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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

15 April 2025

RECENSIONE DI “CONVERSAZIONI DI TERAPIA BREVE” DI FLAVIO CANNISTRÁ E MICHAEL F. HOYT

di Raffaele Avico

Il volume “Conversazioni di terapia breve” esplora i temi della psicoterapia breve e “a seduta singola” per via di una trascrizione di un serie di dialoghi, intrattenuti in momenti diversi, tra Flavio Cannistrà e uno dei suoi mentori, Michael Hoyt.

La forma intervista rappresenta un modo agevole per introdursi a un tema: in questo caso abbiamo la possibilità di sentire raccontata la teoria della psicoterapia breve e la teoria a seduta singola da parte di uno dei suoi originatori, a sua volta in debito verso altri della scuola di Palo Alto, che puntualmente troviamo citati nel testo.

Si ha così l’opportunità di scoprire molti nomi “minori” della teoria della psicoterapia breve, con la possibilità di approfondire i diversi approcci.

La Scuola di Palo Alto, e nello specifico un luogo che oggi esiste solo nella forma di fondazione, il Mental Research Institute, ha a partire dagli anni ‘60 introdotto sulle scena della psicoterapia mondiale moltissime innovazioni, che sarebbero state destinate a restare.
La psicoterapia sistemica, la psicoterapia breve, quella a seduta singola, la scuola di Nardone in Italia, devono tutto agli incredibili anni, fruttuosi, dei “maestri” originatori -che in questo libro troviamo citati più volte.
Un tratto peculiare di quel gruppo di individui e di coloro che ne hanno raccolto il testimone nella ricerca in psicoterapia, è un’incredibile umiltà intellettuale associata al pragmatismo americano, insieme al coraggio di mettere in discussione l’ortodossia (che in quegli anni era rappresentata dall’Europa e dalla psicoanalisi). Di quell’umiltà, di quell’apertura e di quel pragmatismo parla anche Andrea Vallarino in un suo volume recentemente pubblicato, in particolare rispetto alla figura di Paul Watzlawick.

Nel corso della lettura di “Conversazioni di terapia breve” si apprendono molti aspetti della psicoterapia a seduta singola, in primis l’idea che “a seduta singola” non vuol dire che il percorso con un “cliente” (come preferiscono chiamarlo) si limiti effettivamente a un singolo incontro: se mai, l’idea è che una singola seduta possa essere “autoconclusiva” e che si possa lavorare con la persona perché quest’ultima possa trarne giovamento -o un motivo di trasformazione. Viene data estrema importanza al concetto di empowerment del paziente, e che un buon parte del lavoro venga fatta dal paziente stesso, con risorse che tocca al terapeuta evocare e promuovere.

In generale troviamo riferimenti a pratiche comuni nelle diverse scuole di psicoterapia breve, con però alcune differenze di razionale di intervento, che Cannistrà (che su POPMed avevamo già intervistato, qui) non manca di esplicitare.

Il rischio di semplificare troppo la complessità del portato del paziente viene fugato qui da un approccio orientato a un “minimalismo clinico” che vuole intervenire con quello che funziona e dove serve, in modo strategicamente orientato.

Si tratta di coinvolgere attivamente il paziente nel lavoro clinico, muovendo da un’alleanza forte e procedendo per obiettivi, il più possibile aderenti alle risorse portate in seduta.
Altrove abbiamo più volte intervistato e coinvolto Andrea Vallarino, e chi avesse letto alcuni dei contenuti che lo riguardavano potrà riconoscere nell’approccio di Cannistrà e Hoyt un’uguale attenzione al presente e a quelle che universalmente (in terapia breve o breve/strategica) vengono chiamate “tentate soluzioni”, nell’idea che il paziente faccia di tutto per migliorare, spesso però complessificando il suo stesso vissuto, e bloccandosi in modalità di pensiero disfunzionale. Si pensi per esempio al modello sul controllo per il panico -problema diffusissimo e frequentemente incontrato dagli operatori della salute mentale- ingenerato da stratificazioni di storture cognitive, paradossalmente atte a controllare i sintomi stessi.

I clinici di Palo Alto, come leggiamo in questo libro, sono stati da sempre dei fini osservatori della psicologia umana, nel tentativo di estrarne “modalità patogene” con un approccio estremamente pragmatico: il concetto di tentata soluzione è solo uno dei tanti, ma pensiamo per esempio al problema del doppio legame, ai paradossi legati all’ipercontrollo, alla natura essa stessa paradossale (a volte) della psicologia umana.

Per Cannistrà e Hoyt si tratta di aiutare il paziente a stare meglio, e stare meglio in modo rapido, soprattutto quando fortemente sofferente.
La terapia a seduta singola o breve pare adattarsi meglio a situazioni cliniche peculiari, come quando esista un eccesso di ragionamento o la persona si trovi incastrata in schemi di pensiero disfunzionali; leggendo questo volume viene tuttavia complesso immaginare una terapia a seduta singola con un paziente fortemente depresso o melanconico, o ipotizzare un intervento su un disturbo grave di personalità, al di là delle “prescrizioni” che i terapeuti di questa scuola solitamente consegnano al paziente. Con pazienti affetti da disturbi di natura affettiva, ci si potrebbe chiedere il ruolo -come sappiamo centrale- della relazione (al di là della “semplice” alleanza).

A fine lettura si ha in ogni caso la sensazione che esista un’apertura degli autori a una messa in discussione e verso un apprendimento “continuo”, cosa di rado presente in libri provenienti da altre scuole di pensiero.

Molto interessante e bella la definizione di logica, e l’accento sulla distinzione dal concetto di strategia: il terapeuta breve e quello a seduta singola si avvarranno di “logiche” di intervento -più flessibili e indeterminate delle strategie, ma altrettanto efficaci- in grado appunto di adattarsi alla complessità portata dal cliente.

Pubblichiamo in toto un estratto dal volume, che raccoglie 9 logiche di intervento da applicare in vari casi, una variazione di un articolo già apparso qui.

Anche chi non fosse interessato al tema terapia breve, potrà trarne spunti di interesse e modalità pratiche di intervenire con uno dei suoi pazienti (o su se stesso).

Buona lettura!

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Continua su POPMED.

Article by admin / Formazione / raffaeleavico, recensioni

11 February 2025

PSICOGENEALOGIA: INTRODUZIONE AL LAVORO DI ANNE ANCELIN SCHÜTZENBERGER

di Raffaele Avico

Lavorare con la transgenerazionalità in psicoterapia significa andare a indagare le aree dell’esperienza del/la paziente in relazione alle generazioni di individui da cui questo/a proviene: si tratta dunque di porre delle domande “strategicamente orientate” riguardanti non solo la generazione dei suoi genitori, ma anche la generazione precedente, e quelle “sopra”, fino a dove sia possibile risalire nella sua storia familiare.

In questo articolo useremo il testo “La sindrome degli antenati” di Anne Ancelin Schützenberger come strumento di lavoro, e tenteremo di dare alcuni spunti per chi volesse cimentarsi in questo tipo di attività.

Come prima domanda, bisognerebbe chiedersi: perché? A quale fine eseguire un lavoro di questo tipo con un paziente in psicoterapia?

Proviamo ad articolare la risposta per punti:

  1. aspetti identitari: chiedersi da dove si proviene, equivale a fare un lavoro di rilettura di alcuni aspetti della propria identità di cui -forse- non si è pienamente coscienti. Parliamo di aspetti della propria personalità relativi a diverse aree, aspetti super-egoici, normativi, ma anche di molto altro. Aiutarsi in psicoterapia con le fotografie può aiutare a compiere quel lavoro di ricostruzione della “cultura familiare“, l’insieme di costumi e usanze che, condizionando i primi anni di vita di un bambino, forniscono un “priming” culturale in grado di influenzarlo anche nei successivi anni. Intendiamo qui non solo il “modo” di stare insieme, gli stili relazionali, ma anche le passioni, gli interessi, la mitologia familiare, le “regole non scritte” che “gocciolano” da una generazione all’altra.
  2. Come prima accennato, il libro “La sindrome degli antenati” di Schutzenberger esplora molto del tema, soprattutto a riguardo del trauma. Diversi studi hanno negli anni scorsi indagato la trasmissibilità del trauma per via genetica (si veda questo): qui se ne parla in termini maggiormente psicologici, come se il trauma fosse stato in grado di produrre “unità psicologiche“, contenuti emotivi poco simbolizzabili -e la cosa fosse passata alla generazione successiva, mutandosi in sintomi psicosomatici o coazioni a ripetere. La Schutzenberger parla di “inconscio familiare“, una sorta di via di mezzo tra inconscio collettivo e inconscio individuale, una serbatoio di elementi più o meno elaborati in grado di produrre degli effetti sulle generazioni successive a chi li abbia vissuti. Viene in mente ovviamente il tema olocausto, il problema della memorie e del “ricordare” relativo alle generazioni successive a quella che lo subì, il lavoro di rilettura e simbolizzazione degli spaventosi eventi vissuti da Primo Levi durante la sua prigionia, per esempio.  Ci si può anche riferire in questi casi ad aspetti più piccoli, ma non meno segnanti all’interno della storia di una famiglia, come la perdita di un lavoro, un periodo di miseria, lo spettro della “malora”. Lavorare in psicoterapia su questi aspetti, tentare di portare a galla gli elementi di questo contenuto inconscio “familiare”, potrebbe aiutare la persona a capire meglio la nascita -dentro di sé- di alcuni timori, di certe preoccupazioni, di un “modo di pensare”, collocando la propria forma mentis entro una prospettiva in primo luogo storica, famigliare, genealogica.
  3. La Shutzemberger, ne “La sindrome degli antenati”, spinge sull’importanza di indagare in sede di psicoterapia la presenza di suicidi, lutti non risolti, andando anche molto indietro nel tempo: parlando per esempio di suicidio, è importante che questo punto venga preso di petto e affrontato in modo chiaro in psicoterapia, essendo che la suicidalità ha una forte trasmissibilità, in senso sia genetico che psicologico. Il suicidio di due persone unite da un legame famigliare (per esempio padre e figlio) potrebbe essere letto, in alcune situazioni, come una forma paradossale di solidarietà o di lealtà, un gesto eseguito nel tentativo di prestare fede a un mandato di lealtà famigliare, il bisogno di “sentirsi soldiale” all’altro nel dolore. Lo psicoterapeuta Nagy ha nel secolo scorso improntato tutto il suo lavoro di ricerca su questi aspetti di “contabilità familiare“, e la Schutzenberger ha preso molto da lui (ChatGpt: “Il concetto di “lealtà familiare” sviluppato da Ivan Boszormenyi-Nagy è un principio centrale nella terapia familiare contestuale. Secondo Nagy, la lealtà è il legame emotivo che unisce i membri della famiglia attraverso un sistema di obblighi, aspettative e debiti morali che ciascuno accumula e mantiene all’interno delle relazioni familiari. La lealtà implica un senso di responsabilità reciproca e la necessità di “bilanciare” ciò che si riceve e ciò che si dà agli altri membri, creando una sorta di “contabilità invisibile”. Nagy ritiene che i problemi individuali spesso nascano da dinamiche di lealtà non bilanciate o irrisolte, e che molti conflitti familiari derivino da tensioni implicite in questo sistema. Nella sua terapia, l’obiettivo è aiutare i membri della famiglia a riconoscere e riequilibrare queste lealtà, per ottenere relazioni più sane e soddisfacenti.”)
  4. Seguendo questa linea di pensiero, lo stesso discorso potrebbe essere fatto per alcuni aspetti morali, la “legge” a cui l’individuo si sottopone, e che potrebbe essere utile, in psicoterapia, mettere o discussione o capire meglio. Parliamo di un lavoro sul Super-io, il tribunale occulto a cui l’uomo si assoggetta, regolato a sua volta da una legge morale che di volta in volta decreta la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato (che è la persona stessa). Si tratta di fare in questi casi un lavoro di ricostruzione “genealogica” della morale dell’individuo, come un percorso di risalita alla fonte, una ricerca dei paradigmi innervanti quella stessa morale -in primo luogo all’interno dell’ambiente familiare. Perchè per un individuo un certo evento è considerato disdicevole e moralmente “impossibile”, e per un altro no? Ragionare in termini transgenerazionali su questi aspetti e su come le “leggi” possano passare da una generazione all’altra, aiuta la persona a poterle mettere in discussione -eventualmente- oppure a renderle maggiormente adeguate al tempo presente, in cui è immerso, come una lotta all’estemporaneità dei precetti morali che la abitano.

Tendenzialmente le persone, messe di fronte a un lavoro di questo tipo, rispondono molto bene, e facilmente arrivano a identificare ed estrapolare aspetti di sé che facilmente riconducono al prima citato “inconscio familiare”. Un grosso tema è il confronto con miti familiari, con aneddoti ereditati e con cui ci si confronta, storie di progenitori, spesso idealizzati e in grado di attivare movimenti, facilitare scelte.

