
di Raffaele Avico
INTRODUZIONE
Questo approfondimento su Russell Meares si integra a un lavoro più esteso sul modello neojacksoniano di mente. Come nelle conclusioni viene evidenziato, esiste un filone di autori che a partire dall’’800 hanno promosso una visione del complesso mentecervello costruita su di una logica gerarchica. Benedetto Farina e Russell Meares sono “illustri” neojacksonisti dell’epoca attuale, ultimi (in Italia) di una catena di autori che hanno sviluppato il tema, come chiarificato in questa immagine:

Per introdurre il pensiero e il lavoro di Russell Meares, partiremo da 3 articoli, che sono:
- The Contribution of Hughlings Jackson to an Understanding of Dissociation di Russell Meares, del 1999
- Il presente dissociato, di Benedetto Farina, del 2008 (qui scaricabile)
- The traumatic disintegration dimension, del 2023
Questi articoli ci introdurranno alla visione dell’autore australiano (venuto a mancare l’anno scorso) che, insieme ad altri, propone un ripensamento di alcune forme di psicopatologia e del modo con cui le si possa approcciare in senso clinico, ponendo al centro della questione il presente, l’esperienza della dissociazione e delle discontinuità della coscienza, portando dunque l’attenzione più sui “processi” mentali che sui contenuti -partendo dall’assunto che il complesso mentecervello venga mosso da logiche istintuali e innate, giustificate in senso evoluzionistico -entro una cornice di gerarchia.
Come si nota, questi autori adottano la formulazione “complesso mentecervello”, non a caso.
In ultimo verranno sintetizzati alcuni spunti “da portare a casa” e verrà allegato altro materiale di approfondimento, scaricabile o fruibile in rete.
Partiamo dal primo.
RUSSELL MEARES: LA MICROPATOLOGIA DEL PRESENTE E LE DISCONTINUITÁ DELLA COSCIENZA
1: The Contribution of Hughlings Jackson to an Understanding of Dissociation (di Russell Meares, 1999)
In questo famoso articolo del 1999 Russell Meares, australiano, riprende la teoria di Jackson a proposito della concezione gerarchica del complesso mentecervello, ponendo alcune osservazioni a riguardo.
Questo articolo merita veramente di essere ripreso, analizzato nel dettaglio e scomposto per punti, al fine di comprendere a fondo le implicazioni che questo modo di vedere la mente possa avere sulla psicopatologia per come la intendiamo “comunemente”. Sulla concezione gerarchica del complesso mentecervello avevamo scritto qui in precedenza, e sul sito di Aisted può essere approcciato ulteriormente il tema.
Partendo da questo articolo (qui scaricabile in originale in PDF) possiamo dedurre la “visione” di Russell Meares sulla psicopatologia, descrivendola nei suoi punti centrali -elencati qui di seguito:
- Nella prima parte dell’articolo Meares sintetizza il lavoro di Jackson, osservando come per il famoso neurologo il sistema nervoso fosse da pensare, nelle sue singole unità di funzionamento, come un organo atto a rappresentare le informazioni provenienti -primariamente- dagli organi di senso. In continuità con questo, il sistema nervoso sarebbe da pensare come un organo sensomotorio, fin da subito utilizzato dall’organismo per rappresentare le informazioni provenienti “dal basso” -dal corpo-, in un gioco progressivo via via più complesso, fino al punto “massimo” di ri-ri-ri-rappresentazione: la coscienza. Jackson sosteneva che non esistesse una configurazione del cervello umano che potesse far pensare a una sorta di organo “dedicato”, funzionale a “produrre” la coscienza: si trattava dal suo punto di vista di una progressiva complessificazione, e di livelli di “rappresentazione” sempre maggiori (localizzati -in senso anatomico- entro la corteccia prefrontale, da intendersi dunque come vero “organo della mente”)
- sempre parlando di Jackson, Meares introduce il tema di “doppio” o di sdoppiamento: è necessario che la mente rappresenti le sensazioni che l’individuo percepisce, e per fare questo occorre che internamente si sviluppi un “occhio” che possa fare dei confronti tra sensazione e percezione della sensazione: questo sdoppiamento è centrale e rende possibile confrontare presente e passato, per via di ricordi episodici più o meno distanti nel tempo.
