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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

11 April 2022

Considerazioni sul trattamento di bambini e adolescenti traumatizzati

di Davide Boraso


PREMESSA: questo è un estratto dal libro PTSD: che fare?

Il trattamento di bambini o adolescenti traumatizzati deve tener conto di altri fattori oltre che quelli citati in relazione al lavoro con gli adulti.

Gli interventi rivolti a questo tipo di utenza devono porsi quattro obiettivi/punti di arrivo centrali:

  1. la sicurezza dell’ambiente di vita abituale del bambino (casa, scuola e ambiente sociale)
  2. lo sviluppo delle competenze nella regolazione emotiva e nel funzionamento interpersonale
  3. l’elaborazione del significato dell’esperienza traumatica in modo che il giovane possa assumere prospettive più positive e adattive, aumentando la fiducia verso il futuro
  4. il rafforzamento delle capacità di resilienza e l’allargamento della propria rete di “sicurezza” sociale

Il problema principale, per questi pazienti, è rappresentato dalla mancanza di sicurezza, e molti sforzi sono impiegati nel sopravvivere a un ambiente continuamente traumatizzante.

La prima fase del trattamento deve concentrarsi quindi sulla creazione di un sistema di cura e di sicurezza nel quale il bambino e la famiglia possano iniziare a sviluppare benessere. Spesso, questo significa per il clinico collaborare con i servizi di protezione per l’infanzia e il sistema giudiziario, così da promuovere un ambiente di vita più sicuro. È importante coinvolgere anche la famiglia e la scuola così come altre figure di supporto importanti, al fine di creare una rete che crei senso di protezione nell’ambiente di vita.

Il terapeuta dovrà quindi concentrarsi sulla capacità del bambino di sperimentare sicurezza in ogni ambiente, a partire dal setting terapeutico. È probabile che all’aumentare del senso di sicurezza diminuiscano anche i disturbi comportamentali del bambino.

In seconda istanza occorre concentrarsi sulla capacità di auto- regolazione: non avendo avuto la possibilità di sperimentare una relazione con attaccamento sicuro, il bambino cresciuto nel contesto di uno “sviluppo traumatico”, non ha potuto imparare a co-regolare il proprio stato emotivo con il caregiver. Tali abilità dovranno essere sviluppate nel setting terapeutico e risultano fondamentali gli interventi diretti alla stabilizzazione dei sintomi.

Raggiunta una sufficiente competenza sulla regolazione emotiva è possibile iniziare il lavoro sui ricordi traumatici. È possibile che in alcuni casi la fase di lavoro sulla regolazione emotiva sia lunga e complessa dato che, in situazioni estremamente traumatiche, possono non essere presenti ricordi legati a senso di sicurezza e connessione amorevole con l’altro; in questi casi i tentativi di installare risorse o utilizzare strategie di cambiamento potrebbero inizialmente rivelarsi fallimentari.

È quindi necessario, in questi casi, aiutare il bambino a sperimentare senso di sicurezza e di connessione (senza paura) all’interno della relazione terapeutica, con eventuali interventi esperienziali.

Successivamente, sarà possibile iniziare il trattamento psicosociale per il recupero dei danni causati dall’abuso e riabilitare le abilità perdute o mai formatesi. Lo sviluppo di queste abilità di base, come la capacità di riconoscere i propri sentimenti e costruire relazioni interpersonali, avvengono nel contesto terapeutico e con il coinvolgimento di “tutti” i caregiver affinché questi possano continuare il rinforzo del lavoro anche fuori del setting ambulatoriale. L’obiettivo finale è la trasmissione e il mantenimento di tali abilità nel quotidiano.

Questo sforzo finale può avere il suo centro nel trattamento, ma necessita della collaborazione della famiglia e dei servizi sociali presenti sul territorio.

Anche ai bambini, come per gli adulti, è fondamentale fornire una buona psicoeducazione sul funzionamento psichico, sul trauma e sui suoi effetti. Ciò restituisce chiavi di lettura corrette rispetto ad alcuni comportamenti, riduce il senso di colpa e di indegnità rispetto a reazioni automatiche che non si sanno controllare e stimola l’auto osservazione.

Con i bambini occorrono cautele nel fare comunicazioni riguardanti il trauma; tra i modi più utilizzati e sicuri vi sono le metafore: esse permettono di spiegare, ma allo stesso tempo di prendere una distanza da situazioni che altrimenti potrebbero risultare soverchianti.

Esiste una grande quantità di metafore che possono essere utilizzare o costruite per comunicare sul trauma a seconda dell’età e del livello intellettivo del bambino; alcune interessanti riportate da Puliatti (2017, La psicotraumatologia nella pratica clinica –qui alcuni spunti da questo libro) sono:

  • l’analogia della perla: si può iniziare domandando se si sa cos’è una perla. Si può utilizzare un’immagine a supporto spiegando che la creazione di una perla è un evento straordinario. La vita di una perla inizia con un oggetto estraneo che entra nell’ostrica. Per proteggersi dall’irritazione causata dall’intruso, l’ostrica produce una sostanza. Col tempo, l’oggetto estraneo verrà completamente rinchiuso da diversi strati di quella sostanza protettiva prodotta dall’ostrica. Il risultato è una meravigliosa perla, che rappresenta il sistema protettivo e difensivo dell’ostrica. Quando si apre l’ostrica si trova la meravigliosa perla: “aprire il guscio è importante così possiamo trovare la tua perla, quella che hai costruito per difenderti dalle brutte cose che ti sono accadute”
  • l’analogia dell’albero: quando un albero è avvolto dall’oscurità o i rami sono danneggiati, esso continua a cercare la luce. La perdita di un ramo fa sì che l’albero si trasformi e cresca in modi eccezionali, che gli danno una forma unica. Quando attraversiamo situazioni difficili nella vita, anche noi dobbiamo allungarci per ritrovare luce e, con essa, un’opportunità per crescere e trasformarci. “Il mio lavoro come aiutante, è quello di supportarti nel trovare ancora la luce nella tua vita. Mentre cerchi la luce, si svilupperanno e cresceranno in te qualità speciali, rendendoti la persona unica che sei”
  • l’analogia della borsa delle cose mescolate: quando ci accadono cose brutte, proviamo molti sentimenti e pensieri confusi. Non ci sentiamo bene nelle nostre menti, corpi e cuori. È come portare delle borse con cose mescolate e alla rinfusa. Quando siamo così occupati a portare tutte queste borse, non abbiamo spazio nei nostri cuori, nelle nostre menti e nei nostri corpi, per i sentimenti e i pensieri buoni. Se lavoriamo per rendere queste borse più piccole o addirittura per liberarcene, avremo lo spazio per i sentimenti e i pensieri buoni.