Anne Schutzenberger ha lavorato per tutta la sua vita su questi temi, avviando anche una scuola a tema, che ha formato molti psicoterapeuti italiani.

Tra i suoi libri, merita sicuramente una menzione il famoso e prima menzionato “La sindrome degli antenati”, e l’ultimo suo “quaderno operativo“, di fatto un agile manuale di utilizzo delle tecniche approfondite ne “La sindrome degli antenati”. 

Questo libro, breve e operativo, è stato pubblicato qualche anno prima della scomparsa della ricercatrice francese, e fornisce indicazioni molto pratiche ed esercizi per lavorare con la psicogenealogia e la transgenerazionalità.

Per esempio, tra gli altri:

  1. l’esercizio dell’atomo sociale, di derivazione moreniana, che l’autrice propone di allargare anche a concetti/luoghi/cose, come si osserva nella figura sotto riportata. La Schutzenberger ritiene l’atomo sociale uno strumento utile per avere una fotografia allargata della propria rete di “investimenti affettivi”, utile a produrre collegamenti e associazioni. Va notato che la natura dell’atomo sociale è cangiante, fluida, mutevole nel tempo.
  2. il famoso genosociogramma, sempre di derivazione moreniana, strumento molto conosciuto tra chi si occupi di lavoro con il transgenerazionale e le famiglie: si tratta di disegnare usando segni e simboli peculiari il proprio albero genealogico, arricchito però da eventi positivi o negativi che servono a meglio inquadrarne la “storia”, ponendo attenzione a eventi come traumi, lutti, separazioni, ma anche a segreti, matrimoni, etc. La Schutzenberger considera il tempo minimo per lavorare sul genosociogramma di un individuo, 3 ore. Per lavorare al genosociogramma, l’autrice consiglia in questo libro di ricercare informazioni a riguardo di quella che definisce “nicchia ecologica“, ovvero il contesto in cui i fatti si svolsero, e a partire da quel contesto, risalire a informazioni importanti per la propria storia famigliare, usando anche il potere evocativo di fotografie (qui ne avevamo già scritto).

Per tornare alla fonte e andare al libro “definitivo” della Schutzenberger, si veda anche questo volume.

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Article by admin / Formazione, Recensioni / psicoterapia, recensioni

10 October 2024

“LA GENERAZIONE ANSIOSA”: RECENSIONE APPROFONDITA E VALUTAZIONI

di Raffaele Avico

PREMESSA: per ragioni di comodità in alcuni passaggi si è usato il maschile sovraesteso

“La generazione ansiosa” viene tradotto e pubblicato recentemente da Rizzoli; è un saggio da un titolo forte, che però merita una lettura approfondita, vista l’attualità dei suoi contenuti, e i dati allarmanti riguardanti la salute mentale dei giovani, da più parti denunciate.

Il volume si presenta come una sorta di mega-indagine, una vera e propria inchiesta giornalistica che mette in ordine e sistematizza i più recenti dati a riguardo della salute mentale dei giovani in relazione all’utilizzo di smartphone e social-media, con un focus sul periodo 2010-2015, cornice temporale che ha ospitato diverse innovazioni tecnologiche largamente disruptive, tutte insieme (iphone, app gratuite in cambio di pubblicità, social media, telefoni dotati di telecamere frontali, internet per tutti sempre e ovunque), in grado di avviare un cambio di paradigma a livello di relazioni e comunicazione tra gli individui -per le fasce d’età più giovani coincidente con quello che l’autore chiama, un po’ drammaticamente, la “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”.

Qui ne faremo una recensione approfondita, cercando di cogliere gli aspetti più importanti di quello che l’autore ci vuole passare.

Jonathan Haidt è un professore universitario a NYC, e già in precedenza, con questo libro, aveva indagato la salute mentale giovanile; i suoi studi si posizionano al confine tra la psicologia sociale e la sociologia: ha anche avviato un sito da usare come strumento a latere della lettura, questo: https://www.anxiousgeneration.com/

Vediamone alcune parti di “la generazione ansiosa” in dettaglio, procedendo nella lettura:

  1. Nella prima parte del suo lavoro H. presenta il suo concetto di “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”: la sua idea è che dal 2010 al 2015 qualcosa sia accaduto, e che l’infanzia abbia preso forme nuove, correlate all’introduzione di device tecnologici estremamente additivi, precedente a un preoccupante aumento di disturbi internalizzanti per le femmine in età adolescenziale ed esternalizzanti per i maschi nella stessa età. Il libro è stato scritto nel 2023, è quindi molto attuale: il problema del “malessere psicologico nei giovani” è sulla bocca di tutti.
  2. Il vero fattore discriminante, secondo Haidt, è rappresentato dalla pervasività di utilizzo dei device, che da un certo tempo in poi (l’Iphone è stato introdotto nel 2007), ha garantito di essere tutti sempre connessi -ancor di più dopo l’introduzione dei social network
  3. Haidt ragiona sul fatto che se il malessere dei/le ragazz* in età adolescenziale fosse causato da elementi di macro-contesto nel mondo reale (come crisi economiche o guerre) altre epoche avrebbero dovuto essere più tragiche (come il 2009): no, secondo l’autore parliamo di qualcosa successo nella prima metà degli anni ‘10, e non “esterno”/riguardante guerre, epidemie o altro. Anzi, in questi ultimi casi -l’autore sottolinea-, a volte le comunità fanno gruppo e sperimentano paradossali effetti positivi in senso psicologico
  4. Nel secondo capitolo, Haidt parte da alcune considerazioni riguardanti lo sviluppo “sano” di un bambino, soprattutto nella lenta gestazione delle sue abilità psicosociali/cognitive: tante di queste abilità, il bambino le sviluppa impegnandosi in un’attività sincrona e basata sulla sintonizzazione emotiva con l’altro -attività come il gioco sociale.
    L’autore si chiede cosa produca un bombardamento mediatico operato su di un cervello malleabile come argilla negli anni cruciali, anni come quelli della preadolescenza, arrivando a parlare di un passaggio da un’“infanzia basata sul gioco” ad un’“infanzia basata sul telefono”.
    Haidt parla di una “riconfigurazione” vera e propria dell’infanzia, che attraverso il telefono sarebbe stata espropriata delle attività che evoluzionisticamente sarebbero state più importanti (come appunto il gioco sociale sincrono, la sintonizzazione affettiva, l’autoregolazione nel gruppo dei pari). Sottolinea a proposito di questo l’importanza del gioco “rischioso”, corporeo, citando diversi studiosi che lo  approfondiscono (si veda per esempio questo studio): la natura del bambino è antifragile, necessita cioè di “perturbazione e stress” per evolvere
  5. Nel quarto capitolo l’autore apre il macro-capitolo “pubertà”, età particolarmente delicata in termini di “finestra di apprendimento” soprattutto a livello culturale/di conoscenza (si veda questo approfondimento su “La mente adolescente” di Daniel Siegel): qui pone il problema degli “inibitori di esperienze” (la cultura dell’iperprotezione che Haidt chiama safetyism e la dipendenza da smartphone), e riflette sull’assenza di riti di passaggio (almeno non nel mondo online, esente da questo tipo di logiche)
  6. Proseguendo nella lettura del libro, Haidt fa un veloce excursus storico a partire dal lancio del primo Iphone nel 2007, attraverso la creazione delle prime app (prima a pagamento, poi sostenibili a partire dalla pubblicità) fino ai giorni nostri; parla quindi del notorio “circuito di ricompensa” e di come si possa sviluppare una dipendenza da smartphone, che ritiene “attivamente progettata” negli anni del lancio dei primi social network dai fondatori delle app stesse. Si trattava di ingenerare dipendenza nei ragazzini che avrebbero usato il social, obbligandoli a passare più tempo possibile sulle piattaforme. Ma come fare? Il meccanismo è quello della ricompensa “non garantita”. Così come avviene nel gioco d’azzardo, far seguire a una determinata azione una ricompensa sviluppa un apprendimento veicolato dal rilascio di una certa quantità di neurotrasmettitori: la ricompensa non dev’essere però garantita, per poter ingaggiare in modo più forte chi ne dovrebbe fruire -si evita così l’abituazione ad essa e il darla per “scontata- : il meccanismo è largamente studiato ed è appunto alla base del meccanismo che regge (e avvia) il disturbo da gioco d’azzardo patologico.
    In più, Haidt ragiona sull’elemento “attivo” inerente gli aspetti di rinforzo, ovvero la possibilità da parte dei fruitori di essere in prima persona coinvolti, essendo che l’oggetto del reward è la propria immagine, la rappresentazione sociale di sé. In questo modo, Haidt sostiene, si arriva a un passaggio fondamentale, la generazione di un meccanismo di aggancio basato non solo su trigger esterni (come la notifica, il suono che richiama l’utente al device), ma su trigger interni, “formulazioni mentali”, “call to action mentali” in grado di attivare il soggetto alla compulsione e di disturbare il normale flusso dei suoi pensieri; veri e propri “pensieri-trigger” sospinti alla coscienza dalla “fame” di rilascio neurotrasmettitoriale, come d’altronde accade in ogni dipendenza: “chissà se avrò ricevuto notifiche”, “devo assolutamente controllare”, etc.
  7. Correlazione? No, causa. Proseguendo nella lettura, Haidt propone con forza l’idea che i disturbi psicopatologici osservati a partire dalla finestra temporale 2010-2015, debbano essere attribuiti ai prima descritti cambi di abitudini a riguardo del rapporto con gli oggetti tecnologici. Mette insieme una mole impressionante di dati, che si possono recupare qui.
  8. Nella quarta parte del libro, Haidt seleziona e presenta ulteriori studi, a tratti assumendo un tono paternalistico, moralizzante: unici elementi degni di nota, la questione del maggior impatto dell’utilizzo dei device sulle ragazze, e il tema del distacco progressivo dagli ambienti naturali, alla cui frequentazione l’evoluzione ci avrebbe chiamati: a contatto con la natura, e in generale nella “realtà”, siamo esposti sia a dolore (un rifiuto “dal vivo”, un infortunio corporeo) che ad esperienze trasformative e positive, anche in senso spirituale (per mezzo di attività corali, fatte insieme, funzionali appunto al trascendere -come assistere ad un concerto dal vivo).

Che fare, dunque?

La seconda parte -più breve- del volume, è incentrata su quello che i governi, le scuole e i genitori dovrebbero fare per contrastare il processo di “riconfigurazione dell’infanzia” citato dall’autore.

I capitoli che si susseguono in questa seconda parte, sono per lo più ripetizioni di due concetti fondamentali:

  1. è necessario rivedere e ripensare le norme (e anche le leggi) con cui permettiamo agli individui minorenni di accedere alle pagine internet. Il problema che l’autore pone in tutto il libro, viene anche qui riproposto: abbiamo concesso una libertà smisurata e non protetta alla navigazione su internet, e allo stesso tempo stiamo iper-proteggendo nel mondo reale i bambini e gli adolescenti, inabilitandoli alle esperienza di crescita fondamentali
  2. riprendendo il tema prima accennato, l’autore suggerisce di contrastare la tendenze al safetyism, all’iper-protezione, lavorando (pensando alle nuove generazioni) per la promozione di una maggiore connessione alla vita reale, offline

In conclusione, il volume come prima accennato rappresenta un’indagine -scritta in modo semplice, spesso ridondante- a riguardo degli impatti dell’utilizzo di smartphone e social media sulla salute mentale di ragazz* cresciuti nel periodo “critico” tra 2010 e 2015.

Le parti più interessanti del volume sono quelli inerenti gli studi a riguardo del potere dipendentogeno dei device tecnologici: non rivelano nulla di veramente nuovo, ma sistematizzano gli studi che negli ultimi anni sono stati pubblicati, fornendo prove convincenti a riguardo di una effettiva causalità tra l’immissione nel mercato dei suddetti strumenti tecnologici e il peggioramento della salute mentale delle generazioni che, in quegli anni, si stavano formando.

Declassare una valutazione approfondita come quella eseguita da Jonathan Haidt a “boomerismo”, “trombonaggine” o generico “luddismo”, equivale a non prendere seriamente in considerazione la questione, problematizzandola come è necessario fare. Giungere alla conclusione che “è sempre successo così”, che “ogni cambio di paradigma ha pro e contro”, rischia nuovamente di lasciare tutto così com’è, senza che nessuno faccia nulla nè per avallare, né per modificare/raddrizzare/intervenire sullo stato delle cose.
Perchè inoltre -l’autore si chiede-, spostiamo sempre la questione su problemi “precedenti” che sarebbero la causa “prima”, originaria dei problemi di dipendenza dei ragazzi? Non possiamo intervenire su entrambi i momenti del problema, su tutti gli elementi in gioco di questo fenomeno, senza accanirci su “cosa venga prima” -domanda peraltro difficile, se non impossibile, da indagare?

