoscianti vissuti tipici del PTSD.

Qui è possibile acquistare il libro, che si pone in continuità con quello da me e Davide Boraso pubblicato in precedenza, PTSD: che fare?, del 2020. La copertina è di Andrea Pisano. Il libro presenta alcune imprecisioni relative all’impostazione grafica, essendo autopubblicato.
Di seguito l’introduzione.

Introduzione

Questo volume raccoglie una serie di approfondimenti a tema “trauma” che ho raccolto in un periodo di circa 5 anni, a partire dalla fondazione di un blog tematico (ilfogliopsichiatrico.it) nell’inverno del 2017, fino alla fine del 2022.

Gli anni 2020 e 2021 sono stati anni peculiari, essendosi abbattuta sulla popolazione umana una pandemia da coronavirus, superata per fasi progressive grazie a quarantene obbligate iniziate nel marzo 2020 -e alla diffusione di una serie di vaccini mirati, a partire dalla fine del 2020.

La pandemia da Covid19 è stata in grado di sdoganare in modo vigoroso la questione “salute mentale” e ha ulteriormente riacceso l’attenzione intorno al tema trauma, a cosa significhi vivere in una condizione di allarme protratto, a come sia possibile resistere in un contesto traumatizzante e a come ci si possa adattare “senza impazzire”.

Va notato che al momento del divampare del fuoco pandemico la tematica “trauma” era già da anni tornata prepotentemente alla ribalta, con una moltitudine di professionisti interessati al problema, libri di qualità pubblicati, associazioni nate e cresciute in modo sostenuto (come l’AISTED in Italia), una profusione di corsi di formazione e l’affermarsi di modalità di intervento psicoterapico mirate, come l’EMDR.

Uno dei libri più vecchi di Bessel Van Der Kolk, Psychological Trauma, risale al 1987. Leggendolo, ci si rende conto di come il linguaggio usato da quello che oggi è considerato uno degli psicotraumatologi più importanti al mondo fosse intriso di termini mutuati dall’approccio psicodinamico; una osservazione sul registro linguistico adottato per parlare di trauma ci consente di comprendere l’evoluzione del concetto che descrive: oggi in ambito di psicotraumatologia ci troviamo a fare i conti con una terminologia peculiare, emancipata, che ci fa comprendere quanto l’area del “trauma” rappresenti sempre di più un modo mirato, “unico” di leggere alcuni dei problemi portati dai pazienti -attraverso una lente dedicata, uno sguardo diverso.

Venendo a questo volume, sono sistematizzati e organizzati qui articoli e approfondimenti raccolti in cinque anni, relativi al “problema” del superamento di un evento traumatico o di una traumatizzazione protratta. Sono raccolti per macro-temi, dalla psicobiologia della traumatizzazione, agli autori più importanti che negli anni (a partire da Pierre Janet) hanno indagato il tema, per arrivare alle modalità di fronteggiamento delle sindromi post-traumatiche più o meno complesse. In chiusura ho costruito tre appendici su temi “di contorno”, tra cui alcune interviste a esperti del settore e alcuni consigli di approfondimento in senso bibliografico.

Lo studio sul trauma e sui fenomeni dissociativi è in continuo mutamento, credo però che il seguente lavoro possa fornire una panoramica di insieme e un approccio sufficientemente chiaro al problema.

Come si noterà dal materiale qui raccolto, e tirando le fila dei diversi filoni di approfondimento trattati, osserviamo come la traumatizzazione risponda a degli imperativi prima di tutto dettati dalla nostra natura animale, più profonda, strettamente connessa alle esigenze evoluzionistiche.

Il trauma è un evento che mette a repentaglio la nostra sensazione di sicurezza, e come tale viene potentemente impresso nella nostra memoria, al fine di salvaguardarci da una sua eventuale ripetizione: è in grado poi di produrre una distorsione dei nostri meccanismi di apprendimento, imprigionandoci in un eterno presente di ripetizione e permanenza all’interno della “vita post-traumatica”. Per questo motivo, viene spesso definito un problema collegato alla memoria, dato che sembra estremamente difficoltoso riconsegnarlo al passato, digerirlo in senso psichico e infine dimenticarlo.

Osserviamo inoltre come alcuni meccanismi tengano in vita questo processo di presentificazione del trauma e delle memorie traumatiche: la mente sembra voler “tornare sulla scena del crimine”, come attratta dal potere suggestivo e dal dolore provocato dalle memorie traumatiche stesse. Alla base di questo, modificazioni nel funzionamento dei distretti cerebrali funzionali alla regolazione degli stati emotivi, contribuiscono a rendere il superamento delle sindromi post-traumatiche un processo che spesso dura moltissimo tempo.

Come prima accennato, leggere le sindromi post-traumatiche in chiave evoluzionistica ci consente di capirne lo scopo ultimo, l’apprendimento che ci aiuta a non ripetere esperienze per noi dolorose, insieme ad un’immobilizzazione ai fini della guarigione, come succede nel dolore fisico. Esistono però molteplici casi in cui questo meccanismo si corrompe e complica, obbligando l’individuo a permanere per troppo tempo in uno stato di immobilità, di fiacchezza passiva, come soggiogato dal potere del ricordo. Sarebbe per questo di estremo interesse procedere a un’indagine comparata con altre specie animali, capire come alcune specie possano estinguere, dissipare i loro vissuti traumatici, al fine di capire meglio cosa -in noi- va così storto: troverete in questo lavoro alcuni spunti sul tema.

Particolare attenzione è stata data in questi contributi su trauma e dissociazione al concetto di approccio integrato, nell’idea che affrontare il problema da molteplici punti di vista (psichico e fisico insieme, banalmente) possa produrre un migliore risultato in senso clinico, e più veloce. Troverete dunque diversi riferimenti ad approcci non solamente psicologici, per affrontare i vissuti disturbanti della post-traumatizzazione.

Infine, troverete alcune parole sottolineate, all’interno del testo e nelle note: sono link che rimandano a pagine internet con approfondimenti ulteriori, ovviamente fruibili solo nella versione e-book di questo lavoro.

QUI É POSSIBILE SCARICARE L’INDICE DEL VOLUME.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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20 February 2025

Il ripassone. “Costrutti e paradigmi della psicoanalisi contemporanea”, di Giorgio Nespoli

di Raffaele Avico

Il monumentale volume curato da Giorgio Nespoli dell’Università di Torino, giustamente pensato per un pubblico di studenti universitari, dato il suo tono chiaro e divulgativo, si rivela  al contempo massimamente preciso e puntuale nell’articolare le diverse formulazioni teoriche, prestandosi benissimo a rappresentare un “ripassone” per chiunque desideri tornare indietro e gli “inizi” dell’avventura psicoanalitica, ripercorrendo a grandi falcate gli avvicendamenti teorici e gli autori che ne hanno segnato i punti di svolta, e i maggiori apporti.