Questi sono solo alcuni degli esempi che si possono fare per spiegare ai bambini come il trauma può impattare sulla loro vita: in alternativa si possono utilizzare concetti più “scientifici” come la finestra di tolleranza, opportunamente spiegato a seconda dell’età e delle abilità cognitive del bambino.

PS: questo è un estratto dal libro PTSD: che fare?


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / psicologia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD

3 February 2022

INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD

di Raffaele Avico

Un evento traumatico pone l’individuo nella situazione di confrontarsi quotidianamente con il suo ricordo; la mente si impegna nel gestire le recrudescenze della sindrome post-traumatica, il rivivere il momento del trauma, l’oscillare dello stato di allerta, che come sappiamo percorre un andamento a cascata, o a dente di sega.

Si parla spesso di cognizione negativa, di pensieri negativi rivolti a sé, a seguito di un trauma. Su questo blog abbiamo intervistato Rossella Valdrè (link) nel tentativo di comprendere se e in che modo esista, a seguito di un evento traumatico, una tendenza a ricercarne il ricordo dentro di sé, come presi da una forza masochistica, o paradossalmente per tentare di risolvere il trauma stesso -ricercandone appunto la presenza.

Abbiamo anche osservato come il ricordo traumatico sembri riempire il vuoto mentale quando la persona sta attraversando un momento di relativa tranquillità. Come accade per una dipendenza, è come se il ricordo traumatico tendesse a riempire ogni momento di libertà sperimentato dall’individuo. Alcuni individui sembrano addirittura insospettirsi a riguardo del loro sentirsi liberi, cosa che alimenta il ritorno del pensiero, in un meccanismo mentale ossessivo, con un bisogno estremo di controllo -che in realtà produce il perdere il controllo stesso.

Un aspetto relativamente poco esplorato, è l’evento traumatico come “elemento” agonistico, in grado di produrre in chi lo subisca un sentimento di resa. Il ricordo del trauma diviene talmente pervasivo e potente da generare negli individui un senso di sconfitta, di arrendevolezza, cosa che ricade immediatamente sul corpo.

La psicoterapia sensomotoria lavora per riportare nella mente del soggetto un senso di empowerment, a partire dal corpo.

Pensiamo solamente al lavoro che viene fatto sulla postura, sulla posizione della testa, sul lavoro di rinforzo del “core” del corpo dell’individuo, cosicché questo possa recuperare, psicologicamente, un senso di potere. Sembra in altre parole che una parte del lavoro di terapia, sia restituire potere all’individuo nei confronti del “nemico” interiore -verso cui questo percepisce una sensazione di resa impotente.

Lo stesso potremmo osservarlo negli approcci al PTSD tramite lo sport. Abbiamo qui approfondito le varie ipotesi sull’approccio al PTSD tramite l’attività fisica; i punti centrali sono due:

  • lo sport, rinforzando il corpo, procura una sensazione di auto-contenimento e maggiore potere percepito a livello anche psicologico; questo aiuta il soggetto a contrastare il senso di impotenza appresa nella traumatizzazione
  • lo sport espone il soggetto a variazioni nel tono di attivazione dell’arousal, a tachicardia indotta dall’allenamento; questo rappresenta un elemento di terapia espositiva in soggetti che temono il loro stesso attivarsi: parlando in prima persona, nel momento in cui l’attività fisica sarà cessata e mi troverò in uno stato di allarme indotto dal presentarsi del ricordo traumatico, sarà per me più semplice gestire il momento dell’allarme a livello corporeo, dato che padroneggio meglio le mie stesse alterazioni. É una forma di terapia espositiva (d’altronde in questi casi si parla di fobia degli stati interni)

Spesso si ha la sensazione in questi casi che il paziente fuoriesca dalla spirale del PTSD quando acquisisca sufficiente forza mentale da gestire il confronto con il ricordo traumatico, quando senta di aver raggiunto una posizione di dominanza su questo, rendendolo non più invalidante. Pensare che il ricordo scompaia o non esista più, non è realistico; ci troviamo invece spesso a che fare con persone che a un certo punto riferiscono di sentirsi sufficientemente corazzati per affrontare il ricordo traumatico, con meno conseguenze.

In altre parole, è come se nello scontro con un’entità nei confronti della quale ci sente in una posizione sottomessa, si acquisiscono nuove risorse, e una posizione “gerarchicamente”, progressivamente superiore.

A proposito delle modalità di fronteggiamento della sindrome post-traumatica per via “bottom-up”, ovvero a partire dal corpo per andare verso i pensieri, diversi studiosi nell’ambito (tra cui Peter Levine e Pat Ogden) osservano come il trauma rimanga per così dire “memorizzato” in senso somatico all’interno del corpo, e sostengono come sia proprio attraverso questo che dovrebbe essere “dissipato”.

Usare lo sport o la psicoterapia sensomotoria, rappresentano in realtà uno stesso strumento che viene modulato in modo differente; l’idea di fondo è che esistano delle tensioni/energie/movimenti rimasti “inespressi” nel corso della traumatizzazione, che debbano essere svincolati e liberati attraverso il corpo stesso.

In un certo senso, la sindrome “post-traumatica” rappresenta una forma di apprendimento che necessita di essere disappreso; le conseguenze di questo senso di minaccia e impotenza “appresi”, li notiamo nei macro-ambiti della mente (con tutti i vari sintomi più tipici del PTSD, come la riesperienza dell’evento traumatico, le cognizioni negative e il senso di “mortificazione”, l’arousal aumentato e il senso minato di sicurezza) e del corpo (con cambio della postura, alterazioni dell’arousal con diversi effetti sul corpo, senso di accelerazione e stato protratto di allerta, tachicardie indotte dall’accesso al ricordo traumatico, reazioni “fobiche” e contratture del corpo da iperattivazione dei sistemi di difesa, disturbi gastrici da attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, etc.).