Tendenzialmente, abbiamo a che fare con una nuova, subdola e ormai endemica nuova forma di dipendenza comportamentale, rinforzata da meccanismi neurobiologici invincibili e inevitabili, soprattutto in chi ha il cervello in maturazione. La sensazione tuttavia è che, al momento, questa nuova forma di dipendenza non sia veramente problematizzata né pensata come tale: altre questioni sembrano sempre più attuali, forse perchè esiste un qualcosa da combattere attivamente, in senso fisico. Perché viene combattuta così ferocemente la cannabis legale, per fare un esempio, e ci si muove con lentezza da pachiderma nel normare l’accesso a siti dannosi per la salute mentale di individui in pieno sviluppo?

Nella parte finale di questo libro, Haidt osserva che sarebbe sufficiente ipotizzare l’intervento di aziende terze coinvolte al fine di controllare che i ragazzini che accedono a social o siti di pornografia siano effettivamente nell’età per farlo: non necessiteremmo di chissà quale tecnologia, sarebbe sufficiente un portale a cui autenticarsi con il proprio documento d’identità, che intercedesse per il soggetto stesso quando questi dovesse entrare in un determinato sito -garantendogli/le allo stesso tempo l’anonimato.

In ultima analisi, i limiti di questa indagine sono di ordine strettamente statistico: pur con questa enorme mole di dati, sembra difficile parlare di una causalità diretta: troppe variabili confondenti sporcano gli esperimenti, rendendo complicato tracciare una linea causale netta (per ora).

É indubbio tuttavia che a un’osservazione attenta, gli effetti dell’utilizzo compulsivo di uno smartphone -con tutto quello che al suo interno vi si possa rintracciare- sono evidenti, almeno agli occhi di un operatore della salute mentale: vanno dal modellare l’architettura dell’attenzione, al “bucare” la forma del pensiero (i trigger interni di cui prima scrivevamo, pensieri intrusivi in grado di portare l’attenzione al device, obbligandoci compulsivamente a ritornare ad esso) fino ad alterare il circuito del reward ingenerando una dipendenza comportamentale “nascosta” -allo stato delle cose accettata socialmente, per nulla problematizzata.

Recentemente è stato pubblicato un articolo abbastanza stupefacente, che indaga il concetto di “salienza” in relazione allo smartphone; il punto di questo studio era dimostrare come la semplice presenza del telefono nei pressi di un individuo, fosse in grado di assorbire una quota significativa delle sue capacità cognitive, di fatto diminuendole.
Si tratta di uno dei primi studi che indagano l’effetto della semplice presenza dello smarphone sulle capacità cognitive e attenzionali di un individuo, senza che necessariamente vi sia un altro compito da svolgere o un’interazione fisica con il telefono. Inoltre, gli autori sottolineavano che l’effetto pareva presentarsi anche nella consapevolezza a riguardo dello spegnimento del telefono stesso, o con lo schermo non visibile, cosa che dovrebbe farci ragionare sul potere che questo oggetto ha nel contesto delle nostre vite quotidiane. Sembrerebbe esistere, gli autori spiegano, una sorta di bisogno “sub-cosciente” di “monitorarlo”. Concludono con un consiglio chiaro: “however, our data suggest at least one simple solution: separation”.

Tornando e concludendo sul libro di Haidt, La generazione ansiosa rappresenta una fotografia di estrema attualità dello stato di salute mentale delle generazioni dei ragazzi nati a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, con un focus sulle implicazioni dei profondi sconvolgimenti in campo tecnologico che a partire dagli anni ‘10 del 2000, si sono succeduti con impressionante velocità.
Al centro della sua indagine, Haidt pone i rischi di una forma endemica di dipendenza comportamentale che attribuisce all’uso pervasivo di device tecnologici portatili, fornendo alcune indicazioni generiche su temi di “ecologia della mente”, aiutando il lettore a porsi in una relazione consapevole con questi strumenti tecnologici, finalmente e coraggiosamente problematizzando la questione.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Recensioni / recensioni

10 June 2024

KNOT GARDEN (A CURA DEL CENTRO VENETO DI PSICOANALISI)

di Raffaele Avico

Riportiamo di seguito un estratto da un PDF in free download erogato dal Centro Veneto di Psicoanalisi.

Il Centro Veneto di Psicoanalisi da un po’ di tempo pubblica degli Ebook chiamati “Knot Garden”.

Il nome Knot Garden evoca una tipologia di giardino inglese, caratterizzato da molti sentieri tra di loro intersecati:

“Viaggiando per la Gran Bretagna si possono visitare alcuni knot (nodo) garden ricostruiti sulla base di disegni ed antecedenti di epoca elisabettiana. Si tratta di piccoli giardini costruiti in modo da poter essere percorsi in modo continuo in innumerevoli catene di vie: specie di labirinti senza un unico punto d’arrivo; intrecci di sentieri tra basse aiuole che possono essere percorsi senza mai perdere di vista l’insieme delle altre possibili strade”.

Il Centro Veneto di Psicoanalisi ha da anni avviato la pubblicazione di questi free ebook di pregevole fattura, e ricchi nei contenuti. In precedenza aveva pubblicato un lungo approfondimento su Melanie Klein, reperibile qui.

L’ultima loro fatica esplora il mondo della musica, comprese le tendenze più recenti, in rapporto al mondo dell’adolescenza e alle sue metamorfosi identitarie, spesso dolorose. Lo si può scaricare qui. Di seguito ne pubblichiamo un estratto a proposito della poetica dei Nirvana e di Kurt Cobain, suicidatosi 30 anni fa.

[..]

Rock e brandelli di sé

Faccio ora un salto in avanti di una quindicina d’anni, per parlare di due opere prime di gruppi che hanno fatto la storia degli anni Novanta, i Nirvana e i Cranberries, e dei loro leader, Kurt Cobain, morto suicida a ventisette anni, e Dolores O’Riordan, annegata a quarantasette anni in una vasca piena d’acqua, sola e ubriaca in una stanza d’albergo londinese.

Sono anni di grande fermento musicale: la nascita del grunge offre una nuova via identitaria al rock e, al contempo, molte cantanti si affermano grazie alla loro voce e alla loro capacità compositive; Kurt Cobain e Dolores O’Riordan sono i massimi esponenti di questi due fenomeni del mondo rock.

Nella loro storia di vita l’arte è un tentativo di prendersi cura di sé, di cercare in essa e nell’ascolto offerto dai fans un vello d’oro che possa alleviare il dolore causato dalle ferite traumatiche.

Bleach, il disco d’esordio dei Nirvana, raccoglie nella sequenza dei brani lo spirito degli adolescenti di quegli anni, attraverso quella distruttività e quella rabbia che sono l’essenza del grunge; ma la passione e il coinvolgimento che Cobain mette in ogni brano è il tentativo di “ricucire i brandelli di un sé” (Spagnolo e Northoff, 2022, 96) fragile che non reggerà il peso della vita e la pressione futura dello show business. Un giro di basso oscuro e claustrofobico apre l’album e Blew, una canzone abrasiva dove il sofferto cantato di Cobain, magistralmente supportato da un sound cupo e distorto, offre un’immediata risonanza musicale-affettiva del giovane cantante e dei suoi dolori, radicati nella traumatica separazione dei genitori e in un’adolescenza caratterizzata dallo sviluppo di gravi e persistenti dolori di stomaco – di probabile origine psicosomatica – e abuso di sostanze, in una realtà di provincia che generava il senso claustrofobico che pervade non solo questa canzone ma tutta la breve discografia dei Nirvana.

Kurt Cobain e tutto il movimento grunge esprimono il senso di disillusione, cinismo e rabbia della cosiddetta generazione X, quella dei figli dei figli dei fiori ma, a mio parere, questo non è sufficiente a spiegare la forza espressiva della loro musica, a partire da Bleach, un disco che è il tentativo di prendersi cura di sé attraverso l’arte, recuperando “qualche elemento traumatico in modo da poterlo assimilare in una struttura rappresentazionale e simbolica più evoluta. Ma se la struttura del sé è sfilacciata dalle troppe discontinuità vissute nel corso dell’esistenza, questo movimento di recupero fallisce continuamente” (Spagnolo e Northoff, 2022, 100). Assimilare il trauma in una rappresentazione: questo è stato il tentativo di artisti come Jim Morrison e Kurt Cobain e di molte altre rockstar morte troppo presto o all’apice del successo, troppo fragili come personalità per poter elaborare i traumi attraverso il solo processo di rappresentazione. Cobain utilizzò nel corso degli anni dell’adolescenza la scrittura e il disegno nel tentativo di contenere e dare una forma al suo malessere: in questi diari, scannerizzati e pubblicati nel 2003, caratterizzati da una modalità stream of consciousness – come si può vedere nell’immagine riportata qui sotto – si trovano anche le prime bozze dei testi di alcune canzoni che verranno messe in musica e pubblicate in seguito: la musica rock, con la compresenza di più forme d’arte (scrittura, musica, canto), viene pensata come uno spazio transizionale più resistente del semplice diario; come uno spazio multidimensionale in cui offrire una forma elaborativa più profonda alla sofferenza.

Nella sua lettera d’addio Kurt scriverà che era dall’età di sette anni che provava odio verso tutti gli umani: a quel periodo risale la separazione dei suoi genitori, vissuta con profonda vergogna e intensa rabbia dal figlio; perché Kurt Cobain “non era una rockstar, era un ragazzo che contro la sua volontà era diventato un simbolo” (Vites, 2022, 85), tentando di trovare quel contenimento affettivo, vissuto e poi perduto in infanzia, attraverso la sua opera creativa.

“Mi è andata bene, molto bene, e ne sono grato, ma da quando ho sette anni, sono diventato pieno di odio verso l’umanità in generale. Solo perché sembra così facile per la gente andare d’accordo. Solo perché amo e mi dispiace troppo per le persone probabilmente. Grazie a tutti dal profondo del mio bruciante nauseato stomaco per le vostre lettere e la preoccupazione negli anni passati. Sono un bambino troppo incostante e lunatico!” (Brano tratto dalla lettera d’addio di Kurt Cobain).


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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8 May 2024

INVITO A BION

di Redazione POPMed

Abbiamo scritto in precedenza su Bion, psicoanalista di provenienza indiana e naturalizzato inglese.

Bion iniziò tardi la sua carriera da psichiatra e psicoanalista: i primi anni lo videro impegnato in altri studi (storia), oltre ad essere caratterizzati dallo scoppio delle due guerre mondiali, che lo psicoanalista conobbe prima da soldato civile, poi da medico militare (e da osservatore attento: risalgono a quegli anni le sue intuizioni sui conosciuti “assunti di base”).

Questo post raccoglie alcuni contenuti che, della teoria di Bion, forniranno alcuni punti fermi, aspetti della sua teoria che non possono essere trascurati. Qui di seguito un brevissimo indice dei contenuti:

  1. PRIMA PARTE: un approfondimento sulla teoria sulla nascita del pensiero di Bion, e spunti dal lavoro di Antonino Ferro
  2. SECONDA PARTE: riportato per intero, un articolo del 1981 (inedito in rete) scritto da Mauro Mancia, uno dei padri della neuropsicoanalisi italiana, che scrisse questo contributo tentando di raccordare gli aspetti teorici bioniani con quello che -al tempo- si sapeva di neuroscienza del sonn

..continua su POPMed.

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14 February 2024

CAPIRE LA DISPNEA PSICOGENA: DA “SENZA FIATO” DI GIORGIO NARDONE

di Raffaele Avico

É da poco stato pubblicato un libro scritto da Giorgio Nardone a proposito della dispnea psicogena. La dispnea psicogena è un disturbo che origina dal tentativo di controllare un meccanismo biologico spontaneo, non mediato dalla volontà cosciente dell’individuo: il ritmo del respiro.

Per entrare nello specifico di questo disturbo, avviene che il paziente senta di non riuscire a respirare “ fino in fondo” e, nel tentativo di riempirsi i polmoni di aria, iper-eserciti l’inspirazione -di fatto iperventilando e producendo un effetto paradossale di mancanza di fiato.

Come osserviamo anche in altri disturbi, il tutto può partire da un segnale che arriva dal corpo, il senso di essere affaticati -per esempio-, che innesca una risposta ansiosa e un tentativo da parte del paziente di compensare allo stato di stanchezza percepita per via di un aumento della foga nell’eseguire un determinato “atto fisico”.

Il paziente in questo modo tenta di riempirsi i polmoni aggiungendo aria ad altra aria, iperventilando e aumentando ulteriormente l’ansia.

Nardone fa notare come in questo meccanismo quello che viene lasciato indietro sia l’espirazione, l’atto di vuotare i polmoni fino in fondo.

Per aiutare il paziente a recuperare il ritmo respiratorio, gli suggerisce di immaginare di dover soffiare sulla torta del suo compleanno, e di esercitarsi con questo pensiero in mente ad espirare “fino in fondo” una volta l’ora, per un tot di volte, in modo da riabilitare il paziente a un respiro maggiormente regolare.

