di Raffaele Avico
A seguito di alcuni recenti avvenimenti di cronaca, è utile cercare di fare un po’ di chiarezza sulla questione dell‘imputabilità giudiziaria di soggetti autori di reato. In questo articolo apparso su Psychiatry On Line, trascrizione di una lezione tenuta da Vittorino Andreoli il 7 maggio 1999 alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria Forense dell’Università del Sacro Cuore di Roma, leggiamo che:
- la responsabilità di un’azione illecita può essere attribuita a un individuo solo quando quest’ultimo, al momento del fatto, fosse in grado di capire cosa stava per fare, e se volesse davvero commettere il gesto. (“Egli deve accertare non solo che il soggetto abbia compiuto il fatto, ma che abbia capito che cosa stava per fare. E, una volta valutati i significati delle azioni che hanno condotto alla consumazione del reato, se davvero abbia voluto commetterlo”)
- fino a fine ‘800, dato che la psicopatologia veniva spiegata tramite l’idea di una lesione organica al cervello, descrivere la personalità di un imputato pareva ininfluente (“il riferimento teorico era ancora quello ottocentesco, secondo cui un’alterazione dell’intelletto o della volontà dipendeva da una lesione che riguardava l’organo cervello, una sua area specifica, e pertanto il magistrato chiedeva che venissero indicate, in maniera esatta, le lesioni che sottendevano a queste limitazioni“)
- con l’avvento della “disciplina” psichiatrica e psicologica di inizio ‘900, partendo dall’idea che l’individuo è abitato da pulsioni esterne alla sua consapevolezza, la faccenda si complica, dato che diviene importante in termini processuali fornire un approfondimento sulla personalità dell’individuo: ci si chiede cioè se chi ha agito non fosse in quel momento assoggettato da una forza più potente della sua volonta, tale da indurlo a commettere quel particolare gesto; da qui l’avvento dei periti e l’accesso della psichiatria/psicologia in ambito giuridico
- l’accento posto sui due singoli criteri di giudizio (capacità di intendere e capacità di volere), e l’obbligo dunque da parte del perito di esprimersi con un secco SI o con un NO, sembra limitante: in epoca attuale siamo a conoscenza di molteplici altri fattori in grado di interferire sul comportamento di un individuo. Le ragioni, “affondando le loro reali radici nella storia complessa del soggetto“, è importante che vengano fatte emergere formulando un’analisi più approfondita dello stato psichico del soggetto.
- In ambito di tribunale accade che lo strumento “perizia psichiatrica” rischi un utilizzo strumentale: questo per via della scarsa fiducia attribuita allo strumento di valutazione peritale da parte delle corti in cui il perito si trovi a lavorare. Per questo a volte assistiamo a pareri contrastanti da parte di periti chiamati a lavorare sullo stesso individuo. Nonostante ciò, “c’è da auspicare che la psichiatria acquisti lo spazio che le spetta rispetto al comportamento criminale, fino al punto da chiedersi se sia possibile che un giudice possa sancire una condanna senza avere raccolto dati tecnici sulla valutazione della personalità”
Seguono poi alcune domande e riposte in cui Andreoli risponde in modo molto chiaro: un aspetto ha a che fare con la cosiddetta analisi della personalità, che richiede tempi e modi specifici, come si legge in questo estratto a proposito del caso Pietro Maso:
“Anche nel caso Maso, in cui lavoravo alla valutazione della personalità di tre ragazzi, ho dovuto battermi per questo. Li incontravo almeno tre volte la settimana. Quando, a un certo punto, il mio compito venne ostacolato dalla struttura carceraria, scrissi una lettera al magistrato, dicendo che o mi si metteva nelle condizioni di avere rispettato il mio setting, o rinunciavo al lavoro, per ragioni di etica professionale. Nel giro di quarantotto ore è stata messa a disposizione una stanza nel carcere, con uno spioncino che mettesse insieme la mia esigenza analitica con il dovere della guardia carceraria di essere presente. Queste pretese non sono capricci né manifestazioni di potere. Solo io, come psichiatra, so di che cosa c’è bisogno per studiare il comportamento. Pertanto, se un giudice mi chiama per fare questo, devo poterlo eseguire secondo professionalità. Bisogna arrivare a una condizione in cui gli psichiatri possano fare gli psichiatri. Allo stato attuale delle cose non è assolutamente facile. Ma, d’altra parte, non c’è nessuna soluzione diversa. Un altro tema molto dibattuto è se sia corretto affidare la valutazione di un soggetto a un singolo professionista, lo psichiatra, il cui parere condizionerà il giudice. In questa critica si propone di risolvere l’impasse, sostituendo al perito un centro o istituto autorizzato dallo Stato, in cui lavorino équipe. Questa è la strada seguita, per esempio, in America, dove funzionano centri per lo studio del comportamento altamente specializzati, in cui il magistrato manda l’imputato per un certo numero di giorni, trascorsi i quali si esprime una valutazione di cui il giudice terrà conto.”
Ha fatto discutere di recente l’assoluzione per semi-infermità mentale di un ragazzo di 28 anni omicida di entrambi i genitori. In questo caso il ragazzo dovrà trascorrere dieni anni una struttura psichiatrica (non più OPG, ma REMS), al fine di essere reinserito alla vita sociale, in un contesto terapeutico/riablitativo. A riguardo della pericolosità di un soggetto infermo di mente, è opportuno ricordare che la percentuale di soggetti portatori di un disturbo psichiatrico che compie reati è minima, soprattutto quando non si abbia a che fare con pazienti che assumono sostanze, o che soffrano di quadri clinici peculiari (per esempio, uno psicotico paranoide aggressivo senza consapevolezza di malattia potrebbe, con più probabilità di altri, arrivare ad agire violenza, come approfondito qui.