La direzione del lavoro sul trauma andrà dunque intesa come un lavoro integrato che metta insieme il lavoro di psicoterapia partendo dai contenuti di pensiero per andare sul corpo (top-down), e il lavoro sul corpo che possa impattare sullo stato mentale (bottom-up).

Peter Levine osserva come negli animali esistano dei meccanismi innati che inducono un senso di “release” del vissuto post-traumatico, per via di un tremore “neurogeno”: ne abbiamo scritto qui.

Sulla scia di osservazioni di questo tipo esiste una metodologia bottom-up di approccio a particolari condizioni psichiche (compreso il PTSD), chiamato metodo TRE, fondato sull’induzione volontaria di tremore corporeo con una funzioni di scarico corporeo. Ne parla diffusamente David Berceli in questo libro tradotto da Riccardo Cassiani Ingoni, di cui pubblichiamo di seguito un’intervista:

In questa intervista, Riccardo Cassiani Ingoni spiega il razionale del metodo TRE, allargandosi anche su aspetti laterali della questione, coerenti con linee di ricerca psicotraumatologica molto attuali; nel corso dello sviluppo, per come avviene la maturazione in senso “neuro” del bambino, in caso di trauma è maggiormente probabile che quest’ultimo utilizzi difese “dissociative” che non invece una risposta di attacco/fuga, non possedendone i mezzi. In età adulta, di fronte a uno stimolo minaccioso, sappiamo che la prima risposta a essere messa in atto è una iperattivazione, quindi una risposta di fuga e, dove questa non sia possibile, di attacco. Solo nei casi dove questa non sia possibile, si arriva a una risposta di “collasso” concomitante a una dissociazione mentale. Nei casi dunque più complessi di trauma, maturati in ambito famigliare, è necessario tenere presente come un bambino che si adatti a un contesto vissuto come traumatico opterà più frequentemente per reazioni dissociative che non per reazioni di attacco/fuga -elemento questo da tenere in considerazione quando quello stesso bambino passi a un’età più adulta, magari avendo mantenuto lo stesso “stile“ di risposta.

A proposito del metodo TRE, che prevede l’induzione di tremori fisici al fine di arrivare a uno stato di “release” di tensioni accumulate nel corpo a seguito di (anche) eventi traumatizzanti, abbiamo posto alcune domande a Riccardo.

Ecco l’intervista.

Buongiorno Riccardo, ci vuoi raccontare chi sei, qual è stato il tuo percorso di formazione e di cosa ti occupi?

Ho conseguito la laurea in Scienze Biologiche a Pisa e poi un dottorato di ricerca in neurofisiologia negli USA, dove per sei anni ho lavorato come ricercatore presso il National Institutes of Health (NINDS-NIH), uno dei principali centri statunitense di ricerca biomedica. Mi occupavo prevalentemente di progetti clinici e di ricerca nell’ambito delle malattie neurodegenerative e delle lesioni cerebrali traumatiche.

Durante il mio soggiorno statunitense, oltre al mio impegno nella ricerca di base nel campo della neuroimmunologia, ho potuto frequentare numerosi corsi di formazione nel campo delle tecniche di gestione dello stress post-traumatico con varie metodiche di medicina integrata, di riflessoterapia, di massaggio, e di bio-neurofeedback.

Successivamente sono stato impegnato nel progetto NeuroLab del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) e per cinque anni ho anche condotto a Roma una pratica privata incentrata sull’utilizzo del bio-neurofeedback e del tremore neurogeno nella preparazione atletica.

Negli USA, durante uno dei corsi da me frequentati, ho incontrato David Berceli e ho avuto modo di conoscere il suo metodo. Dal 2007, al suo fianco, il mio impegno è stato dedicato alla ideazione e alla realizzazione del programma didattico sul metodo TRE, di cui conduco laboratori pratici e corsi di formazione in numerosi paesi del mondo, generalmente nell’ambito dei percorsi formativi offerti da varie scuole di formazione, associazioni professionali ed enti per la promozione della salute e del benessere.

Mi appassiona formare i professionisti del settore, insegnando come integrare l’approccio del tremore neurogeno con le loro altre competenze specifiche. Trovo il TRE un approccio naturale alla salute, un metodo efficace, versatile e appassionante, capace di essere applicato in qualsiasi contesto e in tutti gli ambiti rivolti al benessere della persona. Ciò si sposa perfettamente con le mie altre competenze in ambito neurofisiologico e nelle terapie naturali.

Riccardo, ci vuoi raccontare brevemente il razionale che muove il metodo TRE? Molteplici studi relativi al trauma indagano la ricaduta sul corpo del trauma stesso; mi vengono in mente per esempio gli studi di Pat Ogden relativi alla psicoterapia sensomotoria, alle tendenze all’azione rimaste inespresse all’interno del corpo a seguito di un trauma. Il metodo TRE vuole indurre un tremore neurogeno, per aiutare il paziente a scaricare queste tendenze e queste tensioni intrappolate nel corpo. Ci dici qualcosa a riguardo?

Il metodo si sviluppa attraverso una serie di esercizi fisici che hanno il fine di attivare una risposta fisiologica di vibrazione muscolare. Una volta indotta, questa vibrazione tende a procedere in maniera autonoma e ad irradiarsi ai diversi distretti corporei: solitamente il tremore di prima istanza tende a manifestarsi nella zona iliaca e nelle gambe, ma successivamente l’attività muscolare involontaria si propaga anche nei distretti superiori (torace, spalle, collo, mandibola, muscoli facciali), zone nelle quali possono ristagnare le emozioni non espresse. Attraverso la vibrazione involontaria si sollecitano pertanto quelle aree di “blocco” che sono frequentemente soggette ad un controllo nervoso inconsapevole e che pertanto operano cronicamente in uno stato di iper- o ipotonicità.

Ogni individuo possiede un proprio schema corporeo e l’innesco della vibrazione muscolare può innanzitutto aiutare la persona a svilupparne consapevolezza. Frequentemente infatti accade che alcune parti del corpo inizieranno a vibrare con facilità mentre in altre la vibrazione sarà molto più lieve o anche del tutto assente; altre volte ancora la vibrazione magari sarà presente in maniera uniforme ma il soggetto invece si accorgerà di percepirla diversamente, o addirittura di non riuscire a percepirla affatto, in alcune parti rispetto alle altre. Magari sarà quella la prima volta che la persona si accorge di esercitare un controllo inconsapevole su alcune parti di se, e già questa diversa percezione dei vari distretti corporei sarà di aiuto affinchè il soggetto possa sviluppare un contatto più intimo con il corpo. Proseguendo potrà imparare a rilassare o ad attivare maggiormente determinati muscoli, e questo lo aiuterà via via a sviluppare una percezione più armonica di se.