Meares cita Tulving e i suoi fondamentali studi sui registri di memoria, stratificati e progressivamente sempre meno “incarnati” (procedurale, episodico, semantico/autobiografico), indipendenti tra loro e differenti per come si deteriorano durante le neurodegenerazioni (Legge di Ribot -che d’altra parte è una conferma implicita di come il complesso mentecervello, nuovamente, si strutturi per stratificazioni e gerarchie) - A questo punto Meares introduce la tesi dell’articolo, un’idea di psicopatologia in linea con Jackson, che sostanzialmente incentra uno degli eventi eziopatogenetici su di un processo di dissoluzione di strutture più recenti, funzioni mentali superiori che porterebbero la mente a regredire a forme più basiche/precedenti. Inoltre, Meares cita il concetto di concomitanza parallela, sempre di Jackson, un assunto sia sul funzionamento del complesso mentecervello che sui suoi disturbi, secondo il quale la mente e il cervello si influenzerebbero a vicenda, e un danno alla materia sarebbe in grado di generare un danno alla mente (un danno psicologico) e viceversa.
Come leggiamo, lo stesso Jackson scrive: “La dottrina che io sostengo è la seguente: 1) gli stati della coscienza (ma è dire la stessa cosa, gli stati mentali) sono del tutto differenti dagli stati nervosi. 2) Le due cose accadono insieme: per ogni stato mentale c’è un correlativo stato nervoso. 3) Malgrado le due cose accadano in modo parallelo, non c’è intromissione dell’uno nell’altro [although the two things occur in parallelism, there is no interference of one with the other]. Questa può essere chiamata la dottrina della concomitanza “ - Meares ragiona quindi a proposito del concetto di restringimento della coscienza, termine usato da Janet: lo sdoppiamento prima citato, la possibilità di pensare e ricordare quello che si vive, in alcuni momenti verrebbe perso, risultando in un processo di “anti-sdoppiamento”, una sorta di unificazione/restringimento della coscienza che porterebbe la persona a “entrare” nel “mero” agire, portandol* a non ricordare quello che fa in quello stato dissociato -dato che la possibilità di immagazzinare memorie episodiche viene meno.
La dissociazione arriverebbe inoltre a seguito di uno shock o un’emozione veemente, non sarebbe da pensare dunque come un meccanismo difensivo -come in seguito teorizzato da Freud (qui uno dei punti di rottura tra Freud e Janet, come qui approfondito).
Questo ci porta a riflettere su come alcuni pazienti sembrino aver dimenticato intere fette di esperienza: in alcuni periodi, seguendo questo modello esplicativo, gli accadimenti non sarebbero da pensare come pensati/cognitivizzati, ma vissuti e interiorizzati attraverso memorie procedurali (spesso si ha la sensazione che nella storia dei pazienti qualcosa “sia successo”, o che alcuni periodi siano stati vissuti con intensità eccessiva). Ci troviamo dinnanzi a memorie “impressionistiche”, mai dettagliate, che rimangono sul generico, che appunto dovrebbero spingerci a chiederci se possa esserci stata una spontanea tendenza a dissociare (o per meglio dire a non integrare, per via di fallimenti nelle funzioni di sintesi) emozioni troppo forti, in alcuni periodi di vita, con un conseguente difficoltoso intervento della memoria episodica (sempre per come la intende Tulving). - sempre a proposito del tema “sdoppiamento”, Meares ragiona su alcuni fenomeni inerenti la sensazione di “essere sé”: la possibilità di posizionarsi entro la realtà e di confrontare il passato con il presente, operando un’operazione di continua “cucitura”, dipende dalle funzioni mentali superiori prima descritte: nel momento in cui queste funzioni vengono meno, osserviamo secondo questo modo di ragionare alcune forme di psicopatologia peculiare, come la derealizzazione o anche il dejavù (come ben argomentato in questo articolo di Benedetto Farina). Una delle funzioni della coscienza, dunque, consterebbe in un’operazione di cucitura delle esperienze e di confronto continuo tra il “blocco” del passato dell’individuo con il suo presente. In alcune forme di restringimento delle coscienza (per usare il termine di Janet) -entro stati dissociativi-, questo strumento della mente verrebbe a perdersi (in modo più o meno temporaneo) procurando al paziente una pesante sensazione di non presenza, o di non riconoscere luoghi o cose a lui/lei precedentemente familiari
2: Il presente dissociato (di Benedetto Farina, 2008)
Anche in questo caso, prenderemo il lavoro di Farina e lo scomporremo nelle sue parti principali, riassumendole per punti; alla fine faremo alcune considerazioni conclusive.