Il volume ha un impianto organizzato in senso cronologico, vuole ripercorrere la storia della psicoanalisi e lo fa estrapolando i paradigmi ad essa sottesi, promuovendo un’operazione mentale di sintesi che consente a chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la materia di ripercorrere con la mente i punti principali della teoria psicoanalitica, e trovare al contempo ulteriori spunti, idee dimenticate e centrali degli autori -magari studiati negli anni dell’università- e punti di convergenza tra teorie diverse.

A fine lettura si ha la sensazione di aver più chiaro, dentro la mente, il percorso originato “formalmente” dagli studi di Freud -con cui il volume si apre- ed evidenti i diversi contributi che dopo di lui hanno ingrossato il “fiume” della teoria psicoanalitica, il tutto espresso con una chiarezza veramente arricchente e molto lavoro fatto dall’autore “per noi”, di pre-masticamento e metabolizzazione dei contenuti psicoanalitici, distillati nei paradigmi fondamentali, che di fatto rappresentano il tema centrale del volume stesso.

Prima di entrare nei contenuti, una nota sulla forma: al di là della comoda strutturazione cronologica del testo, ideale per studenti universitari, il testo si articola alternando contenuti scritti da Nespoli che riassume e sintetizza la teoria, ad apporti di altri autori tratti sia da libri che -e qui il punto originale- da siti a tema, di assoluta attualità. Il testo è costellato da riquadri che riportano estratti da articoli letti su Spiweb, su Psychomedia, su Psychiatry on line e su altri siti minori -ma sempre di qualità. Si ha l’impressione in questo modo di un testo vivo e attuale, ampiamente moderno in questa ibridazione tra “classico” e “nuovo”, analogico e digitale. La lettura può dunque fermarsi al testo principale, e approfondirsi poi sui riquadri a tema, verticali su aspetti puntuali di teoria o di metodo, che rimangono “facoltativi”, per chi voglia approfondire una questione specifica.

A riguardo dei contenuto, osserviamo come Nespoli parta dalla teorizzazione freudiana -riassunta nei punti salienti, con spunti importanti anche per chi lavori già con pazienti e in ambito clinico-, per poi dirigersi speditamente al “mondo teorico” costruito da Klein, quindi al contributo fondamentale e attualissimo di Bion, a Lacan e al paradigma relazionale, verso una concettualizzazione sempre più “bipersonale” del lavoro psicoanalitico, passando per Winnicott, Mitchell, chiudendo su Kohut e su alcune riflessioni inerenti il metodo e la clinica.

Osserviamo, come da titolo, i diversi paradigmi alternarsi all’interno del lavoro di formulazione storica psicoanalitica, partendo dal paradigma pulsionale -con la pulsione a fare da “elemento organizzativo della mente” per Freud-, alla teoria sugli oggetti promossa da Melanie Klein, alla teoria sulla nascita del pensiero di Bion, per arrivare al paradigma relazionale, che permea la psicoanalisi più contemporanea.
A fine lettura si ha chiaramente la “visione” sui diversi apporti e sui segni da questi lasciati nel contesto della dottrina psicoanalitica, e chi volesse tentare un’integrazione -dentro di sé- dei diversi paradigmi, alla ricerca del “suo” modo di pensare al modello di mente, potrebbe con questo volume provare a lavorarci – attraverso una sorta di “ripassone”.

Alcune osservazione estemporanee:

  1. Nespoli, nel riassumere i diversi paradigmi psicoanalitici, si pone delle domande fondamentali, funzionali a meglio divulgare le teorie stesse, come quando si chiede quale sia l’elemento “che organizza la psiche” nel paradigma freudiano (la pulsione) e nel paradigma kleiniano (la difesa dall’angoscia): domande di questo tipo sono spesso formulate nel testo, e ci raccontano di un lavoro di riflessione fatto dall’autore a proposito della teoria stessa, come un ripensamento critico (funzionale -forse- al lavoro clinico) che aiuta a meglio comprendere la teoria stessa
  2. la spiegazione del paradigma freudiano è magistrale, per chiarezza ed esaustività; si ha chiara l’evidenza di come la teoria del trauma in Freud contenesse in nuce alcuni dei concetti centrali della psicotraumatologia di oggi -120 anni dopo-, pur mancando un riferimento forte e una digressione, che forse sarebbe stata importante, su Pierre Janet e il suo lavoro sugli automatismi, sulle funzioni di sintesi mentale e sulla concezione gerarchica della mente. Janet viene definito da Nespoli autore “pre-psicoanalitico”, forse per una questione cronologica
  3. il capitolo su Lacan si rivela il più complesso: troppi i termini specifici, ai limiti del criptico, troppi i passaggi logici dati per scontati nel tentativo di divulgare la formulazione teorica promossa da Lacan; d’altronde la teoria lacaniana si rivela, a quanto sembra, non divulgabile -a tratti astrusa-, e complessa per chiunque vi si approcci dall’esterno. A fine capitolo si ha la sensazione di aver colto poco, e mi chiedo quanto possa aver tratto da una lattura del genere uno studente sui 20 anni; il problema della divulgazione della teoria di Lacan rimane tangibile, dato che le idee sviluppate dal filosofo francese sono geniali, ma sembra esserci carenza di capacità divulgativa anche da parte di chi quella teoria sostenga di padroneggiarla
  4. Fondamentale anche il capitolo su Bion: il suo lavoro sul campo bipersonale, e il rilancio alla teoria di Antonino Ferro (che cura l’introduzione), rappresentano l’aggancio al proseguo ideale del volume stesso, il lavoro (sempre di Nespoli) “Psicoanalisi contemporanea. La teoria del campo analitico post-bioniano”. Il costrutto di campo, l’interpretazione “insatura” (usando un termine di Antonino Ferro), l’idea di una co-costruzione dei significati (e dell’inconscio stesso) rappresentano concetti centrali -insieme alla visione relazionale- della psicoanalisi più attuale, come ben evidenziato dall’autore stesso
  5. Due capitoli interi vengono dedicati rispettivamente alla posizione schizo/paranoide di Klein e alla posizione depressiva, il che ci dice dell’importanza centrale del costrutto di Klein, fondamentale per chi lavori con pazienti (gravi o meno), utilissimo a leggere oscillazioni manifestate dal paziente (pensiamo per esempio al concetto di “trionfo sull’oggetto” nel paziente maniacale)
  6. Molteplici autori rappresentano, in questo “ripassone”, punti di aggancio ad altre scuole di pensiero inerenti la psicologia clinica, in particolare due: a) Ferenczi come padre della psicoanalisi bipersonale e, insieme a Pierre Janet, della teoria sul trauma, e b) Bowlby come promotore della teoria dell’attaccamento, citato per il suo contributo all’infant research, per i suoi studi sull’etologia e sulla psicologia evoluzionistica e per aver costruito un ponte tra la psicoanalisi più classica e l’attuale neuropsicoanalisi. Schore e Giovanni Liotti rappresentano autori che negli ultimi anni hanno incarnato questa possibile “integrazione”, a cavallo tra psicoanalisi classica, ricerca sull’infanzia, etologia e neuroscienza.
  7. Assenti nella trattazione: Jung, Bromberg e il già citato Janet. Janet e Bromberg sono fondamentali per chiunque, oggi, si occupi di trauma (vd. Aisted.it)