Questo metodo è stato sviluppato anche in seguito all’osservazione che tutti i mammiferi, incluso l’uomo, dopo un trauma innescano meccanismi biologici di auto-riabilitazione basati sull’emergere di una reazione di vibrazione muscolare (es. il cavallo da corsa dopo una caduta; la gazzella dopo un inseguimento). Si ritiene che questa sia una reazione importante di scarica dell’eccitazione neurofisiologica e che, se o quando, ciò non accade completamente allora il soggetto diventa maggiormente suscettibile a sviluppare tensioni da accumulo e manifestare sindromi post traumatiche da stress. In casi simili si osserva che la pratica del TRE può permettere la completa scarica dell’eccitazione fin lì trattenuta nel corpo. Si cerca pertanto di mettere in atto – di “sbloccare” – una risposta naturale, fisiologica del corpo che può avvenire solo al di là del controllo cosciente dell’individuo. Al movimento autonomo di tali muscoli ne consegue un loro parziale rilassamento che è spesso accompagnato anche dal riemergere in maniera gestibile di immagini o di memorie legate alle esperienze emotivamente significative. La conseguente riduzione del livello di arousal porta a uno stato vigile e tranquillo percepito globalmente come un’esperienza piacevole, motivante e rinforzante.

Riccardo ci vuoi dare qualche informazione in più in termini neuroscientifici, relativamente a questo metodo?

Il trauma o lo stress ripetuto frammenta la mappa originale interna del nostro corpo, per cui il nostro cervello si riorganizzerà in una maniera non ottimale, anche disconoscendo alcune parti di se fino a creare l’esperienza di vivere in modo disgregato e disorganizzato il nostro corpo e le nostre emozioni. Quando si attiva la vibrazione miofasciale si produce un nuovo stimolo al cervello che permette una corretta riorganizzazione delle vie nervose.

Sono almeno tre i meccanismi neurologici che contribuiscono a tale processo:
L’attività propriocettiva dei fusi muscolari durante la vibrazione muscolare genera un importante flusso di informazioni dai recettori muscolari e tendinei, attraverso i nervi periferici, alla corteccia cerebrale nella zona associativa e somatosensitiva. La stimolazione delle terminazioni libere ampiamente rappresentate negli strati interconnettivali della fascia stimola ulteriormente e più a lungo le vie sensoriali ascendenti. Soprattutto quando lo scuotimento corporeo interessa la zona addominale e toracica si amplifica la stimolazione delle vie proprie della interocezione (si intende con questo termine la percezione delle informazioni “interne”, quali il respiro, la peristalsi gastrointestinale, il senso di fame e sazietà, ma anche la cognizione del dolore e delle altre emozioni). Infine, si presuppone che anche l’attivazione degli archi riflessi tra vie sensoriali e motorie dei muscoli striati, che si interfacciano nel midollo spinale, crei un ulteriore stimolo midollare che viene convogliato prontamente al tronco dell’encefalo e da li al resto del cervello.

Per mezzo di registrazioni elettroencefalografiche ho potuto misurare le modificazioni dei ritmi cerebrali stimolate dalla fase attiva della vibrazione muscolare involontaria; dimostrando anche che tali modificazioni perduravano nel tempo post-vibrazione. Il cambiamento di alcuni ritmi corticali (nello specifico incrementi significativi del ritmo alpha, gamma, e del ritmo sensorimotorio nelle cortecce e centrali e parietali) mi hanno permesso di validare come la pratica del metodo abbia un forte effetto di stimolazione a livello corticale in un senso che è contrario rispetto a quelle modificazione che solitamente si osservano nelle persone diagnosticate con il PTSD. Questa potrebbe essere una delle principali ragioni del successo del metodo. La vibrazione miofasciale indotta dagli esercizi rappresenta quindi un importante intervento di stimolazione endogena di gran parte del sistema nervoso centrale e specialmente di quelle aree la cui corretta funzionalità permette alla persona di percepire con maggior efficacia e accuratezza il proprio corpo. In questo modo si viene ad instaurare un maggiore senso di connessione tra mente e corpo, migliorando la stabilità emotiva del soggetto.

Riccardo, quali sono i punti di forza e limiti di questo approccio metodologico?

È un metodo particolarmente utile quando la persona desidera partecipare attivamente al processo di cura personale e sviluppare le proprie risorse interiori. Può essere proposto e utilizzato in modi diversi a seconda delle finalità e della fase del processo terapeutico. Una possibilità è quella di proporlo come esercizio di rilassamento per aiutare a risolvere o migliorare un determinato sintomo come l’insonnia o il dolore articolare. Il metodo può essere utilizzato, come gli esercizi di base della bioenergetica, anche per aumentare il radicamento a terra e per prendere coscienza e sciogliere la corazza muscolare. 

La sessione di tremore potrebbe poi offrire l’opportunità sia al paziente che al terapeuta di comprendere come la persona senta e si relazioni al proprio corpo e dunque, su un piano simbolico, come stia al mondo, con quali bisogni e modalità. Sentire il piacere o al contrario il timore di un movimento spontaneo nel corpo, osservare come, sotto forma di vibrazione, ci siano delle parti di esso nelle quali l’energia fluisce liberamente e altre in cui si blocca, imparare a gestire le pause nel corso della sessione o la sua durata complessiva, raccogliere i vissuti legati al passaggio dalle esperienze di tremore condotte dal terapeuta a quelle svolte in autonomia a casa, sono alcune delle esperienze che aprono territori di ulteriore approfondimento. 

Altri punti di forza ritengo siano il fatto non sia strettamente necessario un contatto fisico col il paziente, fattore importante nel caso si dovesse lavorare su traumi legati alla sfera sessuale. Inoltre il metodo può essere agilmente implementato in un contesto di gruppo rendendolo quindi uno strumento versatile anche di primo intervento sul campo, specialmente quando il trauma colpisce un ampio numero di persone, come ad esempio nel caso di un terremoto.