- come prima considerazione, Farina parla di “disturbi della continuità della coscienza”. “Transizioni in cui non ci si sente sé stessi”, fenomeni di “scollamento” dall’esperienza e peculiari momenti di difficile spiegazione come il dejavù, sarebbero alterazioni dello stato di continuità della coscienza, concomitanti a un penoso senso di scollamento dall’esperienza presente: disturbi inerenti quella che Janet definì presentificazione. Farina osserva che certe forme di ansia o di sconforto potrebbero essere pensate come reazioni a queste discontinuità, e che alcuni disturbi di personalità -nella loro complessità-, andrebbero riletti a partire da questo fallimento delle funzioni di sintesi, che porterebbero la persona a sviluppare risposte problematiche (Russell Meares, come prima accennato, ma anche Clara Mucci, rileggono la psicologia borderline come il risultato di un fallimento di queste operazioni di cucitura continua nello stato della coscienza -per via di un indebolimento, di una scarsa “tenuta” delle già citate funzioni di sintesi, a seguito di esperienze avverse o attaccamenti traumatici primevi)
- come in precedenza osservato, affinché ci si senta a “proprio agio” nella realtà del presente, occorre che la coscienza operi un confronto continuo tra quello che si sperimenta e il passato prossimo del soggetto. Quando questa operazione di confronto fallisce, è possibile che il presente e il passato si “presentino” al soggetto in modo confuso, anomalo: è questo il caso del dejavù.
- Farina fa poi un commento a proposito del gruppo degli originatori del modello neojacksoniano (William James e Henri Bergson, Pierre Janet, Hughlings Jackson) e dei suoi più illustri e recenti promotori, Henri Ey e Russell Meares. Questo gruppo di pensatori, a suo modo di vedere, furono in grado di eseguire un’integrazione tra una psichiatria fortemente incentrata sugli aspetti biologici e una psichiatria fenomenologica a volte troppo “psicologista”, arrivando al modello neojacksoniano di cui qui scriviamo, in grado tenere insieme l’idea di un complesso mentecervello mosso da logiche evoluzionistiche e gerarchiche e gli aspetti fenomenologici più aderenti al vissuto “interno” dei pazienti stessi; entro questo modello di lettura, le funzioni mentali superiori, deputate al lavoro di sintesi e mediate da aree specifiche della corteccia cerebrale, avrebbero il potere di garantire un’esperienza soggettiva di continuità e presentificazione -al riparo da dolore e senso di perdita di “sé”-; allo stesso tempo, un vissuto psicologico eccessivo o un’emozione veemente, avrebbero il potere di corrompere questa funzione di sintesi, di fatto scardinando funzioni mentali di livello superiore, “toccando” il nostro cervello anche nella sua biologia, “precipitando sulla materia”: in questa bidirezionalità starebbe, a dire di Farina, la potenza euristica del modello, soprattutto quando si tratti di osservarne le ricadute psicopatologiche
- Proseguendo, Farina introduce il lavoro di ripresa di Jackson di Henri Ey e la sua teoria organodinamica, riassunta qui
- Degno di nota il riferimento a questo studio di Mesulam del 1998 e pubblicato su Brain -negli stessi anni dunque del prima citato lavoro di Meares-, una review di altri 250 articoli volti a rinforzare la tesi di un’organizzazione gerarchica delle funzioni cerebrali, con la coscienza a fare da aggregatore. Anatomicamente Mesulam individua, come aveva pionieristicamente fatto Jackson -e come molti studiosi oggi confermano, tra cui Damasio- la corteccia prefrontale come luogo dedicato.
