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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

28 March 2024

GLI INCONTRI DI AISTED: LA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A GINEVRA (16 APRILE 2024)

di Raffaele Avico

Il 16 aprile 2024 alle 19 via Zoom e accessibile a tutti, AISTED ha organizzato un incontro con Federico Seragnoli, psicologo e dottorando presso Hôpitaux Universitaires de Genève (HUG), a proposito dell’uso terapeutico delle sostanze psichedeliche.

Attualmente in Svizzera (e in pochi altri luoghi in Europa) viene usata la psicoterapia assistita da psichedelici: come sappiamo l’MDMA è studiato da anni come possibile aiuto farmacologico nel contesto della cosiddetta “fase 2” del trattamento delle sindromi post-traumatiche, essendo in grado di predisporre la mente a un miglior lavoro di esposizione ai ricordi traumatici, mitigando le risposte di allarme.

Federico ci racconterà della sua esperienza in Svizzera, delle sue osservazioni a riguardo, del suo lavoro come psicologo in quel contesto.

L’incontro verterà sulle seguenti domande:

  • Federico, ci racconti chi sei e di cosa ti occupi? Quali sono i progetti che porti avanti con il tuo gruppo di lavoro?
  • Parliamo del tuo lavoro in ambito psichedelico: Ginevra sembra essere l’unico luogo in Europa dove la psicoterapia assistita da psichedelici è erogata al pubblico. Ci spieghi com’è possibile e come funziona l’iter?
  • Come si svolge, nel concreto, una sessione? Ci racconteresti qualcosa di un caso da te seguito?
  • Quali sono i professionisti coinvolti in un percorso di psicoterapia assistita, e quali sono i razionali di intervento (disturbi-target, principio di funzionamento della PAP, e risultati attesi?)
  • Ci daresti un parere personale sulla psicoterapia assistita da psichedelici, e sul rinascimento psichedelico in generale?
  • Spunti di approfondimento (siti, film, libri, articoli, gruppi di lavoro in ambito di ricerca, etc.)?

Qui la pagina per iscriversi sul sito AISTED.


Altro su questo blog a proposito di psichedelia e psichedelici:

  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO)
  • VERSO L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL PTSD
  • RUBRICA: TERAPIE PSICHEDELICHE
  • PHENOMENAUTICS

Article by admin / Generale / ptsd

14 February 2024

CAPIRE LA DISPNEA PSICOGENA: DA “SENZA FIATO” DI GIORGIO NARDONE

di Raffaele Avico

É da poco stato pubblicato un libro scritto da Giorgio Nardone a proposito della dispnea psicogena. La dispnea psicogena è un disturbo che origina dal tentativo di controllare un meccanismo biologico spontaneo, non mediato dalla volontà cosciente dell’individuo: il ritmo del respiro.

Per entrare nello specifico di questo disturbo, avviene che il paziente senta di non riuscire a respirare “ fino in fondo” e, nel tentativo di riempirsi i polmoni di aria, iper-eserciti l’inspirazione -di fatto iperventilando e producendo un effetto paradossale di mancanza di fiato.

Come osserviamo anche in altri disturbi, il tutto può partire da un segnale che arriva dal corpo, il senso di essere affaticati -per esempio-, che innesca una risposta ansiosa e un tentativo da parte del paziente di compensare allo stato di stanchezza percepita per via di un aumento della foga nell’eseguire un determinato “atto fisico”.

Il paziente in questo modo tenta di riempirsi i polmoni aggiungendo aria ad altra aria, iperventilando e aumentando ulteriormente l’ansia.

Nardone fa notare come in questo meccanismo quello che viene lasciato indietro sia l’espirazione, l’atto di vuotare i polmoni fino in fondo.

Per aiutare il paziente a recuperare il ritmo respiratorio, gli suggerisce di immaginare di dover soffiare sulla torta del suo compleanno, e di esercitarsi con questo pensiero in mente ad espirare “fino in fondo” una volta l’ora, per un tot di volte, in modo da riabilitare il paziente a un respiro maggiormente regolare.

Come Nardone fa notare, siamo qui al confine tra la riabilitazione respiratoria e la psicoterapia comportamentale: si tratta di imparare a respirare “come da zero”, e di normalizzare in seguito la spontaneità della respirazione stessa: ripetendo l’esercizio in modo cadenzato (una volta l’ora, poi una volta ogni due ore, poi una volta ogni tre ore, etc.), il “nuovo” modo di respirare diverrà automatizzato, come quando si fa fisioterapia e si ripetono i gesti più volte, fino ad automatizzarli in senso procedurale.