Come Nardone fa notare, siamo qui al confine tra la riabilitazione respiratoria e la psicoterapia comportamentale: si tratta di imparare a respirare “come da zero”, e di normalizzare in seguito la spontaneità della respirazione stessa: ripetendo l’esercizio in modo cadenzato (una volta l’ora, poi una volta ogni due ore, poi una volta ogni tre ore, etc.), il “nuovo” modo di respirare diverrà automatizzato, come quando si fa fisioterapia e si ripetono i gesti più volte, fino ad automatizzarli in senso procedurale.

A inizio libro, Nardone fa giustamente notare come “sapere come funziona un disturbo” non basta: occorre fare delle esperienze “correttive” per poi renderle automatiche, affinché il cambiamento possa realmente avvenire.

L’autore propone inoltre un modello di mente basato sul principio della gerarchia delle funzioni mentali, per cui il “livello razionale” in questo caso non riuscirebbe a frenare o regolare il “livello percettivo-reattivo”, posto gerarchicamente più in basso. Cita giustamente LeDoux per portare alcuni dati in senso scientifico sul come funzionino la paura e l’amigdala.

Proseguendo nella lettura del libro, altri autori completano il lavoro con aspetti più medici a riguardo della respirazione, e propongono alcuni suggerimenti pratici per lavorare sulla respirazione. Tra questi merita una nota il metodo Buteyko, che in seguito sintetizziamo:

  • Il metodo Buteyko è una tecnica di respirazione sviluppata dal fisiologo russo Konstantin Buteyko. Questo approccio si concentra sull’allenamento della respirazione per ridurre l’iperventilazione e aumentare il livello di anidride carbonica nel corpo. Come funziona?
  • Respirazione Nasale: Il metodo Buteyko enfatizza la respirazione attraverso il naso anziché la bocca. Ciò consente di filtrare, riscaldare e umidificare l’aria in modo più efficace prima che raggiunga i polmoni.
  • Respirazione Superficiale: L’approccio promuove la respirazione leggera e superficiale, evitando respiri profondi eccessivi. Ciò mira a mantenere un adeguato livello di anidride carbonica nel corpo.
  • Controllo del Diaframma: Si incoraggia l’uso del diaframma nella respirazione, concentrandosi su inspirazioni e espirazioni controllate. Questo può contribuire a ridurre l’iperventilazione.
  • Ritmo Respiratorio: Il metodo suggerisce di mantenere un ritmo regolare nella respirazione, evitando variazioni eccessive nella frequenza respiratoria.
  • Pauses between breaths (pause tra i respiri): Il Buteyko incoraggia brevi pause tra l’inspirazione e l’espirazione per promuovere la ritenzione di anidride carbonica.
  • Monitoraggio del Livello di CO2: Si insegna a percepire i segnali del corpo legati al livello di anidride carbonica, in modo che la persona possa regolare la propria respirazione di conseguenza.
  • Esercizi di Controllo della Respirazione: Il metodo prevede una serie di esercizi di respirazione progettati per aiutare le persone a sviluppare il controllo sulla propria respirazione e a migliorare l’efficienza del processo respiratorio.

ASPETTI CRITICI

Nardone in questo libro usa lo schema che ripropone in altri libri: propone una spiegazione del meccanismo sotteso all’origine del disturbo, quindi suggerisce una pratica clinica abbastanza precisa, e presenta qualche caso clinico che conferma la bontà delle sue intuizioni.
Sono modalità di intervento ritagliate intorno alla figura di Nardone stesso, che suggerisce la “sua” modalità di intervenire in queste situazioni: non c’è nessuna evidenza del fatto che questo sia un metodo replicabile, così come non esiste letteratura scientifica che rappresenti un “basamento” di quanto afferma l’autore. La scuola di Arezzo, da lui fondata, sembra infatti portare avanti una politica di “emulazione del maestro”, che si ascolta in quanto “genio”, ripetendo con i propri pazienti quanto passato dal “venerabile”.
Nardone si rifà inoltre ad antiche massime mutuate dallo psicologia orientale, o dalla cultura classica latina, che utilizza come “verità assolute” pronte a giustificare il razionale delle pratiche da lui create per lavorare con i diversi disturbi. Questi truismi hanno la funzione di “puntelli” alla teoria, come negli articoli scientifici dovrebbero fare i riferimenti ad altri lavori, precedenti. Quando tira in ballo la scientificità dei suoi metodi, dissimula la sostanziale debolezza statistica del suo metodo parlando di “pregiudizi” che impedirebbero agli “altri” (la comunità scientifica, di fatto) di capire la portata concettuale del metodo “Arezzo”.

Nonostante questi aspetti critici Nardone riesce a intuire alcuni aspetti patogenetici di assoluta rilevanza clinica, che in effetti ci raccontano di come riesca a intuire alcuni “modi di funzionare” della mente, che sono però da attribuire a lui come professionista, come fine psicologo, più che a un trattamento psicoterapico strutturato e supportato da evidenze di letteratura.
Siamo di fronte a un personaggio “geniale” della psicoterapia, un fine osservatore di come funziona la mente, che spiega il “suo” modo, le sue scoperte cliniche, che tra l’altro su questo blog abbiamo più volte esaminato e approfondito a proposito per esempio del panico o del doc.

Qui il link ad Amazon.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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22 January 2024

Offline is the new luxury, un documentario

di Raffaele Avico

Un documentario neo-luddista citato da Beppe Grillo in questo post, sufficientemente distopico, poco distante dalla realtà in cui viviamo immersi. Vi si constata una certa amarezza dei soggetti intervistati, consapevoli di come internet ai suoi primordi fosse stato ideato e pensato per essere un’arma di libertà e democrazia, non un enorme centro commerciale costruito per estrarre dati psicometrici dal comportamento dei suoi utenti.

A proposito dei movimenti neo-luddisti, interessante anche questa intervista a Logan Lane, di Brooklyn, fondatrice del cosiddetto Luddite Club, ragazzi adolescenti che decidono di disconnettersi usando dumb-phones e organizzando ritrovi “dal vivo”: Logan ragiona su quanto, nella sua stessa scuola, avesse osservato un inquietante modellamento della realtà sui contenuti di Instagram, come se il permanere costantemente immersi nella realtà dei social avesse il potere di riversarsi nella quotidianità del suo liceo, con ragazzi e ragazze vestiti/e “come se” fossero su Instagram, con modalità relazionali in linea con quelle virtuali, e altri segnali che la stessa Logan guardava con sospetto prima di creare il Club.

Il messaggio neo-luddista è inoltre sempre più al centro del lavoro di Mangiasogni, che nella sua ultima striscia animata ambienta in una Venezia del 2050 una lotta tra le “nuovissime” generazioni e quella dei millennials (la striscia si chiama appunto Death to millennials). Mangiasogni definisce i prosumer dei social di oggi e del futuro, ortaggi coltivati dagli “estrattori” di dati. La si può reperire qui.

Qui il documentario:

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12 October 2023

ANIMALI CHE SI DROGANO, DI GIORGIO SAMORINI

di Raffaele Avico

Giorgio Samorini è un riferimento in Italia per la “scienza delle droghe”, gli studi sulle piante allucinogene, sulla storia dell’utilizzo di psichedelici, per l’ambito dell’etnobotanica in generale. Per avere idea del portato del suo lavoro, è sufficiente dare un’occhiata al suo sito: samorini.it

In questo volume corto e scorrevole, Samorini descrive molte specie animali intenti a consumare sostanze psicotrope di vario tipo (già presenti in natura o create dall’uomo, come l’alcol). Samorini osserva come si debbano distinguere due modalità di consumo di sostanze psicotrope tra gli animali:

  • consumo condizionato, indotto da un certo tipo di comportamento dell’uomo, come il coltivare certe piante o attivamente effettuare esperimenti sugli animali usando sostanze psicotrope (come il famoso esperimento dei ragni sotto caffeina)
  • consumo naturale, ricercato dagli animali in assenza di elementi umani a fare da rinforzo, all’apparenza per “puro piacere” o alla ricerca di un’alterazione del funzionamento del sistema nervoso

Tra le specie animali, molte consumano attivamente sostanze psicotrope, come gli elefanti (Samorini raccoglie parecchie evidenze sulla ricerca da parte degli elefanti dell’effetto inebriante dell’alcol), gli orsi, molti uccelli e soprattutto le capre; esistono anche molte evidenze di animali “inferiori” (con un sistema nervoso basico/semplice) alla ricerca di sostanze dal potere psicotropo, come le sfingi -particolari falene-, i cervi volanti, ma anche le lumache, le mosche, le drosofile (moscerini della frutta), e altri.

Procedendo nella lettura, Samorini si avvicina al tema “animali che si curano”, raccogliendo evidenze di come diverse specie si auto-curino con elementi naturali terapeutici; da notare come Samorini sottolinei più volte la fallacia della prospettiva antropocentrica –per cui l’essere umano tende a negare l’idea che gli animali producano comportamenti direttamente causati da un tipo di pensiero più articolato del semplice stimolo/risposta. Samorini osserva a proposito di questo come gli animali esibiscano comportamenti sessuali slegati dalla semplice riproduzione, anche omosessuali, oltre ad indursi come già detto stati di eccitazione euforica attraverso sostanze trovate in natura, producendo associazioni di causa-effetto articolate (per esempio, Samorini parla di manguste che sfruttano il senso di intorpidimento e confusione dei topi alterati dall’aver ingerito canapa, al fine di aggredirli).

Samorini si chiede come sia possibile che diverse specie animali si “droghino” per puro piacere (senza che ci sia insomma una finalità nutritiva, istintuale), e risponde che questo fenomeno sarebbe impossibile senza ipotizzare l’esistenza di un “pensiero” maggiormente articolato e proto-cosciente nella mente degli animali stessi, compresi gli animali inferiori (come appunto le mosche). Gli animali possiedono risorse che non comprendiamo in pieno: il modello comportamentista/antropocentrico ci impedisce tuttavia di immaginare o pensare agli animali stessi come dotati di una quota di ragionamento senziente, articolato, non necessariamente o solamente mosso dall’istinto.

La scienza che studia il comportamento autocurativo degli animali è chiamata zoofarmacognosia: Samorini raccoglie in questo volume molte evidenze di comportamenti di questo tipo, non basato sulla preservazione di un semplice stato omeostatico (con comportamenti auto-regolativi basati sul feedback, come un neonato che trovandosi causalmente la sua stessa mano di fronte al volto, inizi a succhiarla auto-gratificandosi), ma producendo comportamenti articolati, lunghi, con “attese” e “tempistiche di medicazione” complesse che farebbero propendere per, ancora una volta, una visione differente a riguardo della coscienza degli animali, “post-”comportamentista, maggiormente cognitivista, con una maggiore spazio da attribuire al loro stesso “pensiero”.

Inoltre, Samorini osserva come l’utilizzo degli psichedelici e delle piante medicinali da parte degli animali, precede storicamente quello fatto dagli umani, che proprio dagli animali avrebbero osservato come utilizzare gli elementi naturali per auto-medicarsi.

Nell’utlima parte di questo corto saggio, l’autore introduce il tema dell’omosessualità animale, diffusa in più di 450 specie, frequentissima ma ancora oggi declassata dagli etologi ad “aberrazione” o “divergenza”. Samorini spiega che una visione di questo tipo dipende dall’adesione ortodossa di alcuni studiosi al paradigna darwinista, per cui ogni azione in natura verrebbe giustificata dal bisogno di procacciare e ottenere risorse scarse, o di riprodursi, nella direzione di un’evoluzione costante volta a un miglioramento funzionale, a una maggiore utilità.

Esistono paradigmi nuovi e post-darwinisti, tuttavia, che meglio si adatterebbero a spiegare questi comportamenti in natura. Samorini cita il concetto di “esuberanza biologica”, la “teoria del caos”, spingendosi fino alla fisica quantistica, che meglio si adatterebbero a una lettura non riduzionistica o antropocentrica di questi comportamenti assolutamente normali ma “esuberanti” in senso evolutivo. Seguendo il paradigma dell’esuberanza biologica, in natura sarebbe cioè necessario produrre varianza, novità, alterità, così come per la teoria del caos è importante che il caos stesso introduca variazioni casuali funzionali a produrre salti evolutivi, al fine di migliorare e far evolvere lo stato delle cose. Questi comportamenti (l’omosessualità, l’uso non riproduttivo della sessualità negli animali, la ricerca di uno stato di alterazione assolutamente deliberata e non funzionale ad alcunchè negli animali), una volta riletti in modo non moralistico e al di là della posizione antropocentrica, potrebbero essere riletti usando questi nuovi, più vasti paradigmi, post-darwiniani, altrettamento “scientifici”. A riguardo dell’esuberanza biologica, si veda questo approfondimento da un articolo pubblicato nel 2000 su Jama.

