di Raffaele Avico
Questo libro esce tradotto in italiano grazie al lavoro di Matteo Biaggini, afferente al gruppo di lavoro della struttura terapeutica Il Porto di Moncalieri (TO). Il Porto di Moncalieri da sempre usa riferimenti stranieri per ispirare il lavoro che in esso, attraverso il lavoro dei suoi curanti, conduce: in particolare, i due riferimenti sono il Cassel Hospital di Londra, diretto a suo tempo da R.D. Hinshelwood, e l’Austen Rigg Center, nello stato del Massachusetts, probabilmente il luogo con la nomea di “migliore” struttura al mondo per pazienti cosiddetti “resistenti al trattamento”, “borderline gravi”, “doppia diagnosi”, ovvero pazienti che soffrono di problematiche non strettamente psicotiche ma portatori di complessi quadri psicopatologici in cui convergono disturbi di personalità gravi, aspetti o tratti psicotici in seno a dipendenze plurime e protratte e gravi difficoltà di reinserimento per via di disturbi da “esternalizazione” (problemi nella gestione dell’impulsività, antisocialità, autolesionismo).
Il libro è stato scritto dagli operatori della struttura e da alcuni studiosi orbitanti intorno allo staff che vi opera: la prefazione è di Otto Kernberg (ne abbiamo scritto qui), probabilmente il più importante studioso vivente del cosiddetto disturbo di personalità borderline, così come dei disturbi “narcisistici”. In Italiano, invece, la prefazione è affidata ad Antonello Correale, che si spende in un ragionamento inerente i concetti che fanno da cifra a tutto il libro: la questione della democrazia in comunità (intesa come micro-società, con i suoi rischi di deriva autoritaria e lo stile di “governo” di questa stessa società), la questione della responsabilizzazione degli utenti, la leadership e la questione della “ripetizione” (centrale in ambito psicoanalitico, legata alla questione del ritorno del simile, la “coazione a ripetere” gli stessi tragitti di pensiero, le stesse dinamiche intra e interpsichiche).
Rappresenta insomma, questo volume, un prezioso contributo per chiunque voglia approfondire da un punto di vista psicoanalitico ciò che accade in una struttura terapeutica (nel suo esempio probabilmente più autorevole ed alto).
Uno dei contributi portati, è il secondo capitolo, intitolato Dall’Acting out all’Enactment nei Disturbi Resistenti al Trattamento (di M. Sagman Kayatekin, MD, e Eric M. Plakun, MD).
Questo capitolo vuole porre in luce una questione importante laddove il lavoro si svolga con pazienti con difficoltà di controllo dell’impulsività, e che eccedano nell’”acting out” arrivando, come spesso accade nei quadri complessi di personalità, a vere e proprie rotture (sia di oggetti, che di relazioni -con operatori, curanti, compagni di percorso, etc.). L’acting out è il ricorso all’azione (il “passaggio all’atto”) come momento ultimo di un percorso di tentata elaborazione di vissuti emotivi, che poi trova uno sfogo solo attraverso l’agire corporeo. Esempi di acting out sono, per esempio, rompere oggetti, lanciare oggetti, usare una sostanza stupefacente, il suicidio, l’attacco fisico verso qualcuno o qualcosa, l’autolesionismo (tagliarsi, piantarsi oggetti nella carne, strapparsi i capelli), oppure manifestare condotte anoressiche.
Il punto di vista degli autori, memori di un lavoro pluriennale con pazienti “facili” al passaggio all’atto in ragione di una veemenza eccessiva di emozioni mal tollerate e non elaborate, è che occorre ricercare all’interno di un acting-out, la presenza di un “enactment” (che potrebbe essere grossonalamente tradotto come “riattualizzazione”). Ovvero: dal punto di vista degli autori, dietro ogni acting out, è presente un enactment, che porta il movente del passaggio all’azione da un movente “intra” a un movente “interpsichico” (dietro un passaggio all’atto, in altre parole, esisterebbe da questo punto di vista un significato primariamente relazionale, che ha a che fare con il ritorno di dinamiche famigliari, o in ogni caso relazionali, riattualizzate sulla scena del lavoro con i curanti). In altre parole, è necessario che gli operatori di comunità, quando abbiano a che fare con pazienti complessi e inclini a proiettare parti di sé sugli operatori ed a interpretare in modo altamente soggettivo ciò che succede in struttura, eseguano un paziente lavoro di analisi di transfert e controtransfert così da comprendere in che modo, un certo paziente, abbia potuto esprimere un enactment camuffato da acting out (per analizzare gli enactments – in altri termini per sbrogliarne il significato – “è auspicabile riuscire a stare in uno stato di sopportazione“):
“quella che può sembrare una condotta avversa alla terapia, messa in atto da un paziente, è generalmente co-creata da terapeuta e paziente. In altre parole, quello che potrebbe essere compreso come un acting out in termini mono-personali è di solito un enactment che, in termini bi-personali, vede coinvolto il terapeuta come uno degli attori principali.”
Focalizzando la questione al lavoro della struttura in cui lavorano, gli autori portano infine due casi di pazienti ospitati presso l’Austen Riggs Center.
Concludendo l’articolo, gli autori sottolineano che:
- gli enactment appaiono inevitabili, fanno parte del lavoro con pazienti gravi di questo tipo
- prima di un enactment, compare un acting out: sarà compito degli operatori vedere la riattualizzazione di un conflitto interpersonale (in ragione di quello che la Crittenden chiama “rappresentazione disposizionale”, cioè un automatismo interpersonale -per esempio maturare rabbia verso le figure autorevoli quando si proviene da una storia conflittuale con il proprio padre) dietro il semplice “agito”
- per sbrogliare un enactment, occorre lavorarci in modo retroattivo. Occorre in altre parole ragionarci con il paziente in uno stato di quiete, in una posizione di possibile analisi di ciò che “sta dietro” l’acting out in senso relazionale
- per evitare, da terapeuti, di cadere nella stessa trappola (produrre acting out che in realtà hanno significato di enactment), è opportuno che gli operatori arrivino da un percorso di auto-conoscenza e da un’analisi approfondita, così da possedere sufficienti risorse utili a meglio analizzare le “questioni” di transfert e controtranfert