A inizio libro, Nardone fa giustamente notare come “sapere come funziona un disturbo” non basta: occorre fare delle esperienze “correttive” per poi renderle automatiche, affinché il cambiamento possa realmente avvenire.

L’autore propone inoltre un modello di mente basato sul principio della gerarchia delle funzioni mentali, per cui il “livello razionale” in questo caso non riuscirebbe a frenare o regolare il “livello percettivo-reattivo”, posto gerarchicamente più in basso. Cita giustamente LeDoux per portare alcuni dati in senso scientifico sul come funzionino la paura e l’amigdala.

Proseguendo nella lettura del libro, altri autori completano il lavoro con aspetti più medici a riguardo della respirazione, e propongono alcuni suggerimenti pratici per lavorare sulla respirazione. Tra questi merita una nota il metodo Buteyko, che in seguito sintetizziamo:

  • Il metodo Buteyko è una tecnica di respirazione sviluppata dal fisiologo russo Konstantin Buteyko. Questo approccio si concentra sull’allenamento della respirazione per ridurre l’iperventilazione e aumentare il livello di anidride carbonica nel corpo. Come funziona?
  • Respirazione Nasale: Il metodo Buteyko enfatizza la respirazione attraverso il naso anziché la bocca. Ciò consente di filtrare, riscaldare e umidificare l’aria in modo più efficace prima che raggiunga i polmoni.
  • Respirazione Superficiale: L’approccio promuove la respirazione leggera e superficiale, evitando respiri profondi eccessivi. Ciò mira a mantenere un adeguato livello di anidride carbonica nel corpo.
  • Controllo del Diaframma: Si incoraggia l’uso del diaframma nella respirazione, concentrandosi su inspirazioni e espirazioni controllate. Questo può contribuire a ridurre l’iperventilazione.
  • Ritmo Respiratorio: Il metodo suggerisce di mantenere un ritmo regolare nella respirazione, evitando variazioni eccessive nella frequenza respiratoria.
  • Pauses between breaths (pause tra i respiri): Il Buteyko incoraggia brevi pause tra l’inspirazione e l’espirazione per promuovere la ritenzione di anidride carbonica.
  • Monitoraggio del Livello di CO2: Si insegna a percepire i segnali del corpo legati al livello di anidride carbonica, in modo che la persona possa regolare la propria respirazione di conseguenza.
  • Esercizi di Controllo della Respirazione: Il metodo prevede una serie di esercizi di respirazione progettati per aiutare le persone a sviluppare il controllo sulla propria respirazione e a migliorare l’efficienza del processo respiratorio.

ASPETTI CRITICI

Nardone in questo libro usa lo schema che ripropone in altri libri: propone una spiegazione del meccanismo sotteso all’origine del disturbo, quindi suggerisce una pratica clinica abbastanza precisa, e presenta qualche caso clinico che conferma la bontà delle sue intuizioni.
Sono modalità di intervento ritagliate intorno alla figura di Nardone stesso, che suggerisce la “sua” modalità di intervenire in queste situazioni: non c’è nessuna evidenza del fatto che questo sia un metodo replicabile, così come non esiste letteratura scientifica che rappresenti un “basamento” di quanto afferma l’autore. La scuola di Arezzo, da lui fondata, sembra infatti portare avanti una politica di “emulazione del maestro”, che si ascolta in quanto “genio”, ripetendo con i propri pazienti quanto passato dal “venerabile”.
Nardone si rifà inoltre ad antiche massime mutuate dallo psicologia orientale, o dalla cultura classica latina, che utilizza come “verità assolute” pronte a giustificare il razionale delle pratiche da lui create per lavorare con i diversi disturbi. Questi truismi hanno la funzione di “puntelli” alla teoria, come negli articoli scientifici dovrebbero fare i riferimenti ad altri lavori, precedenti. Quando tira in ballo la scientificità dei suoi metodi, dissimula la sostanziale debolezza statistica del suo metodo parlando di “pregiudizi” che impedirebbero agli “altri” (la comunità scientifica, di fatto) di capire la portata concettuale del metodo “Arezzo”.

Nonostante questi aspetti critici Nardone riesce a intuire alcuni aspetti patogenetici di assoluta rilevanza clinica, che in effetti ci raccontano di come riesca a intuire alcuni “modi di funzionare” della mente, che sono però da attribuire a lui come professionista, come fine psicologo, più che a un trattamento psicoterapico strutturato e supportato da evidenze di letteratura.
Siamo di fronte a un personaggio “geniale” della psicoterapia, un fine osservatore di come funziona la mente, che spiega il “suo” modo, le sue scoperte cliniche, che tra l’altro su questo blog abbiamo più volte esaminato e approfondito a proposito per esempio del panico o del doc.