È frequente però che ad un osservatore esperto le prime esperienze di tremore indotte con il TRE appaiano meccaniche, “muscolari”: la persona è alle prese con una nuova espressione motoria, un pó riesce a lasciarsi andare e un pó sente la necessita di mantenersi saldamente in controllo. Il soggetto è come se fosse “combattuto”: appare così concentrato e desideroso di “eseguire il giusto modo di tremare” che invece di lasciarsi andare trattiene involontariamente tutto il corpo in una postura rigida, che faticosamente vibra per effetto di quello sforzo. Perdere il controllo, anche se solo per un breve istante, equivale a farci sentire privati di un supporto e di conseguenza a disagio. Pertanto, nonostante il TRE sia nato come metodo autosomministrato, specialmente nella fase iniziale di pratica è invece importante avere uno sguardo competente che sappia guidare e accompagnare anche al fine di evitare la sovrastimolazione del sistema nervoso, quindi contenendo il livello di stimolazione entro limiti appropriati.
Sensazioni ed emozioni eccessive non sono sempre utili al fine di rimodulare efficacemente le nostre risposte automatiche; solo riconducendo costantemente la persona ad una esperienza più focalizzata e profonda, assistendola nell’attivare un movimento spontaneo autentico, focalizzandone l’interocezione e calibrando i tempi con opportune pause di integrazione, si farà sì che la persona si senta accompagnata e al sicuro nell’esperienza di lasciarsi andare al tremore. Solo allora il suo sistema nervoso potrà veramente integrare le energie in eccesso e ripristinare in maniera duratura una condizione di rilassamento fisico e mentale.

Riccardo, quali sono i migliori autori e le fonti principali attraverso cui approfondire questa metodologia?

La vibrazione muscolare come meccanismo di reset psico-fisico è trattata esaustivamente nei testi di psicoterapia bioenergetica di Wilhelm Reich e di Alexander Lowen. Ci sono molti aspetti in comune con quanto applicato nel TRE e alcune delle differenze si identificano forse nella maggiore attenzione che nel TRE si pone sulla componente neurofisiologica rispetto a quella psicologica. Questa maggiore attenzione alla componente fisiologica è coerente con le metodiche sviluppate da Peter Levine, Pat Odgen, Bessel Van der Kolk. I libri di David Berceli (che si trovano online principalmente in lingua inglese) sono un buono strumento per iniziare a comprendere sia le basi applicative del metodo e sia la complessità della sua applicazione. Ulteriori informazioni si possono anche trovare sul nostro sito dedicato www.metodotreitalia.com

Qui una presentazione di Riccardo Cassiani Ingoni. Sul metodo TRE, questo libro rappresenta un ottimo punto di partenza.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / interviste, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

17 January 2022

LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti)

di Antonio Onofri, Giovanni Liotti

PREMESSA #1: questo articolo è tratto dai volumi Cecilia La Rosa e Antonio Onofri (a cura di): Dal basso in alto (e ritorno). Nuovi approcci bottom-up: terapia cognitiva, corpo, EMDR, ApertaMenteWeb, Roma 2017 e da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (a cura di): Il corpo nell’EMDR. Dal basso in alto (e ritorno): casi clinici. ApertaMenteWeb, Roma 2021. Per gentile concessione di www.ApertaMenteWeb.com

PREMESSA #2: su questo blog abbiamo diffusamente parlato di sindromi post traumatiche e teorie bottom-up: il materiale riguardante le sindromi post-traumatiche è consultabile qui

Le emozioni e i processi primari e secondari secondo Panksepp

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una trasformazione del modello generale con il quale le moderne neuroscienze che studiano i processi emozionali negli animali e negli esseri umani considerano l’evoluzione della mente. Sempre maggiore attenzione viene prestata all’idea che lo sviluppo evoluzionistico proceda “dal basso verso l’alto” (bottom- up) secondo una concezione gerarchica dell’organizzazione cerebrale in maniera almeno complementare all’evoluzione del controllo “dall’alto verso il basso” esercitato dalle strutture cerebrali superiori su quelle inferiori (Panksepp e Biven 2012).

Una tale visione – e i dati offerti dalla ricerca scientifica – sembrerebbe confermare alcune antiche intuizioni sulle interazioni mente-corpo e suggerire l’abbandono di ogni rigida dicotomia tra lo studio delle malattie fisiche e quello dei disturbi emotivi. Le nuove prospettive bottom-up, che questo volume si ripropone di illustrare e descrivere, sembrano infatti ribaltare la concezione interpretativa, valutativa e quindi prettamente cognitiva delle emozioni, almeno per quanto riguarda quei processi emotivi che Panksepp e Biven (2012) considerano primari, ancestrali, quasi – istintuali e localizzati nel cervello più antico, strettamente connessi a funzioni di sopravvivenza (e riproduzione). Proprio questi processi emozionali primari, del resto, sembrano prendere il sopravvento in non poche condizioni psicopatologiche. “Quando gli affetti hanno la meglio, la cura della parola è destinata a fallire in quanto il metodo interpretativo, lo strumento psicoterapeutico cardine, può essere spesso inefficace nei confronti delle nostre passioni primitive.” (Panksepp 2012). Se è vero infatti che come esseri umani possediamo espansioni cerebrali di livello superiore che ci permettono di pensare in maniera approfondita e di riflettere sulla nostra natura, per molte persone in molte condizioni, e per molti pazienti che presentano disturbi psichiatrici, le emozioni non appaiono certo sotto il controllo completo della mente superiore. Tanto che proprio tale osservazione rende spesso necessario il ricorso alle terapie farmacologiche, più in grado – anche se certamente in maniera ancora molto grossolana – di arrivare a questi processi emotivi “più bassi”.

