di Raffaele Avico
Lavorare con la transgenerazionalità in psicoterapia significa andare a indagare le aree dell’esperienza del/la paziente in relazione alle generazioni di individui da cui questo/a proviene: si tratta dunque di porre delle domande “strategicamente orientate” riguardanti non solo la generazione dei suoi genitori, ma anche la generazione precedente, e quelle “sopra”, fino a dove sia possibile risalire nella sua storia familiare.
In questo articolo useremo il testo “La sindrome degli antenati” di Anne Ancelin Schützenberger come strumento di lavoro, e tenteremo di dare alcuni spunti per chi volesse cimentarsi in questo tipo di attività.
Come prima domanda, bisognerebbe chiedersi: perché? A quale fine eseguire un lavoro di questo tipo con un paziente in psicoterapia?
Proviamo ad articolare la risposta per punti:
- aspetti identitari: chiedersi da dove si proviene, equivale a fare un lavoro di rilettura di alcuni aspetti della propria identità di cui -forse- non si è pienamente coscienti. Parliamo di aspetti della propria personalità relativi a diverse aree, aspetti super-egoici, normativi, ma anche di molto altro. Aiutarsi in psicoterapia con le fotografie può aiutare a compiere quel lavoro di ricostruzione della “cultura familiare“, l’insieme di costumi e usanze che, condizionando i primi anni di vita di un bambino, forniscono un “priming” culturale in grado di influenzarlo anche nei successivi anni. Intendiamo qui non solo il “modo” di stare insieme, gli stili relazionali, ma anche le passioni, gli interessi, la mitologia familiare, le “regole non scritte” che “gocciolano” da una generazione all’altra.
- Come prima accennato, il libro “La sindrome degli antenati” di Schutzenberger esplora molto del tema, soprattutto a riguardo del trauma. Diversi studi hanno negli anni scorsi indagato la trasmissibilità del trauma per via genetica (si veda questo): qui se ne parla in termini maggiormente psicologici, come se il trauma fosse stato in grado di produrre “unità psicologiche“, contenuti emotivi poco simbolizzabili -e la cosa fosse passata alla generazione successiva, mutandosi in sintomi psicosomatici o coazioni a ripetere. La Schutzenberger parla di “inconscio familiare“, una sorta di via di mezzo tra inconscio collettivo e inconscio individuale, una serbatoio di elementi più o meno elaborati in grado di produrre degli effetti sulle generazioni successive a chi li abbia vissuti. Viene in mente ovviamente il tema olocausto, il problema della memorie e del “ricordare” relativo alle generazioni successive a quella che lo subì, il lavoro di rilettura e simbolizzazione degli spaventosi eventi vissuti da Primo Levi durante la sua prigionia, per esempio. Ci si può anche riferire in questi casi ad aspetti più piccoli, ma non meno segnanti all’interno della storia di una famiglia, come la perdita di un lavoro, un periodo di miseria, lo spettro della “malora”. Lavorare in psicoterapia su questi aspetti, tentare di portare a galla gli elementi di questo contenuto inconscio “familiare”, potrebbe aiutare la persona a capire meglio la nascita -dentro di sé- di alcuni timori, di certe preoccupazioni, di un “modo di pensare”, collocando la propria forma mentis entro una prospettiva in primo luogo storica, famigliare, genealogica.
- La Shutzemberger, ne “La sindrome degli antenati”, spinge sull’importanza di indagare in sede di psicoterapia la presenza di suicidi, lutti non risolti, andando anche molto indietro nel tempo: parlando per esempio di suicidio, è importante che questo punto venga preso di petto e affrontato in modo chiaro in psicoterapia, essendo che la suicidalità ha una forte trasmissibilità, in senso sia genetico che psicologico. Il suicidio di due persone unite da un legame famigliare (per esempio padre e figlio) potrebbe essere letto, in alcune situazioni, come una forma paradossale di solidarietà o di lealtà, un gesto eseguito nel tentativo di prestare fede a un mandato di lealtà famigliare, il bisogno di “sentirsi soldiale” all’altro nel dolore. Lo psicoterapeuta Nagy ha nel secolo scorso improntato tutto il suo lavoro di ricerca su questi aspetti di “contabilità familiare“, e la Schutzenberger ha preso molto da lui (ChatGpt: “Il concetto di “lealtà familiare” sviluppato da Ivan Boszormenyi-Nagy è un principio centrale nella terapia familiare contestuale. Secondo Nagy, la lealtà è il legame emotivo che unisce i membri della famiglia attraverso un sistema di obblighi, aspettative e debiti morali che ciascuno accumula e mantiene all’interno delle relazioni familiari. La lealtà implica un senso di responsabilità reciproca e la necessità di “bilanciare” ciò che si riceve e ciò che si dà agli altri membri, creando una sorta di “contabilità invisibile”. Nagy ritiene che i problemi individuali spesso nascano da dinamiche di lealtà non bilanciate o irrisolte, e che molti conflitti familiari derivino da tensioni implicite in questo sistema. Nella sua terapia, l’obiettivo è aiutare i membri della famiglia a riconoscere e riequilibrare queste lealtà, per ottenere relazioni più sane e soddisfacenti.”)