In conclusione, questo incredibile, meraviglioso libro si distingue per chiarezza cristallina e puntualità divulgativa, e invoglia alla lettura del successivo lavoro di Nespoli “Psicoanalisi contemporanea. La teoria del campo analitico post-bioniano”, incentrato sul concetto di campo bipersonale, introdotto anch’esso da Antonino Ferro.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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4 February 2025

Henri Ey: “Allucinazioni e delirio”, la pubblicazione in italiano per Alpes, a cura di Costanzo Frau

PREMESSA: pubblichiamo l’introduzione italiana al libro “Allucinazioni e delirio. Le forme allucinatorie dell’automatismo verbale” di Henri Ey, a cura di Costanzo Frau, che ha anche tradotto il libro. Importare in Italia il lavoro di Henri Ey ha la funzione di promuovere la concettualizzazione gerarchica del modello di mente, che coniuga in sè importanti contributi di “padri” dell’attuale psicotraumatologia, e che ci aiuta a comprendere forme di psicopatologia di difficile lettura, come le voci simil-allucinatorie in gravi disturbi post-traumatici. L’idea centrale è che la mente proceda per elaborazioni di informazioni entro una logica gerarchica, e che -come sostiene Pierre Janet- alcune forme di psicopatologia vadano pensate come “fallimenti” delle funzioni di sintesi di aree del complesso mente/cervello più evolute, che non riuscirebbero a contenere l’attivazione delle aree sottostanti o precedenti -sempre entro lo schema gerarchico. Qui per un’introduzione al modello organodinamico di Henri Ey. Aisted ha attivato un gruppo di lavoro sul neo jacksonismo, qui raggiungibile. (R. Avico)
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Introduzione all’edizione italiana (di Costanzo Frau)

Il DSM-5 definisce le allucinazioni come “esperienze simil-percettive che si verificano senza uno stimolo esterno. Sono vivide e chiare, con il pieno impatto e tutta la forza delle percezioni normali, e non sono sotto il controllo volontario. Esse possono presentarsi in qualsiasi modalità sensoriale, ma le allucinazioni uditive sono le più comuni nella schizofrenia e nei disturbi correlati […]” (APA, 2013; p. 102).

Esistono diverse definizioni generali di allucinazione, che variano in base alla prospettiva teorica e scientifica. La definizione proposta da Esquirol nel 1817, ancora in uso oggi, descrive l’allucinazione come “una convinzione immediata di una sensazione percepita, pur in assenza di un oggetto esterno che possa stimolare tale sensazione” (Ey, 1939).

Jaspers, nel 1913, la considera come una percezione falsa che non è dovuta a una distorsione delle percezioni reali, ma piuttosto a una produzione mentale autonoma che si manifesta simultaneamente con le percezioni autentiche (Jaspers, 1913).

Per Smythies (1956, citato in Oyebode, 2008), un’allucinazione è un fenomeno percettivo che coinvolge stimoli sia interni che esterni, ma che non corrisponde a un oggetto concreto nel mondo reale.

Infine, Slade (1976, citato in Oyebode, 2008) distingue tre caratteristiche fondamentali delle allucinazioni: la percezione simulata si verifica senza uno stimolo esterno, ha un’intensità e un impatto simili a quelli di una percezione reale, ed è caratterizzata da involontarietà, spontaneità e da una totale incapacità del soggetto di controllarla.

Per lungo tempo, il sentire le voci è stato considerato un sintomo di- stintivo della schizofrenia, come indicato nelle edizioni precedenti del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III e DSM- IV). La diagnosi di schizofrenia nel DSM-IV richiedeva la presenza di almeno due dei seguenti cinque sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento gravemente disorganizzato o catatonico, e sintomi negativi, che includevano appiattimento affettivo, alogia, abulia. In alternativa, bastava la presenza di deliri bizzarri o di allucinazioni uditive, come la percezione di una voce che commenta continuamente i pensieri o il comportamento del soggetto, oppure il sentire due o più voci che conversano tra loro (APA, 2000).

Tuttavia, a partire dalla quinta edizione del manuale, le allucinazioni verbali uditive non sono più considerate un sintomo esclusivo della schizofrenia (APA, 2013).

È stato evidenziato che le allucinazioni uditive possono manifestarsi anche in individui senza una diagnosi psichiatrica, fenomeno spesso definito in letteratura come “pseudoallucinazioni”. Questo termine viene utilizzato per distinguere tali voci da quelle tipicamente associate a disturbi psicotici, come nei casi di psicosi (Longden et al., 2019).

Tuttavia, la ricerca scientifica non ha fornito prove conclusive a sostegno di questa distinzione. Al contrario, le evidenze suggeriscono che non vi sia una separazione netta tra le allucinazioni uditive sperimentate da persone con e senza diagnosi psichiatrica.

Numerose ricerche hanno mostrato che una parte significativa della popolazione sperimenta allucinazioni uditive senza ricorrere a trattamenti terapeutici per psicosi. Solo una percentuale relativamente bassa di questi individui (compresa tra 1/3 e 1/5) cerca una consulenza psichiatrica in relazione a queste esperienze (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007).

Inoltre, non sono state riscontrate differenze significative in relazione alla localizzazione delle voci, in quanto la percezione della provenienza esterna della voce non risulta essere più strettamente associata alla schizofrenia rispetto ad altri disturbi dello spettro schizofrenico e psicotici. Variabili come la prevalenza delle allucinazioni uditive, la loro personificazione, la vividezza percettiva, la durata e il contenuto negativo non mostrano differenze significative tra i pazienti con diagnosi di schizofrenia e quelli con altre diagnosi psichiatriche (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007; Waters & Fernyhough, 2017).

Sono state osservate sia somiglianze che differenze nelle allucinazioni uditive tra popolazioni cliniche e non cliniche, un argomento che viene trattato in modo approfondito nella revisione di Longden e collaboratori, la quale si raccomanda per ulteriori approfondimenti (Longden et al., 2019).

Nel 2007, Moskowitz e Corstens furono i primi a proporre l’idea che l’udire voci potesse essere il risultato di un processo dissociativo. Gli autori evidenziano la mancanza di evidenze che suggerissero una differenza significativa tra le voci percepite da individui con diagnosi di schizofrenia, disturbi dissociativi o da persone senza disturbi psichici. Nelle loro conclusioni, gli autori sottolinearono alcuni punti fondamentali: a) le allucinazioni uditive dovrebbero essere interpretate come esperienze dissociative, tipiche di individui predisposti a percepire voci, in particolare in situazioni di stress; b) queste esperienze necessitano di un’analisi approfondita per comprendere appieno il loro significato; c) le allucinazioni uditive potrebbero risolversi quando l’individuo riesce a spostare la sua valutazione da un livello esterno a uno interno riguardo al processo in atto (Moskowitz & Corstens, 2007).