Si veda anche questo approfondimento fatto da Vice.

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8 August 2023

NIENTE COME PRIMA, DI MANGIASOGNI

di Raffaele Avico

Niente come prima è un libro sulla salute mentale. Racconta le vicende di due ragazzi di all’incirca 25 anni, alle prese con la delicata fase della svincolo dalla famiglia di origine. Edoardo e Rebecca, cresciuti nello stesso paesino di provincia, vivono in due grandi città, presi ognuno da angosce e paure diverse. Rimandiamo a chi voglia leggere il libro il resto della trama, cercando qui di trarne alcuni spunti di riflessione:

  1. il libro è ambientato in luoghi di fantasia: città di fantasia, quartieri e fermate della metropolitana di fantasia: questo rende universale, metafisica la vicenda, un po’ come nei libri di Dino Buzzati, anch’essi ambientati in luoghi irreali, utilizzati a fare da cornice a vicende tutte interiori/psicologiche
  2. le vicende raccontate nel libro procurano un estremo senso di rispecchiamento: si ha l’impressione che ciò che accade ai protagonisti, possa accadere a chiunque di noi in qualsiasi luogo, e soprattutto nell’epoca attuale. É in fondo un libro sulla società dell’oggi: le vicende di Edoardo e Rebecca raccontano di una generazione di neo-laureati alle prese con un mondo del lavoro ossessionato dalla produttività, nelle mani di manager e figure adulte nevrotiche e aggressive, vissute dai ragazzi in modo persecutorio. Spesso viene descritto il senso di incomunicabilità tra una generazione (quella degli adulti) ferma a una rappresentazione ormai superata di una società basata sull’equazione impegno=risultato, e la generazione dei giovani, costantemente interconnessi in modo virtuale ma estremamente soli,  spaventati dalle richieste degli stessi adulti -poco in grado di comprendere a fondo una società all’apparenza troppo veloce
  3. Procedendo nella lettura del romanzo viene spontaneo chiedersi quanto il problema si strutturi all’interno dell’individuo (pensiamo per esempio a Edoardo) o quanto al suo esterno. Il problema sembra essere: il senso di spaesamento e impotenza di Edoardo, dipende dalla sua difficoltà di esporsi a un mondo troppo aggressivo, o è la società stessa, con le sue richieste, a essersi trasformata in qualcosa di mostruoso/inarrivabile? L’autore sembra porre maggiormente l’accento su questa seconda opzione: il libro raccoglie in sé molti dei messaggi lanciati da Mangiasogni (l’autore) sulla sua pagina instagram, con pesanti critiche al concetto di superlavoro, di hustle culture (ne avevamo parlato qui), al rischio di overload cognitivo, al bisogno costante di performare. Come avevamo scritto a proposito del lavoro di Byung Chul Han, nella “società della performance” la pressione alla performatività sembra essere così tanto pervicace, così tanto interiorizzata, da diventare una parte interna dell’individuo, costretto ad auto-sfruttarsi e portato ad autopunirsi.
  4. Edoardo, giovane professionista vessato/mobbizzato dal suo capo in una blasonata azienda della “city”, vive una vita come “dissociata in verticale”: la sua settimana si struttura in modo routinario, con i giorni della settimana spesi alienandosi al lavoro e il weekend trascorso al paesino di origine, dedicato a quelli che definisce “rituali riumanizzanti”. Interessante la presenza di figure genitoriali putative (la professoressa del liceo, il macellaio), veri e propri “sacerdoti del passaggio”, punti fermi utili a Edoardo nella sua tempesta emotivo/esistenziale inerente il suo processo di svincolo. Il passaggio dal paese/famiglia di origine al contesto città/vita adulta viene eseguito per step, in modo graduale.
  5. Quello che accomuna i due giovani, Edoardo e Rebecca, sembra essere il peso delle aspettative proiettate su di essi dai genitori: Edoardo vive la sua vita come una sorta di riscatto vissuto per interposta persona eseguito dai suoi genitori; Rebecca ha aderito docilmente alle indicazioni della madre a riguardo di quella che avrebbe dovuto essere la sua vita professionale. C’è dunque il tema dello svincolo, di nuovo, intrecciato però alla questione “aspettative genitoriali”. A un certo punto del romanzo, la scelta di fronte a Edoardo sembra essere senza scampo, una sorta di doppio legame senza vie di uscita: da un lato l’alienazione della città, dall’altra la regressione del paese/ambiente genitoriale; in questa situazione di stallo, la figura di Raudo sembra rappresentare, per un po’, una terza via percorribile: la creazione di qualcosa di proprio, la modalità “imprenditoriale” vissuta come possibilità di svincolo/affermazione. Per quanto riguarda Rebecca, sarà la morte della madre a consentirle, finalmente, di riappropriarsi della sua individualità, pur nel paradosso di una libertà ottenuta a prezzo di un lutto.
  6. Il “mostro” che compare nelle vite dei due giovani, è la rappresentazione figurata di una parte interna dei protagonisti, che emerge quando questi riescono ad “abbassare un po’ le difese” in modo da lasciarla esprimere. In esso vengono incarnati i dettami del sistema famiglia (devi fare quello che ti diciamo, non devi tradirci) e del sistema società (devi produrre, se vuoi puoi, è colpa tua se non sai cosa fare della tua vita), un senso di colpa invincibile, la “tensione verso l’aggressione” degli altri e di sè.
  7. non esiste un verso scontro generazionale, tuttavia: i ragazzi sembrano “orfani”, ovvero, percepiscono le generazioni precedenti come non in grado di comprendere la velocità e le pressioni del mondo attuale. In questo romanzo le figure adulte tentano di “vendere” un’idea di realtà, una rappresentazione di “come dovrebbero andare le cose” che ai ragazzi sembra anacronistica; a tratti si ha anche l’impressione che questi ultimi non vogliano comprarla, quell’idea di mondo, rifiutandola a priori, “per una questione di principio”. Questa frattura, il sentirsi orfani, questo scollamento getta i ragazzi in un vuoto di senso, in un deserto senza segni e simboli all’interno del quale sembra impossibile visualizzare un orizzonte (o un futuro). Allo stesso tempo, i surrogati e i diversivi offerti dall’iper-produzione mediatica, dal continuo esporsi al confronto sociale attraverso internet, sembrano solo voler capitalizzare su quello stesso disagio, acutizzandolo. Sembra esserci un’unica cosa da fare: chiedere aiuto, dare un nome al malessere, narrarlo.
  8. Troviamo un po’ ovunque alcune altre tematiche estremamente attuali: l’eco-ansia (paura del futuro/paura dei disastri ambientali), la fomo (paura di perdere occasioni) e soprattutto la pervasività degli input mediatici, così come il confronto sociale e le emozioni negative ad esso collegate.

Nel complesso, il romanzo di Mangiasongi descrive una realtà dai tratti distopici che potrebbe tranquillamente essere la quotidianità per un qualunque “stagista” di una grande città come Milano o Torino. È nel suo insieme una profonda critica alla hustle culture, al culto per la performance, alla tendenza a disumanizzare, descrive lo stallo della “classe disagiata” e soprattutto il senso di tradimento vissuto da una generazione che sembra aver perso fiducia nelle promesse fatte dalle figure adulte.

Qui Niente come prima su Amazon.

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6 April 2023

Laetrodectus, che morde di nascosto


di Raffaele Avico

Il documentario video “Laetrodectus, che morde di nascosto“ traccia un percorso di esplorazione sul fenomeno del tarantismo usando alcune figure professionali che tentano di profilare le origini e la natura del fenomeno e del suo surrogato odierno, rivoltato in chiave “commerciale” (l’interesse attuale per il neotarantismo e la pizzica, il gran numero di gruppi che la suonano).

L’opera di Jeremie Basset e Irene Gurrado, con le musiche originali di Ruggiero Inchingolo, uscita nel 2009, è stata girata tra Francia e Italia.

Viene intervistata la figlia del maestro Stifani, il “dottore delle tarantate”, che contò molteplici riti di taranta eseguiti con il suo violino, Ruggiero Inchingolo, un musicologo già allievo del prima citato Stifani, Gino Dimitri, uno storico ed esperto di tarantismo, e George Lapassade, sociologo di Parigi scomparso nel 2008 e studioso del fenomeno.

Vengono messi in luce diversi aspetti:

stati dissociativi patologici|normale dissociazione|stati mistici/realizzazione

  1. Quello che Lapassade osserva, è che il fenomeno cosiddetto di neotarantismo, diviene uno scimmiottamento attuale del rituale antico, svuotato del suo significato originale, autenticamente terapeutico
  2. In senso storico, con l’intervento di Gino Dimitri viene tracciato un breve affresco di quello che sembra essere stato il decorso del fenomeno del tarantismo, a partire dagli antichi riti pagani di origine romana e ancor prima, presumibilmente, greca (a questo proposito è da notare che qualche anno fa a Lecce e Melpignano fu stata allestita una mostra, divisa in due spazi, sulle “menadi danzanti”, ancelle devote al dio Dioniso secondo la mitologia greca- che voleva riprendere il tema della mousikè technè — intesa come unione di suoni, canto, danza e recitazione — usata in senso catartico e quindi connessa al fenomeno attuale del tarantismo). Lo storico parla del tarantismo come di un “relitto” dei rituali pagani pre-cristiani, oggi paradossalmente assunto a segno distintivo del territorio e occasione di festa. Fino a 40 anni fa, è presumibile che il tarantismo fosse ancora collegato a una condizione di malessere e povertà culturale, soprattutto per quanto riguarda lo stato della donna, costretta nei vincoli di una società patriarcale e povera, senza prospettive.
  3. Inizialmente, la credenza effettiva, reale, a proposito della nocività del morso del ragno, sembrava molto radicata nella popolazione: solo successivamente la questione sull’origine del “problema” della tarantolata venne trasposta in senso psicopatologico o almeno “socio-culturale”. Quello che Gino Dimitri fa notare è che inizialmente si credeva davvero al bisogno del ballo come cura per il veleno dei ragni nascosti nelle campagne del Salento (in particolare appunto da parte del ragno Latrodoectus, anche detto Vedova Nera): la questione venne poi allargata e medicalizzata, con l’avvento della psichiatria; esiste un’epoca di passaggio in cui al rituale di cura per le tarantate, si affiancarono gli internamenti in manicomio per coloro che sembravano soffrire di patologie nervose o di possessione
  4. Per mezzo dell’intervento dell’etnomusicologo Ruggiero Inchingolo, viene posta l’attenzione sull’effetto della musica suonata durante i rituali terapeutici. Viene illustrato come il suono ritmico, terzinato, del tamburo, pareva avere un effetto di induzione di transe sui soggetti colpiti dal “morso”, considerando che spesso le sessioni rituali avevano una durata molto lunga, anche giorni. Insieme al suono del tamburo, lo strumento melodicamente principale era il violino, in particolare suonato su toni molto acuti (il rumore del “pizzico” dell’archetto sulle corde, simile a uno sfregamento, pareva avere un forte potere attivante verso il soggetto sottoposto al rituale). Tamburo e violino, insieme, producevano un intensificarsi dell’effetto di “aggancio” della tarantata, condotta per mezzo della musica verso la liberazione dal dolore.
    Di seguito potete visualizzare il contributo di Inchingolo.

Un aspetto che durante la visione del documentario sembra ritornare, è infine il significato del “morso”, da interpretarsi come “passato che ritorna” — un qualche senso di colpa interiorizzato che necessita, periodicamente, di essere risolto e evacuato, oppure un qualche conflitto irrisolto che necessita di un suo luogo di “recitazione”/drammatizzazione.

Qui per aggregare altro (su questo blog) a tema “tarantismo”.


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25 October 2022

LA Q DI QOMPLOTTO

di Raffaele Avico

Questa poderosa inchiesta sul fenomeno di Qanon rappresenta un lavoro fondamentale per chiunque sia interessato ad approfondire il tema “complotti”, nel tentativo di capire come sia possibile che -in epoca attuale- fioriscano e divampino narrazioni così devianti e “diversive” (come le definisce Wu Ming 1, autore del libro), paranoidee e incentrate appunto su ipotesi e cospirazioni mondiali -con vari contenuti e sotto-narrazioni annesse.

Cos’è, prima di tutto, Qanon?

Su questa recensione dal portale Doppiozero ne viene data una definizione puntuale:

“QAnon è in estrema sintesi una fantasia distopica diffusa in rete (in particolare modo negli Stati Uniti e in Germania) nei network della destra radicale: un complotto immaginario secondo cui il mondo sarebbe segretamente governato da una setta di miliardari “di sinistra” e depravati, dediti a terribili misfatti (satanismo, pedofilia e torture ai danni di bambini) che avrebbero la funzione di dare sfogo alla loro avidità energetica, sessuale ed economica e di garantire loro privilegio e dissolutezza. Al netto delle diverse varianti, alcuni “veri patrioti” guidati da Donald Trump starebbero conducendo una guerra segreta contro i malvagi potenti della cosiddetta Cabal (di cui farebbero parte Hillary Clinton, Barack e Michelle Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, etc.) animando così una crociata dai tratti apocalittici che chiede adesione e coinvolgimento per porre fine a l’atroce situazione.”