- Entrando nel merito della psicopatologia, Farina osserva come Bergson avesse anticipato alcune concezioni di Jackson, per il quale la psicopatologia è da intendersi come la riorganizzazione del sistema mentecervello a seguito del fallimento della operazioni di sintesi. Bergson osservava acutamente come “un disturbo non può in alcun modo aggiungere qualcosa di nuovo alla mente”, volendo intendere con questo che il disturbo semplicemente slatentizzerebbe modalità insite nel paziente e in ogni individuo, fino a quel momento però gestite/controllate/integrate. Pensiamo per esempio ai disturbi ingenerati dalle sindromi prefrontali.
- Farina ci porta quindi un chiarimento a proposito del concetto di dissociazione, su cui tra l’altro -osserva- si era compiuta la rottura tra freudiani e janettiani nel corso del ‘900 (rottura che in seguito avrebbe eclissato Janet favorendo una concezione del trauma menomata di tutto il fondamentale apporto neojacksoniano, ora in fase di “recupero”). La dissociazione va distinta in disaggregazione/disintegrazione (un indebolimento generale delle funzioni di sintesi), e dissociazione vera e propria, con contenuti mentali riposti in un “altrove”, non integrabili nella coscienza. Liotti si era molto speso per evidenziare le due differenti concezioni di dissociazione, freudiana e janettiana (si veda qui per approfondire). Citando direttamente Farina, va evidenziato il necessario cambio di passo o di paradigma verso una concezione della psicopatologia più evoluzionisticamente giustificata, con l’ambiente in posizione di restituita centralità:
“Al concetto di inconscio inteso come materiale rimosso o dissociato per “difesa” si oppone quello di livelli filogeneticamente e ontologicamente più primitivi ma non per questo meno importanti della coscienza. Le rappresentazioni mentali cui normalmente la coscienza non accede per organizzazione strutturale, la memoria procedurale che Tulving opponeva a quella dichiarativa e semantica, la conoscenza implicita dei neuropsicologi cognitivi (alcuni lo chiamano infatti inconscio cognitivo). Al meccanismo del conflitto intrapsichico si oppone quello di trauma relazionale reale. Alla dimensione difensiva si oppone quella strutturale” - Farina quota quindi Meares, il quale come prima anticipato introduce l’idea che la rabbia dei pazienti borderline sia da pensare come una risposta a momenti di fallimento delle funzioni di sintesi entro il “reame” della coscienza (Meares chiama questa discontinuità della coscienza “micropsicopatologia del presente”), per poi ricordare Giovanni Liotti in uno dei suoi lasciti teorici centrali, fondamentali, l’idea cioè che un attaccamento problematico possa indebolire la sopra citata funzione di sintesi e inficiare le funzioni metacognitive in età adulta.
- A riguardo dei principi base della psicoterapia, Farina cita la “condivisione empatica dell’esperienza presente capace di riorganizzare la mente”, il che appunto saprebbe esercitare una forza contraria a quella scaturita dalle esperienze disorganizzanti: l’obiettivo è, in ultima analisi, rendere la dissociazione non necessaria, lavorando su metacognizione e funzioni mentali integrative, rinforzando la sintesi personale entro un contesto di sicurezza relazionale e intimità che -come ricorda Farina citando altri autori (Stern, Weiss, Liotti)-, fanno da base sicura a un processo di riorganizzazione del pensiero, esplorazione e ricordo, che nel caso dei disturbi post-traumatici potranno significare “elaborazione e superamento”.