La tendenza a interpretare i fenomeni mentali in termini di determinismo biologico ha radici molto antiche. Questo approccio può essere visto come il risultato dell’attività incessante delle strutture cerebrali superiori, che cercano di attribuire un senso ai vari aspetti dell’esperienza umana, spesso cadendo però nell’errore dell’ipersemplificazione. Un esempio di questa dinamica si può osservare anche nel concetto di allucinazione, che, a partire dalla definizione iniziale di “percezione senza oggetto” proposta da Esquirol, ha subito una lenta evoluzione.

In questo contesto, Séglas, clinico di grande esperienza e figura di riferimento della Salpêtrière, si esprime riguardo all’allucinazione uditiva nella sua introduzione a questo libro di Henri Ey.

“Questo atteggiamento quasi generale di indifferenza da parte dei medici nei confronti della psicologia dell’allucinazione uditiva, e in particolare delle allucinazioni psichiche, era semplicemente il risultato dell’idea, emersa dal lavoro di Esquirol e divenuta una sorta di aforisma intangibile, che l’allucinazione fosse semplicemente una modalità patologica della percezione “una percezione senza oggetto”. Non sorprende quindi che le allucinazioni vengano classificate in tante varietà quanti sono i sensi e che si distinguano, accanto alle allucinazioni della vista e dell’udito, quelle dell’olfatto, del gusto e del tatto” (p. XXII).

In un passo successivo ne sottolinea il meccanismo dissociativo:

“In sintesi, la caratteristica di questi fenomeni non è che si manifestano come più o meno simili a una percezione esterna, ma che sono fenomeni di automatismo verbale, un pensiero verbale staccato dall’Io, un fatto, si potrebbe dire, di alienazione del linguaggio” (p. XXIV).

Ciò che emerge con chiarezza lungo tutto il testo è l’idea che le allucinazioni non debbano essere considerate semplicemente come il risultato di un danno biologico, ma piuttosto come fenomeni che si inseriscono in un quadro complesso e dinamico del funzionamento globale dell’individuo, e in particolare della sua personalità. Secondo Henri Ey, le allucinazioni sarebbero espressione di un livello di integrazione psicologica ridotto.

Nelle sue conclusioni, l’autore sottolinea che:

“Così, di fronte alle teorie che pongono l’allucinazione come una sensazione più o meno degradata, anormale ma primitiva, che di conseguenza im- maginano i fenomeni allucinatori come sensazioni imposte (dall’interno… e si potrebbe quasi dire dall’esterno!) sulla personalità del soggetto, la nostra concezione (anch’essa tradizionale, come abbiamo spesso sottolineato, da Mo- reau de Tours a Séglas) è che si tratti di un errore condizionato da una caduta di livello psichico con un determinismo organico o affettivo che gli conferisce una sensorialità più o meno chiara. È sempre costituito dall’impasto della personalità del soggetto e della sua stessa attività” (p. 122).

E ancora in passaggio successivo:

“In conclusione, affermiamo ancora una volta che l’allucinazione non è un oggetto, che non è un prodotto primitivo del cervello malato. È legata da una rete fitta e sottile all’intera personalità dell’allucinato, così come la più piccola delle nostre idee, il più piccolo dei nostri atti – anche il più automatico – è legato all’insieme dei nostri atti passati, delle nostre idee, delle nostre credenze, dei nostri desideri. Ogni immagine è un pezzo vivente di noi stessi. Ogni idea ha le sue radici nella sostanza del sé. È altrettanto stravagante credere a idee, immagini e oggetti (le cosiddette allucinazioni) che si producono al di fuori del sé e a cui il sé aderisce, quanto credere alla trasmissione del pensiero” (p. 125).

Questo lavoro preliminare del 1934 rappresenta un momento cruciale nella definizione delle allucinazioni secondo Henri Ey, un concetto che viene poi ampiamente trattato nel suo successivo trattato sulle allucinazioni. In quest’opera, Ey distingue due tipi principali di allucinazioni: le allucinazioni semplici (come le allucinosi), che possono essere ricondotte a disturbi neurologici, e le allucinazioni complesse, che si basano sul linguaggio interiore e sono legate a disfunzioni nell’organizzazione della coscienza (Ey, 1973).

In effetti, Henri Ey, insieme ad altri studiosi come Scröder e Janet, ha tracciato una distinzione tra allucinosi – intesa come una disintegrazione isolata delle percezioni – e le allucinazioni osservate nelle psicosi, che sono considerate espressioni cliniche del disturbo della coscienza e della personalità (Ey et al., 1972).

Il DSM-5 definisce i deliri come “convinzioni fortemente sostenute che non sono passibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti” (APA, 2013; p. 101).

La definizione standard di delirio si rifà a Jasper (1913), il quale gli attribuiva queste caratteristiche:

  1. il fatto di essere un giudizio erroneo;
  2. l’essere sostenuto con straordinaria convinzione e impareggiabile certezza soggettiva;
  3. l’essere refrattario all’esperienza e ogni tipo di confronto con argomentazioni alternative oltre al fatto di non essere influenzato dall’esperienza concreta o dalle confutazioni stringenti;
  4. l’impossibilità del contenuto;

Jasper (1913) differenzia i veri deliri o deliri propri dalle idee simil- deliranti, laddove i primi diventano sinonimi di deliri primari mentre i secondi di deliri secondari.

Le idee simil-deliranti possono essere comprese in riferimento all’ambiente interno ed esterno del paziente, in particolare dal suo stato dell’umore.

I veri deliri non possono essere spiegati, sono irriducibili e sono classificati in: intuizioni deliranti, percezioni deliranti, atmosfera delirante e ricordi deliranti (Jasper, 1913; Oyebode, 2008).

Le teorie più recenti in ambito psichiatrico si sono evolute nel tentativo di fornire una spiegazione delle varie manifestazioni del delirio. I deliri pri- mari, definiti come “irriducibili” e non comprensibili, potrebbero sembrare privi di una spiegazione logica, poiché il clinico o l’osservatore potrebbe non possedere informazioni sufficienti sul contesto esistenziale e biografico da cui questi deliri emergono. Questo può accadere anche quando si è esplorata in profondità la possibilità di una loro interpretazione come fenomeni secondari. Secondo alcuni autori, diversi tipi di delirio potrebbero derivare da ricordi traumatici decontestualizzati o da esperienze precoci di attaccamento emotivo, per le quali non è possibile formare una memoria autobiografica congruente (Moskowitz & Montirosso, 2019).