Qui il link ad Amazon.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale / ptsd, recensioni

14 December 2023

UN APPROFONDIMENTO DI MAURIZIO CECCARELLI SULLA CONCEZIONE NEO-JACKSONIANA DELLE FUNZIONI MENTALI

di Raffaele Avico

Da poco è stato pubblicato sulla pagina di AISTED dedicata al gruppo di interesse sulla psicopatologia, un intervento approfondito e gratuito di Maurizio Ceccarelli a proposito della prospettiva neo-jacksoniana a riguardo della psicopatologia. Ceccarelli parte con una chiara introduzione teorica a proposito delle teorie di Jackson, Edelman, Damasio e di Bergson (autori tutti allineati nell’idea di una concezione “gerarchica e dinamica“ delle funzioni mentali umane), per poi spingersi verso aspetti più clinici, relativa alla concezione di psicopatologia in ottica neo-jacksoniana.

In precedenza il gruppo di interesse sulla psicopatologia aveva intervistato Giuseppe Craparo sull’attualità dei contributi teorici di Pierre Janet.

Il video è visibile qui:

Article by admin / Generale / ptsd

30 October 2023

UN’INTERVISTA A GIUSEPPE CRAPARO SU PIERRE JANET

di Raffaele Avico

Intervista a Giuseppe Craparo sul tema Janet, trauma e dissociazione, nel contesto del gruppo di discussione sulla psicopatologia di AISTED.

Questo incontro è stato pensato per divulgare il lavoro di Pierre Janet, autore obbligatorio per chi si interessi di trauma, sopravvivenza a traumi emotivi, disturbi dissociativi. Pierre Janet può essere considerato il padre dell’attuale psicotraumatologia, la quale trae da esso molteplici linee-guida e spunti, prima di tutto l’approccio trifasico alla sindrome post traumatica. L’approccio trifasico, di derivazione janettiana, è un canovaccio operativo usato in psicotraumatologia per approcciare le sindromi dissociative e post traumatiche, basato su tre momenti: stabilizzazione, lavoro sulle memorie traumatiche, integrazione.

Dobbiamo a Janet, insieme ad altri, modalità alternative di interpretazione del disturbo isterico per come fu concettualizzato agli “inizi”, una concettualizzazione gerarchica della mente nel suo funzionamento -attualissima-, un lavoro sostanziale sull’automatismo psicologico, e molto altro. Lo stesso Craparo ne ha scritto all’interno del fondamentale volume Riscoprire Pierre Janet (qui recensito). In ultimo, va ricordato l’impatto che Janet ebbe su uno dei più grandi psicoterapeuti italiani: Giovanni Liotti.

Le domande e di seguito il video.

  • Giuseppe, ci vuoi raccontarci un po’ chi sei e di cosa ti occupi?
  • Giuseppe, tu hai curato alcuni lavori a proposito dell’opera di Pierre Janet: ci vuoi raccontare da dove nasce questa passione per il suo lavoro, e come mai hai voluto divulgarne l’opera?
  • Giuseppe, quali sono state le intuizioni più geniali di Pierre Janet, e come mai sono ancora attuali?
  • Giuseppe, questa intervista si inserisce in un progetto di divulgazione a riguardo degli studi appartenenti al filone del neo-jacksonismo: molto sinteticamente, vuole essere un dialogo a proposito del principio di gerarchia delle funzioni mentali e a riguardo di un modello di mente che predisponga a far ragionare il clinico in termini di bottom-up e top-down. Ci dici cosa ne pensi, e se qualcosa nel pensiero di Janet ci può aiutare a “lavorarci”?
  • Giuseppe, cosa pensi della moderna psicotraumatologia? Vorremmo che ci aiutassi a capire come le teorie del passato stanno tornando nel presente, e come stanno trovando un’integrazione proficua al lavoro del clinico
  • Giuseppe, hai qualcosa da consigliarci per iniziare ad approfondire questi aspetti teorici?

Article by admin / Generale / interviste, ptsd

25 October 2023

PTSD (in podcast)

di Raffaele Avico

Vivere un trauma significa essere stati esposti a un evento che mette a rischio l’incolumità fisica o mentale di un individuo. Pensiamo per esempio a incidenti d’auto, episodi a forte impatto come una guerra civile, o ancora terremoti e rapine. Dobbiamo pensare quindi a un evento che irrompe nella vita del soggetto, creando uno spartiacque tra le esperienze della sua vita. A seguito di un trauma esisterà sempre un prima e un dopo, con la vita divisa in due parti, un libro diviso in due grandi capitoli, separati dal trauma.

A volte, poi, è sufficiente osservare le esperienze di qualcun altro perché in noi si produca una risposta post-traumatica.