3: The traumatic disintegration dimension (di Russell Meares e Benedetto Farina, del 2023)
Passiamo in ultimo a questo articolo più recente, pubblicato un anno prima della morte di Meares, firmato anche da Benedetto Farina. Il lavoro si apre con una definizione di dissociazione, per via di un distinguo tra diverse tipologie di dissociazione.
Gli autori evidenziano due tipologie di dissociazione, quella disinibita da quella inibitoria:
- La dissociazione disinibita, teorizzata in primis da Janet, è da pensare come risultato del fallimento di una funzione di sintesi: si avrà qui la sensazione di una “fuoriuscita” di materiale di difficile digestione psicologica
- la dissociazione inibitoria, per la quale la mente mette in atto attivamente meccanismi di separazione/scissione (per esempio generando episodi di amnesia o sintomi fisici, che un tempo venivano chiamati conversivi)
Gli autori notano anche che le due forme di dissociazione, possono presentarsi insieme. Nello specifico (tradotto):
“A volte sono attive insieme. Per esempio, la funzione protettiva della dissociazione inibitoria può essere reclutata per schermare dalla coscienza il materiale traumatico che sta al centro della dissociazione disinibita.”
Sui diversi modi di intendere la dissociazione, si veda anche questo.
Proseguendo nella lettura, gli autori affrontano il tema complesso del processo integrazione/separazione: la mente e il cervello necessitano costantemente di un bilanciamento tra spinte all’integrazione o alla segregazione di contenuti, mediate a livello biologico da interneuroni, funzionali a inibire o integrare segnale (qui per approfondire); quindi, propongono una tesi a riguardo del meccanismo di origine della disintegrazione, da intendersi secondo gli autori come un fallimento di funzioni inibitorie.
Ovvero, per chiarire: anche la forma “disintegrativa”/disinibita della dissociazione sarebbe da intendersi come un fallimento di funzioni inibitorie, elemento in precedenza già indagato da Meares, per esempio qui: The Sensory Filter in Schizophrenia: A Study of Habituation, Arousal, and the Dopamine Hypothesis, a proposito del concetto di abituazione, fallimentare in certi pazienti (come negli schizofrenici non paranoidi), il che -di nuovo- avrebbe a che fare con un fallimento di funzioni inibitorie, con funzioni mentali superiori che non riescono a operare in senso top-down.
Gli autori, citando Porges, proseguono quindi a osservare come nei momenti di fallimento delle funzioni inibitorie siano coinvolti rami diversi del sistema nervoso autonomo, attivato in senso simpatico ma fallimentare nelle funzioni inibitorie garantite dal sistema parasimpatico. Questo Porges lo aveva indagato nei pazienti borderline (The polyvagal theory: New insights into adaptive reactions of the autonomic nervous system), il che va a dare forza all’idea che -come prima introdotto- il disturbo borderline trovi la sua origine in un disturbo post traumatico complesso (anzi, che si configuri come la risposta dell’inidividuo a un PTSDc).
Proseguono poi introducendo gli studi di Liotti sull’attaccamento, che come sappiamo ha fortemente spinto l’idea che un attaccamento disorganizzato avrebbe il potere di intaccare le funzioni mentali superiori (inibizione e sintesi) alterando molteplici aspetti neurobiologici, compreso il funzionamento dei prima citati interneuroni inibitori, e alterando il meccanismo di separazione/integrazione (si veda qui per approfondire) così come di produrre rappresentazioni multiple e incoerenti di sé (si veda il modello liottiano, qui).