Come viene concettualizzato il delirio in questo lavoro di Henri Ey?

Per l’autore, i disturbi allucinatori del linguaggio interiore (automatismo verbale) assumono la loro forma patologica diventando fenomeni for- zati o estranei attraverso il significato che viene conferito loro dal delirio.

Utilizzando le parole dello psichiatra francese, il delirio è “nella sua accezione più generale, quell’insieme di disturbi della coscienza, sentimenti patologici, credenze morbose, che fanno sempre da contorno a fenomeni isolati solo dall’astrattezza come le allucinazioni o le pseudo-allucinazioni verbali”.

Il delirio risulta quindi strettamente connesso all’allucinazione, come emerge chiaramente nella seconda sezione del testo, dove Ey fa riferimento a numerosi autori che condividono questa visione (vedi per esempio Falret e Chaslin). Tuttavia, il principale riferimento è a Séglas, che viene citato più volte e la cui riflessione fondamentale viene proposta come epigrafe all’inizio di questo lavoro: “L’allucinazione non deve essere considerata solo come un delirio delle sensazioni. Essa possiede tutte le caratteristiche di un vero e proprio delirio, nel senso più ampio del termine”.

La concezione del delirio di Ey si inserisce nella teoria organo-dinamica e si fonda su due aspetti principali, strettamente interconnessi: a) la dimensione negativa dell’esperienza delirante, che è caratterizzata da uno stato primordiale del delirio, conseguente alla destrutturazione della coscienza; b) la costruzione delirante positiva, che consiste nella costruzione di una finzione immaginaria a partire dalle esperienze deliranti, dando forma a una narrativa delirante coesa (Ey et al., 1972)

Tutto il lavoro di Ey si fonda sulla teoria di Jackson, in base alla quale la mente funziona secondo un principio gerarchico. In questo modello, la mente è in grado di integrare progressivamente in modo più complesso le informazioni provenienti dalle aree cerebrali inferiori. Le funzioni delle strutture cerebrali più primitive vengono riorganizzate e rappresentate all’interno delle reti neurali più avanzate (le neostrutture), le quali permettono forme più sofisticate e adattabili di elaborazione dell’informazione.

Come l’autore afferma in un passaggio in cui discute il concetto di automatismo:

“A un livello inferiore, la mente fluttuante è capace solo di attività associativa e spontanea. A un livello superiore, ma ancora inferiore all’attività riflessiva e volontaria, si organizza secondo un tipo di pensiero affettivo, primo abbozzo della sua finalità. È l’ipotesi di tale gerarchia che ci guiderà in tutto questo lavoro” (p. XLVI).

E ancora più avanti nel testo quando mette in evidenza come il costituirsi delle idee deliranti vada ricondotto all’attività mentale dei livelli inferiori:

“[…] ma esiste proprio nel dispiegamento delle funzioni psichiche un dominio molto considerevole in cui il pensiero indebolito è costretto a rimanere a questi livelli inferiori ed è, crediamo, in questi stati crepuscolari ipnoidi che dob- biamo vedere l’elaborazione di un certo numero di idee deliranti.” (p. LVII).

Il libro in esame affronta il tema delle allucinazioni e dei deliri, esplorandone la connessione.

Nell’introduzione, l’autore si concentra sulla definizione di “automatismo” in psicopatologia, esaminando la complessità e le ambiguità del termine, e considerando le diverse interpretazioni presenti in ambito psichiatrico. Successivamente, il concetto viene rielaborato attraverso una prospettiva organo dinamica, in accordo con le teorie di Jackson, Janet e Bleuler.

L’ipotesi che orienta le argomentazioni dei capitoli successivi è che i fenomeni allucinatori non debbano essere considerati manifestazioni automatiche e prive di significato, ma piuttosto “dei fenomeni in sé stessi intatti e che assumono una forma patologica (credenze deliranti e allucinatorie) una volta che si verifica una dissoluzione delle funzioni superiori che le regolano” e che questa dissoluzione cerebrale possa “essere realizzata da incidenti cerebrali o in certi casi essere provocata da avvenimenti dell’”ambiente” recenti (traumi affettivi) o antichi (organizzazione della personalità psichica, non cosciente)”.

La prima sezione del libro è incentrata sull’analisi delle allucinazioni psicomotorie verbali.

In questa parte, Henri Ey propone un excursus storico, esaminando l’evoluzione delle teorie a partire dai primi lavori di Séglas del 1888, per poi sviluppare una discussione in cui illustra, attraverso numerosi esempi clinici, come il linguaggio debba essere concepito come una funzione motoria complessa, strettamente interconnessa con i processi cognitivi del pensiero.

Ey esplora il rapporto tra immagine, linguaggio e movimento, evidenziando come la percezione, insieme all’immagine e al pensiero che ne derivano, siano intimamente connessi agli atti motori. In questa visione, la percezione non è solo un processo passivo di registrazione sensoriale, ma un atto dinamico che implica l’integrazione e la rappresentazione di stimoli all’interno di un contesto motorio, dove il linguaggio, come funzione complessa, emerge e si sviluppa in stretta relazione con il movimento. I fenomeni psichici possono quindi essere spiegati tramite il movimento, considerato “il vero motore dell’atto percettivo, del pensiero e dell’immagine seguendo i loro diversi livelli” (p. 27).

L’autore esamina le allucinazioni psicomotorie, distinguendo tra feno- meni di costrizione (forzati) e fenomeni di estraneità, e successivamente discute come tali manifestazioni possano essere comprese solo in relazione a uno stato mentale più ampio che le ingloba. In particolare, il sentimento di “influenzamento” si associa ai fenomeni forzati, mentre il sentimento di “automatismo” si lega ai fenomeni di estraneità.

Negli ultimi capitoli di questa prima parte, l’autore propone una valutazione critica della teoria di Morgue, argomentando la corrispondenza tra il sentimento di automatismo e il sentimento di influenzamento. Ey sottolinea come entrambi i fenomeni “non dipendano da scoppi, irruzioni, atti isolati e meccanicamente innescati” (p. 48) ma piuttosto siano il frutto di processi psichici più complessi. Inoltre, illustra come la dissoluzione delle funzioni psichiche che sta alla base di questi fenomeni possa essere indotta tanto da fattori organici, come alterazioni neurologiche, quanto da fattori affettivi, suggerendo una visione più integrata e meno riduzionista dei disturbi psichici.

La seconda parte del lavoro si focalizza sull’analisi del rapporto tra allucinazione e delirio. In particolare, il primo capitolo esplora come i fenomeni forzati e quelli estranei siano strettamente legati al pensiero e alle credenze deliranti. Il secondo capitolo, invece, è dedicato all’esame dei fenomeni psicomotori e all’evoluzione dei deliri, mentre il terzo capitolo offre una descrizione delle diverse tipologie di delirio, evidenziando le varie manifestazioni cliniche e le loro caratteristiche distintive.