Questo gruppo di pedo-satanisti userebbe per incontrarsi una serie di tunnel scavati al di sotto della superficie terrestre negli Stati Uniti, luoghi sicuri dove portare i bambini e compiere i rituali.

Le caratteristiche intrinseche del movimento sono riassunte ottimamente sulla pagina Wikipedia dedicata.

Da questo libro da più di 500 pagine, a opera di un membro del collettivo Wu Ming di Bologna, apprendiamo che il tema è molto antico, e troviamo fantasie complottiste già in epoca medioevale, a fare da sostrato “culturale” a persecuzioni sistematiche che si protrassero per molto tempo; leggendolo, scopriremo che le radici storiche del fenomeno Qanon sono da rintracciarsi nella forma di odio razziale più antico, quello verso la popolazione ebraica, a sua volta di antichissima origine, derivata dalle narrazioni diffuse dalla chiesa cattolica per secoli, originatesi da letture distorte dei testi sacri e mistificazioni cumulatesi nel tempo a proposito del popolo ebraico.

Leggendo La Q di Qomplotto osserveremo come il tema di una cospirazione montata da un gruppo ristretto di ricchi a danno di persone normali per un proprio vantaggio, sia storicamente ricorrente, costante, e che spesso la “messa a terra” delle fantasie cospirazionistiche si verificò in concomitanza di particolari contingenze storiche adatte al loro divampare.

Il libro si divide in due parti principali.

Nella prima parte viene cronologicamente descritto il fenomeno della nascita del movimento Qanon, fin dalle prime apparizioni sul web (su portali dedicati come 4chan o 8chan, portali aperti a ogni forma di contenuto, senza nessun tipo di censura) fino al suo culmine, ovvero l’invasione del campidoglio da parte di centinaia di persone, nel 2021, a fine mandato presidenziale di Donald Trump -divenuto nel frattempo leader simbolico del movimento stesso.

La seconda parte del libro è invece una ricostruzione filologica della storia del movimento, eseguita tentando di prendere in mano i “filamenti genetici” del movimento a partire dai suoi primordi, ovvero collegandosi a tutti i movimenti cospirazionisti generatisi in Europa (Qanon nasce, culturalmente, in Europa, per poi rimbalzare e divampare in USA) e tracciando la traiettoria storica di ognuno di questi fili; notiamo come Qanon abbia solamente messo insieme, e fatto convergere, molteplici movimenti culturali sotterranei, anche attraverso la mediazione fondamentale dei Social Network. Wu Ming 1 descrive Qanon come un mostro nato sui Social, grazie al potere di interconnessione totale creato da piattaforme così orizzontali e ubique.

L’inchiesta fatta per questo lavoro (a partire da un’impressionante raccolta di appunti, fonti e materiale, sistematizzata e organizzata in modo lineare in tre anni di scrittura, durante la pandemia Covid19) è di una meticolosità impressionante, e il libro rappresenta una pietra miliare nella letteratura sul tema “complotti”.

Procedendo nella sua ricostruzione filologica, chiarendo dunque la genealogia del fenomeno Qanon, Wu Ming 1 racconta di come alcuni autori cospirazionisti (spesso fortemente cattolici) abbiano -in precisi momenti storici che definisce “momenti di singolarità” – fatto convergere e sistematizzato alcune tematiche legate ai complotti, producendo dei punti di svolta nella letteratura sul tema, con pesanti ricadute nel “mondo reale”.

L’ultimo momento di singolarità, Wu Ming 1 osserva, lo rintracciamo nella storia recente: la sovra-interpretazione della comunicazione di Trump a seguito della sua destituzione come Presidente USA, accompagnata da una crisi pandemica e sociale a fare da corroborante, da tensioni sempre più accese in senso sociale negli Stati Uniti.. tutti elementi in grado di innescare -sui social- e dare vita a un fenomeno come il movimento Qanon.

Wu Ming 1, in questo lavoro, osserva come negli ultimi 2 anni, quelli di pandemia, diverse narrazioni “complottistiche” abbiano fatto irruzione sulla scena, mediate ancora una volta dai Social Network. Pensiamo per esempio alle fantasie di complotto sulla nascita della pandemia stessa, alla questione 5g, al problema con gli anti-vaccinisti: narrazioni in grado di convogliare -nel punto di vista dell’autore- una parte della tensione sociale, in questo modo salvaguardando i veri responsabili della crisi sistemica in atto ancora oggi, che l’autore sostiene essere i fautori delle politiche di sfruttamento ambientale e sociale degli ultimi decenni.

Al di là del libro a firma Wu Ming 1, traiamo dalla lettura alcune riflessioni:

  • i Social hanno un potere aggregativo e corroborante enorme, e questo si vede nella nascita di fenomeni come Qanon; sempre più osserviamo come la realtà “fattuale” (i fatti neutri, spogliati del loro significato) venga caricata e rivestita da narrazioni in grado di esplodere sulle piattaforme Social: lo avevamo osservato parlando di Social Dilemma, anche in questo caso osserviamo come questo fenomeno di mistificazione della realtà produca risultati reali, concreti, anche “offline”. In questo gioco, il giornalismo sembra avere un ruolo centrale, fondamentale: la realtà viene venduta alla popolazione usando toni necessariamente emozionali/caricati di emotività per ragioni di neuromarketing. Il risultato è il crearsi di una comunicazione Social sempre più emotiva, poco mediata, poco pensata, in grado di radicalizzare individui spesso isolati socialmente. Come non pensare che i due anni pandemici passati incollati sugli schermi degli smartphone, non abbiano costituito il terreno ideale perché potesse nascere un fenomeno come Qanon?
  • dibattere a voce, guardando in volto le persone, obbliga a una maggiore pacatezza, al produrre pensiero; diffondere notizie in tono troppo allarmistico, produce polarizzazione e risposte emotive del lettore/osservatore. Wu Ming 1, nel ricostruire i prodromi e la storia di Qanon, e i “precedenti” mediatici delle correnti cospirazioniste osservate di recente in Italia, effettua una critica spietata al lavoro fatto dal Resto del Carlino negli anni del caso “bambini di satana”, accusando il giornale di scarsa professionalità ed eccessiva ricerca dello scoop. Al tempo (parliamo degli anni’90), il collettivo Luther Blissett (poi Wu Ming) orchestrò una beffa mediatica proprio per mettere in evidenza la scarsa credibilità dell’impianto mediatico: è qui descritta
  • ciclicamente esistono movimenti sociali che prendono forme di natura paranoide: l’”altro” viene confinato ed espulso; ne parla molto bene Massimo Recalcati nel suo “La tentazione del muro”: la salvaguardia della tenuta identitaria è garantita attraverso l’espulsione dell’altro; questo fenomeno lo osserviamo sia nell’individuo singolo, che nel corpo sociale. Le fasi della “paranoicizzazione”, sono puntualmente descritte ne Il signore delle mosche: fa da sfondo sempre la paura, il senso di scarsa prevedibilità, e il bisogno di compattarsi intorno a elementi sociali percepiti “solidi”/forti.

Volendo provare a tracciare un “insegnamento” conclusivo mutuato dalla lettura di La Q di Qomplotto, lo troviamo nell’osservare un meccanismo che si ripete, con narrazioni inquinananti che fanno largo uso di meccanismi di paranoicizzazione, trovando ogni volta forme diverse/oggetti di odio differenti.

Come prima accennato, Wu Ming 1 in questo libro fa notare che c’è, sul fondo, una colpa non riconosciuta ed attribuita all’altro; il pensiero assume così una forma del tipo: “non riconosco come mia la responsabilità di un determinato fatto, la proietto sull’altro esterno da me, e lo perseguito”; pensiamo alle fantasie di complotto sulle cause della pandemia Covid: è più semplice pensare a un gesto deliberato che non tracciare la linea che collega l’ipersfruttamento ambientale, il cambiamento delle abitudini animali, un maggior contatto tra certi animali e l’uomo e il salto di specie di un virus come il Covid 19. Il vero nemico, in tutto questo, è l’antropocene, l’impatto dell’uomo sulla natura e il suo modellarla a fini economici. Wu Ming 1 questo lo sottolinea con forza, osservando come le fantasie complottiste in fondo difendano il sistema, dirottando le accuse non sui reali fautori del disastro, ma su target più facili, e spesso più deboli.

Su questi temi, si veda anche questo.


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Article by admin / Recensioni / raffaeleavico, recensioni

20 April 2022

“QUI E ORA” DI RONALD SIEGEL. IL LIBRO PERFETTO PER INTRODURSI ALLA MINDFULNESS

di Raffaele Avico

La mindfulness è una disciplina meditativa importata in Europa da un pioniere nell’ambito: Jon Kabat-Zinn, biologo statunitense (nato nel 1944) con una profonda conoscenza delle filosofie e psicologie orientali (per esempio la psicologia buddista) e autore del manifesto/”fiamma pilota” del fenomeno mindfulness, ovvero Vivere momento per momento.

La pratica quotidiana della mindfulness ha effetti positivi sulla capacità di regolazione neurofisiologica: ovvero, permette di sentirsi più in armonia con sè stessi e meno soggetti a sbalzi umorali (si abbassa l’intensità della rabbia sperimentata, ci si sente più “centrati”, più a contatto con il momento presente e meno depressi).

Viene usata in psicologia clinica nel trattamento del dolore cronico, per contrastare tendenze ansiose, per risolvere stati di iper-eccitazione nervosa che impediscono lo svolgimento dei normali compiti quotidiani, oppure per addestrare la mente a stare semplicemente nel presente o per contrastare gli effetti nefasti dell’overload cognitivo.

Il termine mindfulness significa letteralmente “pienezza di mente”, ovvero presenza a sè, “sensazione di mente piena”, etc. É uno strumento di educazione dell’attenzione, una sorta di modalità con cui impariamo a concentrare la nostra attenzione sul momento presente. É come voler educare la propria stessa mente a vivere, appunto, “momento per momento”, attraverso esercizi mirati rubati alle pratiche meditative più tradizionali.

La pratica della mindfulness ha l’obiettivo di farci dis-identificare dai nostri pensieri: noi NON siamo la nostra ansia, NON siamo la nostra tristezza: la tristezza ci passa attraverso, così come l’ansia, e poi se ne va. Per usare una metafora, è come se la nostra mente fosse un cielo blu, e i nostri pensieri e le nostre emozioni, le nuvole. Si tratta quindi di “de-fonderci” (cioè separarci, differenziarci) dalle nostre stesse emozioni (sia positive che negative) e dai nostri pensieri, considerandoli come graditi ospiti.

Per fare questo dobbiamo stare ancorati al momento presente, e per farlo, la mindfulness suggerisce di concentrarsi sul flusso del proprio respiro e di osservare i propri stessi pensieri avvicinarsi al proprio “cielo”, come dei testimoni oculari dei propri stessi pensieri.

La tecnica quindi propone di visualizzare il proprio respiro come un flusso dapprima inspirato, poi emesso, e di concentrare l’attenzione su di esso. Ogni qualvolta dovessero avvicinarsi pensieri negativi o ansie, lasciare che si avvicinino e poi gentilmente lasciarli andare, tornando a mantenere l’attenzione focalizzata sul respiro. Intanto si dovranno percepire i rumori ambientali, gli odori e gli stimoli visivi.

Un’altra immagine usata come metafora per chiarire lo stato mentale di mindfulness è quella del gatto impegnato a controllare l’uscio della tana del topo. Focalizzato sull’uscio nel muro, non eviterà tuttavia di percepire gli stimoli ambientali, e si volterà a osservare ciò che gi succede intorno, rimanendo però attento a eventuali movimenti del topo.

Questo, è per la mindfulness, stare nel presente in piena consapevolezza.

Ma da dove cominciare?

Un buon inizio può essere il libro “Qui e ora” di Ronald Siegel. Questo volume, corposo, rappresenta un compendio efficacissimo e scritto in maniera semplice per approcciarsi alla mindfulness.

È inoltre un manuale adatto sia a persone che vogliano introdursi al tema, sia a terapeuti che vogliano implementare la propria prassi clinica.