Non meno importante, il ruolo della corteccia prefrontale nella regolazione dell’attivazione post-traumatica, e dell’arousal: anche qui, le esperienze avverse in infanzia sembrano avere il potere di danneggiare queste funzioni inibitorie, lasciando l’individuo in balia di disregolazione, stati di allarme e agitazione indotti da -come si sarebbe detto anni fa- “riminiscenze” degli eventi traumatici “primevi”. Farina e Russell citano anche studi molto recenti su bambini maltrattati in relazione a una funzione chiamata di “pattern separation”, che in questi soggetti sarebbe alterata (Hippocampal pattern separation of emotional information determining risk or resilience in individuals exposed to childhood trauma: Linking exposure to neurodevelopmental alterations and threat anticipation), portandoli a un allarme ipergeneralizzato.
Gli autori passano quindi in rassegna alcuni studi a proposito delle esperienze avverse in infanzia (ACE), osservando come sia stata osservata (da diversi gruppi di lavoro, per esempio quello di Ruth Lanius) un’alterazione nel funzionametno di alcune reti neurali fondamentali nella coerenza narrativa di sè -raccolte in quello che chiamiamo Default Mode Network, una sorta di “baricentro” narrativo del Sè, un luogo di auto-narrazione e sintesi. Inoltre, citano gli studi sull’emisfero destro, resi celebri dai lavori di Shore.
In un passaggio particolarmente denso dell’articolo esplicano quindi, in modo esteso, un possibile meccanismo patogenetico del disturbo di personalità borderline, ingenerato da tentativi di adattarsi dell’individuo allo stato post-traumatico; merita qui riportarlo per intero:
“Finally, in the study of early relational trauma and disintegration processes we should consider the continuing interplay between alterations of biological structures (e.g., functional connectivity), the development of mental functions (e.g.,emotional control, continuity of self- experience or mentalization), the interpersonal environment (e.g., attachment figures) and pathogenic beliefs that take shape within the traumatic environment in an attempt to adapt to it. In this sense the traumatic disintegration could have a compounding negative impact on development: it hinders high-level mental functioning, leading to the above mentioned difficulties (e.g., executive functions, social cognition, self- consciousness), while it worsens, through a circular causation, the effects of the pathogenic beliefs and the relationship with the interpersonal and social environment, hampering “healthy personality functioning that should be characterized by openness to experience, flexibility, adaptability… flexibility of cognitive affective schemas… the capacity to constantly re- evaluate the sense of self and relatedness in the course of development” ( Luyten et al., 2020 , p. 90). The overall effect of these complex interactions is also the impairment of cooperative predisposition and trust (both epistemic and affiliative) that contribute to make these patients so resistant to psychotherapy (Liotti & Farina, 2016 )”
Como osserviamo, e come prima ricordato, Russell e Farina, così come altri autori provenienti da ambiti diversi (Liotti, Clara Mucci), spiegano il funzionamento borderline come un tentativo problematico di adattarsi agli stati disregolati e alle tendenze dissociative, di individui con storie traumatiche di sviluppo: da qui ipotizzano l’esistenza di una dimensione traumatica “disintegrativa”, un elemento da ricercare anche in altre forme cliniche (su tutti, alcune forme di disturbo di personalità).
É importante qui ricordare come parte del lavoro di Giovanni Liotti fosse incentrato su questi temi, in particolare pensiamo alle strategie di controllo, qui riassunte.
Concludendo, gli autori presentano il sunto del loro lavoro, che qui elenchiamo in due punti centrali:
- esisterebbe una dimensione traumatica disintegrativa da ricercare anche in altre forme di psicopatologia: una sorta di terreno fertile per l’emersione di altri quadri clinici
- la disintegrazione delle funzioni mentali superiori, sarebbe il primo processo patogenetico anche nelle altre forme di disturbo dissociativo: dal fallimento delle funzioni di sintesi nascerebbero sia la dissociazione disinibita, che quella inibitoria: “Trait disintegrative vulnerability is, thus, the precondition to develop both types of dissociation, regarded as the pathological “functional reorganization of the mind into enduring parallel- distinct structures which operate side by side without being fully integrated with each other”. Semplificando, le funzioni mentali superiori, a seguito di un uno o più eventi traumatici, verrebbero reclutate nel gestire la veemenza delle emozioni conseguenti al trauma stesso: da un loro funzionamento “difettoso” originerebbero sia la dissociazione disinibita che quella inibitoria, come due forme dello stesso disturbo.