In ambito psichiatrico, il fenomeno delle allucinazioni uditive viene generalmente interpretato come il risultato di un “danno” biologico, un’alterazione nei meccanismi cerebrali, e per questo motivo viene considerato trattabile esclusivamente tramite interventi farmacologici. In questo paradigma, il trattamento con antipsicotici è visto come la modalità terapeutica principale, accompagnato da interventi psicoeducativi, che si concentrano sull’informare il paziente riguardo alla natura del disturbo cerebrale e alla necessità di seguire una terapia farmacologica.

Al contrario, una prospettiva alternativa, concepisce le voci come fenomeni dissociativi, ossia come manifestazioni di aspetti del sé che sono stati dissociati o separati. In questa visione, le allucinazioni uditive vengono interpretate come strategie di adattamento e di sopravvivenza messe in atto dal cervello di fronte a difficoltà psichiche. In questo approccio, l’intervento primario consiste in una psicoterapia, con il trattamento farmacologico che gioca un ruolo di supporto (Ross, 2020; Mosquera & Ross, 2016).

In linea con questo modo di concepire le voci, studi recenti hanno messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti che considerano le voci come aspetti del sé dissociati da re-integrare all’interno di un processo terapeutico (Corstens et al., 2019; Longden et al., 2022).

Molte teorie, purtroppo, non hanno ricevuto il riconoscimento scientifico che avrebbero meritato, venendo inizialmente ignorate per poi essere rivalutate in seguito. Sebbene le teorie di Henri Ey abbiano avuto un certo impatto nel contesto psichiatrico, è probabile che nel corso dei decenni successivi non abbiano ricevuto l’attenzione adeguata che il loro valore teorico e clinico avrebbe suggerito.

Si spera che il presente volume, che rappresenta il primo contributo dell’autore sull’interrelazione tra fenomeni allucinatori e psicosi, ripreso successivamente in un’opera più ampiamente sviluppata (Ey, 1973), possa suscitare nel lettore una rinnovata curiosità e stimolare nuove riflessioni, indirizzando la ricerca verso una concezione gerarchica del funziona- mento mentale, in opposizione a una visione dominante nella psichiatria contemporanea che, se non definita “meccanicistica”, risulta comunque di natura riduzionista.

Qui per acquistare il volume.

Article by admin / Generale, Formazione, Recensioni / PTSD

8 January 2025

Hakim Bey: T.A.Z.

di Raffaele Avico

“Questi nomadi mappano le proprie rotte affidandosi a strane stelle che potrebbero essere ammassi luminosi di dati nel ciberspazio, o forse allucinazioni. Tracciate una carta del paese e sopra metteteci una mappa dei cambiamenti politici, e ancora sopra una mappa della Rete, in particolare la contro-Rete con la sua enfasi sul flusso di informazioni clandestine e sulla logistica, e per finire, al di sopra di tutto, la carta 1:1 dell’immaginazione creativa, dell’estetica e dei valori creativi. La griglia risultante prenderà vita, animata da inattesi gorghi e sbalzi d’energia, da coagulazioni di luce, da passaggi segreti, da sorprese.”

Hakim Bey è (stato) un attivista anarchico, un pensatore “folle”, un riferimento per la controcultura degli anni ‘70; recentemente Shake ha tradotto un suo lavoro storico, scritto tra gli anni ‘80 e ‘90, rieditato e riorganizzato nei contenuti, dal titolo TAZ, ovvero “Zona autonoma temporanea”. In rete si trovano diverse definizioni del concetto di TAZ, anche se nel libro di Bey non è chiarissima la sua definizione: si tratta però di un concetto che rimanda all’idea di “non luogo”, una zona di “liberazione” temporanea, uno spazio o un luogo in cui le leggi della società per come la conosciamo -e dell’impero “del capitale”- sono momentaneamente sospese.

Bey invita il lettore a costruire attivamente e ad esplorare zone di autonomia temporanea, partendo da un lavoro di consapevolizzazione, di studio della realtà esistente, al fine di costruire “alternative temporanee valide”. Nel libro troviamo alcuni esempi puntuali di TAZ, dall’esperimento di D’Annunzio con la presa di Fiume e la creazione di una sorta di comune avanguardista incentrata sul godimento, sulla musica e sull’assenza di legge, all’idea di “festa” in generale, intesa come momento di sospensione delle regole sociali comuni, all’ambiente della pirateria del 1500/1600, che aveva regole intrinseche molto strutturate e peculiari incentrate sulla redistribuzione della ricchezza.

Il libro si divide in due parti principali: un primo capitolo che dà il nome al libro stesso, incentrato sul concetto di T.A.Z., e un secondo macro capitolo che vuole essere un manifesto di quella che Bey definisce Associazione Anarchica Ontologica, di cui troviamo qui una definizione.

Come altri libri scritti da autori anarchici, Bey osserva alcuni aspetti peculiari che ci aiutano a riflettere sulla società attuale:

  • sono frequenti i riferimenti alla corruzione introdotta dalla società dei consumi e dello spettacolo, che sembra aver allontanato gli uomini da un tipo di godimento infantile, a contatto con la natura, e da una sessualità più libera, divincolata da aspetti morali
  • c’è un invito costante a trascendere, in questo libro, al di là dell’impianto di leggi e imposizioni morali dettate dalla società dello spettacolo; Bey usa spesso termini e concetti mutuati dalla filosofia di Nietzsche, che torna più volte nella lettura, il che ci fa pensare al filosofo dell’oltreuomo come a uno dei riferimenti centrali dell’autore
  • il libro è più un insieme organizzato di pensieri e spunti che non un prodotto editoriale “perfetto”: troviamo al suo interno moltissimi riferimenti ad altri pensatori, altre sperimentazioni, a concetti mutuati dalle filosofie orientali, così come dal pensiero “hippie”, il tutto mischiato e a volte confusionario; il libro va approcciato con mente aperta, disposta a un’operazione di “meticciamento”
  • la cultura del “rave”, dello spazio autonomo, deve molto a scritti di questo tipo: per chi conosce dall’interno della cultura del rave, un pensatore come Bey rappresenta un riferimento culturale importante. Gli ambienti dei rave sono descritti spesso come luoghi “altri”, come realtà alternative, spazi di sperimentazione e di confronto disintermediato
  • Nel libro sono presenti riferimenti al lavoro “psicologico”: notiamo che Bey mastica concetti di psicoanalisi (sicuramente ha letto Jung); il suo invito al decostruire e allo smantellare si spinge fino a un attacco agli “archetipi”, il che di nuovo ci ricorda l’operazione di “trasvalutazione di tutti i valori” di Nietzsche

Esempio di TAZ, la (ex) comune anarco-ambientalista Floating City di Copenhagen.