- Seguendo questa linea di pensiero, lo stesso discorso potrebbe essere fatto per alcuni aspetti morali, la “legge” a cui l’individuo si sottopone, e che potrebbe essere utile, in psicoterapia, mettere o discussione o capire meglio. Parliamo di un lavoro sul Super-io, il tribunale occulto a cui l’uomo si assoggetta, regolato a sua volta da una legge morale che di volta in volta decreta la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato (che è la persona stessa). Si tratta di fare in questi casi un lavoro di ricostruzione “genealogica” della morale dell’individuo, come un percorso di risalita alla fonte, una ricerca dei paradigmi innervanti quella stessa morale -in primo luogo all’interno dell’ambiente familiare. Perchè per un individuo un certo evento è considerato disdicevole e moralmente “impossibile”, e per un altro no? Ragionare in termini transgenerazionali su questi aspetti e su come le “leggi” possano passare da una generazione all’altra, aiuta la persona a poterle mettere in discussione -eventualmente- oppure a renderle maggiormente adeguate al tempo presente, in cui è immerso, come una lotta all’estemporaneità dei precetti morali che la abitano.
Tendenzialmente le persone, messe di fronte a un lavoro di questo tipo, rispondono molto bene, e facilmente arrivano a identificare ed estrapolare aspetti di sé che facilmente riconducono al prima citato “inconscio familiare”. Un grosso tema è il confronto con miti familiari, con aneddoti ereditati e con cui ci si confronta, storie di progenitori, spesso idealizzati e in grado di attivare movimenti, facilitare scelte.
Anne Schutzenberger ha lavorato per tutta la sua vita su questi temi, avviando anche una scuola a tema, che ha formato molti psicoterapeuti italiani.
Tra i suoi libri, merita sicuramente una menzione il famoso e prima menzionato “La sindrome degli antenati”, e l’ultimo suo “quaderno operativo“, di fatto un agile manuale di utilizzo delle tecniche approfondite ne “La sindrome degli antenati”.
Questo libro, breve e operativo, è stato pubblicato qualche anno prima della scomparsa della ricercatrice francese, e fornisce indicazioni molto pratiche ed esercizi per lavorare con la psicogenealogia e la transgenerazionalità.
Per esempio, tra gli altri:
- l’esercizio dell’atomo sociale, di derivazione moreniana, che l’autrice propone di allargare anche a concetti/luoghi/cose, come si osserva nella figura sotto riportata. La Schutzenberger ritiene l’atomo sociale uno strumento utile per avere una fotografia allargata della propria rete di “investimenti affettivi”, utile a produrre collegamenti e associazioni. Va notato che la natura dell’atomo sociale è cangiante, fluida, mutevole nel tempo.
- il famoso genosociogramma, sempre di derivazione moreniana, strumento molto conosciuto tra chi si occupi di lavoro con il transgenerazionale e le famiglie: si tratta di disegnare usando segni e simboli peculiari il proprio albero genealogico, arricchito però da eventi positivi o negativi che servono a meglio inquadrarne la “storia”, ponendo attenzione a eventi come traumi, lutti, separazioni, ma anche a segreti, matrimoni, etc. La Schutzenberger considera il tempo minimo per lavorare sul genosociogramma di un individuo, 3 ore. Per lavorare al genosociogramma, l’autrice consiglia in questo libro di ricercare informazioni a riguardo di quella che definisce “nicchia ecologica“, ovvero il contesto in cui i fatti si svolsero, e a partire da quel contesto, risalire a informazioni importanti per la propria storia famigliare, usando anche il potere evocativo di fotografie (qui ne avevamo già scritto).
Per tornare alla fonte e andare al libro “definitivo” della Schutzenberger, si veda anche questo volume.
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