L’elemento centrale, e più importante da tenere in mente, è che il trauma mette in crisi il senso di stabilità e sicurezza di un individuo, rendendolo meno saldo sui suoi piedi, per così dire, e creandogli uno stato di mancanza di sicurezza percepita in pratica costante, apparentemente invincibile. Il senso di non avere più luoghi protetti o sicuri dove poter riposare la mente e trovare ristoro, diventa in poco tempo talmente impegnativo da sopportare, da creare nel soggetto uno stato di esaurimento psichico spesso confuso con depressione.

Il PTSD è stato studiato in particolare su soggetti provenienti da contesti di guerra: pensiamo per esempio al film American Sniper, dove il protagonista al ritorno da condizioni di guerriglia civile e costretto in quell’ambito a eseguire molteplici omicidi per ragioni militari, precipita in una sorta di incubo a occhi aperti che lo porta lentamente a svuotare di significato le sue relazioni attuali e in pratica a una sorta di suicidio sociale. Lo possiamo però trovare in molteplici altri contesti: l’impatto di un trauma dipende da fattori soggettivi, e lo stesso evento potrà avere ripercussioni molto diverse.

Il PTSD è stato definito anche una patologia della memorizzazione. Perché? A seguito di un trauma, il meccanismo di elaborazione e di immagazzinamento dei ricordi si altera, ed è come se nel flusso dei ricordi della vittima si impiantassero ricordi vividi, che tenderanno a rimanere inalterati dal tempo e a ripresentarsi alla coscienza della persona senza perdere il proprio potere allarmante e attivante sul piano fisico. Per questo infatti si dice che il trauma non viene ricordato, ma rivissuto. Il concetto centrale, che permette tra l’altro di fare una sorta di diagnosi semplificata di PTSD, è che il ricordo traumatico mantiene la sua vividezza per molto tempo a seguito del trauma e che l’accedere a questi ricordi procura una forte attivazione a livello fisico attraverso palpitazioni, tachicardia, senso di panico, oppure senso di distacco e alterazione dello stato della coscienza, e in questo caso parliamo di tipologia di PTSD con sintomi dissociativi.

Un aspetto che andrebbe approfondito, è che il PTSD ha delle ripercussioni su tre aree del funzionamento della persona, principalmente.

La prima area è quella, come dicevamo prima, della memoria. In altre parole, alcuni ricordi rimangono come incagliati nel flusso di ricordi e pensieri, divenendo disturbanti e attivanti, non diventando mai cose passate, ma permanendo con il loro carico ingombrante nel presente dell’individuo, in questo modo eclissandone, per così dire, anche l’idea di futuro.

La seconda area, è quella della coscienza, intesa come capacità di vigilanza e orientamento, non sempre garantiti dal PTSD soprattutto se in presenza di sintomi, come dicevamo dissociativi. I Sintomi dissociativi sono il risultato di un’alterazione a scopo difensivo della coscienza che in qualche modo si restringe per evitare di consentire l’accedere delle memorie traumatiche, si deforma perché l’attenzione diviene un’attenzione selettivamente evitante di tutto ciò che potrebbe anche lontanamente ricondurre all’esperienza traumatica, e spesso in qualche modo si intorbidisce a seguito di un processo definito di detachement, ovvero di dissociazione leggera sempre a scopo di difesa dai percetti mnestici a contenuto traumatico. Mentalmente, a seguito di un trauma, diventiamo evitanti perfetti di tutto ciò che potrebbe triggerare il ricordo traumatico: non sarà quindi un evitamento di fotografie, strade, luoghi, persone, per fare esempi banali, ma saranno anche ricordi e luoghi della memoria a diventare per noi oggetto di evitamento, rendendoci di fatto discontinui e spesso deficitari (in apparenza) a livello cognitivo.

Terzo ambito, e più importante, l’area del corpo. Il trauma si incarna e diviene corpo a causa delle ripercussioni neurofisiologiche dello stesso evento traumatico sul corpo. Peter Levine sostiene che per esserci trauma, dovranno esserci insieme paura e immobilità. Questo significa che per essere veramente traumatico, un evento dovrà, oltre che terrorizzarci, impedirci una fuga reale o simbolica, obbligandoci di fatto a tenere “tutto dentro” di noi. Questo però vorrà dire vivere le ripercussioni del trauma in modo corporeo per molto tempo dopo l’evento. Non saremo cioè in grado di dissipare il trauma, come fanno gli animali più velocemente di noi, attraverso il corpo: anzi, il corpo “accuserà il colpo” riattivandosi in senso di allarme ogni volta che ripenseremo al trauma, alterandosi con più o meno violenza, in modo soggettivo. Spesso noteremo inoltre che il ricordo del trauma produrrà un’alterazione neurofisiologica a “dente di sega”: ovvero: fino a una certa soglia riusciremo a gestire un certo attivarsi del corpo impegnato nella gestione degli effetti allarmanti del tricordo del trauma: dopo una certa soglia, sarà possibile poi osservare una sorta di crollo e il precipitare del nostro stato di coscienza entro una sorta di zona grigia di numbing, di distacco dissociativo utile a proteggerci, ma in grado di alterare pesantemente il nostro stile di vita.