Bey stesso, morto nel 2022, fu un personaggio estremo: apolide per scelta, viene contestato dagli anarchici più ortodossi, criticato nel suo modo a-politico di promuovere le TAZ -troppo slegato da un modo più “sistemico” di introdurre il pensiero anarchico.

Qui il PDF di TAZ in download.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI

Article by admin / Generale, Recensioni

3 January 2025

L’INTEGRAZIONE IN AMBITO PSICHEDELICO – IN BREVE

di Raffaele Avico

L’integrazione è un processo di “socializzazione” e ri-discussione dell’esperienza psichedelica in un contesto di gruppo, o almeno “alla presenza di” qualcun altro. L’idea è che i contenuti emersi durante il “viaggio psichedelico” possano essere ri-affrontati e discussi, così da trovare un loro posto nella quotidianità del soggetto, divenendo -appunto- integrati nella sua vita.

Abbiamo chiesto a Caterina Bartoli (aka Studio Aegle) un chiarimento a proposito del tema dell’integrazione in psichedelia (qui). Caterina aveva lavorato a un importante articolo introduttivo a tema psichedelici, con raccolti -e sintetizzati- 10 articoli “imprescindibili” della cultura psichedelica, che potete trovare qui. Qui invece li link al suo sito, e l’intero archivio degli articoli che per ora ha spiegato e diffuso.

Sempre a proposito di psichedelici, Phenomenautics.

A proposito del concetto di integrazione, per approfondire, elenchiamo qui di seguito alcune risorse di qualità:

  1. Workbook di MAPS
  2. Questi spunti per community led-integration circles
  3. Questo articolo: Psychedelic integration: An analysis of the concept and its practice
  4. infine, la “bibbia” sul tema.

NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale, Formazione / psicoterapia

19 December 2024

CARICO ALLOSTATICO: UN’INTRODUZIONE

PREMESSA: questo articolo è stato scritto -come esperimento- da ChatGPT4o, “alimentata” da articoli scientifici incentrati sul concetto di carico allostatico. Il concetto di carico allostatico è affine a quello di “disturbo dell’adattamento“, che riguarda persone colpite da stress protratto (come vi rispondono, come la loro mente e il loro corpo reagiscono ad esso).
In pazienti con PTSD o PTSDc, osserviamo uno stato di iperattivazione nervosa protratto, un’accensione del sistema di allarme che ricade sul corpo, che genera conseguenze anche in senso medico. I due riferimenti teorici, come si legge sotto, sono su questo Bruce S. McEwen e Robert Sapolsky, che ha scritto il famoso “Perchè alle zebre non viene l’ulcera“, un trattato divulgativo ottimo per capire come il “carico allostatico” -appunto- impatti sui vari distretti corporei. Un ottimo lavoro divulgativo, su questo, lo sta facendo la SIPNEI.
Per un professionista che si occupi di individui colpiti da eventi stressanti o in balìa di emozioni di allarme (come nei disturbi di panico, o appunto nelle sindromi post-traumatiche) capire come il “carico” emotivo impatti sul corpo e sulla mente -insieme- rappresenta un imprescindibile punto di partenza nel lavoro di indagine diagnostica e durante l’impostazione del piano di cura. Abbiamo qui spesso sottolineato come la sola parola non basti, e occorra mettere il corpo nell'”equazione clinica”, spingendo il paziente a occuparsi anche delle ricadute somatiche della sua emotività (per esempio tentando di dissipare l’allarme anche in forma fisica, attraverso l’attività fisica). (R. Avico)

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Introduzione

Il concetto di equilibrio biologico ha subito un’evoluzione significativa nel corso del tempo. L’omeostasi, definita da Walter Cannon come il ritorno dell’organismo a condizioni di stabilità originarie, è stata ampliata e reinterpretata attraverso il concetto di allostasi e carico allostatico. Questo approccio, sviluppato da Hans Selye e formalizzato da Bruce McEwen, rappresenta un salto paradigmatico nella comprensione della risposta adattativa agli stressor e delle sue conseguenze sulla salute umana. L’allostasi descrive il processo attraverso cui l’organismo raggiunge un nuovo equilibrio funzionale, mentre il carico allostatico rappresenta il costo biologico accumulato nel tentativo di adattarsi a stimoli prolungati o ripetuti. Questi concetti sottolineano il ruolo del cervello come centro di regolazione della risposta allo stress e il suo dialogo costante con il resto del corpo.

Il carico allostatico: definizione e implicazioni

Il carico allostatico rappresenta il costo cumulativo sostenuto dall’organismo nel tentativo di adattarsi agli stimoli stressanti attraverso meccanismi di allostasi. Esso si verifica quando le risposte fisiologiche allo stress sono attivate ripetutamente o mantenute per periodi prolungati, superando la capacità di recupero dell’organismo. Il carico allostatico include sia la produzione eccessiva di mediatori dello stress, come cortisolo e citochine infiammatorie, sia la loro deregolazione, con effetti dannosi a livello cerebrale, immunitario, cardiovascolare e metabolico. Questa condizione, se protratta, diventa un fattore predisponente per l’insorgenza di patologie croniche, alterazioni cognitive e disturbi dell’umore.

L’allostasi e il cervello: adattamento e sovraccarico

Il cervello svolge un ruolo centrale nella percezione e nella regolazione della risposta allo stress. Esso valuta l’ambiente, determina la natura degli eventi stressanti e coordina le risposte comportamentali e fisiologiche necessarie all’adattamento. Questo processo, definito allostasi, coinvolge mediatori chiave come il cortisolo, le catecolamine, le citochine infiammatorie e gli ormoni metabolici. Quando queste risposte sono equilibrate e temporanee, facilitano un adattamento funzionale; tuttavia, quando diventano croniche, eccessive o deregolate, si genera un carico allostatico, che si manifesta con alterazioni a livello cerebrale e sistemico.

La plasticità allostatica rappresenta la capacità del cervello di adattarsi strutturalmente e funzionalmente in risposta allo stress. Questa plasticità si osserva in regioni chiave come l’ippocampo, la corteccia prefrontale e l’amigdala, ciascuna delle quali risponde in modo differente agli stimoli stressanti. L’ippocampo, cruciale per la memoria episodica e la regolazione dell’umore, subisce atrofia dendritica sotto stress cronico, con effetti negativi sulle funzioni cognitive. Al contrario, l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione della paura e dell’ansia, mostra espansione dendritica, che si traduce in un aumento della vigilanza e della risposta emotiva. La corteccia prefrontale, fondamentale per le funzioni esecutive e il controllo comportamentale, subisce una riduzione della connettività funzionale, portando a rigidità cognitiva e difficoltà decisionali.