Sembra riemergere, nelle sopra menzionate considerazioni, una concezione decisamente gerarchica non solo del cervello, ma anche delle stesse emozioni. Per esempio, Panksepp e Biven (2012) leggono le risposte emozionali quasi – istintive in termini di esperienze psicologiche di processo primario, che in un secondo momento si unirebbero a una varietà di meccanismi di memoria e apprendimento chiamati processi secondari del cervello. I processi mentali di ordine ancora superiore, al vertice dell’attività cerebrale, son quelli che permettono di riflettere sui dati dell’esperienza e dell’apprendimento e vengono chiamati processi terziari. Secondo una tale visione, né le abilità cognitive, né la capacità di pensare in termini verbali sono considerate condizioni necessarie per una coscienza di tipo affettivo. “Nel sentire i nostri stati affettivi – sono ancora Panksepp e Biven che scrivono – non abbiamo bisogno di sapere che cosa stiamo sentendo. In altre parole, i sentimenti emotivi di processo primario sono affetti grezzi che prendono automaticamente decisioni importanti per noi”. Le reazioni corporee, sia di tipo viscerale sia motorie, sembrano in grado di influenzare – e spesso rafforzare – le stesse esperienze emotive primarie. Nel costituirsi e nell’esprimersi delle emozioni sembra dunque imprescindibile la considerazione di aspetti gerarchici della struttura e delle funzioni del cervello/mente.

La concezione gerarchica del cervello secondo J.H.Jackson

Una prima compiuta concezione gerarchica delle strutture e funzioni del cervello/mente, formulata in accordo con l’allora nascente pensiero evoluzionistico, è legata al nome di John Hughlings Jackson (per un’antologia degli scritti di Jackson, vedi Taylor 1958). Una breve sintesi della teoria di Jackson può essere utile per cogliere alcuni aspetti cruciali della sua concezione gerarchica, che mai ha cessato di influenzare neurologia e psichiatria (Franz e Gillett 2011).

Le applicazioni del pensiero di Darwin allo studio del cervello/mente, precedenti all’opera di Jackson, sostenevano che le strutture cerebrali di specie evoluzionisticamente più antiche venissero sostituite da nuove strutture nel corso dell’evoluzione di specie più recenti. Jackson sostenne, al contrario, che le strutture più evoluzionisticamente recenti del cervello si stratificano su una base costituita dalle strutture più antiche, le quali dunque permangono, con mutamenti soltanto secondari e limitati, nel nevrasse di specie più recenti. Secondo Jackson, le funzioni delle strutture cerebrali più antiche vengono rappresentate di nuovo nelle reti neurali più recenti (neostrutture), le quali così permettono forme di elaborazione dell’informazione più articolate e flessibili. Non solo le strutture neurali più evoluzionisticamente antiche non scompaiono dai cervelli delle specie più recenti, ma esse continuano a elaborare input informativi dai quali dipendono le funzioni delle neostrutture. Di grande importanza è anche l’idea Jacksoniana che le strutture evoluzionisticamente recenti esercitino funzioni di controllo e inibizione su quelle più arcaiche. Infine, le strutture più recenti sarebbero anche le più sensibili a “dissolversi” (dissolution o de-evolution, nella terminologia di Jackson), in modo contingente, di fronte a influenze ambientali patogene. Le manifestazioni conseguenti alla dissoluzione delle funzioni cerebrali superiori (evoluzionisticamente recenti) sarebbero espressione dell’attività delle funzioni inferiori (evoluzionisticamente più antiche) che, non più controllate e rese flessibili dalle superiori, appaiono come automatismi sregolati (Jackson 1884/1958).

Le concezioni evoluzionistiche di Jackson si sono rivelate influenti in psicopatologia per oltre un secolo, e lo sono ancora. Per esempio, il concetto di dissoluzione è stato usato recentemente per comprendere le risposte dissociative ai traumi psicologici (Farina et al. 2015; Meares 1999, 2012) e – classicamente – per distinguere, nella schizofrenia, i sintomi positivi da quelli negativi (Berrios 1985). Tutte queste influenze sulla psicopatologia del pensiero di Jackson sono riconducibili all’attenta considerazione, da parte del neurologo inglese, dell’intreccio continuo di processi che vanno dal basso verso l’alto (bottom-up) e – ricorsivamente – dall’alto verso il basso (top-down) nel complesso sistema gerarchico che l’evoluzione avrebbe progressivamente selezionato nel “costruire” il cervello/mente umano.

L’attività mentale secondo Pierre Janet e Sigmund Freud

Continuando a rivolgere la nostra attenzione alle radici storiche della moderna psicotraumatologia, appare interessante ricordare come una delle principali critiche rivolte da Pierre Janet alla teoria di Freud, riguardante la concezione dei rapporti fra attività mentali coscienti e sub-coscienti (o inconsce, nella teoria psicoanalitica) potrebbe essere meglio apprezzata, nel linguaggio delle neuroscienze contemporanee, proprio considerando la diversa attenzione prestata da parte dei due Autori ai processi top-down e bottom-up. Janet riteneva, nell’ipotizzare la genesi della dissociazione post-traumatica, che si trattasse soprattutto di un processo bottom-up procedente dai livelli inferiori della mente e del cervello verso i livelli superiori (autocoscienza e neocorteccia). Freud, invece, si mostrava più interessato, nella sua teoria psicopatologica, a descrivere i meccanismi che avanzerebbero in senso inverso, top-down (Liotti e Farina 2013). Per Freud erano infatti i livelli superiori della mente, connessi alle funzioni dell’Io, a mettere in atto l’esclusione difensiva dall’auto-coscienza delle emozioni e degli altri contenuti mentali disturbanti, che venivano così a collocarsi in un livello inferiore, inconscio, di attività mentale (Liotti 2014).

Janet affermava che i processi più alti della coscienza umana, cioè quelli più caratterizzati dall’esercizio attivo della volontà e della libertà, si pongono al vertice di una gerarchia di sistemi mentali e cerebrali i cui livelli inferiori risulterebbero di fatto automatici (parlava infatti di automatismi psicologici, Janet 1898). I livelli superiori, che richiedono un’elevata quantità di tensione psicologica (come Janet chiamava l’energia mentale) subirebbero, in altre parole, l’influenza disaggregante dei livelli inferiori, automatici, sottoposti al trauma. Gli effetti di questo fenomeno sarebbero l’esaurimento di quella tensione psicologica necessaria per un efficace funzionamento dell’autocoscienza, e di conseguenza un funzionamento mentale privo di coscienza riflessiva (sub-cosciente), con la comparsa dei diversi automatismi psicologici tipici dei sintomi dissociativi post-traumatici. In altre parole, secondo Janet, i processi mentali legati a memorie traumatiche farebbero emergere gli automatismi mentali normalmente celati dalle funzioni caratterizzanti la coscienza integra cui Janet (1907) attribuiva quelle attività che denominava come sintesi personale (coscienza piena dell’Io), funzione di realtà e presentificazione (in sostanza, la capacità di distinguere il passato dal presente e l’immaginazione dalla realtà).