Abbiamo scritto di trauma su questo blog in molti post, raggruppabili da questo pulsante.

Qui di seguito un PODCAST pubblicato dal Centro Santagostino di Milano a proposito di PTSD.

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Article by admin / Generale / ptsd

25 September 2023

GLI INCONTRI ORGANIZZATI DA AISTED, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione

di Raffaele Avico

AISTED ha attivato da poco un gruppo di lavoro sulla psicopatologia in prospettiva neo-jacksoniana.
La prospettiva neo-jacksoniana, nel promuovere un certo modello di mente, è stata promossa dai lavori di Henri Ey, che questo gruppo di lavorò tenterà di mettere in luce e divulgare.

Per rendere vivo il lavoro del gruppo, AISTED ha organizzato degli incontri con esperti del settore. Il primo incontro sarà il 16 ottobre con Giuseppe Craparo, aperto a TUTTI previa iscrizione da qui. Sul lavoro di Craparo, si veda anche questo e questa rubrica su Psichiatry on line. Gli altri partecipanti agli incontri, per ora, saranno Antonio Onofri e Maurizio Ceccarelli (come in foto).

Article by admin / Generale / ptsd

26 July 2023

NASCE IL “GRUPPO DI INTERESSE SULLA PSICOPATOLOGIA” DI AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione)

di Raffaele Avico, Costanzo Frau

L’AISTED ha di recente promosso la creazione di un gruppo di ricerca e studio a proposito della psicopatologia, ispirato da e incentrato sull’opera e i concetti promossi da Henri Ey. Il gruppo di lavoro proporrà un lavoro di divulgazione e approfondimento sul tema della psicopatologia in chiave Neo-jacksoniana, coinvolgendo esperti in interviste, lavori, link ad articoli, etc,., che verranno resi disponibili all’interno della pagina di AISTED dedicata. Il primo incontro sarà con Giuseppe Craparo, in ottobre.

Ne pubblichiamo qui di seguito la presentazione.

Milano, luglio 2023

Questo gruppo di discussione e interesse nato in seno all’Associazione per lo Studio del Trauma e della Dissociazione (AISTED), si propone di raccogliere i contributi teorici ed esperienziali di un gruppo di individui interni ed esterni ad AISTED, a proposito del “problema” psicopatologico inerente il trauma e la dissociazione.

Cosa causa un evento dissociativo? Cosa causa una sindrome post-traumatica?

All’interno di questo gruppo di interesse cercheremo di mettere insieme e integrare alcuni aspetti teoretici, per tentare di ottenere una visione più chiara sulla teoria patogenetica della dissociazione e del trauma. 

Per fare questo coinvolgeremo esperti e studiosi del settore, e adotteremo riferimenti teorici d’avanguardia e più antichi (ma che riteniamo altrettanto attuali).

In particolare, adotteremo una prospettiva neo-jacksoniana, chiarificata in alcuni punti che qui elenchiamo:

  1. I punti teorici da cui muove la creazione di questo gruppo di lavoro, riguardano il modo di concepire la psicopatologia inerente il trauma; prima di arrivare al trauma, è opportuno tentare di comprendere come funzioni il complesso cervello-mente. Decidiamo di adottare una prospettiva neo-jacksoniana, pensando al complesso cervello-mente come regolato da logiche gerarchiche di funzionamento, con funzioni mentali superiori in grado di modulare e ricadere su quelle inferiori, aree cerebrali deputate a regolare altre aree, come nella concettualizzazione originaria formulata da John H. Jackson.
  2. Focalizzare l’attenzione sul complesso cervello-mente introduce la questione della necessaria integrazione tra interventi di tipo top-down, e gli interventi aderenti a una logica bottom-up. È possibile pensare che il complesso mente-cervello sia mosso da logiche di regolazione “dall’alto verso il basso” come appare, per esempio, quando in un lavoro di psicoterapia si lavora per dare un senso cognitivo a emozioni poco regolate in un paziente. É altrettanto plausibile osservare logiche di regolazione “dal basso verso l’alto”, quando attraverso esercizi mirati sul corpo (la respirazione, per esempio, o le tecniche di psicoterapia sensomotoria) si aiuti il paziente a modificare la forma dei propri pensieri a partire dallo stato del corpo. Entrambi gli interventi possono essere utilizzati nella psicoterapia.
  3. Le logiche di regolazione, si applicano anche a quelle di disregolazione: in senso top-down, una dominanza di cognizioni problematiche avrà una ricaduta sul corpo; una corporeità disregolata (pensiamo per esempio al corpo di un sopravvissuto a un trauma) avrà un effetto sulla forma dei pensieri, così come delle emozioni di un certo paziente. Promuovere, anche qui, un lavoro di bilanciamento e di auto-regolazione del complesso cervello-mente, non può che favorire il processo di benessere psicologico.

