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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

29 April 2025

INTRODUZIONE AL LAVORO DI FLAVIO CANNISTRÀ

di Raffaele Avico

Per POPMed, sbbiamo chiesto a Flavio Cannistrà di chiarirci le “basi” teoriche della psicoterapia a seduta singola: Flavio ci ha spiegato da dove viene questo approccio, chi l’ha teorizzato, come si svolge un lavoro clinico impostato in questo modo e ci ha fornito alcune indicazioni di approfondimento (che riportiamo in calce).

Approcciarsi a un paziente in questo modo significa dare valore e importanza a ogni singolo incontro: Cannistrà ci ricorda che “una singola seduta” è statisticamente il dato che più ricorre tra chi si approcci alla psicoterapia.
Partendo da questo assunto, l’approccio a seduta singola sviluppa un metodo che pensa al paziente come ad un soggetto attivo, saldamente alleato con il/la terapeuta, in grado di fare molto lavoro anche “in autonomia”. Sempre di Cannistrà, abbiamo anche recensito di recente questo saggio.

Vi invitiamo a dare un’occhiata anche alla scuola fondata di Cannistrà insieme a Federico Piccirilli, a questo sito.

Di seguito la bibliografia consigliataci da Cannistrà, per chi volesse approfondire:

  1. Bennett, S. D., Myles-Hooton, P., Schleider, J. L., & Shafran, R. (Eds.) (2022). The Oxford Guide to Brief and Low Intensity Interventions for Children and Young People. Oxford University Press.
  2. Cannistrà, F. & Hoyt, M. F. (2025). Single Session Therapies. Why and How One-At-A-Time Mindsets are Effective. Routledge.
  3. Cannistrà, F. & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti.
  4. Hoyt, M. F. & Cannistrà, F. (2023). Conversazioni di terapia breve. EPC.
  5. Hoyt, M. F. & Talmon, M. (2014). Capturing the moment. (tr. it. Terapia a seduta singola e servizi walk-in. Capturing the moment. CISU, 2018).
  6. Schleider, J. L., Zapata J.P., Rapoport, A., Wescott, A., Ghosh, A., Kaveladze, B., Szkody, E., & Ahuvia I. (2025). Single-session interventions for mental health problems and service engagement: umbrella review of systematic reviews and meta-analyses. Annual Review of Clinical Psychology, 21.
  7. Talmon, M. (1990). Single Session Therapy. Jossey-Bass (tr. it. Psicoterapia a seduta singola. Erickson, 1996).

Qui di seguito l’intervista, buona visione!

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NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti

Article by admin / Generale / interviste

23 April 2025

L’UOMO SOVRASOCIALIZZATO. INTRODUZIONE AL PENSIERO DI Ted Kaczynski (UNABOMBER)


di Raffaele Avico

PREMESSA: il pensiero di Unabomber può apparire controverso, di difficile inquadramento ideologico. Qui lo pubblichiamo perché riteniamo che le riflessioni formulate da Ted Kaczynski negli anni ’90 (più di trent’anni fa) mettano in luce con estrema lucidità molte delle storture che oggi viviamo quotidianamente. Unabomber è stato diagnosticato con la pesante etichetta di schizofrenico paranoide, ma fino alla fine del suo processo rivendicò la propria lucidità mentale, rinunciando alle attenuanti che quella diagnosi gli avrebbe concesso. Il suo pensiero sembra, piuttosto, il risultato di un percorso di osservazione di incredibile penetranza sulle dinamiche psicologiche dell’uomo “immerso” nel sistema tecnologico moderno. Le critiche che rivolge, in modo molto netto, alla sinistra liberale americana non sono, a mio parere, necessariamente da intendersi come una rivendicazione di appartenenza alla destra, quanto più una critica a un partito che Kaczynski riteneva, in ultima analisi, difendere il sistema dominante — la “macchina”— attraverso continue scissioni interne e battaglie -a suo giudizio- pretestuose. Il suo pensiero si colloca su una linea di confine tra diverse ideologie, risultando di interesse tra attivisti eco-ambientali, militanti di destra o di sinistra estrema. Al di là delle appartenenze, che in questo caso risultano poco rilevanti, spicca l’assoluta potenza interpretativa e analitica delle idee di “Ted”, formulate in un’epoca in cui i social media non esistevano ancora e Internet era agli albori. In questo articolo verranno messi in luce aspetti inerenti alcune dinamiche psicologiche che Kaczynski aveva individuato, per lo più risultanti, dal suo punto di vista, dall’impatto del sistema tecnocratico sull’uomo moderno. L’ambiente, così come è costruito, risulta essere estremamente nevrotizzante per la psiche umana, con un potere coercitivo e liberticida che si origina dalla soppressione continua e subdola di istinti primari (come si leggerà in merito al tema “potere e autonomia”), insieme a una spinta verso un conformismo totale che — secondo Unabomber — passa attraverso la tecnologia (ormai “cuore della politica”) e i bisogni da essa indotti. Al di là, dunque, degli aspetti ideologici — qui poco utili — si tratta di un pensatore “folle”, lucidissimo sul presente e profetico se si considera che i suoi testi, come si diceva, sono stati scritti trent’anni fa. (R. A.)

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Il manifesto politico di Unabomber è da poco stato pubblicato per D edizioni: si tratta di un testo rimaneggiato e lavorato da Ted Kaczynski poco prima della sua morte -avvenuta nel 2023.

Kaczynski era un matematico di Berkeley, nel cuore della sua carriera ritiratosi a vita anarco-primitivista nei boschi del Montana -e da lì proseguiva la sua attività di attivista “contro il sistema tecnologico).  Il messaggio che Unabomber lancia da questo manifesto, scritto sotto forma di pensieri/note tra loro indipendenti ma raccolti in capitoli ognuno con un “tema”, è una pesante critica al sistema americano e al turbocapitalismo, e all’”inevitabilismo” del progresso tecnologico portato avanti da tecnocrati interessati al profitto.

Il libro ruota intorno alla possibilità immaginata da K. di avviare un cambiamento rivoluzionario, un collasso del sistema tecnologico ad opera di individui che decidessero di attaccarlo in modo diretto: il suo stile mette insieme una forte ideologia luddista e anarchica, a un pragmatismo tutto americano. Unabomber credeva fermamente nel suo progetto di rivolta, e incarnò per primo il cambiamente che voleva accadesse, a partire dalle precoci dimissioni da Berkeley -precedenti a un periodo di isolamento nella natura selvaggia: a 29 anni, Kaczynski si trasferì in una baracca di undici metri quadri senza elettricità né acqua, nei pressi di Lincoln, nel Montana. Da lì partì il progetto “Freedom Club” e il suo proposito di divulgare il suo manifesto, “La società industriale e il suo futuro”, diffuso tramite quotidiani negli anni a seguire -sotto minacce di ulteriori attentati dinamitardi.

“La società industriale e il suo futuro” contiene molteplici spunti di riflessione che vale la pena riprendere, soprattutto nelle sue riflessioni “psicologiche”, e inerenti l’impatto della società sulla psicologia dell’individuo. Uno dei primi capitoli presenta il concetto di “sovrasocializzazione“. Secondo K., l’uomo moderno viene esposto da quando nasce a un sistema di leggi e convenzioni sociali, al fine di “socializzarlo” correttamente. Ma cosa accade a un individuo che assorba e si identifichi “troppo” a questo insieme di regolamentazioni e usi “normali”? Unabomber parla di sovrasocializzazione, un processo in cui gli individui, sin dall’infanzia, vengono condizionati in modo così intenso dalle norme, dai valori e dalle aspettative della società, che perdono la loro capacità di pensare in modo indipendente e agire in base ai propri istinti e desideri. Lo declina attraverso quattro punti:

  1. Conformità estesa: Gli individui sovrasocializzati interiorizzano le norme sociali in modo così profondo che ogni pensiero o azione che si discosti da queste norme provoca in loro un senso di colpa o vergogna. Kaczynski sostiene che questa conformità estrema soffochi la creatività e l’individualità.
  2. Colpa e vergogna: Le persone sovrasocializzate non solo seguono le regole della società, ma sono anche fortemente influenzate da sensi di colpa e vergogna quando avvertono di deviare, anche minimamente, da tali regole. Questo li rende particolarmente vulnerabili al controllo sociale e alla manipolazione.
  3. Senso di inferiorità: Secondo Kaczynski, la sovrasocializzazione contribuisce a creare un senso di inferiorità negli individui: rendere prioritaria la difesa dei diritti inerenti la collettività a scapito dell’individuo, rivelerebbe un senso di difficoltà da parte degli individui nel “vivere lontano dal branco” (da qui l’esasperata tensione alla difesa delle minoranze, qualunque esse siano)
  4. Dipendenza dalla società: Le persone sovrasocializzate dipendono dalla società per definire i loro valori, obiettivi e identità, perdendo la capacità di sviluppare un senso autonomo di sé. Questo porta alla perdita di libertà individuale, poiché ogni aspetto della loro vita è governato dalle aspettative sociali.

Kaczynski vede la sovrasocializzazione come un prodotto della società industriale, che richiede un elevato grado di conformità per mantenere l’ordine e l’efficienza. Nel suo manifesto, critica aspramente questa tendenza, sostenendo che è una delle ragioni per cui gli individui non sono più liberi e sono invece intrappolati in un sistema che li opprime e li aliena.
Nel testo, Unabomber critica poi la categoria dei “liberali”, accusati di nascondere al di sotto di tematiche universali come la lotta all’immigrazione e alla violenza sulle donne, desideri nascosti di autoritarismo e potere. La sua idea è che le minoranze vengano utilizzate dalla “sinistra moderna” come pretesto per rinforzare la compattezza politica dei partiti stessi, senza compiere un vero attacco nei confronti delle spinte andidemocratiche -anzi, colludendo con le stesse; fa inoltre riferimento al prima citato fenomeno della sovrasocializzazione, di cui gli individui che si definiscono progressisti e “liberal” sarebbero particolarmente affetti.
Nella pagina dedicata a Kaczynski di Anarcopedia, viene chiaramente spiegato il suo pensiero. Leggiamo:

“Il pensiero di Theodore Kaczynski, esplicitato nel suo Manifesto (La Società Industriale e il Suo Futuro), è riassumibile in quattro punti fondamentali:

  • Il progresso tecnologico comporta un inevitabile disastro ecologico.
  • Solo il crollo della civiltà moderna può prevenire un disastro.
  • La sinistra politica è in prima linea in difesa della società tecnologica alienante.
  • Ciò che serve è un nuovo movimento rivoluzionario che si batta contro la società tecnologica e adotti misure per impedire alla sinistra di nuocere i rivoluzionari con il suo senso d’inferiorità che trasmette agli individui e con le politiche di sovrasocializzazione.

Secondo Kaczynski la “sinistra” è la corrente dei perdenti, poiché difende chi ha di meno, chi è emarginato, chi è sfruttato, cioè chi sta perdendo nei confronti della società. Egli ritiene che la sinistra non vuole abbattere le strutture che hanno causato determinate ingiustizie, ma pretende una “semplice” rivincita dei perdenti sui padroni rimanendo all’interno della stessa organizzazione statale. Per ottenere questa rivincita, la “sinistra” auspica la presenza invasiva dello Stato e così facendo, sostiene Kaczynski, si sovrasocializza l’individuo, cioè lo si vincola in maniera così totalizzante che questo non avrà più alcuna libertà.

Kaczynski giustifica apertamente la violenza dei suoi atti: «A mio modesto parere, l’uso della violenza (ad esempio contro la realizzazione di una società tecnologica disumana) è auto-difesa. Alcuni possono obiettare, naturalmente. Se pensate che sia immorale e scorretto, allora si dovrebbe evitare qualsiasi uso della violenza. Ma ho una domanda per voi in questo contesto: che tipo di violenza ha causato i danni maggiori nella storia del genere umano? La violenza che fu sancita dagli Stati (società, cultura, ideologia). O la violenza che fu usata senza sanzioni, da parte di individui?»

Egli ritiene che la rivoluzione industriale abbia portato ad un ordine economico e politico che si pone in antitesi all’ordine naturale; che riduce la libertà individuale, trasforma l’uomo in un semplice ingranaggio del sistema tecnologico e in breve tempo distruggerà la razza umana stesso. La conseguenza è che non ci sono margini per riformare la società perché «questo sistema non esiste per soddisfare i bisogni umani, non ne è capace. I desideri e i comportamenti degli uomini devono essere modificati per soddisfare le esigenze di questo sistema».

Ted Kaczynski sostiene quindi l’impossibilità di scendere a compromessi con la civiltà industriale. Egli ritiene inoltre che le specifiche lotte – ecologiste\animaliste\sociali – (liberazione animale, lotta all’inquinamento, lotta per le rivendicazioni sindacali ecc.), seppur lodevoli, non intaccano in alcun modo il sistema industriale, per questo sostiene che, se si vuol distruggere la civiltà moderna, sia necessario colpire i suoi gangli vitali: per es. il sistema delle telecomunicazioni, il sistema dell’energia elettrica, gli apparati dell’istruzione scientifica ecc.

Il suo pensiero è per molti tratti affine alle correnti maggiormente radicali dell’eco-anarchismo. Il movimento anarchico è però diviso riguardo alle azioni di Kaczynski: una parte, formata principalmente da individualisti e primitivisti (es. John Moore e John Zerzan), lo ritiene un anarchico a tutti gli effetti, seppur non condivida al 100% il suo pensiero; un’altra parte invece non lo considera per nulla anarchico quanto piuttosto un ecologista radicale”.

Unabomber aveva però idee molto lucide relativamente a problemi diversi, che qui tenteremo di formalizzare usando la funzione deepresearch di Chatgpt, suddivisi per argomento. Il testo è supervisionato e controllato, e non presenta inesattezze di concetto.
Tra parentesi, le fonti cliccabili.

POTERE, AUTODETERMINAZIONE E ATTIVITÁ SURROGATE

“Un concetto centrale nell’analisi di Kaczynski è quello di “processo del potere” (power process). Con questo termine egli indica l’insieme di quattro elementi fondamentali per la salute psicologica dell’individuo: l’avere obiettivi da raggiungere, l’intraprendere sforzi autonomi per perseguirli, il raggiungimento (anche parziale) di tali scopi, e un certo grado di autonomia nel tutto (thetedkarchive.comthetedkarchive.com). Kaczynski, rifacendosi implicitamente a idee etologiche ed evolutive, sostiene che l’essere umano ha bisogno di sperimentare questo processo per sentirsi realizzato. Se una persona viene privata della possibilità di fissare mete significative e di lottare per esse, subirà gravi conseguenze psicologiche: “la mancata realizzazione di scopi importanti provoca frustrazione… Il fallimento costante nel raggiungere obiettivi porta a sconforto, bassa autostima o depressione. Dunque, per evitare seri problemi psicologici, un essere umano ha bisogno di obiettivi il cui raggiungimento richieda impegno, e deve avere un ragionevole tasso di successo nel conseguirli (thetedkarchive.com). In altre parole, non è il potere in sé ad essere necessario, ma l’esperienza di un percorso di autodeterminazione. Senza questo, l’individuo cade in apatia, sente di non avere controllo sulla propria vita e sviluppa patologie come senso di inferiorità e depressione.

Kaczynski argomenta che la società moderna ha interrotto il processo del potere per la maggior parte degli individui. Nelle condizioni preindustriali, raggiungere i propri mezzi di sussistenza (cibo, riparo, sicurezza) richiedeva sforzo, ingegno e autonomia, fornendo così soddisfazione psicologica una volta ottenuti risultati. Nel mondo industriale avanzato, al contrario, “uno sforzo minimo è necessario per soddisfare i propri bisogni fisici”: basta acquisire qualche competenza tecnica, trovare un impiego e “soprattutto [mostrare] semplice obbedienza” per essere mantenuti “dalla culla alla tomba” dal sistema (web.cs.ucdavis.edu). Il benessere materiale “automatico” erogato dalla società tecnologica, se da un lato elimina molte fatiche pratiche, dall’altro svuota l’esistenza di sfide personali autentiche. Gli uomini e le donne comuni non devono più lottare quotidianamente per la sopravvivenza o prendere grandi decisioni autonome: istruiti a svolgere un ruolo specialistico, inseriti in organizzazioni gerarchiche, funzionano come parti di un ingranaggio più grande. In questa condizione di eterodirezione, il naturale bisogno umano di impiegare energie verso mete significative non scompare, ma viene reindirizzato verso scopi artificiali. Kaczynski chiama questi surrogati di scopi “attività surrogate” (surrogate activities).

Le attività surrogate sono definite come quei progetti o occupazioni che “sono rivolti a un fine artificiale che le persone si prefiggono al solo scopo di avere qualche obiettivo da perseguire, o, per così dire, unicamente per il ‘soddisfacimento’ che deriva dal perseguimento dell’obiettivo” (thetedkarchive.com). In pratica, si tratta di obiettivi auto-imposti che non rispondono a bisogni biologici o necessità reali, ma che servono a compensare la mancanza di sfide significative. Kaczynski porta alcuni esempi storici e contemporanei: gli aristocratici annoiati dell’antica Roma si dedicavano ossessivamente alla retorica o alla caccia sportiva pur non avendone bisogno alimentare (web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu); l’imperatore giapponese Hirohito divenne un rinomato esperto di biologia marina – “un’attività surrogata, poiché se avesse dovuto spendere il suo tempo a procurarsi il necessario per vivere con attività pratiche varie e interessanti, non avrebbe sentito la mancanza di conoscere tutto sull’anatomia degli animali marini” (web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu). Nella società moderna, afferma Kaczynski, le attività surrogate abbondano: “la società moderna è piena di attività surrogate. Queste includono il lavoro scientifico, il raggiungimento atletico, l’impegno umanitario, la creazione artistica e letteraria, la scalata della gerarchia aziendale, l’acquisizione di denaro e beni oltre il punto in cui aggiungono soddisfazione fisica, e l’attivismo sociale su questioni marginali”(web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu). Molte di queste occupazioni – ricerca scientifica, sport, volontariato, collezionismo, perfino alcuni tipi di militanza politica – fungono da valvole di sfogo: canalizzano l’energia e l’ansia dell’individuo dandogli qualcosa da fare, un obiettivo arbitrario su cui concentrarsi, in assenza di scopi più fondamentali.

Secondo Kaczynski, le attività surrogate hanno una duplice natura. Da un lato, possono offrire un certo grado di soddisfazione: spesso chi vi si dedica trae più appagamento emotivo da esse che non dalle attività “banali” con cui soddisfa i propri bisogni primari (web.cs.ucdavis.edu). Ciò accade perché, a differenza del lavoro necessario imposto dalle esigenze del sistema, i progetti surrogati sono scelti volontariamente e permettono all’individuo di esercitare creatività e decisione. Kaczynski nota infatti che nelle attività surrogate “le persone generalmente hanno un ampio margine di autonomia nel perseguirle”, mentre “nella nostra società [le persone] non soddisfano i bisogni biologici in modo autonomo, ma funzionando come parti di un’immensa macchina sociale”(web.cs.ucdavis.edu). Questa autonomia relativa spiega il senso di realizzazione che, ad esempio, uno scienziato può provare nel portare avanti le proprie ricerche o un collezionista nel completare la propria collezione, anche se tali obiettivi non hanno un’utilità pratica diretta. D’altro canto, Kaczynski sottolinea che le mete surrogate rimangono, in ultima analisi, meno appaganti di quelle reali legate al processo del potere. Esse raramente conferiscono un senso di completo appagamento interiore: “per molti, se non per la maggior parte delle persone, le attività surrogate sono meno soddisfacenti della ricerca di obiettivi reali (cioè obiettivi che si vorrebbero raggiungere anche se il proprio bisogno del processo del potere fosse già soddisfatto). Un segno di ciò è il fatto che, in molti casi, le persone profondamente coinvolte in attività surrogate non sono mai soddisfatte, mai in quiete”(web.cs.ucdavis.eduweb.cs.ucdavis.edu). Infatti chi si dedica a un’attività surrogata tende a non accontentarsi mai del risultato raggiunto: “il cercatore di denaro cerca costantemente sempre più ricchezza. Lo scienziato, appena risolve un problema, passa al successivo. Il corridore di maratone si sforza di correre sempre più lontano e più veloce”(web.cs.ucdavis.edu). Questa corsa senza fine indica che i surrogati non colmano veramente il vuoto di significato lasciato dalla mancanza di un vero processo autodeterminato. Molti ammettono di dedicarsi con più entusiasmo ai loro hobby o carriere che non alla “noiosa” routine di mantenimento della vita, “ma ciò avviene perché nella nostra società lo sforzo necessario a soddisfare i bisogni biologici è stato ridotto alla banalità”. In definitiva, argomenta Kaczynski, le attività surrogate sono palliativi: alleviano in parte la tensione psicologica provocata dall’assenza di sfide significative, ma non possono eliminarla. Per molte persone “queste forme artificiali di processo del potere sono insufficienti”(web.cs.ucdavis.edu), il che le lascia in uno stato di perenne inquietudine. L’uomo moderno cerca disperatamente scopi da perseguire, ma finché resta all’interno del sistema tecnologico, sostiene Kaczynski, non potrà trovare una realizzazione autentica, poiché gli mancano sia la necessità sia la libertà di condurre una vita pienamente autodeterminata.”

PERDITA DI AUTONOMIA 

Strettamente legata al tema precedente è la denuncia della perdita di autonomia dell’individuo nella società tecnologica. Per Kaczynski, l’avanzare del sistema industriale ha progressivamente eroso la capacità degli individui di dirigere la propria vita. Le decisioni un tempo prese a livello personale o comunitario vengono inglobate in meccanismi più vasti, e il comportamento umano è sempre più eterodiretto da esigenze tecniche. Nel manifesto si legge che “il sistema deve regolare da vicino il comportamento umano per poter funzionare” (thetedkarchive.com). Questa frase coglie la logica interna di una società iper-organizzata: per far sì che milioni di persone cooperino all’interno di strutture complesse (fabbriche, burocrazie, eserciti, reti globali), il sistema impone regole, routine e norme che lasciano poco spazio all’iniziativa individuale. Kaczynski fa notare come persino le scelte educative e i valori siano plasmati in funzione della macchina sociale: “se il sistema ha bisogno di scienziati e matematici, viene organizzata una campagna per spingere i giovani a studiare queste materie” (thetedkarchive.com). In questo modo, il rapporto mezzi-fini si inverte: invece che la tecnologia servire ai bisogni umani, sono gli esseri umani ad essere formati e indirizzati per servire le necessità del sistema tecnologico. L’uso di termini come “il sistema ha bisogno di…” (quasi fosse un soggetto vivo) evidenzia, come nota anche Michel Foucault, una capovolgimento dell’agency: il potere e l’iniziativa risiedono nel sistema, mentre le persone diventano semplici esecutori (thetedkarchive.com).

Kaczynski insiste sul fatto che la dipendenza degli individui dal sistema è ormai totale: l’uomo moderno non saprebbe sopravvivere al di fuori delle strutture fornite dalla società industriale, e per usufruirne deve conformarsi. Egli “non soddisfa i propri bisogni biologici autonomamente, ma funzionando come parte di un’immensa macchina sociale” (web.cs.ucdavis.edu). Ciò rappresenta una perdita di libertà sostanziale, anche se mascherata dall’apparente comodità. L’autonomia, intesa come capacità di auto-determinazione, viene sacrificata in nome dell’efficienza e della sicurezza materiale offerte dal sistema. Kaczynski afferma esplicitamente che “non c’è modo di riformare o modificare il sistema in modo da impedirgli di privare le persone della dignità e dell’autonomia” (web.cs.ucdavis.edu). In una società tecnologica avanzata, infatti, la maggior parte delle decisioni importanti (cosa produrre, come distribuirlo, quali rischi accettare, quali comportamenti sono consentiti) viene presa da apparati tecnici o burocratici che operano su scala di massa, mentre all’individuo resta solo la scelta tra opzioni preconfezionate (libertà formale ma non sostanziale). Kaczynski teme che col tempo la situazione peggiori: più il sistema diventa complesso, più stringenti saranno i vincoli sul comportamento dei singoli, fino a potenziali estremi di controllo bio-tecnologico dell’essere umano (un’ipotesi che anticipa le odierne discussioni su sorveglianza digitale, ingegneria genetica, ecc.). In sintesi, l’individuo viene addomesticato dal sistema. Questa idea di Kaczynski richiama la descrizione foucaultiana della modernità come fabbrica di “corpi docili”, ovvero individui resi docili e utili tramite disciplina e addestramento. Foucault nota che “la disciplina crea ‘corpi docili’, ideali per le esigenze dell’economia, della politica e della guerra nell’era industriale – corpi che funzionano in fabbrica, in reggimenti militari, in aule scolastiche”(en.wikipedia.org). Similmente, Kaczynski vede l’uomo tecnologico come un ingranaggio obbediente, formato per occupare efficacemente la propria casella (di produttore, consumatore, impiegato, ecc.) ma privo di autentica indipendenza.

Un altro aspetto della perdita di autonomia, secondo Kaczynski, è la progressiva scomparsa delle decisioni su piccola scala. Nel passato, molte questioni venivano risolte a livello individuale o nelle comunità locali (come costruire una casa, procurarsi il cibo, risolvere dispute); oggi, invece, si dipende da sistemi centralizzati e si è vincolati da leggi e procedure impersonali. Anche quando si crede di agire per scelta propria, spesso si sta solo seguendo un percorso prefabbricato. Kaczynski fa l’esempio dei lavori moderni: il lavoratore contemporaneo, pur impegnandosi intensamente per “guadagnarsi da vivere”, in realtà dedica la sua vita a eseguire compiti decisi da altri, perseguendo obiettivi aziendali o burocratici che non ha scelto. Egli “svolge i propri sforzi come parte di un’organizzazione enorme, sotto ordini rigidi, senza margine per decisioni o iniziative autonome”(web.cs.ucdavis.edu). Questo equivale a delegare la propria volontà al sistema. Alcuni individui, ammette Kaczynski, sembrano adattarsi a questa condizione: c’è chi ha uno scarso bisogno di autonomia personale e magari trova soddisfazione identificandosi con un’organizzazione potente (lo “sbirro buono” o il soldato modello che trae senso di potere dall’obbedire e appartenere a un corpo armato) (web.cs.ucdavis.edu). Ma per la maggioranza delle persone, egli sostiene, vivere senza sufficiente autonomia nel fissare e perseguire scopi porta a profonde sofferenze interiori. In definitiva, Kaczynski vede nella modernità una contraddizione insanabile: da un lato l’uomo necessita di autonomia per essere psicologicamente sano, dall’altro la mega-società tecnologica richiede obbedienza e conformità. La sua risposta, per quanto estrema, è risolvere la contraddizione eliminando il secondo termine: distruggere il sistema e tornare a condizioni in cui i singoli (o piccole comunità) possano riprendere in mano il controllo della propria esistenza.

Va notato che questa enfasi di Kaczynski sulla perdita di autonomia riprende motivi presenti in altre critiche della società industriale. Ad esempio, l’attivista e pensatore Ivan Illich negli anni ’70 analizzò come le istituzioni moderne (scuola, medicina, trasporti, ecc.) espropriano gli individui delle loro capacità, rendendoli dipendenti da esperti e macchine. Nel suo La convivialità (1973), Illich proponeva di limitare la scala della tecnologia e creare una “società conviviale” in cui “la libertà individuale [sia] realizzata nella reciprocità personale ed elevata a valore etico intrinseco”(cbhd.org). Egli denunciava il fatto che l’industrialismo ha “esternalizzato” bisogni e abilità umane in apparati tecnici, così che “le macchine sono divenute la fonte primaria di sussistenza nella nostra società, e l’uomo si limita ad operarle”(cbhd.org). Questo riecheggia la visione di Kaczynski dell’uomo moderno ridotto a operatore passivo di un sistema che lo nutre e lo controlla al contempo. La differenza è che Illich auspicava un cambiamento volontario e morale verso tecnologie adatte all’uomo (conviviali), mentre Kaczynski vede l’unica via in una rivoluzione contro l’intero apparato tecnologico.

SOVRASOCIALIZZAZIONE

Un altro concetto chiave nell’analisi psicologica di Kaczynski è quello di sovrasocializzazione (oversocialization), introdotto nel paragrafo 9 del suo manifesto. Per Kaczynski, la sovrasocializzazione è un processo attraverso il quale gli individui interiorizzano in modo eccessivo le norme e i valori imposti dalla società, fino al punto da soffocare l’autonomia, la spontaneità e la vitalità psichica. Egli scrive:

“Molti dei mali di cui soffre la nostra società moderna sono dovuti al fatto che essa forza la gente a comportarsi in modo eccessivamente socializzato.”

Per Kaczynski, essere socializzati è, in parte, inevitabile e necessario: ogni società insegna ai suoi membri a rispettare certe regole e comportamenti. Ma nella società industriale, questo processo si è iper-amplificato al punto da rendere molte persone psicologicamente ingabbiate.

La sovrasocializzazione crea soggetti iper-conformi, che reprimono i propri bisogni profondi per aderire al modello “giusto” definito dalla società moderna: produttivi, gentili, pacifici, cooperativi, “socialmente responsabili” – ma psicologicamente impoveriti.

Kaczynski osserva che la sovrasocializzazione è un potente strumento di controllo: se le persone si auto-puniscono per pensieri “sbagliati”, non c’è nemmeno bisogno della polizia o della censura. L’individuo interiorizza il sorvegliante.

In questo senso, il suo pensiero si avvicina a quello di Foucault, soprattutto all’idea di “governamentalità” e “potere pastorale”, per cui le società moderne esercitano il potere non solo attraverso la repressione esterna, ma attraverso l’introiezione del controllo.

Kaczynski, però, spinge la critica ancora oltre, affermando che la sovrasocializzazione non è solo un problema politico o etico, ma psicologico ed esistenziale: essa distrugge la possibilità dell’essere umano di svilupparsi in modo pieno, autonomo e vitale.

Un punto interessante che Kaczynski sviluppa è che molti attivisti progressisti, pur essendo critici verso aspetti della società, sono essi stessi sovrasocializzati. Per esempio, alcuni movimenti femministi, antirazzisti o ecologisti agiscono, secondo lui, più per senso di colpa e di dovere morale che per una spinta genuina di libertà. Scrive che questi attivisti:

“si sforzano di pensare e agire correttamente secondo gli standard della società, il che significa interiorizzare un gran numero di regole di comportamento e sentirsi in colpa per ogni pensiero o impulso che va contro queste regole”.

In questo, Kaczynski anticipa alcune critiche contemporanee al moralismo normativo e all’eccesso di “virtù pubblica” come forma di controllo.


Per chi volesse approfondire in modo integrale il pensiero di Unabomber, qui è possibile acquistare il suo manifesto. In alternativa, qui il libro in PDF (in inglese). Esistono in rete molti luoghi di approfondimento del suo affascinante e controverso modo di vedere il mondo: in particolare questo archivio, che raccoglie molto del materiale da lui pubblicato. Anche questo articolo. Progetto Razzia ha inoltre pubblicato qualche anno fa un video molto ben fatto, che richiede un ascolto attento. Meno di valore ma ugualmente interessante, le piattaforme hanno qualche anno fa divulgato la sua storia tramite una serie, Manhunt.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale

15 April 2025

RECENSIONE DI “CONVERSAZIONI DI TERAPIA BREVE” DI FLAVIO CANNISTRÁ E MICHAEL F. HOYT

di Raffaele Avico

Il volume “Conversazioni di terapia breve” esplora i temi della psicoterapia breve e “a seduta singola” per via di una trascrizione di un serie di dialoghi, intrattenuti in momenti diversi, tra Flavio Cannistrà e uno dei suoi mentori, Michael Hoyt.

La forma intervista rappresenta un modo agevole per introdursi a un tema: in questo caso abbiamo la possibilità di sentire raccontata la teoria della psicoterapia breve e la teoria a seduta singola da parte di uno dei suoi originatori, a sua volta in debito verso altri della scuola di Palo Alto, che puntualmente troviamo citati nel testo.

Si ha così l’opportunità di scoprire molti nomi “minori” della teoria della psicoterapia breve, con la possibilità di approfondire i diversi approcci.

La Scuola di Palo Alto, e nello specifico un luogo che oggi esiste solo nella forma di fondazione, il Mental Research Institute, ha a partire dagli anni ‘60 introdotto sulle scena della psicoterapia mondiale moltissime innovazioni, che sarebbero state destinate a restare.
La psicoterapia sistemica, la psicoterapia breve, quella a seduta singola, la scuola di Nardone in Italia, devono tutto agli incredibili anni, fruttuosi, dei “maestri” originatori -che in questo libro troviamo citati più volte.
Un tratto peculiare di quel gruppo di individui e di coloro che ne hanno raccolto il testimone nella ricerca in psicoterapia, è un’incredibile umiltà intellettuale associata al pragmatismo americano, insieme al coraggio di mettere in discussione l’ortodossia (che in quegli anni era rappresentata dall’Europa e dalla psicoanalisi). Di quell’umiltà, di quell’apertura e di quel pragmatismo parla anche Andrea Vallarino in un suo volume recentemente pubblicato, in particolare rispetto alla figura di Paul Watzlawick.

Nel corso della lettura di “Conversazioni di terapia breve” si apprendono molti aspetti della psicoterapia a seduta singola, in primis l’idea che “a seduta singola” non vuol dire che il percorso con un “cliente” (come preferiscono chiamarlo) si limiti effettivamente a un singolo incontro: se mai, l’idea è che una singola seduta possa essere “autoconclusiva” e che si possa lavorare con la persona perché quest’ultima possa trarne giovamento -o un motivo di trasformazione. Viene data estrema importanza al concetto di empowerment del paziente, e che un buon parte del lavoro venga fatta dal paziente stesso, con risorse che tocca al terapeuta evocare e promuovere.

In generale troviamo riferimenti a pratiche comuni nelle diverse scuole di psicoterapia breve, con però alcune differenze di razionale di intervento, che Cannistrà (che su POPMed avevamo già intervistato, qui) non manca di esplicitare.

Il rischio di semplificare troppo la complessità del portato del paziente viene fugato qui da un approccio orientato a un “minimalismo clinico” che vuole intervenire con quello che funziona e dove serve, in modo strategicamente orientato.

Si tratta di coinvolgere attivamente il paziente nel lavoro clinico, muovendo da un’alleanza forte e procedendo per obiettivi, il più possibile aderenti alle risorse portate in seduta.
Altrove abbiamo più volte intervistato e coinvolto Andrea Vallarino, e chi avesse letto alcuni dei contenuti che lo riguardavano potrà riconoscere nell’approccio di Cannistrà e Hoyt un’uguale attenzione al presente e a quelle che universalmente (in terapia breve o breve/strategica) vengono chiamate “tentate soluzioni”, nell’idea che il paziente faccia di tutto per migliorare, spesso però complessificando il suo stesso vissuto, e bloccandosi in modalità di pensiero disfunzionale. Si pensi per esempio al modello sul controllo per il panico -problema diffusissimo e frequentemente incontrato dagli operatori della salute mentale- ingenerato da stratificazioni di storture cognitive, paradossalmente atte a controllare i sintomi stessi.

I clinici di Palo Alto, come leggiamo in questo libro, sono stati da sempre dei fini osservatori della psicologia umana, nel tentativo di estrarne “modalità patogene” con un approccio estremamente pragmatico: il concetto di tentata soluzione è solo uno dei tanti, ma pensiamo per esempio al problema del doppio legame, ai paradossi legati all’ipercontrollo, alla natura essa stessa paradossale (a volte) della psicologia umana.

Per Cannistrà e Hoyt si tratta di aiutare il paziente a stare meglio, e stare meglio in modo rapido, soprattutto quando fortemente sofferente.
La terapia a seduta singola o breve pare adattarsi meglio a situazioni cliniche peculiari, come quando esista un eccesso di ragionamento o la persona si trovi incastrata in schemi di pensiero disfunzionali; leggendo questo volume viene tuttavia complesso immaginare una terapia a seduta singola con un paziente fortemente depresso o melanconico, o ipotizzare un intervento su un disturbo grave di personalità, al di là delle “prescrizioni” che i terapeuti di questa scuola solitamente consegnano al paziente. Con pazienti affetti da disturbi di natura affettiva, ci si potrebbe chiedere il ruolo -come sappiamo centrale- della relazione (al di là della “semplice” alleanza).

A fine lettura si ha in ogni caso la sensazione che esista un’apertura degli autori a una messa in discussione e verso un apprendimento “continuo”, cosa di rado presente in libri provenienti da altre scuole di pensiero.

Molto interessante e bella la definizione di logica, e l’accento sulla distinzione dal concetto di strategia: il terapeuta breve e quello a seduta singola si avvarranno di “logiche” di intervento -più flessibili e indeterminate delle strategie, ma altrettanto efficaci- in grado appunto di adattarsi alla complessità portata dal cliente.

Pubblichiamo in toto un estratto dal volume, che raccoglie 9 logiche di intervento da applicare in vari casi, una variazione di un articolo già apparso qui.

Anche chi non fosse interessato al tema terapia breve, potrà trarne spunti di interesse e modalità pratiche di intervenire con uno dei suoi pazienti (o su se stesso).

Buona lettura!

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1 April 2025

RICERCA E DIVULGAZIONE IN AMBITO DI PSICHEDELICI: 10 LINK

di Raffaele Avico


Raccogliamo qui una decina di link “strategici” per avventurarsi in questa “età dell’oro” della ricerca e dello studio sugli effetti delle sostanze psichedeliche, e per capire come questo lavoro di riscoperta impatterà il mondo della nuova psicoterapia e della psichiatria.
Eccoli.

  1. una selezione di documentari video accurata ed esaustiva sulla psichedelia mondiale
  2. l’incredibile lavoro di Andrew Gallimore sulla DMT. Gallimore ha tentato di “mappare” il mondo “creato” dall’utilizzo di DMT attraverso diversi libri; in questi anni si sta in particolare dedicando allo studio della DMT infusa in modo prolungato (si veda questo studio). Qui un’intervista significativa
  3. un ricercatore e divulgatore che sta imponendosi sulla scena psichedelica italiana, lavorando però da Londra -con David J. Nutt-, Tommaso Barba
  4. l’ecosistema dei contenuti emanati dal lavoro dell’Associazione Luca Coscioni, dal podcast Illuminismo psichedelico ai cerchi di integrazione psichedelica (fortemente avanguardistici in Italia). In particolare questo video uscito di recente a proposito del fine vita. 
  5. un blog di nicchia di cui abbiamo già parlato: le impressioni di un ricercatore che su di sé sperimenta sostanze psichedeliche, riportando fedelmente le sensazioni e il suo vissuto; scritto in modo magistrale: Phenomenautics
  6. Jon Hopkins ha pubblicato un disco (“Music for Psychedelic Therapy”) di musica elettronica pensato per fare da sottofondo a un’esperienza con psilocibina, avventurandosi in luoghi “selvaggi” per campionare suoni; il risultato è impressionante, lo si recupera qui
  7. la Svizzera è vicina all’italia ed è attualmente in Europa il luogo più avanzato in termini di studio, ricerca e utilizzo di sostanze psichedeliche in ambito psichiatrico. Ne abbiamo scritto qui e in precedenza avevamo intervistato Federico Seragnoli che segue percorsi di PAP (Psicoterapia Assistita da Psichedelici) in Svizzera
  8. la (relativamente) neonata SIMEPSI, Società Italiana di Medicina Psichedelica, già molto attiva -e già molto autorevole
  9. negli anni ‘90 una coppia di ricercatori indipendenti californiani, i coniugi Shulgin, sintetizzarono e provarono su loro stessi centinaia di molecole psichedeliche: i risultati di questi studi sono raccolti in due libri contigui, PiHKAL e TiHKAL. Qui il profilo Wikipedia dei coniugi, qui invece un video pubblicato anni fa da Vice con un’intervista alla coppia, e qui archiviati i diari scritti a mano dallo stesso Alexander Shulgin
  10. in ultimo, il pezzo forte, una selezione di 10 articoli “fondamentali” e solidi in senso statistico a cura di Studio Aegle, per POPMed.

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24 March 2025

INTERVISTA A MANGIASOGNI

di Raffaele Avico

PREMESSA: questa intervista a Mangiasogni è stata pubblicata su POPMED.INFO, un progetto di divulgazione scientifica di qualità in ambito di salute mentale.

Ciao Valerio, apprezziamo molto il tuo lavoro e vorremmo porti alcune domande per delineare meglio il tuo intento divulgativo e approfondire alcuni concetti che affronti. Partiamo. Per cominciare, potresti presentarti e raccontarci di cosa ti sei occupato negli ultimi anni?

Certo. Mi chiamo Valerio, e sono nato nel 1993 a Portogruaro, in provincia diVenezia. Dopo tanti anni tra band giovanili e politica locale, a gennaio 2019 ho deciso di aprire la pagina Instagram Mangiasogni, che nel frattempo è diventata il luogo dove condivido storie illustrate su tanti temi che mi appassionano, alcune di taglio più intimo e introspettivo, altre più di critica sociale e politica.
Seguiamo il tuo lavoro da tempo e notiamo come spesso racconti il passaggio all’età adulta e l’abbrutimento imposto dal tardo capitalismo. Cosa ti ha spinto a esplorare sempre più a fondo queste tematiche?
Direi che è stata un’evoluzione spontanea. Quando ho iniziato, nel 2019, ero un neolaureato 25enne che aveva appena trovato il lavoro “da adulti”, e volevo raccontare quello: il passaggio da una certa spensieratezza adolescenziale all’età adulta, con tutto ciò che ne deriva in termini di nuove responsabilità, solitudine, compressione del tempo libero. Poi, disegnando e scrivendo sempre di più, e ricevendo feedback dalle persone che iniziavano a seguirmi, ho iniziato a chiedermi come mai così tanti miei coetanei avvertissero la stessa sensazione di smarrimento. E così ho provato ad ampliare lo sguardo, non più solo alle emozioni che ciascuno prova in determinati momenti della storia o della propria vita, ma alle cause sistemiche alla radice di questa situazione.
Abbiamo recensito qui il tuo libro: ci racconti come è nato e qual è stato l’intento che ti ha spinto a scriverlo?
Il libro nasce da un desiderio sempre più forte di poter raccontare storie e mandare messaggi in modo diverso dall’iper-velocità e superficialità tipica dei social media. Oggi questo è un tema sempre più caldo, ma a me tormenta già da molto: le storie che condivido sui social sono spesso lunghe, complesse, fin troppo ricche di testo, e hanno sempre tradito una mia insofferenza a quel modo di raccontare, acuita poi dallo spostamento verso la dimensione del reel o short-form content. E così è nato “Niente come prima”, la storia di Edoardo e Rebecca: un romanzo per dire cose che avrei potuto dire in un saggio o un libro non-fiction, ma che volevo vivessero attraverso le vite e i dialoghi di due 25enni di oggi, non diversi da noi, dal nostro vicino, dal collega di lavoro, dal figlio o la figlia.
Negli ultimi tempi abbiamo percepito un tono sempre più critico nei confronti della content economy e del tuo rapporto con l’algoritmo di Instagram, insomma, delle dinamiche che regolano il lavoro dei creator. Ci racconti la tua esperienza?
Inizierei dicendo che il mio rapporto con l’algoritmo è sempre stato conflittuale. Ho avuto delle belle soddisfazioni, è vero, ma per i temi che ho sempre trattato, e il modo con cui lo faccio, sono stato spesso penalizzato con shadowban e ripercussioni simili. Diciamo che mi è sempre stato chiaro che la pagina di Mangiasogni non è veramente mia, ma è uno spazio gentilmente concessomi da altri, che hanno un potere assoluto di vita e di morte. Questo è stato ancora più evidente quando dall’alto è stato imposto lo spostamento verso i video. Il modello è chiaramente quello della Burnout Economy, dove i creator devono postare tantissimo, sempre, sempre meglio, inseguendo ogni trend, per non finire nel dimenticatoio. Per questo ho iniziato a sentire l’esigenza di spazi che fossero più miei, come i libri, il sito, la newsletter, gli eventi nel mondo reale.
Hai parlato recentemente di un progressivo allontanamento dal mondo delle piattaforme. Cosa intendi esattamente e cosa ti ha portato a sviluppare questa posizione sempre più polemica nel tuo lavoro divulgativo?
Il tema mi ha appassionato sempre di più man mano che mi addentravo nelle contraddizioni dell’economia dell’attenzione. Come utente ho iniziato a soffrire il modo in cui spendevo il mio tempo, perso tra contenuti senz’anima e spesso privi di ogni valore, e questo ha imposto delle riflessioni anche sulla mia attività da Creator. L’economia dei social media vive dell’attività dei Creator, che con il loro lavoro sperano di avere bei numeri, collaborazioni, inviti a podcast… se loro non creassero non ci sarebbe nulla da vedere, e i proprietari delle piattaforme dovrebbero inventarsi altro per catturare il nostro tempo. Una cosa che secondo me hanno già visto anche loro: Connor Hayes di Meta ha annunciato che un obiettivo chiave della sua azienda sarà introdurre utenti e Creator che in realtà saranno bot AI. Probabilmente così riusciranno a prevenire possibili fughe dei Creator. Per tutti questi motivi, che secondo me vengono ancora prima delle collocazioni politiche dei vertici aziendali dopo le varie elezioni, penso sia sempre più necessario ricominciare a immaginare internet oltre e dopo le piattaforme. Parliamo di una delle infrastrutture più importanti della storia umana, ed è un peccato lasciarla nelle mani di pochissime, potentissime, miliardarissime mani. Questo passaggio però richiede uno sforzo congiunto di Creator e utenti: i Creator devono avere il coraggio di vedere un mondo oltre, gli utenti devono avere la forza di uscire da una fruizione di contenuti gratuita, iper-accessibile, frenetica e “brainrottante”
Restando in tema di piattaforme e Internet, oggi assistiamo a una polarizzazione estrema: da un lato gli apocalittici, dall’altro gli entusiasti. Tu dove ti collochi? E quale ruolo credi abbia l’infrastruttura mediatica in cui siamo immersi nel determinare lo stato mentale e il benessere psicologico degli individui? Alcuni sostengono che lo strumento sia neutrale e che tutto dipenda dall’uso che ne fa il singolo. Sei d’accordo?
Tra quei due estremi, direi gli apocalittici! La trasformazione a cui stiamo assistendo non va assolutamente sottovalutata. Le nostre vite ormai sono diventate ibride, con la componente online che ha avuto un ruolo sempre più importante fino a quasi diventare centrale. Internet è così ben inserito nelle nostre vite che ci accorgiamo della sua esistenza solo quando manca, per qualche motivo. Non possiamo non prenderci cura di questo aspetto e di tutto ciò che vi ruota attorno. Lo ripeto perché è importante: ad oggi internet è centralizzato, a scopo di lucro, nelle mani di pochissimi, che in questo momento storico hanno anche tutti la stessa collocazione politica. Quindi no, non sono d’accordo sul fatto che lo strumento sia neutrale. Lo strumento è nelle salde mani di corporation a scopo di lucro, che fanno dell’estrazione di tempo, attenzione e dati personali il loro core business, che premiano i creator in base a quanto riescono a tenere le persone incollate sullo schermo, spesso usando indignazione, rabbia e polarizzazione come esche per portarci e tenerci sugli schermi. Non c’è niente di neutrale in tutto questo, e per quanto sicuramente l’utente possa responsabilizzarsi verso condotte più virtuose e consapevoli, di certo le piattaforme social non sono esenti da responsabilità.
Ci racconti come ti prendi cura della tua salute mentale?
Innanzitutto, compatibilmente con i ritmi del lavoro e della vita, provo ad avere attenzione per le mie energie e il mio tempo, coltivando gli affetti e provando a non sovraccaricarmi troppo – non ci riesco spesso, anzi. In questo, anche il rapporto con i device fa la sua parte: ho già eliminato le serie TV e il binge watching dalla mia vita, e spero di avere presto un rapporto migliore con lo smartphone, magari per passare più tempo all’aperto. Su questo sto sperimentando sempre più spesso l’utilizzo di un cosiddetto dumb phone, ovvero un vecchio Nokia del 2008 di mio fratello, o lo sviluppo di un PC che possa solo accendersi e scrivere, sostanzialmente una macchina da scrivere digitale e portatile. Poi ovviamente ho seguito un percorso di terapia, un’esperienza che consiglio a chiunque ne abbia la possibilità, e che spero possa essere prestissimo per tutte le tasche.
Per concludere, ci suggeriresti alcuni spunti di riflessione? Libri, film o qualsiasi altra cosa che pensi possa arricchire chi ci segue.
Sicuramente consiglierei “Scansatevi dalla luce”, di James Williams, che fornisce un’interessante panoramica sull’economia dell’attenzione. Sempre come libro c’è “Riavviare il sistema” di Valerio Bassan, bella riflessione sulla storia di internet e la sua trasformazione nel tempo, con l’avvento delle piattaforme – non solo social, ma anche streaming, delivery ecc… in generale poi anche YouTube ha valide risorse sul punto, magari anche sul concetto di enshittification, legato proprio all’evoluzione delle piattaforme una volta che queste hanno preso pieno controllo di internet.

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19 March 2025

Introduzione al concetto di neojacksonismo

di Raffaele Avico

Diversi lavori hanno negli ultimi anni messo l’accento su una domanda: perché non si parla di Janet, nella teoria sul trauma? Dove va collocato l’apporto di Pierre Janet nelle teorie che tentano di spiegare la genesi di un disturbo psichiatrico?
 
Sappiamo che la psicoanalisi freudiana -già dagli inizi- era un modello teorico che metteva l’idea del trauma al centro: le risposte delle pazienti isteriche del tempo, sarebbero state originate da fallimenti nel processo di rimozione che Freud aveva pensato come messo in atto attivamente dai pazienti. Il problema erano le reminiscenze degli eventi traumatici, che in seguito Freud aveva connesso ai temi della sessualità -intesa in senso ampio. Come qui avevamo già scritto, Janet aveva invece concettualizzato la nascita di un disturbo come un fallimento dei processi di sintesi da parte delle funzioni mentali: a differenza di Freud, dunque, la risposta a un evento avrebbe indotto nella mente di un individuo uno sconvolgimento che non sarebbe stato in grado di “sintetizzare”, di elaborare psicologicamente.
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5 March 2025

“LE CONSEGUENZE DEL TRAUMA PSICOLOGICO”, UN LIBRO SUL PTSD

di Raffaele Avico

A partire dal 2017, si sono qui susseguiti su questo blog molti contributi che hanno indagato la natura del vissuto post-traumatico.

Ho raccolto e sistematizzato i contributi sul PTSD in un libro, di cui riporto qui l’introduzione e l’indice.

Come si legge, l’idea che connette i vari lavori è che il trauma interrompa il normale lavoro di immagazzinamento e costruzione della trama dei ricordi, e che si installi nella memoria come una “pietra dura”, indigesta in senso psichico.

Il lavoro che se ne fa in psicoterapia, è quindi quello di aiutare la persona a digerire il trauma in senso psicologico, il che equivale a restituirlo al “logos”.
Jacques Lacan, a proposito di questo, riteneva che il trauma avviene quando ciò che chiama Reale irrompe nella vita di un individuo squarciando il “velo di simboli” che coprirebbe ogni elemento e cosa della nostra vita, rendendola possibile e pensabile. Una violenza, la brutalità di un’aggressione da parte di un predatore, ma anche un forte spavento, un trauma morale o un incontro inaspettato e prematuro con la morte: tutti esempi di come la natura “minerale”, non pensabile e assurda (Reale) della realtà possa irrompere nella vita di un individuo, squarciando la copertura simbolica di cui prima scrivevo.

La psicoterapia dovrebbe in questo caso aiutare a ricucire questo squarcio, trasformando quindi -come sintetizza Recalcati- il trauma in unatrama.

Esistono però molti altri aspetti della questione, per esempio le ricadute sul corpo dello stress post-traumatico, il problema dell’allarme continuo, i trigger che riattivano il ricordo del trauma in sé: questo volume tenta di fornire una griglia di lettura per chi voglia introdursi al tema, o per chi viva in uno stato di post-trauma e voglia tentare di aiutarsi nell’operazione di “tessitura” e integrazione prima citato.

Uno degli aspetti centrali su cui questo libro si sofferma, è l’idea che la risposta post-traumatica sia una forma di apprendimento distorta; questo apprendimento -questa forma di anticipazione– ci consente di mantenerci vigili nel post-trauma e idealmente meglio preparati al “prossimo evento problematico”. Sarebbe auspicabile però, che l’apprendimento possa essere “disappreso“, e qui osserviamo il punto centrale del disturbo post-traumatico: l’apprendimento dell’allarme relativo al trauma fatica a essere estinto, lasciando l’individuo in balìa di una condizione di allarme protratto, con il corpo prostrato dagli angoscianti vissuti tipici del PTSD.

Qui è possibile acquistare il libro, che si pone in continuità con quello da me e Davide Boraso pubblicato in precedenza, PTSD: che fare?, del 2020. La copertina è di Andrea Pisano. Il libro presenta alcune imprecisioni relative all’impostazione grafica, essendo autopubblicato.
Di seguito l’introduzione.

Introduzione

Questo volume raccoglie una serie di approfondimenti a tema “trauma” che ho raccolto in un periodo di circa 5 anni, a partire dalla fondazione di un blog tematico (ilfogliopsichiatrico.it) nell’inverno del 2017, fino alla fine del 2022.

Gli anni 2020 e 2021 sono stati anni peculiari, essendosi abbattuta sulla popolazione umana una pandemia da coronavirus, superata per fasi progressive grazie a quarantene obbligate iniziate nel marzo 2020 -e alla diffusione di una serie di vaccini mirati, a partire dalla fine del 2020.

La pandemia da Covid19 è stata in grado di sdoganare in modo vigoroso la questione “salute mentale” e ha ulteriormente riacceso l’attenzione intorno al tema trauma, a cosa significhi vivere in una condizione di allarme protratto, a come sia possibile resistere in un contesto traumatizzante e a come ci si possa adattare “senza impazzire”.

Va notato che al momento del divampare del fuoco pandemico la tematica “trauma” era già da anni tornata prepotentemente alla ribalta, con una moltitudine di professionisti interessati al problema, libri di qualità pubblicati, associazioni nate e cresciute in modo sostenuto (come l’AISTED in Italia), una profusione di corsi di formazione e l’affermarsi di modalità di intervento psicoterapico mirate, come l’EMDR.

Uno dei libri più vecchi di Bessel Van Der Kolk, Psychological Trauma, risale al 1987. Leggendolo, ci si rende conto di come il linguaggio usato da quello che oggi è considerato uno degli psicotraumatologi più importanti al mondo fosse intriso di termini mutuati dall’approccio psicodinamico; una osservazione sul registro linguistico adottato per parlare di trauma ci consente di comprendere l’evoluzione del concetto che descrive: oggi in ambito di psicotraumatologia ci troviamo a fare i conti con una terminologia peculiare, emancipata, che ci fa comprendere quanto l’area del “trauma” rappresenti sempre di più un modo mirato, “unico” di leggere alcuni dei problemi portati dai pazienti -attraverso una lente dedicata, uno sguardo diverso.

Venendo a questo volume, sono sistematizzati e organizzati qui articoli e approfondimenti raccolti in cinque anni, relativi al “problema” del superamento di un evento traumatico o di una traumatizzazione protratta. Sono raccolti per macro-temi, dalla psicobiologia della traumatizzazione, agli autori più importanti che negli anni (a partire da Pierre Janet) hanno indagato il tema, per arrivare alle modalità di fronteggiamento delle sindromi post-traumatiche più o meno complesse. In chiusura ho costruito tre appendici su temi “di contorno”, tra cui alcune interviste a esperti del settore e alcuni consigli di approfondimento in senso bibliografico.

Lo studio sul trauma e sui fenomeni dissociativi è in continuo mutamento, credo però che il seguente lavoro possa fornire una panoramica di insieme e un approccio sufficientemente chiaro al problema.

Come si noterà dal materiale qui raccolto, e tirando le fila dei diversi filoni di approfondimento trattati, osserviamo come la traumatizzazione risponda a degli imperativi prima di tutto dettati dalla nostra natura animale, più profonda, strettamente connessa alle esigenze evoluzionistiche.

Il trauma è un evento che mette a repentaglio la nostra sensazione di sicurezza, e come tale viene potentemente impresso nella nostra memoria, al fine di salvaguardarci da una sua eventuale ripetizione: è in grado poi di produrre una distorsione dei nostri meccanismi di apprendimento, imprigionandoci in un eterno presente di ripetizione e permanenza all’interno della “vita post-traumatica”. Per questo motivo, viene spesso definito un problema collegato alla memoria, dato che sembra estremamente difficoltoso riconsegnarlo al passato, digerirlo in senso psichico e infine dimenticarlo.

Osserviamo inoltre come alcuni meccanismi tengano in vita questo processo di presentificazione del trauma e delle memorie traumatiche: la mente sembra voler “tornare sulla scena del crimine”, come attratta dal potere suggestivo e dal dolore provocato dalle memorie traumatiche stesse. Alla base di questo, modificazioni nel funzionamento dei distretti cerebrali funzionali alla regolazione degli stati emotivi, contribuiscono a rendere il superamento delle sindromi post-traumatiche un processo che spesso dura moltissimo tempo.

Come prima accennato, leggere le sindromi post-traumatiche in chiave evoluzionistica ci consente di capirne lo scopo ultimo, l’apprendimento che ci aiuta a non ripetere esperienze per noi dolorose, insieme ad un’immobilizzazione ai fini della guarigione, come succede nel dolore fisico. Esistono però molteplici casi in cui questo meccanismo si corrompe e complica, obbligando l’individuo a permanere per troppo tempo in uno stato di immobilità, di fiacchezza passiva, come soggiogato dal potere del ricordo. Sarebbe per questo di estremo interesse procedere a un’indagine comparata con altre specie animali, capire come alcune specie possano estinguere, dissipare i loro vissuti traumatici, al fine di capire meglio cosa -in noi- va così storto: troverete in questo lavoro alcuni spunti sul tema.

Particolare attenzione è stata data in questi contributi su trauma e dissociazione al concetto di approccio integrato, nell’idea che affrontare il problema da molteplici punti di vista (psichico e fisico insieme, banalmente) possa produrre un migliore risultato in senso clinico, e più veloce. Troverete dunque diversi riferimenti ad approcci non solamente psicologici, per affrontare i vissuti disturbanti della post-traumatizzazione.

Infine, troverete alcune parole sottolineate, all’interno del testo e nelle note: sono link che rimandano a pagine internet con approfondimenti ulteriori, ovviamente fruibili solo nella versione e-book di questo lavoro.

QUI É POSSIBILE SCARICARE L’INDICE DEL VOLUME.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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20 February 2025

Il ripassone. “Costrutti e paradigmi della psicoanalisi contemporanea”, di Giorgio Nespoli

di Raffaele Avico

Il monumentale volume curato da Giorgio Nespoli dell’Università di Torino, giustamente pensato per un pubblico di studenti universitari, dato il suo tono chiaro e divulgativo, si rivela  al contempo massimamente preciso e puntuale nell’articolare le diverse formulazioni teoriche, prestandosi benissimo a rappresentare un “ripassone” per chiunque desideri tornare indietro e gli “inizi” dell’avventura psicoanalitica, ripercorrendo a grandi falcate gli avvicendamenti teorici e gli autori che ne hanno segnato i punti di svolta, e i maggiori apporti.

Il volume ha un impianto organizzato in senso cronologico, vuole ripercorrere la storia della psicoanalisi e lo fa estrapolando i paradigmi ad essa sottesi, promuovendo un’operazione mentale di sintesi che consente a chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la materia di ripercorrere con la mente i punti principali della teoria psicoanalitica, e trovare al contempo ulteriori spunti, idee dimenticate e centrali degli autori -magari studiati negli anni dell’università- e punti di convergenza tra teorie diverse.

A fine lettura si ha la sensazione di aver più chiaro, dentro la mente, il percorso originato “formalmente” dagli studi di Freud -con cui il volume si apre- ed evidenti i diversi contributi che dopo di lui hanno ingrossato il “fiume” della teoria psicoanalitica, il tutto espresso con una chiarezza veramente arricchente e molto lavoro fatto dall’autore “per noi”, di pre-masticamento e metabolizzazione dei contenuti psicoanalitici, distillati nei paradigmi fondamentali, che di fatto rappresentano il tema centrale del volume stesso.

Prima di entrare nei contenuti, una nota sulla forma: al di là della comoda strutturazione cronologica del testo, ideale per studenti universitari, il testo si articola alternando contenuti scritti da Nespoli che riassume e sintetizza la teoria, ad apporti di altri autori tratti sia da libri che -e qui il punto originale- da siti a tema, di assoluta attualità. Il testo è costellato da riquadri che riportano estratti da articoli letti su Spiweb, su Psychomedia, su Psychiatry on line e su altri siti minori -ma sempre di qualità. Si ha l’impressione in questo modo di un testo vivo e attuale, ampiamente moderno in questa ibridazione tra “classico” e “nuovo”, analogico e digitale. La lettura può dunque fermarsi al testo principale, e approfondirsi poi sui riquadri a tema, verticali su aspetti puntuali di teoria o di metodo, che rimangono “facoltativi”, per chi voglia approfondire una questione specifica.

A riguardo dei contenuto, osserviamo come Nespoli parta dalla teorizzazione freudiana -riassunta nei punti salienti, con spunti importanti anche per chi lavori già con pazienti e in ambito clinico-, per poi dirigersi speditamente al “mondo teorico” costruito da Klein, quindi al contributo fondamentale e attualissimo di Bion, a Lacan e al paradigma relazionale, verso una concettualizzazione sempre più “bipersonale” del lavoro psicoanalitico, passando per Winnicott, Mitchell, chiudendo su Kohut e su alcune riflessioni inerenti il metodo e la clinica.

Osserviamo, come da titolo, i diversi paradigmi alternarsi all’interno del lavoro di formulazione storica psicoanalitica, partendo dal paradigma pulsionale -con la pulsione a fare da “elemento organizzativo della mente” per Freud-, alla teoria sugli oggetti promossa da Melanie Klein, alla teoria sulla nascita del pensiero di Bion, per arrivare al paradigma relazionale, che permea la psicoanalisi più contemporanea.
A fine lettura si ha chiaramente la “visione” sui diversi apporti e sui segni da questi lasciati nel contesto della dottrina psicoanalitica, e chi volesse tentare un’integrazione -dentro di sé- dei diversi paradigmi, alla ricerca del “suo” modo di pensare al modello di mente, potrebbe con questo volume provare a lavorarci – attraverso una sorta di “ripassone”.

Alcune osservazione estemporanee:

  1. Nespoli, nel riassumere i diversi paradigmi psicoanalitici, si pone delle domande fondamentali, funzionali a meglio divulgare le teorie stesse, come quando si chiede quale sia l’elemento “che organizza la psiche” nel paradigma freudiano (la pulsione) e nel paradigma kleiniano (la difesa dall’angoscia): domande di questo tipo sono spesso formulate nel testo, e ci raccontano di un lavoro di riflessione fatto dall’autore a proposito della teoria stessa, come un ripensamento critico (funzionale -forse- al lavoro clinico) che aiuta a meglio comprendere la teoria stessa
  2. la spiegazione del paradigma freudiano è magistrale, per chiarezza ed esaustività; si ha chiara l’evidenza di come la teoria del trauma in Freud contenesse in nuce alcuni dei concetti centrali della psicotraumatologia di oggi -120 anni dopo-, pur mancando un riferimento forte e una digressione, che forse sarebbe stata importante, su Pierre Janet e il suo lavoro sugli automatismi, sulle funzioni di sintesi mentale e sulla concezione gerarchica della mente. Janet viene definito da Nespoli autore “pre-psicoanalitico”, forse per una questione cronologica
  3. il capitolo su Lacan si rivela il più complesso: troppi i termini specifici, ai limiti del criptico, troppi i passaggi logici dati per scontati nel tentativo di divulgare la formulazione teorica promossa da Lacan; d’altronde la teoria lacaniana si rivela, a quanto sembra, non divulgabile -a tratti astrusa-, e complessa per chiunque vi si approcci dall’esterno. A fine capitolo si ha la sensazione di aver colto poco, e mi chiedo quanto possa aver tratto da una lattura del genere uno studente sui 20 anni; il problema della divulgazione della teoria di Lacan rimane tangibile, dato che le idee sviluppate dal filosofo francese sono geniali, ma sembra esserci carenza di capacità divulgativa anche da parte di chi quella teoria sostenga di padroneggiarla
  4. Fondamentale anche il capitolo su Bion: il suo lavoro sul campo bipersonale, e il rilancio alla teoria di Antonino Ferro (che cura l’introduzione), rappresentano l’aggancio al proseguo ideale del volume stesso, il lavoro (sempre di Nespoli) “Psicoanalisi contemporanea. La teoria del campo analitico post-bioniano”. Il costrutto di campo, l’interpretazione “insatura” (usando un termine di Antonino Ferro), l’idea di una co-costruzione dei significati (e dell’inconscio stesso) rappresentano concetti centrali -insieme alla visione relazionale- della psicoanalisi più attuale, come ben evidenziato dall’autore stesso
  5. Due capitoli interi vengono dedicati rispettivamente alla posizione schizo/paranoide di Klein e alla posizione depressiva, il che ci dice dell’importanza centrale del costrutto di Klein, fondamentale per chi lavori con pazienti (gravi o meno), utilissimo a leggere oscillazioni manifestate dal paziente (pensiamo per esempio al concetto di “trionfo sull’oggetto” nel paziente maniacale)
  6. Molteplici autori rappresentano, in questo “ripassone”, punti di aggancio ad altre scuole di pensiero inerenti la psicologia clinica, in particolare due: a) Ferenczi come padre della psicoanalisi bipersonale e, insieme a Pierre Janet, della teoria sul trauma, e b) Bowlby come promotore della teoria dell’attaccamento, citato per il suo contributo all’infant research, per i suoi studi sull’etologia e sulla psicologia evoluzionistica e per aver costruito un ponte tra la psicoanalisi più classica e l’attuale neuropsicoanalisi. Schore e Giovanni Liotti rappresentano autori che negli ultimi anni hanno incarnato questa possibile “integrazione”, a cavallo tra psicoanalisi classica, ricerca sull’infanzia, etologia e neuroscienza.
  7. Assenti nella trattazione: Jung, Bromberg e il già citato Janet. Janet e Bromberg sono fondamentali per chiunque, oggi, si occupi di trauma (vd. Aisted.it)

In conclusione, questo incredibile, meraviglioso libro si distingue per chiarezza cristallina e puntualità divulgativa, e invoglia alla lettura del successivo lavoro di Nespoli “Psicoanalisi contemporanea. La teoria del campo analitico post-bioniano”, incentrato sul concetto di campo bipersonale, introdotto anch’esso da Antonino Ferro.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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11 February 2025

PSICOGENEALOGIA: INTRODUZIONE AL LAVORO DI ANNE ANCELIN SCHÜTZENBERGER

di Raffaele Avico

Lavorare con la transgenerazionalità in psicoterapia significa andare a indagare le aree dell’esperienza del/la paziente in relazione alle generazioni di individui da cui questo/a proviene: si tratta dunque di porre delle domande “strategicamente orientate” riguardanti non solo la generazione dei suoi genitori, ma anche la generazione precedente, e quelle “sopra”, fino a dove sia possibile risalire nella sua storia familiare.

In questo articolo useremo il testo “La sindrome degli antenati” di Anne Ancelin Schützenberger come strumento di lavoro, e tenteremo di dare alcuni spunti per chi volesse cimentarsi in questo tipo di attività.

Come prima domanda, bisognerebbe chiedersi: perché? A quale fine eseguire un lavoro di questo tipo con un paziente in psicoterapia?

Proviamo ad articolare la risposta per punti:

  1. aspetti identitari: chiedersi da dove si proviene, equivale a fare un lavoro di rilettura di alcuni aspetti della propria identità di cui -forse- non si è pienamente coscienti. Parliamo di aspetti della propria personalità relativi a diverse aree, aspetti super-egoici, normativi, ma anche di molto altro. Aiutarsi in psicoterapia con le fotografie può aiutare a compiere quel lavoro di ricostruzione della “cultura familiare“, l’insieme di costumi e usanze che, condizionando i primi anni di vita di un bambino, forniscono un “priming” culturale in grado di influenzarlo anche nei successivi anni. Intendiamo qui non solo il “modo” di stare insieme, gli stili relazionali, ma anche le passioni, gli interessi, la mitologia familiare, le “regole non scritte” che “gocciolano” da una generazione all’altra.
  2. Come prima accennato, il libro “La sindrome degli antenati” di Schutzenberger esplora molto del tema, soprattutto a riguardo del trauma. Diversi studi hanno negli anni scorsi indagato la trasmissibilità del trauma per via genetica (si veda questo): qui se ne parla in termini maggiormente psicologici, come se il trauma fosse stato in grado di produrre “unità psicologiche“, contenuti emotivi poco simbolizzabili -e la cosa fosse passata alla generazione successiva, mutandosi in sintomi psicosomatici o coazioni a ripetere. La Schutzenberger parla di “inconscio familiare“, una sorta di via di mezzo tra inconscio collettivo e inconscio individuale, una serbatoio di elementi più o meno elaborati in grado di produrre degli effetti sulle generazioni successive a chi li abbia vissuti. Viene in mente ovviamente il tema olocausto, il problema della memorie e del “ricordare” relativo alle generazioni successive a quella che lo subì, il lavoro di rilettura e simbolizzazione degli spaventosi eventi vissuti da Primo Levi durante la sua prigionia, per esempio.  Ci si può anche riferire in questi casi ad aspetti più piccoli, ma non meno segnanti all’interno della storia di una famiglia, come la perdita di un lavoro, un periodo di miseria, lo spettro della “malora”. Lavorare in psicoterapia su questi aspetti, tentare di portare a galla gli elementi di questo contenuto inconscio “familiare”, potrebbe aiutare la persona a capire meglio la nascita -dentro di sé- di alcuni timori, di certe preoccupazioni, di un “modo di pensare”, collocando la propria forma mentis entro una prospettiva in primo luogo storica, famigliare, genealogica.
  3. La Shutzemberger, ne “La sindrome degli antenati”, spinge sull’importanza di indagare in sede di psicoterapia la presenza di suicidi, lutti non risolti, andando anche molto indietro nel tempo: parlando per esempio di suicidio, è importante che questo punto venga preso di petto e affrontato in modo chiaro in psicoterapia, essendo che la suicidalità ha una forte trasmissibilità, in senso sia genetico che psicologico. Il suicidio di due persone unite da un legame famigliare (per esempio padre e figlio) potrebbe essere letto, in alcune situazioni, come una forma paradossale di solidarietà o di lealtà, un gesto eseguito nel tentativo di prestare fede a un mandato di lealtà famigliare, il bisogno di “sentirsi soldiale” all’altro nel dolore. Lo psicoterapeuta Nagy ha nel secolo scorso improntato tutto il suo lavoro di ricerca su questi aspetti di “contabilità familiare“, e la Schutzenberger ha preso molto da lui (ChatGpt: “Il concetto di “lealtà familiare” sviluppato da Ivan Boszormenyi-Nagy è un principio centrale nella terapia familiare contestuale. Secondo Nagy, la lealtà è il legame emotivo che unisce i membri della famiglia attraverso un sistema di obblighi, aspettative e debiti morali che ciascuno accumula e mantiene all’interno delle relazioni familiari. La lealtà implica un senso di responsabilità reciproca e la necessità di “bilanciare” ciò che si riceve e ciò che si dà agli altri membri, creando una sorta di “contabilità invisibile”. Nagy ritiene che i problemi individuali spesso nascano da dinamiche di lealtà non bilanciate o irrisolte, e che molti conflitti familiari derivino da tensioni implicite in questo sistema. Nella sua terapia, l’obiettivo è aiutare i membri della famiglia a riconoscere e riequilibrare queste lealtà, per ottenere relazioni più sane e soddisfacenti.”)
  4. Seguendo questa linea di pensiero, lo stesso discorso potrebbe essere fatto per alcuni aspetti morali, la “legge” a cui l’individuo si sottopone, e che potrebbe essere utile, in psicoterapia, mettere o discussione o capire meglio. Parliamo di un lavoro sul Super-io, il tribunale occulto a cui l’uomo si assoggetta, regolato a sua volta da una legge morale che di volta in volta decreta la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato (che è la persona stessa). Si tratta di fare in questi casi un lavoro di ricostruzione “genealogica” della morale dell’individuo, come un percorso di risalita alla fonte, una ricerca dei paradigmi innervanti quella stessa morale -in primo luogo all’interno dell’ambiente familiare. Perchè per un individuo un certo evento è considerato disdicevole e moralmente “impossibile”, e per un altro no? Ragionare in termini transgenerazionali su questi aspetti e su come le “leggi” possano passare da una generazione all’altra, aiuta la persona a poterle mettere in discussione -eventualmente- oppure a renderle maggiormente adeguate al tempo presente, in cui è immerso, come una lotta all’estemporaneità dei precetti morali che la abitano.

Tendenzialmente le persone, messe di fronte a un lavoro di questo tipo, rispondono molto bene, e facilmente arrivano a identificare ed estrapolare aspetti di sé che facilmente riconducono al prima citato “inconscio familiare”. Un grosso tema è il confronto con miti familiari, con aneddoti ereditati e con cui ci si confronta, storie di progenitori, spesso idealizzati e in grado di attivare movimenti, facilitare scelte.

Anne Schutzenberger ha lavorato per tutta la sua vita su questi temi, avviando anche una scuola a tema, che ha formato molti psicoterapeuti italiani.

Tra i suoi libri, merita sicuramente una menzione il famoso e prima menzionato “La sindrome degli antenati”, e l’ultimo suo “quaderno operativo“, di fatto un agile manuale di utilizzo delle tecniche approfondite ne “La sindrome degli antenati”. 

Questo libro, breve e operativo, è stato pubblicato qualche anno prima della scomparsa della ricercatrice francese, e fornisce indicazioni molto pratiche ed esercizi per lavorare con la psicogenealogia e la transgenerazionalità.

Per esempio, tra gli altri:

  1. l’esercizio dell’atomo sociale, di derivazione moreniana, che l’autrice propone di allargare anche a concetti/luoghi/cose, come si osserva nella figura sotto riportata. La Schutzenberger ritiene l’atomo sociale uno strumento utile per avere una fotografia allargata della propria rete di “investimenti affettivi”, utile a produrre collegamenti e associazioni. Va notato che la natura dell’atomo sociale è cangiante, fluida, mutevole nel tempo.
  2. il famoso genosociogramma, sempre di derivazione moreniana, strumento molto conosciuto tra chi si occupi di lavoro con il transgenerazionale e le famiglie: si tratta di disegnare usando segni e simboli peculiari il proprio albero genealogico, arricchito però da eventi positivi o negativi che servono a meglio inquadrarne la “storia”, ponendo attenzione a eventi come traumi, lutti, separazioni, ma anche a segreti, matrimoni, etc. La Schutzenberger considera il tempo minimo per lavorare sul genosociogramma di un individuo, 3 ore. Per lavorare al genosociogramma, l’autrice consiglia in questo libro di ricercare informazioni a riguardo di quella che definisce “nicchia ecologica“, ovvero il contesto in cui i fatti si svolsero, e a partire da quel contesto, risalire a informazioni importanti per la propria storia famigliare, usando anche il potere evocativo di fotografie (qui ne avevamo già scritto).

Per tornare alla fonte e andare al libro “definitivo” della Schutzenberger, si veda anche questo volume.

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Article by admin / Generale / recensioni

4 February 2025

Henri Ey: “Allucinazioni e delirio”, la pubblicazione in italiano per Alpes, a cura di Costanzo Frau

PREMESSA: pubblichiamo l’introduzione italiana al libro “Allucinazioni e delirio. Le forme allucinatorie dell’automatismo verbale” di Henri Ey, a cura di Costanzo Frau, che ha anche tradotto il libro. Importare in Italia il lavoro di Henri Ey ha la funzione di promuovere la concettualizzazione gerarchica del modello di mente, che coniuga in sè importanti contributi di “padri” dell’attuale psicotraumatologia, e che ci aiuta a comprendere forme di psicopatologia di difficile lettura, come le voci simil-allucinatorie in gravi disturbi post-traumatici. L’idea centrale è che la mente proceda per elaborazioni di informazioni entro una logica gerarchica, e che -come sostiene Pierre Janet- alcune forme di psicopatologia vadano pensate come “fallimenti” delle funzioni di sintesi di aree del complesso mente/cervello più evolute, che non riuscirebbero a contenere l’attivazione delle aree sottostanti o precedenti -sempre entro lo schema gerarchico. Qui per un’introduzione al modello organodinamico di Henri Ey. Aisted ha attivato un gruppo di lavoro sul neo jacksonismo, qui raggiungibile. (R. Avico)
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Introduzione all’edizione italiana (di Costanzo Frau)

Il DSM-5 definisce le allucinazioni come “esperienze simil-percettive che si verificano senza uno stimolo esterno. Sono vivide e chiare, con il pieno impatto e tutta la forza delle percezioni normali, e non sono sotto il controllo volontario. Esse possono presentarsi in qualsiasi modalità sensoriale, ma le allucinazioni uditive sono le più comuni nella schizofrenia e nei disturbi correlati […]” (APA, 2013; p. 102).

Esistono diverse definizioni generali di allucinazione, che variano in base alla prospettiva teorica e scientifica. La definizione proposta da Esquirol nel 1817, ancora in uso oggi, descrive l’allucinazione come “una convinzione immediata di una sensazione percepita, pur in assenza di un oggetto esterno che possa stimolare tale sensazione” (Ey, 1939).

Jaspers, nel 1913, la considera come una percezione falsa che non è dovuta a una distorsione delle percezioni reali, ma piuttosto a una produzione mentale autonoma che si manifesta simultaneamente con le percezioni autentiche (Jaspers, 1913).

Per Smythies (1956, citato in Oyebode, 2008), un’allucinazione è un fenomeno percettivo che coinvolge stimoli sia interni che esterni, ma che non corrisponde a un oggetto concreto nel mondo reale.

Infine, Slade (1976, citato in Oyebode, 2008) distingue tre caratteristiche fondamentali delle allucinazioni: la percezione simulata si verifica senza uno stimolo esterno, ha un’intensità e un impatto simili a quelli di una percezione reale, ed è caratterizzata da involontarietà, spontaneità e da una totale incapacità del soggetto di controllarla.

Per lungo tempo, il sentire le voci è stato considerato un sintomo di- stintivo della schizofrenia, come indicato nelle edizioni precedenti del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III e DSM- IV). La diagnosi di schizofrenia nel DSM-IV richiedeva la presenza di almeno due dei seguenti cinque sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento gravemente disorganizzato o catatonico, e sintomi negativi, che includevano appiattimento affettivo, alogia, abulia. In alternativa, bastava la presenza di deliri bizzarri o di allucinazioni uditive, come la percezione di una voce che commenta continuamente i pensieri o il comportamento del soggetto, oppure il sentire due o più voci che conversano tra loro (APA, 2000).

Tuttavia, a partire dalla quinta edizione del manuale, le allucinazioni verbali uditive non sono più considerate un sintomo esclusivo della schizofrenia (APA, 2013).

È stato evidenziato che le allucinazioni uditive possono manifestarsi anche in individui senza una diagnosi psichiatrica, fenomeno spesso definito in letteratura come “pseudoallucinazioni”. Questo termine viene utilizzato per distinguere tali voci da quelle tipicamente associate a disturbi psicotici, come nei casi di psicosi (Longden et al., 2019).

Tuttavia, la ricerca scientifica non ha fornito prove conclusive a sostegno di questa distinzione. Al contrario, le evidenze suggeriscono che non vi sia una separazione netta tra le allucinazioni uditive sperimentate da persone con e senza diagnosi psichiatrica.

Numerose ricerche hanno mostrato che una parte significativa della popolazione sperimenta allucinazioni uditive senza ricorrere a trattamenti terapeutici per psicosi. Solo una percentuale relativamente bassa di questi individui (compresa tra 1/3 e 1/5) cerca una consulenza psichiatrica in relazione a queste esperienze (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007).

Inoltre, non sono state riscontrate differenze significative in relazione alla localizzazione delle voci, in quanto la percezione della provenienza esterna della voce non risulta essere più strettamente associata alla schizofrenia rispetto ad altri disturbi dello spettro schizofrenico e psicotici. Variabili come la prevalenza delle allucinazioni uditive, la loro personificazione, la vividezza percettiva, la durata e il contenuto negativo non mostrano differenze significative tra i pazienti con diagnosi di schizofrenia e quelli con altre diagnosi psichiatriche (Longden et al., 2012; Moskowitz & Corstens, 2007; Waters & Fernyhough, 2017).

Sono state osservate sia somiglianze che differenze nelle allucinazioni uditive tra popolazioni cliniche e non cliniche, un argomento che viene trattato in modo approfondito nella revisione di Longden e collaboratori, la quale si raccomanda per ulteriori approfondimenti (Longden et al., 2019).

Nel 2007, Moskowitz e Corstens furono i primi a proporre l’idea che l’udire voci potesse essere il risultato di un processo dissociativo. Gli autori evidenziano la mancanza di evidenze che suggerissero una differenza significativa tra le voci percepite da individui con diagnosi di schizofrenia, disturbi dissociativi o da persone senza disturbi psichici. Nelle loro conclusioni, gli autori sottolinearono alcuni punti fondamentali: a) le allucinazioni uditive dovrebbero essere interpretate come esperienze dissociative, tipiche di individui predisposti a percepire voci, in particolare in situazioni di stress; b) queste esperienze necessitano di un’analisi approfondita per comprendere appieno il loro significato; c) le allucinazioni uditive potrebbero risolversi quando l’individuo riesce a spostare la sua valutazione da un livello esterno a uno interno riguardo al processo in atto (Moskowitz & Corstens, 2007).

La tendenza a interpretare i fenomeni mentali in termini di determinismo biologico ha radici molto antiche. Questo approccio può essere visto come il risultato dell’attività incessante delle strutture cerebrali superiori, che cercano di attribuire un senso ai vari aspetti dell’esperienza umana, spesso cadendo però nell’errore dell’ipersemplificazione. Un esempio di questa dinamica si può osservare anche nel concetto di allucinazione, che, a partire dalla definizione iniziale di “percezione senza oggetto” proposta da Esquirol, ha subito una lenta evoluzione.

In questo contesto, Séglas, clinico di grande esperienza e figura di riferimento della Salpêtrière, si esprime riguardo all’allucinazione uditiva nella sua introduzione a questo libro di Henri Ey.

“Questo atteggiamento quasi generale di indifferenza da parte dei medici nei confronti della psicologia dell’allucinazione uditiva, e in particolare delle allucinazioni psichiche, era semplicemente il risultato dell’idea, emersa dal lavoro di Esquirol e divenuta una sorta di aforisma intangibile, che l’allucinazione fosse semplicemente una modalità patologica della percezione “una percezione senza oggetto”. Non sorprende quindi che le allucinazioni vengano classificate in tante varietà quanti sono i sensi e che si distinguano, accanto alle allucinazioni della vista e dell’udito, quelle dell’olfatto, del gusto e del tatto” (p. XXII).

In un passo successivo ne sottolinea il meccanismo dissociativo:

“In sintesi, la caratteristica di questi fenomeni non è che si manifestano come più o meno simili a una percezione esterna, ma che sono fenomeni di automatismo verbale, un pensiero verbale staccato dall’Io, un fatto, si potrebbe dire, di alienazione del linguaggio” (p. XXIV).

Ciò che emerge con chiarezza lungo tutto il testo è l’idea che le allucinazioni non debbano essere considerate semplicemente come il risultato di un danno biologico, ma piuttosto come fenomeni che si inseriscono in un quadro complesso e dinamico del funzionamento globale dell’individuo, e in particolare della sua personalità. Secondo Henri Ey, le allucinazioni sarebbero espressione di un livello di integrazione psicologica ridotto.

Nelle sue conclusioni, l’autore sottolinea che:

“Così, di fronte alle teorie che pongono l’allucinazione come una sensazione più o meno degradata, anormale ma primitiva, che di conseguenza im- maginano i fenomeni allucinatori come sensazioni imposte (dall’interno… e si potrebbe quasi dire dall’esterno!) sulla personalità del soggetto, la nostra concezione (anch’essa tradizionale, come abbiamo spesso sottolineato, da Mo- reau de Tours a Séglas) è che si tratti di un errore condizionato da una caduta di livello psichico con un determinismo organico o affettivo che gli conferisce una sensorialità più o meno chiara. È sempre costituito dall’impasto della personalità del soggetto e della sua stessa attività” (p. 122).

E ancora in passaggio successivo:

“In conclusione, affermiamo ancora una volta che l’allucinazione non è un oggetto, che non è un prodotto primitivo del cervello malato. È legata da una rete fitta e sottile all’intera personalità dell’allucinato, così come la più piccola delle nostre idee, il più piccolo dei nostri atti – anche il più automatico – è legato all’insieme dei nostri atti passati, delle nostre idee, delle nostre credenze, dei nostri desideri. Ogni immagine è un pezzo vivente di noi stessi. Ogni idea ha le sue radici nella sostanza del sé. È altrettanto stravagante credere a idee, immagini e oggetti (le cosiddette allucinazioni) che si producono al di fuori del sé e a cui il sé aderisce, quanto credere alla trasmissione del pensiero” (p. 125).

Questo lavoro preliminare del 1934 rappresenta un momento cruciale nella definizione delle allucinazioni secondo Henri Ey, un concetto che viene poi ampiamente trattato nel suo successivo trattato sulle allucinazioni. In quest’opera, Ey distingue due tipi principali di allucinazioni: le allucinazioni semplici (come le allucinosi), che possono essere ricondotte a disturbi neurologici, e le allucinazioni complesse, che si basano sul linguaggio interiore e sono legate a disfunzioni nell’organizzazione della coscienza (Ey, 1973).

In effetti, Henri Ey, insieme ad altri studiosi come Scröder e Janet, ha tracciato una distinzione tra allucinosi – intesa come una disintegrazione isolata delle percezioni – e le allucinazioni osservate nelle psicosi, che sono considerate espressioni cliniche del disturbo della coscienza e della personalità (Ey et al., 1972).

Il DSM-5 definisce i deliri come “convinzioni fortemente sostenute che non sono passibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti” (APA, 2013; p. 101).

La definizione standard di delirio si rifà a Jasper (1913), il quale gli attribuiva queste caratteristiche:

  1. il fatto di essere un giudizio erroneo;
  2. l’essere sostenuto con straordinaria convinzione e impareggiabile certezza soggettiva;
  3. l’essere refrattario all’esperienza e ogni tipo di confronto con argomentazioni alternative oltre al fatto di non essere influenzato dall’esperienza concreta o dalle confutazioni stringenti;
  4. l’impossibilità del contenuto;

Jasper (1913) differenzia i veri deliri o deliri propri dalle idee simil- deliranti, laddove i primi diventano sinonimi di deliri primari mentre i secondi di deliri secondari.

Le idee simil-deliranti possono essere comprese in riferimento all’ambiente interno ed esterno del paziente, in particolare dal suo stato dell’umore.

I veri deliri non possono essere spiegati, sono irriducibili e sono classificati in: intuizioni deliranti, percezioni deliranti, atmosfera delirante e ricordi deliranti (Jasper, 1913; Oyebode, 2008).

Le teorie più recenti in ambito psichiatrico si sono evolute nel tentativo di fornire una spiegazione delle varie manifestazioni del delirio. I deliri pri- mari, definiti come “irriducibili” e non comprensibili, potrebbero sembrare privi di una spiegazione logica, poiché il clinico o l’osservatore potrebbe non possedere informazioni sufficienti sul contesto esistenziale e biografico da cui questi deliri emergono. Questo può accadere anche quando si è esplorata in profondità la possibilità di una loro interpretazione come fenomeni secondari. Secondo alcuni autori, diversi tipi di delirio potrebbero derivare da ricordi traumatici decontestualizzati o da esperienze precoci di attaccamento emotivo, per le quali non è possibile formare una memoria autobiografica congruente (Moskowitz & Montirosso, 2019).

Come viene concettualizzato il delirio in questo lavoro di Henri Ey?

Per l’autore, i disturbi allucinatori del linguaggio interiore (automatismo verbale) assumono la loro forma patologica diventando fenomeni for- zati o estranei attraverso il significato che viene conferito loro dal delirio.

Utilizzando le parole dello psichiatra francese, il delirio è “nella sua accezione più generale, quell’insieme di disturbi della coscienza, sentimenti patologici, credenze morbose, che fanno sempre da contorno a fenomeni isolati solo dall’astrattezza come le allucinazioni o le pseudo-allucinazioni verbali”.

Il delirio risulta quindi strettamente connesso all’allucinazione, come emerge chiaramente nella seconda sezione del testo, dove Ey fa riferimento a numerosi autori che condividono questa visione (vedi per esempio Falret e Chaslin). Tuttavia, il principale riferimento è a Séglas, che viene citato più volte e la cui riflessione fondamentale viene proposta come epigrafe all’inizio di questo lavoro: “L’allucinazione non deve essere considerata solo come un delirio delle sensazioni. Essa possiede tutte le caratteristiche di un vero e proprio delirio, nel senso più ampio del termine”.

La concezione del delirio di Ey si inserisce nella teoria organo-dinamica e si fonda su due aspetti principali, strettamente interconnessi: a) la dimensione negativa dell’esperienza delirante, che è caratterizzata da uno stato primordiale del delirio, conseguente alla destrutturazione della coscienza; b) la costruzione delirante positiva, che consiste nella costruzione di una finzione immaginaria a partire dalle esperienze deliranti, dando forma a una narrativa delirante coesa (Ey et al., 1972)

Tutto il lavoro di Ey si fonda sulla teoria di Jackson, in base alla quale la mente funziona secondo un principio gerarchico. In questo modello, la mente è in grado di integrare progressivamente in modo più complesso le informazioni provenienti dalle aree cerebrali inferiori. Le funzioni delle strutture cerebrali più primitive vengono riorganizzate e rappresentate all’interno delle reti neurali più avanzate (le neostrutture), le quali permettono forme più sofisticate e adattabili di elaborazione dell’informazione.

Come l’autore afferma in un passaggio in cui discute il concetto di automatismo:

“A un livello inferiore, la mente fluttuante è capace solo di attività associativa e spontanea. A un livello superiore, ma ancora inferiore all’attività riflessiva e volontaria, si organizza secondo un tipo di pensiero affettivo, primo abbozzo della sua finalità. È l’ipotesi di tale gerarchia che ci guiderà in tutto questo lavoro” (p. XLVI).

E ancora più avanti nel testo quando mette in evidenza come il costituirsi delle idee deliranti vada ricondotto all’attività mentale dei livelli inferiori:

“[…] ma esiste proprio nel dispiegamento delle funzioni psichiche un dominio molto considerevole in cui il pensiero indebolito è costretto a rimanere a questi livelli inferiori ed è, crediamo, in questi stati crepuscolari ipnoidi che dob- biamo vedere l’elaborazione di un certo numero di idee deliranti.” (p. LVII).

Il libro in esame affronta il tema delle allucinazioni e dei deliri, esplorandone la connessione.

Nell’introduzione, l’autore si concentra sulla definizione di “automatismo” in psicopatologia, esaminando la complessità e le ambiguità del termine, e considerando le diverse interpretazioni presenti in ambito psichiatrico. Successivamente, il concetto viene rielaborato attraverso una prospettiva organo dinamica, in accordo con le teorie di Jackson, Janet e Bleuler.

L’ipotesi che orienta le argomentazioni dei capitoli successivi è che i fenomeni allucinatori non debbano essere considerati manifestazioni automatiche e prive di significato, ma piuttosto “dei fenomeni in sé stessi intatti e che assumono una forma patologica (credenze deliranti e allucinatorie) una volta che si verifica una dissoluzione delle funzioni superiori che le regolano” e che questa dissoluzione cerebrale possa “essere realizzata da incidenti cerebrali o in certi casi essere provocata da avvenimenti dell’”ambiente” recenti (traumi affettivi) o antichi (organizzazione della personalità psichica, non cosciente)”.

La prima sezione del libro è incentrata sull’analisi delle allucinazioni psicomotorie verbali.

In questa parte, Henri Ey propone un excursus storico, esaminando l’evoluzione delle teorie a partire dai primi lavori di Séglas del 1888, per poi sviluppare una discussione in cui illustra, attraverso numerosi esempi clinici, come il linguaggio debba essere concepito come una funzione motoria complessa, strettamente interconnessa con i processi cognitivi del pensiero.

Ey esplora il rapporto tra immagine, linguaggio e movimento, evidenziando come la percezione, insieme all’immagine e al pensiero che ne derivano, siano intimamente connessi agli atti motori. In questa visione, la percezione non è solo un processo passivo di registrazione sensoriale, ma un atto dinamico che implica l’integrazione e la rappresentazione di stimoli all’interno di un contesto motorio, dove il linguaggio, come funzione complessa, emerge e si sviluppa in stretta relazione con il movimento. I fenomeni psichici possono quindi essere spiegati tramite il movimento, considerato “il vero motore dell’atto percettivo, del pensiero e dell’immagine seguendo i loro diversi livelli” (p. 27).

L’autore esamina le allucinazioni psicomotorie, distinguendo tra feno- meni di costrizione (forzati) e fenomeni di estraneità, e successivamente discute come tali manifestazioni possano essere comprese solo in relazione a uno stato mentale più ampio che le ingloba. In particolare, il sentimento di “influenzamento” si associa ai fenomeni forzati, mentre il sentimento di “automatismo” si lega ai fenomeni di estraneità.

Negli ultimi capitoli di questa prima parte, l’autore propone una valutazione critica della teoria di Morgue, argomentando la corrispondenza tra il sentimento di automatismo e il sentimento di influenzamento. Ey sottolinea come entrambi i fenomeni “non dipendano da scoppi, irruzioni, atti isolati e meccanicamente innescati” (p. 48) ma piuttosto siano il frutto di processi psichici più complessi. Inoltre, illustra come la dissoluzione delle funzioni psichiche che sta alla base di questi fenomeni possa essere indotta tanto da fattori organici, come alterazioni neurologiche, quanto da fattori affettivi, suggerendo una visione più integrata e meno riduzionista dei disturbi psichici.

La seconda parte del lavoro si focalizza sull’analisi del rapporto tra allucinazione e delirio. In particolare, il primo capitolo esplora come i fenomeni forzati e quelli estranei siano strettamente legati al pensiero e alle credenze deliranti. Il secondo capitolo, invece, è dedicato all’esame dei fenomeni psicomotori e all’evoluzione dei deliri, mentre il terzo capitolo offre una descrizione delle diverse tipologie di delirio, evidenziando le varie manifestazioni cliniche e le loro caratteristiche distintive.

In ambito psichiatrico, il fenomeno delle allucinazioni uditive viene generalmente interpretato come il risultato di un “danno” biologico, un’alterazione nei meccanismi cerebrali, e per questo motivo viene considerato trattabile esclusivamente tramite interventi farmacologici. In questo paradigma, il trattamento con antipsicotici è visto come la modalità terapeutica principale, accompagnato da interventi psicoeducativi, che si concentrano sull’informare il paziente riguardo alla natura del disturbo cerebrale e alla necessità di seguire una terapia farmacologica.

Al contrario, una prospettiva alternativa, concepisce le voci come fenomeni dissociativi, ossia come manifestazioni di aspetti del sé che sono stati dissociati o separati. In questa visione, le allucinazioni uditive vengono interpretate come strategie di adattamento e di sopravvivenza messe in atto dal cervello di fronte a difficoltà psichiche. In questo approccio, l’intervento primario consiste in una psicoterapia, con il trattamento farmacologico che gioca un ruolo di supporto (Ross, 2020; Mosquera & Ross, 2016).

In linea con questo modo di concepire le voci, studi recenti hanno messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti che considerano le voci come aspetti del sé dissociati da re-integrare all’interno di un processo terapeutico (Corstens et al., 2019; Longden et al., 2022).

Molte teorie, purtroppo, non hanno ricevuto il riconoscimento scientifico che avrebbero meritato, venendo inizialmente ignorate per poi essere rivalutate in seguito. Sebbene le teorie di Henri Ey abbiano avuto un certo impatto nel contesto psichiatrico, è probabile che nel corso dei decenni successivi non abbiano ricevuto l’attenzione adeguata che il loro valore teorico e clinico avrebbe suggerito.

Si spera che il presente volume, che rappresenta il primo contributo dell’autore sull’interrelazione tra fenomeni allucinatori e psicosi, ripreso successivamente in un’opera più ampiamente sviluppata (Ey, 1973), possa suscitare nel lettore una rinnovata curiosità e stimolare nuove riflessioni, indirizzando la ricerca verso una concezione gerarchica del funziona- mento mentale, in opposizione a una visione dominante nella psichiatria contemporanea che, se non definita “meccanicistica”, risulta comunque di natura riduzionista.

Qui per acquistare il volume.

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10 January 2025

IL CONVEGNO DI BOLOGNA SULLA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI (dicembre 2024)

di Raffaele Avico

La SIMEPSI ha organizzato, insieme alle realtà svizzere ALPS e ASPT – Association Suisse Psychédéliques en Thérapie, un convegno a Bologna nello scorso dicembre, che ha interamente filmato e reso fruibile in modo gratuito su Youtube.

Molteplici gli interventi di interesse per chi è interessato al “rinascimento psichedelico”, dalla presentazione della Simepsi da parte di Matteo Buonarroti, all’affaccio sulla realtà svizzera da parte di Federico Seragnoli, agli studi di Tania Re sul fine vita assistita da psichedelici, fino a un’intervista fatta a una coppia di clinici del Ticino che privatamente praticano psicoterapia assistita da psichedelici.

L’insieme dei video si può reperire qui.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI

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8 January 2025

Hakim Bey: T.A.Z.

di Raffaele Avico

“Questi nomadi mappano le proprie rotte affidandosi a strane stelle che potrebbero essere ammassi luminosi di dati nel ciberspazio, o forse allucinazioni. Tracciate una carta del paese e sopra metteteci una mappa dei cambiamenti politici, e ancora sopra una mappa della Rete, in particolare la contro-Rete con la sua enfasi sul flusso di informazioni clandestine e sulla logistica, e per finire, al di sopra di tutto, la carta 1:1 dell’immaginazione creativa, dell’estetica e dei valori creativi. La griglia risultante prenderà vita, animata da inattesi gorghi e sbalzi d’energia, da coagulazioni di luce, da passaggi segreti, da sorprese.”

Hakim Bey è (stato) un attivista anarchico, un pensatore “folle”, un riferimento per la controcultura degli anni ‘70; recentemente Shake ha tradotto un suo lavoro storico, scritto tra gli anni ‘80 e ‘90, rieditato e riorganizzato nei contenuti, dal titolo TAZ, ovvero “Zona autonoma temporanea”. In rete si trovano diverse definizioni del concetto di TAZ, anche se nel libro di Bey non è chiarissima la sua definizione: si tratta però di un concetto che rimanda all’idea di “non luogo”, una zona di “liberazione” temporanea, uno spazio o un luogo in cui le leggi della società per come la conosciamo -e dell’impero “del capitale”- sono momentaneamente sospese.

Bey invita il lettore a costruire attivamente e ad esplorare zone di autonomia temporanea, partendo da un lavoro di consapevolizzazione, di studio della realtà esistente, al fine di costruire “alternative temporanee valide”. Nel libro troviamo alcuni esempi puntuali di TAZ, dall’esperimento di D’Annunzio con la presa di Fiume e la creazione di una sorta di comune avanguardista incentrata sul godimento, sulla musica e sull’assenza di legge, all’idea di “festa” in generale, intesa come momento di sospensione delle regole sociali comuni, all’ambiente della pirateria del 1500/1600, che aveva regole intrinseche molto strutturate e peculiari incentrate sulla redistribuzione della ricchezza.

Il libro si divide in due parti principali: un primo capitolo che dà il nome al libro stesso, incentrato sul concetto di T.A.Z., e un secondo macro capitolo che vuole essere un manifesto di quella che Bey definisce Associazione Anarchica Ontologica, di cui troviamo qui una definizione.

Come altri libri scritti da autori anarchici, Bey osserva alcuni aspetti peculiari che ci aiutano a riflettere sulla società attuale:

  • sono frequenti i riferimenti alla corruzione introdotta dalla società dei consumi e dello spettacolo, che sembra aver allontanato gli uomini da un tipo di godimento infantile, a contatto con la natura, e da una sessualità più libera, divincolata da aspetti morali
  • c’è un invito costante a trascendere, in questo libro, al di là dell’impianto di leggi e imposizioni morali dettate dalla società dello spettacolo; Bey usa spesso termini e concetti mutuati dalla filosofia di Nietzsche, che torna più volte nella lettura, il che ci fa pensare al filosofo dell’oltreuomo come a uno dei riferimenti centrali dell’autore
  • il libro è più un insieme organizzato di pensieri e spunti che non un prodotto editoriale “perfetto”: troviamo al suo interno moltissimi riferimenti ad altri pensatori, altre sperimentazioni, a concetti mutuati dalle filosofie orientali, così come dal pensiero “hippie”, il tutto mischiato e a volte confusionario; il libro va approcciato con mente aperta, disposta a un’operazione di “meticciamento”
  • la cultura del “rave”, dello spazio autonomo, deve molto a scritti di questo tipo: per chi conosce dall’interno della cultura del rave, un pensatore come Bey rappresenta un riferimento culturale importante. Gli ambienti dei rave sono descritti spesso come luoghi “altri”, come realtà alternative, spazi di sperimentazione e di confronto disintermediato
  • Nel libro sono presenti riferimenti al lavoro “psicologico”: notiamo che Bey mastica concetti di psicoanalisi (sicuramente ha letto Jung); il suo invito al decostruire e allo smantellare si spinge fino a un attacco agli “archetipi”, il che di nuovo ci ricorda l’operazione di “trasvalutazione di tutti i valori” di Nietzsche

Esempio di TAZ, la (ex) comune anarco-ambientalista Floating City di Copenhagen.

Bey stesso, morto nel 2022, fu un personaggio estremo: apolide per scelta, viene contestato dagli anarchici più ortodossi, criticato nel suo modo a-politico di promuovere le TAZ -troppo slegato da un modo più “sistemico” di introdurre il pensiero anarchico.

Qui il PDF di TAZ in download.


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3 January 2025

L’INTEGRAZIONE IN AMBITO PSICHEDELICO – IN BREVE

di Raffaele Avico

L’integrazione è un processo di “socializzazione” e ri-discussione dell’esperienza psichedelica in un contesto di gruppo, o almeno “alla presenza di” qualcun altro. L’idea è che i contenuti emersi durante il “viaggio psichedelico” possano essere ri-affrontati e discussi, così da trovare un loro posto nella quotidianità del soggetto, divenendo -appunto- integrati nella sua vita.

Abbiamo chiesto a Caterina Bartoli (aka Studio Aegle) un chiarimento a proposito del tema dell’integrazione in psichedelia (qui). Caterina aveva lavorato a un importante articolo introduttivo a tema psichedelici, con raccolti -e sintetizzati- 10 articoli “imprescindibili” della cultura psichedelica, che potete trovare qui. Qui invece li link al suo sito, e l’intero archivio degli articoli che per ora ha spiegato e diffuso.

Sempre a proposito di psichedelici, Phenomenautics.

A proposito del concetto di integrazione, per approfondire, elenchiamo qui di seguito alcune risorse di qualità:

  1. Workbook di MAPS
  2. Questi spunti per community led-integration circles
  3. Questo articolo: Psychedelic integration: An analysis of the concept and its practice
  4. infine, la “bibbia” sul tema.

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19 December 2024

CARICO ALLOSTATICO: UN’INTRODUZIONE

PREMESSA: questo articolo è stato scritto -come esperimento- da ChatGPT4o, “alimentata” da articoli scientifici incentrati sul concetto di carico allostatico. Il concetto di carico allostatico è affine a quello di “disturbo dell’adattamento“, che riguarda persone colpite da stress protratto (come vi rispondono, come la loro mente e il loro corpo reagiscono ad esso).
In pazienti con PTSD o PTSDc, osserviamo uno stato di iperattivazione nervosa protratto, un’accensione del sistema di allarme che ricade sul corpo, che genera conseguenze anche in senso medico. I due riferimenti teorici, come si legge sotto, sono su questo Bruce S. McEwen e Robert Sapolsky, che ha scritto il famoso “Perchè alle zebre non viene l’ulcera“, un trattato divulgativo ottimo per capire come il “carico allostatico” -appunto- impatti sui vari distretti corporei. Un ottimo lavoro divulgativo, su questo, lo sta facendo la SIPNEI.
Per un professionista che si occupi di individui colpiti da eventi stressanti o in balìa di emozioni di allarme (come nei disturbi di panico, o appunto nelle sindromi post-traumatiche) capire come il “carico” emotivo impatti sul corpo e sulla mente -insieme- rappresenta un imprescindibile punto di partenza nel lavoro di indagine diagnostica e durante l’impostazione del piano di cura. Abbiamo qui spesso sottolineato come la sola parola non basti, e occorra mettere il corpo nell'”equazione clinica”, spingendo il paziente a occuparsi anche delle ricadute somatiche della sua emotività (per esempio tentando di dissipare l’allarme anche in forma fisica, attraverso l’attività fisica). (R. Avico)

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Introduzione

Il concetto di equilibrio biologico ha subito un’evoluzione significativa nel corso del tempo. L’omeostasi, definita da Walter Cannon come il ritorno dell’organismo a condizioni di stabilità originarie, è stata ampliata e reinterpretata attraverso il concetto di allostasi e carico allostatico. Questo approccio, sviluppato da Hans Selye e formalizzato da Bruce McEwen, rappresenta un salto paradigmatico nella comprensione della risposta adattativa agli stressor e delle sue conseguenze sulla salute umana. L’allostasi descrive il processo attraverso cui l’organismo raggiunge un nuovo equilibrio funzionale, mentre il carico allostatico rappresenta il costo biologico accumulato nel tentativo di adattarsi a stimoli prolungati o ripetuti. Questi concetti sottolineano il ruolo del cervello come centro di regolazione della risposta allo stress e il suo dialogo costante con il resto del corpo.

Il carico allostatico: definizione e implicazioni

Il carico allostatico rappresenta il costo cumulativo sostenuto dall’organismo nel tentativo di adattarsi agli stimoli stressanti attraverso meccanismi di allostasi. Esso si verifica quando le risposte fisiologiche allo stress sono attivate ripetutamente o mantenute per periodi prolungati, superando la capacità di recupero dell’organismo. Il carico allostatico include sia la produzione eccessiva di mediatori dello stress, come cortisolo e citochine infiammatorie, sia la loro deregolazione, con effetti dannosi a livello cerebrale, immunitario, cardiovascolare e metabolico. Questa condizione, se protratta, diventa un fattore predisponente per l’insorgenza di patologie croniche, alterazioni cognitive e disturbi dell’umore.

L’allostasi e il cervello: adattamento e sovraccarico

Il cervello svolge un ruolo centrale nella percezione e nella regolazione della risposta allo stress. Esso valuta l’ambiente, determina la natura degli eventi stressanti e coordina le risposte comportamentali e fisiologiche necessarie all’adattamento. Questo processo, definito allostasi, coinvolge mediatori chiave come il cortisolo, le catecolamine, le citochine infiammatorie e gli ormoni metabolici. Quando queste risposte sono equilibrate e temporanee, facilitano un adattamento funzionale; tuttavia, quando diventano croniche, eccessive o deregolate, si genera un carico allostatico, che si manifesta con alterazioni a livello cerebrale e sistemico.

La plasticità allostatica rappresenta la capacità del cervello di adattarsi strutturalmente e funzionalmente in risposta allo stress. Questa plasticità si osserva in regioni chiave come l’ippocampo, la corteccia prefrontale e l’amigdala, ciascuna delle quali risponde in modo differente agli stimoli stressanti. L’ippocampo, cruciale per la memoria episodica e la regolazione dell’umore, subisce atrofia dendritica sotto stress cronico, con effetti negativi sulle funzioni cognitive. Al contrario, l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione della paura e dell’ansia, mostra espansione dendritica, che si traduce in un aumento della vigilanza e della risposta emotiva. La corteccia prefrontale, fondamentale per le funzioni esecutive e il controllo comportamentale, subisce una riduzione della connettività funzionale, portando a rigidità cognitiva e difficoltà decisionali.

Meccanismi epigenetici e carico allostatico

Lo stress regola l’espressione genica attraverso meccanismi epigenetici, tra cui la metilazione del DNA, le modifiche istoniche e l’azione di RNA non codificanti. Questi processi influenzano continuamente l’attività dei geni, lasciando segni permanenti che persistono anche dopo la fine dell’evento stressante. Le esperienze avverse durante lo sviluppo, comprese quelle prenatali e infantili, esercitano effetti duraturi sull’architettura genetica e cerebrale, aumentando la suscettibilità a disturbi psichiatrici e fisici. Il concetto di plasticità epigenetica implica che, sebbene il cervello possa mostrare resilienza e recupero, esso non ritorna mai completamente allo stato precedente allo stress.

L’accumulo di carico allostatico altera anche la fisiologia sistemica. Il ritmo circadiano, ad esempio, risente fortemente delle alterazioni stress-correlate, con effetti negativi sulla regolazione del sonno, del glucosio e dell’infiammazione sistemica. La privazione del sonno e le disfunzioni circadiane aggravano il carico allostatico, determinando un aumento della resistenza insulinica e del rischio di patologie metaboliche. Di conseguenza, condizioni come il diabete e l’obesità sono strettamente correlate alla depressione e all’aumentato rischio di demenza.

Effetti sistemici e implicazioni per la salute

Il carico allostatico si manifesta con effetti negativi diffusi che coinvolgono più sistemi fisiologici. A livello neuroendocrino, la deregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene porta a una produzione persistente di cortisolo, con conseguenze dannose sulla salute metabolica, immunitaria e cardiovascolare. A livello immunitario, l’infiammazione cronica rappresenta un elemento cardine del carico allostatico, favorendo lo sviluppo di malattie autoimmuni, cardiovascolari e neurodegenerative. Questi effetti si estendono alla sfera psichiatrica, con un aumento della vulnerabilità alla depressione, all’ansia e ai disturbi cognitivi.

L’esposizione precoce allo stress, sia durante lo sviluppo intrauterino che nei primi anni di vita, contribuisce in modo determinante al carico allostatico. Eventi avversi in questa fase delicata lasciano segni epigenetici che influenzano negativamente la salute mentale e fisica nell’età adulta. Analogamente, fattori socioeconomici, come la povertà e lo svantaggio sociale, interagiscono con predisposizioni genetiche ed epigenetiche, aumentando il rischio di multimorbilità tra disturbi psichiatrici e fisici.

Effetti dello stress protratto e il contributo di Robert Sapolsky

Il lavoro di Robert Sapolsky ha ampliato la comprensione degli effetti dello stress protratto sul cervello e sull’organismo. Secondo Sapolsky, lo stress cronico comporta una stimolazione prolungata dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con rilascio costante di cortisolo. Questa esposizione persistente danneggia in modo particolare l’ippocampo, una struttura essenziale per la memoria e la regolazione emotiva. Le cellule neuronali dell’ippocampo risultano vulnerabili all’effetto neurotossico del cortisolo, andando incontro a una riduzione delle connessioni dendritiche e a una maggiore suscettibilità alla morte cellulare. Parallelamente, l’amigdala mostra un’attivazione eccessiva che amplifica stati di ansia e iper-vigilanza, mentre la corteccia prefrontale, deputata alla regolazione delle emozioni e al controllo delle risposte impulsive, subisce un declino funzionale.

Sapolsky sottolinea inoltre come lo stress protratto agisca a livello sistemico, favorendo l’infiammazione cronica e interferendo con il metabolismo glucidico. Questa condizione, se prolungata, diventa un terreno fertile per lo sviluppo di patologie come la sindrome metabolica, il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. I suoi studi evidenziano anche l’importanza del contesto sociale nella modulazione della risposta allo stress, mostrando come fattori come la gerarchia sociale e le relazioni interpersonali possano influenzare la vulnerabilità individuale agli effetti negativi dello stress.

Prevenzione e interventi terapeutici

La comprensione del carico allostatico e dei suoi meccanismi sottolinea l’importanza di approcci preventivi e terapeutici mirati. La prevenzione del sovraccarico biologico è fondamentale e richiede interventi che promuovano comportamenti salutari e resilienza psicologica. La plasticità cerebrale offre opportunità per trattamenti che integrano interventi farmacologici e comportamentali. Tecniche come la mindfulness, la meditazione e la terapia cognitivo-comportamentale si sono dimostrate efficaci nel ridurre lo stress e migliorare la salute mentale. L’attività fisica regolare, un sonno adeguato e la promozione di interazioni sociali significative sono strumenti essenziali per mitigare il carico allostatico e favorire il recupero.

Conclusione

L’allostasi e il carico allostatico rappresentano concetti chiave per comprendere come l’organismo risponde allo stress nel corso della vita. Il cervello, in qualità di organo centrale della risposta allo stress, modula e subisce gli effetti delle esperienze stressanti attraverso meccanismi neuroplastici ed epigenetici. Quando la risposta adattativa diventa disfunzionale, si verifica un accumulo di carico allostatico che compromette la salute sistemica e psichica. Affrontare il carico allostatico richiede un approccio olistico che integri prevenzione, interventi terapeutici e promozione del benessere, con l’obiettivo di preservare l’equilibrio dinamico dell’organismo e migliorare la qualità della vita.

Indicazioni biografiche su Bruce McEwen

Bruce S. McEwen (1938-2020) è stato un pioniere nel campo della neuroendocrinologia e della ricerca sullo stress. Professore presso la Rockefeller University di New York, McEwen è noto per aver introdotto i concetti di allostasi e carico allostatico, rivoluzionando la comprensione delle risposte allo stress e delle loro implicazioni per la salute mentale e fisica. I suoi studi hanno esplorato l’interazione tra il cervello e i sistemi ormonali, mostrando come lo stress cronico influenzi la plasticità cerebrale, l’epigenetica e le patologie sistemiche. La sua vasta produzione scientifica include oltre 1.000 pubblicazioni e numerosi premi prestigiosi per il suo contributo alla medicina e alla biologia.

Bibliografia

  • McEwen, B. S. (2007). Physiology and neurobiology of stress and adaptation: Central role of the brain. Physiological Reviews, 87(3), 873-904.
  • McEwen, B. S., & Nasca, C. (2016). Stress effects on neuronal structure: Hippocampus, amygdala, and prefrontal cortex. Neuropsychopharmacology, 41(1), 3-23.
  • McEwen, B. S., & Morrison, J. H. (2013). The brain on stress: Vulnerability and plasticity of the prefrontal cortex over the life course. Neuron, 79(1), 16-29.
  • McEwen, B. S. (1998). Protective and damaging effects of stress mediators. New England Journal of Medicine, 338(3), 171-179.
  • Koob, G. F., & Le Moal, M. (2001). Drug addiction, dysregulation of reward, and allostasis. Neuropsychopharmacology, 24(2), 97-129.
  • Sapolsky, R. M. (2004). Why zebras don’t get ulcers: The acclaimed guide to stress, stress-related diseases, and coping. Holt Paperbacks.

NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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2 December 2024

SISTEMI MOTIVAZIONALI, EMOZIONI IN CLINICA, LIOTTI: UN APPROFONDIMENTO (E UN’INTERVISTA A LUCIA TOMBOLINI)

di Raffaele Avico

Abbiamo intervistato Lucia Tombolini, psichiatra e docente, storica collaboratrice di Giovanni Liotti, a proposito dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI).

Quello che ne è emerso è un ottimo dialogo per chi voglia meglio comprendere questa “lente” interpretativa su diversi fenomeni clinici.

L’intervista è raggiungibile a questo link.

La Teoria dei Sistemi Motivazionali è potenzialmente in grado di “superare” (o almeno di affiancare) la prospettiva pulsionale che Freud aveva pensato come “basale” nel funzionamento psichico.
Per Freud le pulsioni erano “rappresentanti” del corpo entro il “reame” della mente, fenomeni psicologici direttamente derivanti dal corpo, elementi di “confine” tra il somatico e la psiche: la psicologia di un individuo sarebbe stata, per Freud, “determinata” dalla forma della loro “organizzazione”.
Parliamo invece, con i Sistemi Motivazionali, di un insieme di comportamenti a base innata che si sviluppano fin dalla vita intrauterina, “regali” dell’evoluzione in grado di muovere il soggetto a comportamenti e relazioni, fin dalla sua nascita. Per una introduzione generale alla Teoria dei Sistemi Motivazionali interpersonali, si veda qui.

Integriamo l’intervista a Lucia Tobolini con un riferimento al tema delle emozioni, viste alla luce della teoria degli SMI.

Le emozioni potrebbero essere lette, usando questa lente, come “segnali” di attivazione di particolari SMI. Quando c’è un’emozione che si “staglia” dal fondo, è utile per uno psicoterapeuta chiedersi: “qual è il Sistema Motivazionale Interpersonale attivato in relazione ad essa”? Quando infatti questo stesso SMI avesse trovato un suo “compimento”, spesso osserveremmo un risolversi dell’emozione stessa, come se le emozioni avessero una “funzione di segnale” per qualcosa riguardante i Sistemi Motivazionali. Pensiamo per esempio all’ansia da separazione/paura nei bambini piccoli, che si attiva in concomitanza con la minaccia di un attaccamento interrotto, e si risolve quando l’attaccamento è (anche solo “virtualmente”) rispristinato: in questo caso l’emozione è un segnale, un segno dell’attivazione di un particolare SMI. E la stessa cosa vale anche per le altre emozioni.

Un approfodimento su questi temi lo troviamo proprio sul prima citato “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali” a cura di Liotti, Fassone e Monticelli: ne riportiamo qui di seguito un estratto, incentrato proprio sul tema emozioni e SMI (da pag. 162 a pag. 170), scritto da Giovanni Liotti -come sempre geniale.


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Sistemi motivazionali e psicopatologia dei disturbi emozionali

Per illustrare il contributo della TEM alla comprensione delle emozioni che caratterizzano la psicopatologia, ci soffermeremo sui casi in cui l’emozione appare sregolata per intensità e frequenza, esaminando i casi dell’ansia, della tristezza, della colpa, della vergogna e della collera.

[…]

Ansia

Se si esamina la più comune emozione che compare all’interno dei disturbi psicopatologici, l’ansia, alla luce della Teoria Evoluzionistica della Motivazione, si nota che la sua definizione elementare e classica – paura senza oggetto – appare discutibile. La TEM, infatti, induce a riconoscere sempre l’oggetto della paura in un ostacolo o una minaccia al conseguimento della meta di uno dei sistemi motivazionali. Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine. Pure riconducibili al sistema di attaccamento sono l’ansia generalizzata e l’ansia ipocondriaca, quando i problema cruciale sembra essere non soltanto la rappresentazione di un rischio (di un qualsiasi danno oppure di una malattia) ma anche o soprattutto la resistenza ad accettare il conforto che figure d’attaccamento (familiari, amici, medici) tentano di offrire nella forma di rassicurazione circa l’inesistenza o l’improbabilità del rischio temuto. Ben diverso è il caso dell’ansia sociale, dove l’ostacolo (l’oggetto della paura riguarda il conseguimento della meta di rango caratterizzante l’attivazione del sistema competitivo (agonistico). L’ansia sociale dovrebbe dunque essere meglio definita come paura di subire un giudizio negativo che compromette l’aspirazione a mantenere o incrementare il rango sociale percepito. Altri tipi di paura abnorme, come quelli che caratterizzano i disturbi correlati allo stress post-traumatico (fra i quali molti esperti considerano anche i disturbi borderline e dissociativi: Liotti, Farina, 2011) e quelli che possono apparire nel corso dei deliri di persecuzione, sono riconducibili soprattutto alle operazioni del sistema di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), non principalmente ai sistemi di attaccamento e di rango.

Non è infrequente che alcuni tipi di ansia abbiano come oggetto ostacoli al conseguimento delle mete di due o più sistemi motivazionali. Per esempio, il panico è non di rado riconducibile all’esperienza di paura senza soluzione tipica dell’attaccamento disorganizzato (Cassidy, Mohr, 2001). Nell’attaccamento disorganizzato esiste una tensione abnorme fra i sistemi di attaccamento e di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), tale che coesistono paura di danneggiamento da parte della figura di attaccamento e paura di perderne la vicinanza protettiva così che non è possibile né cercare prossimità né fuggire (Liotti, Farina, 2011). Nel conflitto fra questi due sistemi motivazionali si apre la possibilità di gravi processi dissociativi, nei quali il sistema di difesa per la sopravvivenza contribuisce in particolare alla depersonalizzazione (Liotti, Farina, 2011).

Tristezza

I tre sistemi motivazionali chiamati in causa per comprendere i tipi più comuni di paura abnorme sono anche quelli più spesso coinvolti nelle diverse forme di dolorosa angoscia, tristezza e malinconia che compaiono in numerosi disturbi psicopatologici. Quando è coinvolto principalmente il sistema di attaccamento, la forma assunta dall’esperienza emozionale è quella della tristezza per la perdita, ben diversa anche fenomenologicamente dalla tristezza per la sconfitta o il fallimento, caratteristica dell’implicazione prevalente del sistema agonistico. Un’analisi attenta delle posture e dei resoconti dell’esperienza soggettiva permette poi di differenziare da queste due la forma di accasciamento emozionale legata al sistema di difesa per la sopravvivenza. Quest’ultima si palesa come sentimento diffuso ed estremo d’impotenza, riconducibile all’attivazione progressiva del nucleo dorsale del vago nel processo che conduce alla finta morte (feign death: vedi capitolo 1; vedi anche Porges, 2007 e Seligman, 1975).

É degno di nota che paura e tristezza (ansia e depressione se si preferisce la terminologia corrente in psicologia clinica e psichiatria) sono spesso associate fra loro con emozioni esperite in maniera abnorme (soprattutto collera etero- o autodiretta, vergogna e colpa) in diversi disturbi psicopatologici. La TEM permette di studiare queste associazioni di emozioni in ogni sindrome clinica a partire dall’ipotesi che esse siano coordinate dallo stesso sistema motivazionale e ne riflettano la tipica sequenza operativa. Per esempio, si può prevedere che la tristezza per la perdita si coniughi più facilmente al timoroso sentimento di vulnerabilità conseguente alla solitudine percepita (sistema di attaccamento) in un dato paziente, mentre la tristezza per sconfitta o fallimento sia più probabilmente legata, in un altro, alla paura del giudizio sociale negativo e alla vergogna (sistema agonistico).

Vergogna e colpa

Vergogna e colpa, che sono entrambe presenti in molti disturbi psicopatologici, sono state e sono ancora oggetto di importanti indagini e di controversie negli studi teorici ed empirici riguardanti la psicopatologia. È ben nota la divergenza fra le teorie psicoanalitiche classiche che attribuiscono un ruolo cruciale alla colpa seguendo la concezione freudiana del Super-lo, e la Psicologia del Sé (Kohut, 1971) che tende a considerare più importante la vergogna almeno nella genesi dei disturbi psicopatologici più gravi (per una sintesi recente degli argomenti di questa controversia, si può consultare il terzo capitolo del libro di Aron e Starr, 2013). Kohut (1971) considera la vergogna come un sentimento diffusivo che può espandersi a tutto il Sé annichilendolo, mentre la colpa è un sentimento più maturo che si manifesta in fasi più avanzate dello sviluppo della personalità, ed è conseguenza di singole contravvenzioni a specifiche proibizioni morali. Secondo Kohut (1971) le personalità narcisistiche non hanno sviluppato una struttura superegoica adeguata, e quindi non sperimentano sentimenti di colpa anche se possono descrivere le loro esperienze di vergogna in termini di elevati ideali morali. La fondamentale idea che la vergogna tende a essere sperimentata come pervasiva dell’esperienza di sé mentre la colpa è contestualizzabile nell’ambito di specifiche trasgressioni trova un corrispettivo nella discriminazione fra le due emozioni suggerita cal cognitivismo clinico: la vergogna si basa sulla convinzione (belief) di essere globalmente “sbagliati” o “fatti male”, mentre la colpa è basata sulla credenza di aver fatto qualcosa di male o di sbagliato.
La ricerca empirica sulle differenze fra vergogna e colpa sembra offrire sostegno alla tesi di Kohut: una meta-analisi di numerosi studi (Kim, Thibodeau, Jorgensen, 2011) dimostra che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna è significativamente superiore rispetto a quella con la colpa. Tuttavia, nello stesso studio meta-analitico sono presenti considerazioni riguardanti il rischio che un’inadeguata discriminazione concettuale fra vergogna e colpa renda vano il tentativo di indagare sia sul diverso ruolo patogeno delle due emozioni, sia sui processi mentali che le rendono abnormi per intensità, durata e contesto

di comparsa. Nell’articolo di Kim, Thibodeau e Jorgensen (2011) si legge che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna cessa di essere significativamente diversa dall’associazione con la colpa quando si considerano due varianti di colpa disadattativa: la colpa causata da un esagerato senso di responsabilità per eventi incontrollabili, e la colpa generalizzata liberamente fluttuante (cioè non riferibile ad alcun contesto specifico). L’identificazione di diversi tipi di colpa crea problemi per la differenziazione fra vergogna e colpa negli studi empirici di psicopatologia, tanto più che sono state descritte, per lo più su basi cliniche, numerose varianti del sentimento di colpa: colpa edípica, colpa da separazione e slealtà, colpa del sopravvissuto, colpa da senso di responsabilità onnipotente e colpa maligna (self-hate guilt), colpa deontologica e colpa altruistica (definite in O’Connor, Berry, Weiss et al., 1997; Mancini, 2008). Il problema posto al ricercatore dalla difficoltà di discriminare fra la vergogna e alcune varianti della colpa può essere illustrato con un esempio. La colpa maligna e la colpa liberamente fluttuante potrebbero apparire difficilmente distinguibili dalla vergogna perché come quest’ultima sono emozioni diffusive che invadono ampiamente l’esperienza di sé e dunque, diversamente dalla colpa per trasgressioni a specifiche interdizioni morali, non sono facilmente contestualizzabili.

A nostro avviso, la TEM permette di discriminare sempre fra vergogna e colpa in modo particolarmente efficace, risolvendo il suddetto problema. Secondo la TEM, la vergogna è un’emozione tipica del sistema agonistico, anche se potrebbe manifestarsi nel sistema sessuale nella forma mitigata del pudore e, in forma estrema, nel sistema affiliativo come conseguenza dell’espulsione dal gruppo. La colpa, invece, non è tipica di alcun sistema motivazionale, e può manifestarsi in un buon numero di essi: nel sistema di accudimento (dove accompagna o segue il disattendere alle richieste di cura e stimola il rispondere), nel sistema cooperativo (dove frena la slealtà verso i partner con cui ci si è impegnati in un’impresa congiunta), nel meccanismo che inibisce la violenza intraspecifica (vedi la descrizione del MIV nel capitolo 3), e nel sistema affiliativo (dove scoraggia il persistere nella trasgressione alle norme del gruppo).
Nel normale funzionamento del sistema di attaccamento, la comparsa di colpa e vergogna non offrirebbe invece, almeno nei primi due anni di vita in cui il sistema è particolarmente attivo, alcun vantaggio evoluzionistico in termini di raggiungimento della meta adattativa. Per questa ragione, colpa e vergogna devono attendere la maturazione di sistemi diversi da quello di attaccamento per diventare facilmente osservabili nel bambino. Soltanto quando, durante il terzo anno di vita, si possono attivare, insieme a quello di attaccamento, altri sistemi motivazionali (nei quali colpa e vergogna rivelano le proprie finalità evoluzionisticamente adattative) le due emozioni si possono talora osservare, frammiste a quelle di attaccamento, durante le interazioni fra bambino e caregiver.

Il vantaggio adattativo della colpa è evidente: essa muove alla riconciliazione e dunque contribuisce a salvaguardare relazioni sociali dotate di alto valore evoluzionistico. Il valore evoluzionistico della vergogna può sembrare a prima vista meno evidente, ma diviene chiaro se si considera la dinamica dei segnali di sottomissione e di dominanza durante le contese per il rango sociale. Quando la sfida e l’aggressività reciproca fra due contendenti, che caratterizzano le prime fasi operative del sistema agonistico, cominciano a dimostrare la forza superiore di uno dei due, nell’altro si attiva un automatismo psicobiologico che inibisce il comportamento aggressivo. Questo automatismo è noto come subroutine di resa, o di sottomissione, del sistema agonistico. Nella subroutine di resa il tono muscolare, fino a quel momento molto alto per permettere le condotte aggressive, si riduce bruscamente. Il sangue, che era stato richiamato nei muscoli per nutrirli durante lo sforzo competitivo, defluisce rapidamente verso i visceri e soprattutto verso la cute, donde il rossore tipico della vergogna. L’andare verso l’antagonista a testa alta e schiena dritta, per colpirlo, si arresta in una sorta di accenno di fuga (fuga invertita, nella terminologia degli etologi) e si trasforma in uno dei possibili segnali di resa. Lo sconfitto evita lo sguardo del vincitore a segnalare che cessa di attaccarlo, china il capo e persino si prostra, oppure si getta sul dorso e alza nel vuoto gli arti, a mitare la posizione di una preda sul punto di essere uccisa. Allo stesso tempo anche il vincitore cessa l’attacco, e pur mantenendo la postura dell’agressione vincente (spalle alzate, mento in alto) rivolge nel vuoto la tensione aggressiva residua: può emettere, per farlo, una sorta di urlo di trionfo rivolto verso il cielo, può correre brevemente sul terreno dell’agone, o colpire con i pugni il proprio torace invece dell’avversario sconfitto, come fanno i gorilla. E questa la subroutine di trionfo, detta anche di dominanza, del sistema agonistico che viene spontaneo collegare, quando la osserviamo in un animale, a un’emozione simile all’orgoglio umano. La vergogna, invece, è l’emozione che altrettanto spontaneamente colleghiamo all’incipiente subroutine di resa che apre la strada ai segnali di sottomissione.

L’essenziale valore evoluzionistico legato alla capacità di formare gruppi sociali coesi dipende dunque anche dalla capacità di manifestare vergogna, avviando con i corrispondenti comportamenti la costruzione di gerarchie sociali primordiali basate su rapporti di dominan-za-subordinazione (Trower, Gilbert, 1989). Tali tipi di gruppo sociale sommano in sé i vantaggi dell’orientamento univoco (indicato dal do-minante) e dell’unione delle forze di molti. L’esistenza di gerarchie di rango riduce la conflittualità interna fra i membri del gruppo, e apre la strada all’evoluzione di forme diverse di gruppo sociale, meno rigidamente gerarchiche e più orientate alla collaborazione (vedi il tema del sistema di affiliazione umano nel capitolo 4).

La TEM permette dunque una chiara distinzione fra le emozioni di colpa e vergogna attraverso l’analisi degli scopi finali che l’individuo persegue nel momento del loro manitestarsi (rispettivamente, riparazione di una relazione per la colpa, e riconoscimento della maggiore forza o competenza di un altro membro del gruppo per la vergogna).

Quest’analisi è facilitata dall’osservazione dei comportamenti e dei fenomeni corporei che accompagnano le due emozioni: posture chine, evitamento dello sguardo diretto, lieve allontanamento dall’altro e rossore nel caso della vergogna; avvicinamento benevolo con postura eretta e sguardo rivolto all’altro nel caso della colpa.

Si potrebbe opinare che una tale scrupolosa discriminazione tra colpa e vergogna non è clinicamente indispensabile, argomentando che le due emozioni si manifestano spesso insieme in diversi disturbi psico-patologici, e sono riconducibili a percezioni negative di sé che hanno molti aspetti in comune. A queste argomentazioni, la TEM oppone solidi controargomenti. È vero che le percezioni di sé durante le manifestazioni congiunte di colpa e vergogna si sovrappongono e rendono difficile la discriminazione tre vedue emozioni, ma no os per ke rappresentazioni dell’altro, e quindi di sé-con-l’altro Nella colpa il Sè è rappresentato come responsabile di un danno che ha causato all’altro o alla relazione con l’altro, quindi come dotato di forze, competenze o risorse pari o superiori a quelle dell’altro, altrimenti non avrebbe potuto recargli danno. Nella vergogna, invece, la rappresentazione dell’altro è caratterizzata dalla riconosciuta superiorità, quanto meno sul piano etico, e la rappresentazione di sé da un’ inferiorità meritevole di giudizio morale negativo e persino di disprezzo. In altre parole, chi prova vergogna si sente inferiore e tendenzialmente impotente, mentre chi prova colpa si sente responsabile e abbastanza “forte” da poter-causare danno. Quanto poi al motivo per cui le due emozioni di colpa e vergogna e le due corrispondenti rappresentazioni tendono apparentemente a sovrapporsi, la TEM lo rintraccia nel confondersi quasi simultaneo di due contesti relazionali e motivazionali che però restano diversi fra loro. Per esempio, un paziente in psicoterapia che racconti di aver tradito qualcuno che ama, mentendogli, prova durante il racconto colpa verso la persona amata, e vergogna di fronte al giudizio negativo che si aspetta formarsi nella mente del terapeuta. E probabile che un terapeuta attento soprattutto alle dinamiche relazionali e motivazionali in cui è personalmente coinvolto durante lo scambio clinico noti soprattutto o soltanto la vergogna del paziente, e intervenga su quella. Un terapeuta portato a esplorare le narrazioni e le dinamiche intrapsichiche del paziente piuttosto che la relazione terapeutica in corso forse noterebbe, di fronte allo stesso racconto, soltanto la colpa. Un clinico che cerchi guida nella TEM noterebbe entrambe le emozioni, contestualizzate in due simultanee rappresentazioni di sé-con-l’altro: quella in corso e che coinvolge il terapeuta (dove affiora la vergogna), e quella con la persona amata e ingannata che il paziente sta rievocando (dove affiora la colpa). Il vantaggio clinico sta nella possibilità di esplorare, nella sequenza che appare più opportuna (di regola, prima la colpa e poi la più paralizzante vergogna), entrambi gli ambiti di esperienza e significato.

Collera

La collera compare normalmente nelle sequenze emozionali tipiche di diversi sistemi motivazionali. Nel sistema di attaccamento essa appare nella forma di protesta contro l’incipiente allontanamento della figura di attaccamento, ed è finalizzata a impedirlo. Nel sistema di accudimento il fine della collera è scoraggiare in modo rapido ed energico la persona che si vuole proteggere dal compiere azioni dannose o pericolose, come segnalato nello scritto di Bowiby (1984) di cui il capitolo 3 ha offerto una sintesi. La collera appare nel sistema agonistico durante le prime fasi della contesa per il rango, e si manifesta come aggressività ritualizzata il cui scopo è ottenere la resa dell’an-

tagonista senza danneggiarlo seriamente (vedi i capitoli 1e 3). Una

forma primordiale e violenta di collera accompagna la fase di attacco del sistema di difesa per la sopravvivenza, dove l’aggressività non è ri-tualizzata ma volta a danneggiare o uccidere. E importante ricordare che l’aggressività, altrettanto distruttiva, del sistema predatorio non è accompagnata da collera (vedi capitolo 3). Infine, stati mentali e condotte alla cui genesi contribuiscono i sistemi motivazionali di ordine superiore, inducendo modificazioni nella collera e nell’aggressività che caratterizzano le operazioni di sistemi più arcaici, sono la gelosia, l’invidia e il sarcasmo.

La causa più frequente di manifestazioni abnormi per intensità e durata della collera eterodiretta è certamente il deficit, transitorio e contesto-dipendente ovvero più stabile, della funzione regolatrice esercitata dai sistemi motivazionali di ordine superiore su quelli evoluzionisticamente più antichi. Tale deficit può conseguire a variabili genetiche e temperamentali, ma probabilmente è più spesso conseguente a tensioni dinamiche abnormi fra sistemi motivazionali come quelle fra attaccamento e ditesa per la sopravvivenza che caratterizzano l’attaccamento disorganizzato (capitolo 3; Liotti, 2014a).

Più complessa è la genesi della collera rivolta verso se stessi. Per rivolgere verso di sé collera e aggressività, è anzitutto necessario che esista la capacità di un dialogo interiore a sostegno della coscienza di sé estesa nel tempo (Damasio, 2010), ovvero a sostegno della descrizione narrativa dell’identità personale. Secondo la TEM, in assenza di tale capacità (che ovviamente manca negli animali e non è sviluppata nei piccoli umani fino al terzo anno di vita) collera e aggressività so-no, per regola di adattamento darwiniano, sempre eterodirette. Data l’esistenza della capacità di dialogo interiore, particolari contesi interpersonali e specifici processi mentali devono intervenire nel corso dello sviluppo della personalità perché collera e aggressività possano essere rivolte verso di sé, rompendo la regola evoluzionistica che le vuole eterodirette. Alcune ipotesi sui contesti interpersonali e sui processi mentali capaci di dirigere su di sé collera e aggressività sono stare discusse nella parte finale del capitolo 3 (pp. 85-86).

COMMENTO

Liotti era un bowlbiano convinto e aveva in mente, pensando alla clinica, la Teoria dell’Attaccamento, sapeva di come i bambini esprimono emozioni a partire da “mandati” evoluzionistici, pre-cognitivi, assolutamente innati. Una parte del suo lavoro è stata incentrata sul comprendere come questi mandati si attivano e funzionano nel rapporto di un paziente con il suo terapeuta, o all’interno della vita di un bambino che poi diventa uomo. Pressoché tutti i comportamenti di un bambino possono essere letti a partire dalla lente “sistemi motivazionali”: i problemi insorgono quando questi mandati non trovano “soddisfazione“, o non sono “attivabili”.

Un noto test proiettivo riguardante i bambini in età prescolare, l’MCAST, permette di simulare delle situazioni critiche per osservare quanto e in che modo il bambino attivi i suoi sistemi motivazionali (in particolare il sistema di attaccamento), e come questi trovino il loro compimento.

Nella vita di un adulto, di fronte a situazioni di minaccia, o in altri numerosi frangenti, i Sistemi Motivazionali si attivano e cercano una loro meta: le emozioni ci raccontano di come questa “traiettoria”, questa teleologia, si sviluppi e trovi una sua chiusura.

La cosa importante da tenere in considerazione è che molte delle emozioni portate da un paziente durante una psicoterapia, possono essere rilette a partire da questa prospettiva.
Come sottolinea Liotti, per esempio, un attacco di panico o una forte ansia a riguardo del corpo potrebbero essere riletti come un sistema di attaccamento attivato che non trova un suo compimento (avevamo qui scritto a proposito di una lettura del panico come ansia da separazione estrema, di fronte a una minaccia di “rottura di un attaccamento”): non sarebbe tanto il problema in sé l’oggetto della minaccia, quanto il terrore relativo al percepirsi -in questo- isolati (cito testualmente Liotti: “Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine”). Il passaggio è abbastanza importante, perché sposta l’attenzione dal sintomo a qualcosa di più relazionale e primevo, elemento causale che spesso viene facilmente accettato e riconosciuto dal paziente come plausibile e “naturale”. Inoltre ci fa riflettere su quanto gli aspetti relazionali, in clinica e fuori da essa, rappresentino un elemento centrale: non sarebbe tanto cosa dice una terapeuta a una suo paziente a fare la differenza, ma come risponda alle richieste implicite messe in atto dal paziente a livello dei sistemi motivazionali, quanto il terapeuta sappia rispondere a un sistema di attaccamento attivato in un paziente spaventato, quanto sappia porsi in modo cooperativo in altri frangenti, etc.

Su quest’ultimo punto convergono d’altronde molti filoni di studi in ambito psicoanalitico, il che ci racconta -ancora una volta-  di come Liotti abbia saputo integrare in sé visioni diverse, approcci teorici differenti, sempre più convergenti, alla ricerca di un “denominatore comune” in psicoterapia.

Su Liotti abbiamo qui tentato una sintesi del suo “modello di lavoro”.

—-

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  • IL COLLASSO DEL CONTESTO NELLA PSICOTERAPIA ONLINE 31 March 2022
  • L’APPROCCIO “OPEN DIALOGUE”. INTERVISTA A RAFFAELLA POCOBELLO (CNR) 25 March 2022
  • IL CORPO, IL PANICO E UNA CORRETTA DIAGNOSI DIFFERENZIALE: INTERVISTA AD ANDREA VALLARINO 21 March 2022
  • RECENSIONE: L’EREDITÁ DI BION (A CURA DI ANTONIO CIOCCA) 20 March 2022
  • GLI PSICHEDELICI COME STRUMENTO TRANSDIAGNOSTICO DI CURA, IL MODELLO BIPARTITO DELLA SEROTONINA E L’INFLUENZA DELLA PSICOANALISI 7 March 2022
  • FOTOTERAPIA: JUDY WEISER e il lavoro con il lutto 1 March 2022
  • PLACEBO E DOLORE: IL POTERE DELLA MENTE (da un articolo di Fabrizio Benedetti) 14 February 2022
  • INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD 3 February 2022
  • SPIDER, CRONENBERG 26 January 2022
  • LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti) 17 January 2022
  • 24 MESI DI PSICOTERAPIA ONLINE 10 January 2022
  • LA TOSSICODIPENDENZA COME TENTATIVO DI AMMINISTRARE LA SINDROME POST-TRAUMATICA 7 January 2022
  • La Supervisione strategica nei contesti clinici (Il lavoro di gruppo con i professionisti della salute e la soluzione dei problemi nella clinica) 4 January 2022
  • PSICHEDELICI: LA SCIENZA DIETRO L’APP “LUMINATE” 21 December 2021
  • ASYLUMS DI ERVING GOFFMAN, PER PUNTI 14 December 2021
  • LA SINDROME DI ASPERGER IN BREVE 7 December 2021
  • IL CONVEGNO DI SAN DIEGO SULLA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI (marzo 2022) 2 December 2021
  • PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA E DEEP BRAIN REORIENTING. INTERVISTA A PAOLO RICCI (AISTED) 29 November 2021
  • INTERVISTA A SIMONE CHELI (ASSOCIAZIONE TAGES ONLUS) 25 November 2021
  • TRAUMA: IMPOSTAZIONE DEL PIANO DI CURA E PRIMO COLLOQUIO 16 November 2021
  • TEORIA POLIVAGALE E LAVORO CON I BAMBINI 9 November 2021
  • INTRODUZIONE A BYUNG-CHUL HAN: IL PROFUMO DEL TEMPO 3 November 2021
  • IT (STEPHEN KING) 27 October 2021
  • JUDITH LEWIS HERMAN: “GUARIRE DAL TRAUMA” 22 October 2021
  • ANCORA SU PIERRE JANET 15 October 2021
  • PSICONUTRIZIONE: IL LAVORO DI FELICE JACKA 3 October 2021
  • MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI: LE STRATEGIE DI CONTROLLO IN INFANZIA (PTSDc) 30 September 2021
  • OVERLOAD COGNITIVO ED ECOLOGIA MENTALE 21 September 2021
  • UN LUOGO SICURO 17 September 2021
  • 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD 13 September 2021
  • UN LIBRO PER L’ESTATE: “COME ANNOIARSI MEGLIO” DI PIETRO MINTO 6 August 2021
  • “I fondamenti emotivi della personalità”, JAAK PANKSEPP: TAKEAWAYS E RECENSIONE 3 August 2021
  • LIFESTYLE PSYCHIATRY 28 July 2021
  • LE DIVERSE FORME DI SINTOMO DISSOCIATIVO 26 July 2021
  • PRIMO LEVI, LA CARCERAZIONE E IL TRAUMA 19 July 2021
  • “IL PICCOLO PARANOICO” DI BERNARDO PAOLI. PARANOIA, AMBIVALENZA E MODELLO STRATEGICO 14 July 2021
  • RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE” 8 July 2021
  • I VIRUS: IL LORO RUOLO NELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE 7 July 2021
  • LA PLUSDOTAZIONE SPIEGATA IN BREVE 1 July 2021
  • COS’É LA COGNITIVE PROCESSING THERAPY? 24 June 2021
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE 19 June 2021
  • É USCITO IL SECONDO EBOOK PRODOTTO DA AISTED 15 June 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche -con il blog Psicologia Fenomenologica. 7 June 2021
  • PSICHIATRIA DI COMUNITÁ: LA SCELTA DI UN METODO 31 May 2021
  • PTSD E SPAZIO PERIPERSONALE: DA UN ARTICOLO DI DANIELA RABELLINO ET AL. 26 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI 22 May 2021
  • MDMA PER IL PTSD: NUOVE EVIDENZE 21 May 2021
  • MAP (MULTIPLE ACCESS PSYCHOTHERAPY): IL MODELLO DI PSICOTERAPIA AD APPROCCI COMBINATI CON ACCESSO MULTIPLO DI FABIO VEGLIA 18 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO GRATUITO ONLINE (21 MAGGIO) 13 May 2021
  • BALBUZIE: COME USCIRNE (il metodo PSICODIZIONE) 10 May 2021
  • PANICO: INTERVISTA AD ANDREA IENGO (PANICO.HELP) 7 May 2021
  • Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP) 4 May 2021
  • SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO. Liberalizzare come terapia: il problema dell’autocontrollo in clinica 30 April 2021
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO” 25 April 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche 25 April 2021
  • 3 STRUMENTI CONTRO IL TRAUMA (IN BREVE): TAVOLA DISSOCIATIVA, DISSOCIAZIONE VK E CAMBIO DI STORIA 23 April 2021
  • IL MALADAPTIVE DAYDREAMING SPIEGATO PER PUNTI 17 April 2021
  • UN VIDEO PER CAPIRE LA DISSOCIAZIONE 12 April 2021
  • CORRELATI MORFOLOGICI E FUNZIONALI DELL’EMDR: UNA PANORAMICA SULLA NEUROBIOLOGIA DEL TRATTAMENTO DEL PTSD 4 April 2021
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE IN ETÁ EVOLUTIVA: (VIDEO)INTERVISTA AD ANNALISA DI LUCA 1 April 2021
  • GLI EFFETTI POLARIZZANTI DELLA BOLLA INFORMATIVA. INTERVISTA A NICOLA ZAMPERINI DEL BLOG “DISOBBEDIENZE” 30 March 2021
  • SVILUPPARE IL PENSIERO LATERALE (EDWARD DE BONO) – RECENSIONE 24 March 2021
  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE 22 March 2021
  • 8 LIBRI FONDAMENTALI SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 14 March 2021
  • VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA 7 March 2021
  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD 2 March 2021
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA 25 February 2021
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1) 21 February 2021
  • FLOW: una definizione 15 February 2021
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD) 8 February 2021
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI 3 February 2021
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA 1 February 2021
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION? 25 January 2021
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA) 15 January 2021
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO 11 January 2021
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT 6 January 2021
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO 2 January 2021
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum) 28 December 2020
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI 18 December 2020
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti 14 December 2020
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO 10 December 2020
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino 8 December 2020
  • COME GESTIRE UNA DIPENDENZA? 4 PIANI DI INTERVENTO 3 December 2020
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP 28 November 2020
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA 20 November 2020
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO) 16 November 2020
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm) 12 November 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento 7 November 2020
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING 2 November 2020
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING) 28 October 2020
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al. 24 October 2020
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO 21 October 2020
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO 18 October 2020
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè 13 October 2020
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 6 October 2020
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI 30 September 2020
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix 28 September 2020
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico 21 September 2020
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura” 15 September 2020
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI 27 August 2020
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza 26 August 2020
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO 7 August 2020
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO 31 July 2020
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia 27 July 2020
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO 20 July 2020
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF) 14 July 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI 2 May 2020
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE” 30 April 2020
  • FOBIE SPECIFICHE IN BREVE 25 April 2020
  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
  • LO STATO DELL’ARTE INTORNO ALLA DIMENSIONE SOCIALE DELLA MEMORIA: SUL MODO IN CUI SI E’ ARRIVATI ALLA CREAZIONE DEL CONCETTO DI RICORDO CONGIUNTO E SU QUANTO LA VITA RELAZIONALE INFLUENZI I PROCESSI DI SVILUPPO DELLA MEMORIA 25 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI! 22 April 2020
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA? 21 April 2020
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI 17 April 2020
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO 13 April 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3 10 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF! 6 April 2020
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI 4 April 2020
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO? 31 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2 27 March 2020
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT 25 March 2020
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO 16 March 2020
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI 12 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1 6 March 2020
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN 29 February 2020
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD 13 February 2020
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET 3 February 2020
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM 17 January 2020
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO 15 January 2020
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO 30 December 2019
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI 27 December 2019
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA 19 December 2019
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER 12 December 2019
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA” 24 November 2019
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRI EY 15 November 2019
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi 4 November 2019
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE 29 October 2019
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO” 18 October 2019
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA 24 September 2019
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING 20 September 2019
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD 13 September 2019
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA 9 September 2019
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO 14 August 2019
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE? 8 August 2019
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE 28 July 2019
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI 24 July 2019
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA? 16 July 2019
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  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA 28 June 2019
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO 11 June 2019
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI? 6 June 2019
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  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI 14 May 2019
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  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO 11 June 2018
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  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI 4 June 2018

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
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  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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