Riassumendo al massimo, potremmo dire che secondo il sistema gerarchico delle funzioni di coscienza proposto da Janet, la funzione di realtà e la presentificazione costituiscano i livelli superiori, la sintesi personale un livello intermedio, e gli automatismi sub-coscienti i livelli inferiori. L’eccesso di tensione psicologica nei livelli inferiori della gerarchia (di cui l’esempio prototipico sono le emozioni veementi attivate dalle memorie traumatiche) porterebbe così all’esaurimento della tensione anche nei livelli superiori, e quindi all’emergere degli automatismi in uno stato soggettivo di coscienza alterata. Ecco emergere chiaramente, da questa sintesi, l’importanza che Janet attribuiva ai processi bottom-up nella genesi della sintomatologia post- traumatica.

Freud, invece, sottolineava come fossero le funzioni dell’Io a generare le influenze patogene, attraverso l’esclusione difensiva dalla coscienza di impulsi ed emozioni e la formazione dell’Inconscio proprio come conseguenza della rimozione, privilegiando così i processi top-down nello spiegare l’origine dei sintomi (sia quelli legati a memorie di eventi traumatici sia quelli più generali legati a conflitti interiori fra le esigenze dell’Es e quelle del Super-Io).

Il sistema di difesa secondo Stephen Porges

Le ricerche e le teorie attuali proposte dalla psicofisiologia – e applicabili al campo di studi ormai comunemente denominato come psicotraumatologia – sembrerebbero accordarsi maggiormente con la prospettiva di Janet rispetto a quella di Freud. Tra i contributi più importanti della psicofisiologia a questo riguardo citiamo la teoria polivagale (Porges 2011), secondo la quale le reazioni dell’organismo di fronte a eventi che ne minacciano la vita o l’integrità sono regolate da un sistema neurobiologico localizzato nel tronco encefalico che coinvolge le strutture del sistema nervoso vegetativo, e cioè da un lato la rete neurale centrale che controlla il sistema ortosimpatico e dall’altro il nucleo del vago (parasimpatico) con la sua bipartizione (i complessi vagali dorsale e ventrale) (per le implicazioni cliniche della teoria polivagale cfr. anche il capitolo 7, di Gabriella Giovannozzi , in questo stesso volume).

Le ricerche che utilizzano la teoria polivagale suggeriscono che l’attivazione del sistema di difesa dai pericoli ambientali, durante l’esposizione a un evento traumatico e probabilmente anche durante la sua rievocazione nella memoria, potrebbe influenzare proprio “dal basso in alto” le strutture e le funzioni cerebrali superiori (proponendo quindi una visione concorde con quella proposta da Janet) più di quanto queste ultime influenzino il sistema di difesa. Si spiegherebbero forse così, cioè con un’azione bottom-up esercitata dal sistema di difesa dai pericoli ambientali, anche l’ipometabolismo della corteccia frontale durante la rievocazione di memorie traumatiche e l’utilità di molti approcci terapeutici come quelli descritti nei diversi capitoli di questo volume (dall’EMDR, alla mindfulness, alla terapia sensomotoria etc.) che utilizzano grandemente i processi bottom-up, e non solo top-down, nella psicoterapia soprattutto delle reazioni post-traumatiche complesse caratterizzate da quote importanti di dissociazione. In altre parole, l’attivazione del sistema di difesa dai pericoli ambientali – localizzato nel tronco encefalico – eserciterebbe da un lato profondi effetti sull’esperienza corporea (mediata dall’ortosimpatico e dal parasimpatico) e dall’altra genererebbe quella particolare percezione e coscienza di sé – di tipo dissociativo – che si accompagna alle suddette disfunzioni corticali.

Anche queste nuove acquisizioni sembrerebbero confermare l’idea di Janet, secondo il quale la risposta disfunzionale al trauma psicologico, una volta che si sia in presenza di una particolare vulnerabilità del Sistema Nervoso, sia sostanzialmente l’effetto della cosiddetta emozione veemente (che potremmo considerare in sostanza come un’emozione primaria di eccezionale intensità, se preferissimo utilizzare il più moderno linguaggio di Panksepp) sulle funzioni mentali superiori della coscienza. La risposta patologica al trauma psicologico, in altre parole, andrebbe considerata, secondo Janet, come un deficit funzionale della coscienza causato direttamente dalla memoria traumatica. Tale visione diverge profondamente dalla proposta freudiana, secondo il quale la patologia post-traumatica sarebbe invece l’effetto di un’attività difensiva da parte dell’Io, volta a escludere dalla coscienza emozioni e rappresentazioni avvertite come inaccettabili.

Sullo stesso tema, infatti, Janet – parlando delle sue prime osservazioni cliniche (precedenti al 1894) -scriveva: “… il ricordo traumatico non poteva essere espresso durante la veglia e si presentava solo in condizioni particolari in un altro stato psicologico … [uno stato] … di modificazione della coscienza che avevo cercato di descrivere … come subcoscienza per disgregazione [désagrégation] … Questa dissociazione … mi sembrava in relazione con l’esaurimento provocato da cause diverse e in particolare dall’emozione.” (Janet 1923, tr. it. p. 37). Janet, nel contrapporre la propria prospettiva a quella di Freud, usava le seguenti parole: “il Dr Sigmund Freud … considerò come una rimozione quel che io attribuivo a un restringimento della coscienza … ma soprattutto trasformò un’osservazione clinica e un procedimento terapeutico con indicazioni precise e limitate in uno smisurato sistema di filosofia medica.” (Janet 1923, tr. it. p. 38).

La differenza fra l’idea che in persone particolarmente vulnerabili la coscienza possa subire più o meno passivamente una sorta di “esaurimento”, cioè un patologico restringimento delle sue attività (il “sub-cosciente” secondo Janet), come effetto di eventi o di ricordi traumatici, e l’idea secondo la quale si tratti invece di un’attiva operazione mentale di tipo prettamente difensivo nella genesi della dissociazione post-traumatica, appare ancora più chiara se si confrontano le seguenti parole di Freud con quelle appena citate di Janet: “… mi è più volte riuscito di dimostrare che la scissione del contenuto di coscienza è la conseguenza di un atto di volontà del malato, e che cioè essa è indotta da uno sforzo di volontà la cui motivazione è comunque rintracciabile.” (Freud 1894, tr. it. 1968, p. 121).