CONCLUSIONI
Da questi 3 lavori possiamo farci un’idea del pensiero di Meares a proposito di diverse questioni inerenti la psicopatologia: come osserviamo, il modello neojacksoniano di mente è pienamente adottato, e da Meares complessificato: il complesso mentecervello si strutturerebbe in modo progressivo, crescendo, entro una logica gerarchica. I diversi registri di memoria, come teorizzato da Tulving, si svilupperebbero in modo sequenziale, progressivo, a partire dalla memoria procedurale per andare a quella episodica, e infine a quella autobiografica: la legge di Ribot e le osservazioni sulla neurodegenerazioni, confermerebbero un’architettura ancora una volta gerarchica, con elementi del sistema sovrapposti e in equilibrio dinamico, con aree deputate a inibire altre aree: dal fallimento di questo equilibrio e dal degenerare di queste operazioni di inibizione operato dalla funzioni mentali superiori, si svilupperebbero molte forme di psicopatologia, dalle dissociazioni disinibite a quelle inibitorie, fino a fenomeni di difficile interpretazione come il dejavù.
Quello che di Russell Meares dobbiamo evidenziare, in conclusione, è l’importante lavoro di rilancio del modello neojacksoniano e, attraverso esso, del lavoro di Henri Ey e Janet a proposito dell’architettura della mente e della psicopatologia.
Come abbiamo osservato, l’autore australiano ha esplorato a fondo le implicazioni fenomenologiche del modello, fornendo un importante contributo a riguardo di alcune “chiavi di lettura” di alcuni sintomi: si tratterebbe in molti casi di disturbi della stato della coscienza indotti da tentativi fallimentari da parte del paziente di adattarsi a vissuti post-traumatici di difficile gestione.
Con questo in mente, potremmo approcciare un paziente borderline con un’idea differente in mente, osservando i sintomi del disturbo di personalità come risultanti da penosi sentimenti di discontinuità della coscienza, a cui il paziente stesso tenterebbe di adattarsi. Al di là del quadro borderline, potremo infine ricercare nella storia clinica del paziente aspetti di “adattamento” a vissuti dolorosi, possedendo uno strumento in più per tentare di approcciarne i sintomi.
Da qui, poi, lavorare nella direzione di una maggiore coerenza narrativa e di una maggiore integrazione, con il fine ultimo di “rendere non necessaria la dissociazione“
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TAKEAWAYS
- la dissociazione deriva dal fallimento delle funzioni mentali superiori di sintesi
- il gruppo di originatori del modello neojacksoniano, e i successivi aderenti a questa visione della psicopatologia, sono: Spencer, Henri Bergson, Pierre Janet, Hughlings Jackson, William James, Henri Ey, Russell Meares, Giovanni Liotti, Benedetto Farina
- il lavoro fatto da Giovanni Liotti e Benedetto Farina ha riguardato l’integrazione del modello neojacksoniano con la teoria dell’attaccamento. Quindi: neojacksonismo + Teoria dell’Attaccamento (“Sviluppi traumatici” è il testo di riferimento)
- la dissociazione, nella sue diverse forme, potrebbe essere collegata in modo diretto alle funzioni inibitorie (dissociazione inibitoria) o nel loro fallimento (dissociazione disinibita): tutto originerebbe da una dimensione traumatico-disintegrativa interdiagnostica
ALTRE FONTI
- Camilla Marzocchi sulla concettualizzazione del disturbo borderline per Meares
- Russell Meares: la ‘dolorosa incoerenza’ del Sé nel Disturbo Borderline di Personalità
- 3 MODI DI INTENDERE LA DISSOCIAZIONE, da un intervento di Farina
- le pubblicazioni di Russell Meares
- questi contributi video
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