Vediamone alcuni punti:

  1. Siegel ha una capacità comunicativa molto efficace, usando spesso immagini chiare ed esemplificative; a inizio libro descrive la mente come un “cucciolo da educare”, ponendo l’accento sulla distraibilità stessa della mente (alcuni usano la formula “mente-scimmia”, a indicare l’estrema volatilità del pensiero); l’obiettivo della mindfulness è quello di educare l’attenzione a riportarsi, momento per momento, al presente e allo stato “attuale” del corpo; si lavora per “assestare” la mente
  2. a proposito di questo, Siegel osserva come la nostra mente sia spesso in balìa di reazioni automatiche in risposta a pericoli spesso solo immaginati; il risultato di questi automatismi è una mente proiettata sempre altrove nel tentativo di “prepararsi al peggio”; questo meccanismo è alla base dell’ansia, e fino a una certa soglia ha valore adattativo, dato che rappresenta un esercizio di coping e di risoluzione dei problemi della mente; oltre a “quella “soglia, diviene dispersione energetica e stress.
  3. esistono tre modalità di praticare la mindfulness: informale (nei tempi morti della vita quotidiana, integrandola ad altri gesti quotidiani come mangiare o camminare), formale (con sessioni quotidiane strutturate) e attraverso esperienze di ritiro (per esempio i ritiri “in silenzio”, della durata di 7 giorni)
  4. uno degli obiettivi della pratica di mindfulness, è la dis-identificazione dal proprio vissuto: dis-identificazione quindi dai proprio pensieri (io non sono il mio pensiero ossessivo) e dalle proprie emozioni (io non sono questa rabbia che sento); per favorire questo processo, vengono usati degli esercizi di body-scan (scandagliare il proprio corpo con l’attenzione) e di “nomenclatura” emotiva (come una sorta di affect labeling, di cui abbiamo qui già scritto)
  5. la pratica della mindfulness va a braccetto con l’ACT – Acceptance and Commitment Therapy; entrambe queste pratiche tendono a portare l’individuo a sviluppare compassione per sé stesso (per esempio nella depressione, in cui spesso troviamo un dialogo interno auto-critico molto violento)

Siegel, in questo libro, esplora diversi ambiti di sofferenza, dall’ansia/paura, alla depressione clinica, alle separazioni difficili. L’intero volume è pieno di esercizi da svolgere in modo autonomo, anche in solitaria. Il punto centrale del volume, è un cambio di prospettiva a riguardo dei sintomi: la mindfulness non insegna tanto a risolverli, quanto ad attraversarli/accettarli (per questo viene spesso usata nei casi di disturbo ossessivo-compulsivo).

Occorre ricordare tuttavia che la mindfulness andrebbe appresa sul campo, facendola, magari nel contesto di un corso dal vivo; con l’ausilio di un istruttore, l’apprendimento risulterebbe più duraturo e “incarnato”. Tuttavia, “Qui e ora” di Ronald Siegel rappresenta una potenzialmente perfetta premessa teorica alla pratica.

Qui per il libro su Amazon.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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4 January 2022

La Supervisione strategica nei contesti clinici (Il lavoro di gruppo con i professionisti della salute e la soluzione dei problemi nella clinica)

di Andrea Vallarino

PREMESSA: questo articolo fa parte di un volume di recente pubblicazione, che raccoglie impressioni e contributi inerenti il pensiero e la psicoterapia strategica. Il volume si intitola Il Pensiero Strategico, ed è qui reperibile

Da alcuni anni in Liguria, in via sperimentale, ho allargato la Supervisione, oltre agli Specialisti in Psicoterapia Breve Strategica ed agli Allievi della Scuola di Arezzo, anche ad altri professionisti sanitari: medici, pediatri, psichiatri, psicologi di altri indirizzi, infermieri; ovviamente con l’unica clausola di aderire ad un concetto di supervisione e formazione secondo il modello strategico. Ne è nato un lavoro di gruppo molto interessante, che si è anche rivelato un ottimo contesto di ricerca. Nel tempo si sono alternati nel gruppo Medici di Medicina Generale, parte dell’equipe del Sert della Asl 3 genovese, docenti della Facoltà di Medicina… Un crogiuolo di linguaggi differenti, dove il Neurologo parlava di recettori cerebrali, il Gastroenterologo di colon irritabile, il Terapeuta strategico di Sistema Percettivo Reattivo, il Responsabile del Sert di intossicazioni cerebrali.

Laddove linguaggi differenti creano realtà differenti, è stato un modo per allargare le conoscenze ed i punti di vista. Da alcuni degli intervenuti c’è stato davvero da imparare. Ovviamente, a seconda di chi interveniva, noi strategici abbiamo saputo adottare la relazione più opportuna. É indubbio che al neurologo quando parla di neuroscienze si debba riconoscere una posizione dominante, quando il confronto era su temi di psicoterapia gli si chiedeva la disponibilità all’ascolto, talvolta si entrava anche in simmetria, confrontando pareri differenti. Difficile, ma affascinante gestire un gruppo di questo tipo. Il supervisore deve fare da interprete, quando necessario, da moderatore, da attivatore se nasce un forzato conformismo. Saper anche tacere quando gli altri sanno le cose bene o meglio di te, senza personalismi. La one up position deve essere riservata al modello strategico; il supervisore diventa colui che nella varietà degli approcci, deve mantenere il rigore scientifico e la coerenza del modello evitando di cadere nell’eclettismo, che rappresenta la morte per “asfissia logica” della psicologia. Una buona scuola di elasticità mentale ed un buon modo per diffondere il virus strategico. Tra i frutti di questo lavoro una richiesta di partecipazione ad uno studio sperimentale da parte del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Genova ed una richiesta di collaborazione per un lavoro di gruppo sulla dieta paradossale con pazienti diabetici nel principale Ospedale Genovese; anche collaborazioni e pubblicazioni sulla dietetica in ambito ostetrico e ginecologico.

In questo senso la supervisione è stata definita strategica a più livelli.

Innanzitutto per l’applicazione alla soluzione dei vari casi clinici presentati dai partecipanti del problem solving strategico, con i suoi sette passi:

  1. la definizione del problema,
  2. la definizione dell’obiettivo,
  3. l’analisi delle tentate soluzioni,
    la ricerca di soluzioni alternative attraverso
  4. il come peggiorare,
  5. lo scenario oltre il problema,
  6. la tecnica dello scalatore,
  7. l’aggiustare progressivamente il tiro fino alla risoluzione del problema o al raggiungimento dell’obiettivo.

Strategica per aver divulgato il modello e promosso l’affermazione e la conoscenza dei nostri professionisti anche in ambito universitario ed ospedaliero, avvicinando la figura dello psicologo al medico.
Strategica, infine, perché sta permettendo di creare un gruppo di lavoro in ambito locale tra i professionisti liguri della strategica, che personalmente ritengo il vero valore aggiunto della supervisione, superando personalismi e garantendo una collaborazione competitiva tra di noi. Collaborazione a pari livello anche con i più “giovani” per formazione; competizione nel volersi migliorare nel confronto con quelli più esperti tra di noi. Competizione che deve sempre rimanere sul livello dei contenuti, e non della relazione. Come bene descritto nella Pragmatica della comunicazione umana, una sana comunicazione deve prevedere che in primo piano stiano i contenuti e la relazione debba rimanere sullo sfondo; viceversa è patologica quella comunicazione che strumentalizza i contenuti per regolare i conti a livello relazionale. In questo devo dare atto ai nostri colleghi medici di aver contribuito non poco alla creazione di un buon spirito di gruppo.
E quanto sia importante la comunicazione tra professionisti lo avevo già riscontrato da studente di Medicina quando andavo nei vari reparti per annusare l’aria e farmi un’idea di quello che avrei voluto fare da grande. In quei reparti dove c’era un buon clima tra colleghi, anche i pazienti si sentivano beneficiati, rispondendo meglio alle terapie; viceversa, se c’era un brutto clima, i pazienti ne venivano investiti negativamente anche sul piano prognostico.

In un recente libro, Fabrizio Benedetti, neurofisiologo dell’Università di Torino, ha stabilito che le parole usano gli stessi recettori cerebrali dei farmaci. Ha concluso però che siccome l’umanità ha inventato prima i linguaggi degli psicofarmaci, sono i farmaci ad usare gli stessi recettori delle parole. Le buone parole influenzano la secrezione di neurotrasmettitori, favorendo anche da un punto di vista organico processi di guarigione. Diventa quindi cruciale promuovere buone interazioni tra di noi professionisti ed una sana comunicazione che favorendo il buon spirito del terapeuta influenzi a cascata i processi di guarigione dei pazienti; soprattutto in questo momento storico dove si ha un incremento delle patologie più importanti come i disturbi di personalità e nella terapia è sempre più determinante la figura del terapeuta, con il suo equilibrio psicologico, rispetto alla tecnologia psicoterapeutica.
Gregory Bateson lamentava come nella relazione terapeutica, l’accento fosse posto esclusivamente sul paziente e che la psicologia si fosse poco occupata dell’altra sponda della relazione: il terapeuta. Per una volta, invece che occuparci solo dei pazienti, ci siamo occupati anche un po’ di noi in accordo con quanto afferma il Dott. Hunter Doherty “Patch” Adams: “… Per noi guarire non è solo prescrivere medicine e terapie, ma lavorare insieme condividendo tutto in uno spirito di gioia e cooperazione“.

Qui per la pagina di vendita del libro.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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14 July 2021

“IL PICCOLO PARANOICO” DI BERNARDO PAOLI. PARANOIA, AMBIVALENZA E MODELLO STRATEGICO

di Raffaele Avico

Il libriccino Il piccolo paranoico di Bernardo Paoli ci fa entrare nel vivo del lavoro di uno psicoterapeuta breve strategico, con un paziente in età tardo-adolescenziale alla prese con una visione persecutoria dell’esistenza.

Il libro è molto scorrevole e agile alla lettura, in quanto corto e strutturato come un dialogo continuo, da cui il lettore può cogliere alcune strategie di psicoterapia breve mutuate dall’approccio dell’autore. Troviamo per esempio:

  • la prescrizione del sintomo come tecnica paradossale, attraverso il quale il “piccolo paranoico” cercherà conferme ai suoi pensieri peggiori, non trovandoli e perciò smontandoli usando un metodo empirico
  • l’uso delle “lettere di rabbia” come strumento di evacuazione della rabbia indotta da eventi relazionali avversi, a cui dovrà alternare “lettere d’amore” (verso la stessa ragazza) quando la rabbia, decaduta, avrà lasciato posto a sentimenti di abbandono e amore inutilizzato
  • la “congiura del silenzio” come strumento atto ad arginare il “contagio” della paranoia, e ad evitare che la rete sociale intorno al paziente formi una rappresentazione di lui troppo problematica, il che produrrebbe solamente un acuirsi del sintomo
  • la “fiducia strategica” come prescrizione paradossale data al paziente, chiedendogli di fare “come se” gli altri fossero ben disposti verso di lui, interrompendo in questo modo i “cicli interpersonali” problematici della paranoia

Al di là degli strumenti strategici messi in atto dal terapeuta nel corso della lettura (il libro è strutturato come un unico lungo dialogo terapeutico), troviamo alcuni spunti interessanti sul lavoro con la paranoia, che è un tema ostico su cui pochi si avventurano (data la complessità della sua trattazione):

  • la presenza di “premesse sbagliate”, schemi mentali troppo rigidi alla base di alcune risposte psicopatologiche (per esempio nel punto in cui il paziente si lamenta di un comportamento scorretto di un vicino di casa assumendo che “visto che la legge deve essere rispettata, allora tutti lo faranno”)
  • il lavoro atto a smontare l’egocentrismo del paziente, che di fatto si pone in una posizione relazionale regressiva, come se le persone dovessero “volergli bene per partito preso” e come se il bene degli altri non dovesse essere qualcosa di guadagnato. Per lavorare su questo punto il terapeuta usa la storia della “volpe e l’uva”, invitando il paziente a “imparare a saltare” senza rimanere affossato nella posizione mentale dell’”uva è acerba” visto che non può raggiungerla
  • la paranoia sembra spesso connessa -in superficie- a un aspetto di competizione sociale/questioni di “rango”, per cui a volte sembra risolversi quando il paziente senta di aver trovato “rivalsa” sull’altro o di averlo/a -meglio ancora- dominato/a.
  • Il lavoro fatto insieme al paziente sul tentare di meglio esplicitare i vissuti durante momenti di particolare gelosia: il terapeuta intende spingere il paziente a scoprirsi di più con la partner, in modo che risulti più semplice essere “letto” dalla compagna, in questo modo migliorando lo stile comunicativo

La paranoia, in generale, è un oggetto complessissimo: capirne i meccanismi di funzionamento vorrebbe dire aver disvelato uno dei misteri della psicopatologia umana. Se consideriamo alcune letture che sono state date, da scuole diverse, alla paranoia, troviamo:

  • la paranoia secondo una prospettiva psicodinamica classica, è aggressività proiettata all’esterno; uno dei concetti forse più utili per comprendere come possa funzionare l’ha tentato Melanie Klein parlando delle due posizioni schizoparanoide e depressiva, ragionando appunto su come in una certa fase della vita del bambino l’aggressività venga proiettata all’esterno, e i “mostri” siano sempre collocati all’esterno da sé: solo crescendo il bambino capirà che il mostro è “anche” interiore, e in una certo senso abita in lui/lei. In questo stato mentale (schizo-paranoide appunto), il mondo si struttura a partire da una polarizzazione radicale, con l’individuo innocente immerso in un mondo (potenzialmente) malvagio
  • la psicoterapia cognitiva (CBT) accampa teorie esplicative per lo più deboli, tentando di lavorare con il soggetto su pensiero e meta-pensiero, e quando va bene prendendo a prestito concetti di derivazione psicoanalitica relativamente all’introiezione della responsabilità e dell’ambivalenza. Spesso i protocolli CBT tentano di far sì che il soggetto prenda su di sé la responsabilità di alcuni accadimenti, senza esternalizzare costantemente la colpa – di fatto spingendolo verso la posizione depressiva teorizzata dalla prima citata Melanie Klein.
    Chi lavori con pazienti persecutori usando la CBT, si rende presto conto di come anche capendo i meccanismi e tentando di lavorare sul pensiero o sulla metacognizione del paziente, e anche quando il paziente stesso diventi consapevole razionalmente di tutto ciò, questo non sarà sufficiente a far decadere il sintomo, il che ci dice di come la CBT -per come è strutturata al momento- sia sostanzialmente inefficace con questo tipo di problematica (o almeno non sufficiente). Si ha sempre l’impressione che non vi sia una reale teoria esplicativa dietro, un reale modello del problema e che non sia sufficiente, all’americana, correggere il pensiero o applicare il “fake it ‘til you become it”, comportarsi cioè “come se” il problema fosse già risolto, al fine di elicitare nell’ambiente esterno una reazione che poi abbia un impatto sul singolo -che si rivela una modalità per lo più inutile, inconsistente soprattutto con pazienti medio-gravi. Per un approfondimento sulle teorie riguardanti la paranoia secondo il modello cognitivista, rimandiamo a questa pagina dell’ottima Tages Onlus. Interessante qui notare la distinzione tra due sottotipi di paranoia: la personalità “povero me” e la personalità “cattivo me”, per cui nel primo caso il paziente vive immerso da “buono” in un mondo che sente “cattivo” (c’è una totale deresponsabilizzazione), nel secondo caso invece il paziente sente la propria cattiveria degna di continue punizioni da parte dell’esterno (e qui invece c’è un senso di colpa intrinseco).
  • Massimo Recalcati contrappone la paranoia all’ambivalenza:
    “La clinica psicoanalitica delle psicosi di Jacques Lacan ha eletto la paranoia come sua figura fondamentale [..] Lacan vede nella paranoia – sempre sulla scia di Freud – un rigetto radicale del soggetto dell’inconscio, una sua negazione sistematica, un atteggiamento di non-credenza, di Un-glauben: nella paranoia non c’è divisione soggettiva, non c’è inconscio, ma solo Io […] La non-credenza paranoica indica che il soggetto non vuole credere alla propria colpa e alla propria responsabilità; egli si presenta solo come la vittima di un Altro malvagio; la sua innocenza è proporzionale alla colpevolezza irredimibile dell’Altro […] Per questa ragione la difesa paranoica si oppone a ogni esperienza possibile dell’ambivalenza; il suo punto fermo – la sua credenza fondamentale – è nell’Io, nell’identità monolitica dell’Io, nell’Io identico a se stesso […] In questo la paranoia appare a Lacan come la vera follia dell’uomo: l’errore patologico del paranoico è quello di credersi “quel che è”, di credersi un “Io”, di erigere il monumento ideale alla propria personalità rifiutando di riconoscere il kakon che lo abita.”
    La lettura del capitolo “Paranoia e ambivalenza” del libro L’uomo senza inconscio ci può dare in questo senso alcune occasioni di riflessione sulla scia di queste parole di Recalcati: vi si spiega in modo molto efficace, nella stile di Recalcati, quello che la psicoanalisi storicamente già disse con Freud sulla paranoia: si tratterebbe cioè della necessità, per il soggetto, di proiettare all’esterno una quota di aggressività -con il fine di salvarsi da una frammentazione identitaria, e di “compattarsi” contro l’altro. In fondo, la paranoia avrebbe in questo senso una funzione di rinforzo dell’Io, compatto contro il nemico “esterno”. Inoltre, permetterebbe all’individuo di schermarsi contro aree di insensatezza esterne a sè, conferendo a “tutto” un significato (“tutto è segno“). Recalcati osserva come il soggetto, in questo modo, neghi l’ambivalenza costituente di ogni affetto umano; in questo senso, il lavoro della psicoterapia è un lavoro apposto al “lavoro della paranoia”, essendo che la psicoanalisi tenta di portare il “terreno di gioco” dei problemi del paziente a un livello interiore, intra-psichico. In questa visione, la paranoia è prima di tutto interna, la scissione e la polarizzazione si compie prima di tutto interiormente: solo in un secondo momento verrà proiettata all’esterno. Questo capitolo (abbiamo intervistato qui Nicolò Terminio su questo libro) rappresenta una lettura più tecnica ma profonda del problema della paranoia, attraverso il modello esplicativo psicoanalitico.
  • assumere alcune sostanze rende gli individui persecutori, questo è un elemento molto osservato in clinica. Assumere per esempio cannabis e soprattutto cocaina/crack, aumenta il senso di persecutorietà. La cocaina aumenta in modo spropositato la quantità di dopamina negli spazi intersinaptici del cervello, procurando diversi sintomi in acuto, tra cui -spesso- paranoia fortissima e non-criticabile. La dopamina porta l’individuo a cambiare assetto mentale, aumentando in modo estremo l’“affordance” della realtà esterna, rendendolo cioè più volitivo, più “ingaggiato” dalla realtà circostante: in una parola, lo porta al massimo del suo livello di agonismo, trasformando la sua visione della realtà in quella di un “guerriero” immerso in uno scenario di “conflitto”. Abbiamo qui scritto relativamente alla teoria della salienza aberrante per la psicosi, un modello di lettura di alcune forme di psicosi correlato a un livello sproporzionato di dopamina. In un certo senso capire l’effetto della cocaina sul cervello potrebbe illuminarci su ciò che determina l’insorgenza di un vissuto persecutorio, aiutandoci a meglio chiarire la questione su quanto la paranoia sia o meno una questione “solamente” biologica.

In generale, Il Piccolo Paranoico tenta di fornire delle indicazioni pratiche per un terapeuta o un paziente che si scontri con il problema della paranoia, usando modalità comportamentali/prescrittive mutuate dal modello strategico per la paranoia, a sua volta influenzato dal modello psicoanalitico relativo a questo problema; l’obiettivo sembra quello di forzare il paziente a raggiungere l’ambivalenza, quell’”impasto” tra amore e odio che, riprendendo Recalcati, “emerge come irriducibile costringendo a un collasso critico ogni concezione meramente separativa degli opposti”.

Lo stile terapeutico è prescrittivo, quando non “espositivo” (il terapeuta indica al paziente alcune modalità di ragionamento e di comportamento che, esponendolo a una situazione per lui nuova, creeranno le condizioni affinché il suo sistema di interazione con la realtà cambi). Da leggere in quanto ricco di spunti, e particolarmente adatto quando si abbia a che fare con una vissuto paranoico “ad alto funzionamento”, con grandi capacità di lavorare su di sé da parte di un paziente “leggero”.

Qui il link Amazon.


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10 December 2020

CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO

di Raffaele Avico

Il libro CRONOFAGIA di Davide Mazzocco è una lettura molto corta, ma molto istruttiva e densa di contenuti. L’approccio ideologico è chiaro: marxista e anti-capitalista, ma non per forza estremizzato o radicale. La tesi da cui parte l’autore è che il neoliberismo di cui la nostra società è impregnata, abbia raggiunto quote di pervicacia e presenza nelle nostre vite tali, da arrivare a erodere anche gli ultimi avamposti di spazio che, fino a poco tempo fa, sembravano esserci rimasti: il tempo libero e il sonno.

Sul problema del tempo libero speso a pubblicare contenuti sui social, di fatto lavorando per le piattaforme -nell’idea però di stare lavorando per sè e il proprio “progetto imprenditoriale”-, oppure sul problema del tempo impiegato a rispondere a mail e chiamate di lavoro anche al di fuori dei confini temporali lavorativi canonici, ne hanno scritto in diversi (tra cui Silvio Lorusso in Entreprecariat).

In Cronofagia, l’autore lo esprime in modo molto chiaro: il “produrre”, e in generale il consumare non possono fermarsi se vogliamo che la macchina (il “Leviatano che si nutre di dati”) continui a reggere sul suo peso. Le leggi non scritte del libero mercato, i suoi diktat, dal suo punto di vista sarebbero introiettati ora come mai furono in passato. Perchè introiettati? L’autore osserva come l’idea -meglio, l’imperativo- di produrre e mantenersi proattivi in senso auto-imprenditoriale, abbia così tanto scavato a fondo nel nostro terreno culturale, da essere stato introiettato, avendo in qualche modo intaccato il nostro Super io.

Il risultato è, nella sua visione, un senso latente di colpa per qualunque forma di spreco di tempo: nei tempi morti, appunto, saremmo forzati a “produrre contenuti”, a osservare contenuti prodotti da altri sulle piattaforme social (vero scempio di cronofagia, secondo Mazzocco), sentendoci in questo modo “attivi” in senso (auto)imprenditoriale -a scapito tuttavia di immaginazione, rapporti reali, creatività e -in generale- libere associazioni e pensiero.

Questa lettura del comportamento umano e del suo rapporto con il sistema economico in cui è immerso, è una lettura che potremmo definire, in qualche modo, paranoidea. Presuppone cioè che esista un’entità, una macchina, un “sistema” pensato per rubarci tempo ed attenzione. Sposare una visione di questo tipo significa immaginare l’uomo come facile preda di impulsi basici, condizionabile e soggetto a manipolazioni mediatiche in grado di creare dipendenza; i detrattori di una visione di questo tipo, oppongono in ultima istanza la presenza di un libero arbitrio che ci renderebbe sempre liberi di scegliere. Che posizione prendere? The Social Dilemma ha messo in luce questa doppia lettura del fenomeno, arrivando a conclusioni radicali, evidenziando il rischio di un furto non solo di dati, ma di quote di attenzione e, anche qui, di tempo. Lo abbiamo qui recensito.

L’autore chiude il suo breve libro immaginando forme diverse, nuove e più sostenibili, di vita (dall’economia circolare, al riuso, al DIY, alle banche del tempo, al tema della semplicità volontaria -su questo, si veda il progetto Smettere di lavorare).

Cosa trarre, in senso psicologico, da questa lettura? Osserviamo alcune questioni:

  1. la psicoterapia sempre più dovrà occuparsi, anche, di questi temi. Stando alle premesse prima delineate, occorrerà una visione di insieme che contempli la quotidiana lotta del cittadino contro la tendenza della macchina a erodere il suo tempo libero mentale. La moda della mindfulness ci racconta del bisogno di emanciparsi dal sistema da parte di individui “stanchi”, prostrati da questa battaglia. Uno psicoterapueta dovrà quindi spingere affinchè il suo paziente si legittimi a “non fare”: la battaglia si giocherà su un terreno etico, super-egoico, completamente interiore
  2. pur non costituendosi in forme psicopatologiche conclamate, l’esaurimento derivante da uno stile di vita da prosumer (cioè da produttore e consumatore insieme di contenuti in rete, lavoratore non pagato), si affaccerà sempre più di frequente allo studio di un terapeuta: il problema sarà capire come tornare a momenti di “ristoro”, di riposo energizzante; il tema sarà dunque lo “stile di vita”, in generale; completamente inutile, in questa battaglia, il ricorso a farmaci
  3. il problema dell’igiene del sonno è già centrale: potrebbe diventarlo sempre di più; l’uso di schermi, forme di stress negativo indotte da un giornalismo sensazionalistico a scopo di lucro, l’attrazione invincibile per le piattaforme, l’assenza di contatto con la natura, potrebbero ostacolare ulteriormente il riposo notturno
  4. parlare di salute solamente individuale, sarà una coperta sempre più corta: si impongono ragionamenti più ampi, che riguardino la salute collettiva
  5. centrale diventerà il discorso del management energetico. Il ricorso a metodiche di rilassamento che potremmo definire bottom up, come la mindfuness, lo Yoga, l’attività fisica usate come fonte di ristoro energetico, devono essere considerate come parte del problema: nient’altro che tamponi posti ad arginare un’emorragia incontenibile. Il vero problema, la sua radice, rimane l’iperattività, la saturazione dello spazio, la cronofagia, l’adesione “interiore” ai diktat del sistema capitalistico. Il pretendere meno -invece che produrre di più- potrà condurre a forme di vita svincolata da logiche di produzione obbligata, con più tempo vuoto, più relazioni e in generale più..pensiero.

In linea con questi ragionamenti, l’autore propone e consiglia il film distopico In Time (Netflix).


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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
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  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
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A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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