La prospettiva neo-jacksoniana, nel promuovere un certo modello di mente, è stata promossa dai lavori di Henri Ey, che questo gruppo di lavorò tenterà di mettere in luce e divulgare.

Qui per andare alla pagina dedicata al progetto.

Article by admin / Generale / ptsd

29 June 2023

RENDERE NON NECESSARIA LA DISSOCIAZIONE: DA UN ARTICOLO DI VAN DER HART, STEELE, NIJENHUIS

di Raffaele Avico

Questo articolo è scritto da tre pesi massimi della psicotraumatologia mondiale: Onno Van der Hart, olandese, Kathy Steele, americana, e Nijenhuis, svizzero.

Vuole essere una riflessione sul lavoro da fare con le memorie traumatiche per pazienti traumatizzati gravi, portatori di sintomi dissociativi di tipo “complesso”.

Avere a che fare con pazienti con sintomi dissociativi gravi, significa avere a che fare con pazienti portatori di quello che viene chiamato PTSD complex, non risalente cioè a un trauma singolo, unico, ma a una serie protratta di traumi cumulativi, oppure a uno sviluppo traumatico fin dall’infanzia, per esempio crescendo a contatto con persone abusanti o verso le quali non fu possibile creare legami normali (attaccamenti “sicuri” per dirla con Bowlby). Pensiamo per esempio ai sopravvissuti a torture, a periodi di prigionia, oppure a vittime di violenza domestica protratta.

Come sappiamo, Van Der Hart ha formalizzato nel suo lavoro di ricerca la teoria della dissociazione strutturale della personalità. L’articolo si apre appunto con una breve descrizione della suddivisione in “sottosistemi” biologicamente coerenti costituitisi a seguito dell’esperienza traumatica: una parte rimasta congelata in senso emotivo al tempo del trauma (PARTE EMOTIVA, EP) e una parte chiamata APPARENTEMENTE NORMALE che in senso adattativo fu per così dire obbligata a continuare nel suo percorso di vita, consentendo all’individuo di portare avanti obiettivi di vita o semplice quotidianità.

A proposito di questo viene naturale, come in psicotraumatologia è spesso ripetuto, pensare a un obiettivo finale come inerente l’INTEGRAZIONE. L’integrazione, cioè, si costituisce come il momento finale del lavoro con questo tipo di pazienti, suddivisi, al loro interno, in modalità, “parti” distinte, che dovranno convergere e in qualche modo fondersi.

Questo articolo si concentra su quella che è la fase 2 (nel contesto del modello trifasico), ovvero il lavoro con le memorie traumatiche. Come si fa, in senso concreto, a lavorare con il materiale traumatico depositato nella memoria (implicita o esplicita che sia), del paziente?

Gli autori riportano alcuni punti di interesse:

  1. Janet distinse due tipologie di “azioni integrative”: la SINTESI e gli ATTI DI REALIZZAZIONE. Per sintesi, Janet intendeva l’atto di creare anelli tra pensieri, azioni, emozioni, corpo e mente, la mia vita con l’ambiente intorno a me, etc. Per esempio, un “anello” di congiunzione (dunque un atto di sintesi), potrebbe essere il dirsi “questo pensiero mi compare quando sono molto arrabbiato”, operando cioè una valutazione metacognitiva che consentirà di associare a uno stato emotivo l’emergere di un pensiero. Il creare atti di sintesi, “formando anelli”, costituisce la base per un lavoro più complesso e ampio, che Janet chiamava appunto realizzazione.
  2. La realizzazione, comprende due momenti: la PERSONIFICAZIONE (l’atto di sentire che le mie azioni, i miei pensieri mi appartengono, sono miei), e la PRESENTIFICAZIONE (l’atto invece di arrestarsi sul presente, in senso temporale). Sono questi, in linea di principio, “strumenti” atti a contrastare la tendenza a dissociare dei pazienti con trauma grave, così da condurlo/a idealmente a quello che gli autori chiamano una posizione di “prima persona singolare” (non dunque una molteplicità di parti vissute in terza persona, come differenti da sè, ma un singolo “IO” che coordina tutte le diverse sotto-parti oppure, meglio ancora, una singola parte sfaccettata e fluida in ogni sua manifestazione)
  3. il livello più semplice di dissociazione strutturale della personalità, è quello che comprende “solamente” EP e ANP: si crea, in questo caso, una spaccatura verticale nella personalità dell’individuo, con una parte in grado di adattarsi al contesto, l’altra mossa da logiche di difesa, incentrata su comportamenti difensivi in grado di “oscurare”, “eclissare” gli altri sistemi di difesa.
  4. Quando richiesto, è possibile che la PARTE EMOTIVA si suddivisa al suo interno, creando quella che viene chiamata dissociazione secondaria della personalità. Avremo quindi una singola parte apparentemente normale, e due o più parti emotive “attive” in parallelo. Gli autori chiariscono che questa forma clinica, sembra essere la più comune con pazienti portatori di un PTSD complesso. Inoltre, potremo osservare come una delle EP createsi in seguito alla dissociazione secondaria, potrà essersi identificata all’aggressore, assumendo forme “sadico/abusanti”.
  5. un aspetto da considerare, è il livello di fobia presente verso la parte EP: più il soggetto dimostra di avere paura della sua parte “emotiva” rimasta congelata al trauma, più è ampia la dissociazione strutturale, e più “lontane” le parti, e quindi più grave la sintomatologia post-traumatica
  6. gli autori passano dunque a discutere a proposito dell’importanza della fase 1, della stabilizzazione, prima di iniziare con il lavoro diretto sulle memorie traumatiche. É importante ricordare che la fase 1 è propedeutica alla fase 2: è in ogni caso sempre possibile tornare alla fase 1 quando ci si accorgesse di un tempo ”prematuro” per il lavoro diretto con i ricordi traumatici. Questo è un punto importante: va cioè resa possibile una sorta di oscillazione tra le due fasi, con fasi di evoluzione e possibili fasi di regressione. Ricordiamo i principali strumenti per la fase 1 (stabilizzazione dei sintomi): psicoeducazione, emdr, tecnica del posto al sicuro, psicoeducazione relativamente all’importanza dell’attività fisica, mindfulness guidata, management dei livelli energetici (qualità del sonno, riposo, alimentazione corretta). Tutto questo per far sì che il tono neurofisiologico si mantenga entro la finestra di tolleranza (concetto qui approfondito), per rendere possibile la fase 2 secondo il modello trifasico prima accennato.
  7. Van Der Hart è nell’articolo citato a proposito di uno degli obiettivi principali della fase 2: rendere cioè “non necessaria la dissociazione”. Quando cioè riusciremo a far sì che il paziente accolga e “maneggi” in modo tranquillo il materiale traumatico, senza per questo doversi dissociare, avremo reso non necessaria la dissociazione stessa e fatto grossi passi avanti nel lavoro clinico con questo paziente. Questo consentirà al paziente di passare da una ri-attualizzazione sensomotoria del vissuto traumatico, “incarnata”, “rivissuta”, a una verbalizzazione “solo a parole”, non più incarnata, finalmente simbolizzata e digerita per via linguistica. Gli autori sottolineano come un passaggio di questo tipo lo troveremo grazie a eventi in terapia “nuovi”, clamorosamente “innovativi” per il funzionamento del paziente.
  8. Esistono alcune controindicazioni per la fase 2: in particolare, è necessario fare attenzione al fatto che i criteri relativi alla stabilizzazione siano soddisfatti: in caso contrario non ha senso procedere all’esplorazione delle memorie traumatiche. Inoltre, altri fattori di controindicazione sono: età avanzata, psicosi, disturbo di personalità con abuso di sostanze in atto, oscillazioni troppo estreme tra parte emozionale e parte apparentemente normale, abusi interpersonali in atto.

A seguito di queste premesse, gli autori arrivano infine al vivo della fase 2.

Vediamo cosa propongono.

Gli autori propongono una metodologia chiamata “sintesi guidata”, finalizzata a superare la “fobia delle memorie traumatiche”.