Liotti (2014) ricorda come la teoria secondo la quale la dissociazione post-traumatica sia una difesa dal dolore mentale (nel senso di un’operazione psichica in qualche modo voluta, anche se inconscia) è stata certamente predominante nel campo della psicotraumatologia, anche oltre l’ambiente psicodinamico. Tuttavia, anche in ambito psicoanalitico sono state espresse alcune importanti perplessità su questa teoria, sia indirettamente (Lyons-Ruth 2008) sia direttamente (Howell 2011, 35-36; Meares 2012, 139-147), su basi sia cliniche sia di ricerca.. Tali perplessità hanno portato ormai diversi psicoanalisti a riflettere sulla possibilità che esista un importante aspetto della dissociazione post-traumatica non inquadrabile come attivamente difensivo, bensì automatico, proprio come riteneva Janet, che almeno si affiancherebbe a quello più tipicamente difensivo ipotizzato da Freud (vedi, per esempio, Craparo 2013). In ambito non psicoanalitico, invece, prospettive teoriche e terapeutiche fondate esplicitamente sulle tesi di Janet molto di più che su quelle di Freud sono facilmente reperibili anche in italiano (solo per citarne alcuni, Liotti e Farina 2011; Ogden, Pain, Fisher 2006a; van der Hart, Nijenhuis, Steele 2006).

I contributi della psicologia sperimentale

Come abbiamo già detto, i risultati di un ormai significativo numero di ricerche sperimentali, sia nell’ambito della psicologia generale, sia delle neuroscienze, sembrano convergere nell’affermare la sostenibilità (se non altro parziale) della tesi janetiana sulla natura primaria – cioè non secondaria a una “volontà” difensiva nel senso inteso da Freud – del restringimento del campo di coscienza come risposta a un trauma psicologico. A tale proposito, possiamo ricordare come l’esperimento effettuato da Horowitz e Telch (2007) abbia fornito risultati sostanzialmente incompatibili con l’idea che gli stati dissociativi (equivalenti al restringimento del campo di coscienza o al sub- cosciente della terminologia janetiana) possano ricoprire una valenza

protettiva nei confronti di esperienze dolorose. I partecipanti all’esperimento di Horowitz e Telch, ai quali veniva indotto uno stato dissociativo mediante una stimolazione pulsante audio-visiva, riportavano una maggiore risposta dolorosa durante l’immersione della mano in acqua ghiacciata rispetto a quelli in uno stato di coscienza più usuale: un risultato assolutamente in contrasto con l’ipotesi che la dissociazione funga da protezione dal dolore. L’unico modo per conciliare questo tipo di risultati con quelli provenienti da altri studi sperimentali, che invece mostrerebbero una certa correlazione fra stati mentali dissociativi e analgesia, consiste nel ricorrere nuovamente a quanto andiamo scoprendo relativamente al sistema cerebrale deputato a gestire le minacce ambientali e il dolore conseguenti a un trauma (Porges 2011). Tale sistema sembrerebbe infatti operare oscillando alternativamente fra una iperattivazione neurovegetativa (l’hyperarousal mediato dall’ortosimpatico), come nell’esperimento di Horowits e Telch, che può amplificare la paura e il dolore, e una ipoattivazione (l’hypoarousal mediato dal vago) che invece può essere correlata all’ottundimento del sensorio e pertanto a una certa analgesia. Entrambe queste modalità operative comportano quel che Janet avrebbe chiamato restringimento del campo di coscienza e abbassamento del livello mentale (Janet 2016).

Possiamo ormai disporre di un certo numero di ricerche, provenienti dal campo di studio delle neuroscienze, che sembrerebbero confermare l’idea che vi sia un diretto e passivo abbassamento del livello mentale generale, più che un’attività difensiva intrapsichica, come risposta a traumi o a ricordi traumatici (per una rassegna, vedi Liotti e Farina 2013). Diversi studi sperimentali hanno infatti mostrato un ipometabolismo, come conseguenza dell’attivazione di ricordi traumatici, nelle stesse zone della corteccia cerebrale deputate sia ad azioni che comportano attivi “sforzi di volontà” da parte dell’Io (secondo la visione di Freud), sia alle funzioni mentali superiori della coscienza. Pertanto, un tale ipometabolismo sembra corrispondere di più alla visione janetiana di un restringimento del campo di coscienza e di un abbassamento del livello mentale generale che non all’idea freudiana di un motivato “sforzo di volontà”, seppur inconscio (Liotti e Farina 2013): come potrebbe infatti uno sforzo di volontà corrispondere a un ipometabolismo proprio in quelle zone corticali del cervello che dovrebbero essere più impegnate negli atti di volontà?

Considerazioni analoghe, relative alla compatibilità tra le tesi di Janet e i risultati delle neuroscienze sperimentali, potrebbero essere avanzate a proposito dei dati provenienti da quelle ricerche che utilizzano, in condizioni patologiche connesse alla dissociazione post-traumatica, la rilevazione dell’attività bioelettrica della corteccia cerebrale al posto dell’indagine di variabili metaboliche. Una di queste ricerche dimostra, attraverso la rilevazione dei potenziali evocati, un deficit nella “sintesi” dell’onda P300, che si presenta normalmente unitaria (Meares 2012), e che invece non riuscirebbe a raggiungere la “sintesi” nelle patologie post-traumatiche, restando quindi sdoppiata nelle sue due componenti (una prevalentemente frontale e una seconda prevalentemente parietale).

In conclusione, ecco quindi che appare se non altro ragionevole affiancare, al tradizionale studio dei processi mentali e degli interventi clinici ascrivibile al campo denominabile come top-down, anche l’indagine dei fenomeni mentali bottom-up e – parallelamente – degli strumenti terapeutici in grado di facilitare cambiamenti “dal basso in alto” delle funzioni mentali di ordine superiore. E’ proprio questo tema che i curatori del presente volume, attraverso i diversi contributi presentati, hanno voluto indagare.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / neuroscienze, psicotraumatologia, PTSD

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  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF!
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO”
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE?
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA?
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL “DEFAULT MODE”
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI
  • SUL REHEARSAL
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI”
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO?
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA?
  • C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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