Meccanismi epigenetici e carico allostatico

Lo stress regola l’espressione genica attraverso meccanismi epigenetici, tra cui la metilazione del DNA, le modifiche istoniche e l’azione di RNA non codificanti. Questi processi influenzano continuamente l’attività dei geni, lasciando segni permanenti che persistono anche dopo la fine dell’evento stressante. Le esperienze avverse durante lo sviluppo, comprese quelle prenatali e infantili, esercitano effetti duraturi sull’architettura genetica e cerebrale, aumentando la suscettibilità a disturbi psichiatrici e fisici. Il concetto di plasticità epigenetica implica che, sebbene il cervello possa mostrare resilienza e recupero, esso non ritorna mai completamente allo stato precedente allo stress.

L’accumulo di carico allostatico altera anche la fisiologia sistemica. Il ritmo circadiano, ad esempio, risente fortemente delle alterazioni stress-correlate, con effetti negativi sulla regolazione del sonno, del glucosio e dell’infiammazione sistemica. La privazione del sonno e le disfunzioni circadiane aggravano il carico allostatico, determinando un aumento della resistenza insulinica e del rischio di patologie metaboliche. Di conseguenza, condizioni come il diabete e l’obesità sono strettamente correlate alla depressione e all’aumentato rischio di demenza.

Effetti sistemici e implicazioni per la salute

Il carico allostatico si manifesta con effetti negativi diffusi che coinvolgono più sistemi fisiologici. A livello neuroendocrino, la deregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene porta a una produzione persistente di cortisolo, con conseguenze dannose sulla salute metabolica, immunitaria e cardiovascolare. A livello immunitario, l’infiammazione cronica rappresenta un elemento cardine del carico allostatico, favorendo lo sviluppo di malattie autoimmuni, cardiovascolari e neurodegenerative. Questi effetti si estendono alla sfera psichiatrica, con un aumento della vulnerabilità alla depressione, all’ansia e ai disturbi cognitivi.

L’esposizione precoce allo stress, sia durante lo sviluppo intrauterino che nei primi anni di vita, contribuisce in modo determinante al carico allostatico. Eventi avversi in questa fase delicata lasciano segni epigenetici che influenzano negativamente la salute mentale e fisica nell’età adulta. Analogamente, fattori socioeconomici, come la povertà e lo svantaggio sociale, interagiscono con predisposizioni genetiche ed epigenetiche, aumentando il rischio di multimorbilità tra disturbi psichiatrici e fisici.

Effetti dello stress protratto e il contributo di Robert Sapolsky

Il lavoro di Robert Sapolsky ha ampliato la comprensione degli effetti dello stress protratto sul cervello e sull’organismo. Secondo Sapolsky, lo stress cronico comporta una stimolazione prolungata dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con rilascio costante di cortisolo. Questa esposizione persistente danneggia in modo particolare l’ippocampo, una struttura essenziale per la memoria e la regolazione emotiva. Le cellule neuronali dell’ippocampo risultano vulnerabili all’effetto neurotossico del cortisolo, andando incontro a una riduzione delle connessioni dendritiche e a una maggiore suscettibilità alla morte cellulare. Parallelamente, l’amigdala mostra un’attivazione eccessiva che amplifica stati di ansia e iper-vigilanza, mentre la corteccia prefrontale, deputata alla regolazione delle emozioni e al controllo delle risposte impulsive, subisce un declino funzionale.

Sapolsky sottolinea inoltre come lo stress protratto agisca a livello sistemico, favorendo l’infiammazione cronica e interferendo con il metabolismo glucidico. Questa condizione, se prolungata, diventa un terreno fertile per lo sviluppo di patologie come la sindrome metabolica, il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. I suoi studi evidenziano anche l’importanza del contesto sociale nella modulazione della risposta allo stress, mostrando come fattori come la gerarchia sociale e le relazioni interpersonali possano influenzare la vulnerabilità individuale agli effetti negativi dello stress.

Prevenzione e interventi terapeutici

La comprensione del carico allostatico e dei suoi meccanismi sottolinea l’importanza di approcci preventivi e terapeutici mirati. La prevenzione del sovraccarico biologico è fondamentale e richiede interventi che promuovano comportamenti salutari e resilienza psicologica. La plasticità cerebrale offre opportunità per trattamenti che integrano interventi farmacologici e comportamentali. Tecniche come la mindfulness, la meditazione e la terapia cognitivo-comportamentale si sono dimostrate efficaci nel ridurre lo stress e migliorare la salute mentale. L’attività fisica regolare, un sonno adeguato e la promozione di interazioni sociali significative sono strumenti essenziali per mitigare il carico allostatico e favorire il recupero.

Conclusione

L’allostasi e il carico allostatico rappresentano concetti chiave per comprendere come l’organismo risponde allo stress nel corso della vita. Il cervello, in qualità di organo centrale della risposta allo stress, modula e subisce gli effetti delle esperienze stressanti attraverso meccanismi neuroplastici ed epigenetici. Quando la risposta adattativa diventa disfunzionale, si verifica un accumulo di carico allostatico che compromette la salute sistemica e psichica. Affrontare il carico allostatico richiede un approccio olistico che integri prevenzione, interventi terapeutici e promozione del benessere, con l’obiettivo di preservare l’equilibrio dinamico dell’organismo e migliorare la qualità della vita.

Indicazioni biografiche su Bruce McEwen

Bruce S. McEwen (1938-2020) è stato un pioniere nel campo della neuroendocrinologia e della ricerca sullo stress. Professore presso la Rockefeller University di New York, McEwen è noto per aver introdotto i concetti di allostasi e carico allostatico, rivoluzionando la comprensione delle risposte allo stress e delle loro implicazioni per la salute mentale e fisica. I suoi studi hanno esplorato l’interazione tra il cervello e i sistemi ormonali, mostrando come lo stress cronico influenzi la plasticità cerebrale, l’epigenetica e le patologie sistemiche. La sua vasta produzione scientifica include oltre 1.000 pubblicazioni e numerosi premi prestigiosi per il suo contributo alla medicina e alla biologia.

Bibliografia

  • McEwen, B. S. (2007). Physiology and neurobiology of stress and adaptation: Central role of the brain. Physiological Reviews, 87(3), 873-904.
  • McEwen, B. S., & Nasca, C. (2016). Stress effects on neuronal structure: Hippocampus, amygdala, and prefrontal cortex. Neuropsychopharmacology, 41(1), 3-23.
  • McEwen, B. S., & Morrison, J. H. (2013). The brain on stress: Vulnerability and plasticity of the prefrontal cortex over the life course. Neuron, 79(1), 16-29.
  • McEwen, B. S. (1998). Protective and damaging effects of stress mediators. New England Journal of Medicine, 338(3), 171-179.
  • Koob, G. F., & Le Moal, M. (2001). Drug addiction, dysregulation of reward, and allostasis. Neuropsychopharmacology, 24(2), 97-129.
  • Sapolsky, R. M. (2004). Why zebras don’t get ulcers: The acclaimed guide to stress, stress-related diseases, and coping. Holt Paperbacks.

NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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