Aspetti preparatori:

  1. fare in modo che il paziente possa essere accompagnato a casa dopo la seduta
  2. fornire maggiore tempo per il recupero del senso di grounding: prevedere dunque colloqui di 1,5 o 2 ore di durata.
  3. chiedere al paziente che ritagli del tempo dedicato a questo tipo di lavoro, dalle sue restanti occupazioni (per esempio chiedendogli di prendere mezza giornata di ferie dal lavoro, cosicchè sia mentalmente libero di dedicarsi all’esplorazione delle memorie traumatiche)

Momenti del lavoro: condividere i “kernel patogeni”:

  1. isolare e riconoscere i pensieri “copertura” con cui il paziente si è narrato, nel tempo, il vissuto traumatico
  2. avviare il paziente alla narrazione dei momenti pre e dopo-trauma, così come i momenti di “inizio e fine” del momento traumatico
  3. avviare il paziente alla narrazione di quelli che vengono chiamati “kernel patogeni”, ovvero i nuclei duri del momento della traumatizzazione, partendo eventualmente anche dall’esercizio del “peggior scenario”, ovvero direttamente dall’immagine più pesante anche solo da “immaginare” da parte del paziente
  4. avviare il lavoro sulle parti, usando immagini di “contatto” tra le parti, e chiedendo al paziente di descrivere la scena, oppure usando la tecnica della tavola dissociativa (immaginando cioè che il paziente sia seduto a capotavola con le sue parti sedute intorno al tavolo, e che dialoghi con ognuna di esse)
  5. queste immagini di condivisione saranno il giusto contesto per far sì che il paziente condivida con il terapeuta le immagini centrali, i “kernel patogeni”, i momenti cioè più pesanti da sopportare e ri- esprimere (qui potrebbe essere valutabile l’utilizzo dell’EMDR come strumento per inframezzare il lavoro, creando delle pause); il tutto in modo “graduale”
  6. aiutare il paziente alla “realizzazione” di quello che è successo, affrontando eventualmente il lutto di ciò che non fu e di ciò che avrebbe potuto essere. Ricordiamo che il lavoro in fase 2 comprende idealmente due momenti: la sintesi e, appunto, la realizzazione

Gli autori fanno poi alcuni cenni alla fase 3 e presentano un caso clinico (durato 5 anni, conclusosi con una completa “realizzazione”), concludendo l’articolo con un invito alla gradualità nel lavoro, all’attenzione verso i “limiti” del paziente in termini di attivazione neurofisiologica, e un ritorno ai prima citati concetti guida del lavoro: sintesi e realizzazione.

CONCLUSIONI

Come si osserva in questo articolo, lavorare sui ricordi traumatici significa tenere a mente 3 concetti chiave “da portare a casa”:

  1. stabilizzare/regolare
  2. narrare
  3. integrare 


..il che equivale a dire che un’esperienza traumatizzante, per essere superata e “consegnata al passato”, dovrà essere tollerata e meglio regolata nei suoi sintomi psichici e corporei, narrata e infine integrata nel normale flusso di ricordi.

Esistono dei manuali che, della fase 2, fanno il loro core teorico. In particolare, da pochi anni è stato pubblicato un volume molto completo, che consigliamo a chi volesse approfondire gli aspetti squisitamente “pratici” del lavoro sulle memorie traumatiche, quando avesse a che fare con pazienti post traumatizzati. Il volume è questo.

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8 May 2023

GLI PSICOFARMACI PER LO STRESS POST TRAUMATICO (PTSD)

di Paolo Calini, Raffaele Avico

Riguardo al trattamento farmacologico del Disturbo da stress post traumatico (PTSD), la letteratura internazionale è piuttosto ricca di lavori che purtroppo non arrivano, però, a conclusioni univoche. Mancano ancora delle linee guida supportate da evidenze chiare e soprattutto condivise dalla comunità scientifica.

Basti citare le linee guida, pubblicate nel 2014, dell’Anxiety Disorders Association of Canada che, curiosamente, reinseriscono il PTSD fra i disturbi d’ansia pur utilizzando il DSM 5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come strumento diagnostico – il DSM 5 ha riconosciuto dignità ed autonomia diagnostica al PTSD, scorporandolo dai disturbi d’ansia che tutte le precedenti edizioni del DSM, compreso il IV TR, gli avevano assegnato.

Questa indecisione nosografica è molto indicativa della scarsa chiarezza presente nella comunità scientifica internazionale al riguardo. In ogni caso, in queste linee guida fluoxetina, paroxetina e sertralina (SSRI) e venlafaxina (SNRI) vengono indicati come farmaci di prima scelta (ottenendo il livello 1 di evidenza nello studio metanalitico condotto dall’associazione Canadese); mentre trazodone viene considerato come farmaco di ultima scelta (livello 4).
In un altro studio metanalitico del 2011, gli autori evidenziano come trazodone sia particolarmente indicato nel trattamento farmacologico del PTSD, in significativo contrasto con le linee guida canadesi.

Qualunque approccio farmacologico al PTSD è, pertanto e ancora, argomento complesso e non definitivo.

In questo articolo del 2016 viene condotta una review di altri articoli che hanno discusso e approfondito la psicofarmacologia del PTSD. