di Raffaele Avico
articolo originariamente apparso sul Psychiatry On Line: qui
Si è conclusa pochi giorni fa la quarta edizione della Scuola di Neuroetica organizzata da Stefano Canali (Psicoattivo), dottore di ricerca presso al SISSA di Trieste. L’occasione ha visto una compresenza di più professionisti provenienti da ambiti di lavoro attigui ma non sovrapponibili, impegnati in un lavoro di focalizzazione sul tema “addiction”.
Il laboratorio di neuroetica promuove un lavoro interdisciplinare che mette insieme più punti di vista: il problema addiction coinvolge infatti più problemi, di ordine diverso, che rendono estremamente difficile rispondere alla domanda su quanto il problema sia da ricondurre a fattori organici, o se viceversa la questione sia connessa ad aspetti “morali” (dipendenti dalla volontà del singolo).
In altre parole, alla base del problema addiction sta un dilemma a riguardo dei moventi del comportamento di dipendenza, dato che:
- se l’addiction dipende da un probelma di ordine neurobiologico, o legato a funzioni cognitive che perdono di efficacia (come le funzioni esecutive, inerenti il controllo, mediate dalle parti più evolute del nostro cervello), de-responsabilizziamo il soggetto e focalizziamo il nostro intervento sul ripristino di funzioni andate perdute
- se invece abbracciamo l’idea che l’addiction si costituisca come un problema dipendente da una libera scelta del singolo, la “malattia” diventerà diretta conseguenza di una sua scelta (questa visione promuove quindi una lettura “morale” del problema tossicodipendenza, per cui chi sviluppa un disturbo di questo tipo, in qualche modo, lo vuole, o cavalca questa “scelta/modalità” di vita)
Chiunque si approcci al problema addiction, lo farà oscillando tra gli estremi di questi due poli, che spostano il “locus of control” dall’esterno all’interno, e viceversa, a seconda di dove si collochi la responsabilità della nascita del problema stesso (all’eterno o all’interno?).
Ciò che è stato fatto alla scuola di neuroetica, è il tentativo di rispondere, in modo almeno parziale, ad alcune domande connesse a questo dilemma iniziale. Alla docenza si sono alternati ricercatori impegnati da tempo nell’approfondimento di questioni inerenti la dipendenza in tutte le forme, e clinici di lungo corso e con grande esperienza alle spalle (come Paolo Jarre e Augusto Consoli da Torino).
Alcuni aspetti affrontati sono stati:
- la concettualizzazione del disturbo psichico, sul filo tra visione “deficitaria” del disturbo (visto come disfunzione evolutiva) e invece concettualizzazione normativa (per cui il disturbo deriva dall’essere interpretato come “diverso” da parte del gruppo sociale; pensiamo alla “questione” omosessualità, un tempo interpetato come perversione, oggi ampiamente e giustamente normalizzato e integrato); l’approfndimento è stato condotto dalla dott.ssa Cristina Amoretti, dell’università di Genova
- aspetti di filosofia della psichiatria, a cura del Prof. Massimo Marraffa (Università Roma 3), in relazione a come è (stato) intepretato e letto il fenomeno dell’addiction
- la questione del reward (di cui abbiamo scritto qui), e il consenso a proposito dell’intervento, nel produrre il comportamento di addiction, dell’”attore” dopamina, a cura di Gaetano Di Chiara (un suo corposo intervento a proposito dellan neurobiologia della cannabis è disponbile qui)
- la dipendenza come malattia del controllo volontario, a cura di Stefano Canali, che ha ampiamente affrontato e affronta la questione all’interno della rubrica “ADDIZIONARIO”, che trovate su Psychiatry On Line. Questa lettura ha messo in luce, tra le altre cose, alcune questioni e aspetti laterali inerenti il trattamento della problematica addiction, come alcune formule comportamentali quasi mai sperimentate presso il nostro paese (come il pagare/premiare con piccoli token i traguardi raggiunti da tossicodipendenti astinenti) ma presenti già altrove (per esempio il Regno Unito). Inoltre, è stato sottolineato come alcuni veri e propri bias cognitivi rendano complicato affrontare il problema dipendenza (una miopia verso il futuro, una negazione e un autoinganno rispetto ai danni della propria condotta, come dire: “so che mi sto facendo male, ma continuo”). Il Prof. Canali ha citato inoltre i vantaggi arrecati dal praticare attività sportiva in modo regolare in termini di migliori performance di apprendimento e migliorate funzioni esecutive (per esempio il programma Zero Hour Program, qui descritto)
- alcuni aspetti inerenti il tabagismo (Prof. Lugoboni di Trieste; qui un testo dal suo gruppo redatto interamente scarcabile)
- l’importanza di arrivare a un uso regolato di sostanza per pazienti che tentino di raggiungere un’astinenza da sostanze pesanti come eroina o alcol, discussa dal Dott. Jarre di Torino. Jarre ha posto il problema in modo molto concreto, da clinico esperto, portando come obiettivo possibile un uso regolamentato delle sostanze, dietro controllo medico, invece di inseguire una a volte utopica astinenza “totale”. Un lavoro sulla riduzione o regolamentazione del danno si accoda a progetti europei di utilizzo “regolato”, per esempio con sale di assunzione (le “narcosale”) -presenti in Svizzera in pratica ovunque- e appunto l’obiettivo di un utilizzo di sostanze a intervalli sempre più dilazionati.
- Il Dott. Mauro Cibin, con un occhio al lavoro fatto presso la struttura da lui diretta (Centro Soranzo), ha parlato del concetto di recovery, molto sentito oggi in psichiatria, in particolare esortando a mettere in campo interventi:
- personalizzati
- in senso relazionale incentrati su aspetti motivazionali
- incentrati sul trasferimento di attività spendibili nella vita reale (si veda questo approfondmento sull’empowerment) con funzione capacitante/emancipante
Si è tentato inoltre di promuovere una riflessione integrata attraverso gli interventi singoli di alcuni borsisti che hanno portato brevi talk a riguardo di argomenti specifici: per esempio la questione della dipendenza come forma di autoregolazione emotiva -usando il concetto di teoria della finestra di tolleranza di Daniel Siegel- (Raffaele Avico), la teoria e la pratica della Somatic Experiencing in ambito di problematiche di dipendenza presso una struttura residenziale (Mauro Semenzato), la teoria della embodied cognition (cognizione incarnata) in ambito di ricerca (Alisha Vabba), la concettualizzazione della dipendenza (Giulia Virtù), un approccio fenomenologico al problema di addiction (Sara De Laurentiis), e altri.
Aspetto interessante, la presenza di due avvocati penalisti (Susanna Arcieri e Vasco Jann), portatori di un punto di vista diverso ma molto addentro alla questione addiction in termini pratici: il problema dell’imputabilità di un soggetto, per esempio, affetto da dipendenza cronica e autore di reato, è inestricabilmente collegato a quanto si consideri la malattia addiction come diretta responsabilità del singolo, o invece la si pensi come malattia vera e propria (slegata dalla responsabilità e dal libero arbitrio).
Questo ha consentito il crearsi di un dibattito vivace e intenso nel contesto stimolante della SISSA, e un vivo senso di fermento culturale estremamente coinvolgente e appassionante.
NOTA
Altro importante aspetto messo in luce nel corso dell’incontro, trasversale ai vari interventi, la questione identitaria: se infatti fino a pochi anni fa la tossicomania e l’aderire a uno stile di vita variamente tossicomanico, sembravano rispondere a esigenze di conferma anche identitaria, oggi la questione sembra più complessa- visto anche il diverso stile di consumo e la diversa percezione sociale dell’addiction stessa.
Negli anni ’80/’90 assistemmo al connotarsi in senso politico del fenomeno della tossicodipendenza, inestricabilmente collegato ai mutamenti culturali che sembravano cavalcare l’onda consumistica: nel panorama culturale del boom economico, la tossicodipendenza sembrava prendere la forma di una silente, melanconica e anticapitalistica ribellione al sistema, come una sorta di ritorno del rimosso incarnato in una generazione di tossicodipendenti identificatisi in modo consapevole al ruolo di “reietti” -con però un’identità molto forte e un senso di appartenenza a costumi e luoghi che ancora oggi, in certi luoghi, sopravvive (pensiamo ai SerD come luoghi di ritrovo/aggregazione tra vecchi storici eroinomani, il culto romantico del tossicodipendente come anti-eroe votato alla ricerca di un’intimità perduta e di una connessione più autentica agli altri).
Con il mutare del paradigma culturale, il normalizzarsi e per certi versi lo “sgonfiarsi” dell’ideologia consumistica degli anni a cavallo del 2000, verso il “post” che viviamo oggi, questa ribellione pare oggi aver perso il suo senso, e con esso il senso di appartenenza prima raccontato, in favore di nuove forme identitarie che si inseriscono nelle trame della cultura dell’oggi. Dalla ribellione sociale ottenuta autodistruggendosi, di fatto introvertendo e cavalcando la rabbia degli esclusi, assistiamo oggi al proliferare di nuove forme di consumo, rappresentate da concetti e diktat nuovi, che promuovono estroversione e performance, che meglio si adattano a un contesto di “guerra di tutti” in cui ognuno è solo nel tentativo di emergere dal marasma sociale, con più individualismo, forme di auto-imprenditorialità esasperate e pochi gruppi di appartenenza o culti a cui aderire (a parte, appunto, quello dell’obbligatoria auto-determinazione solitaria)
Per ulteriori approfondimenti: http://neuroetica.sissa.it/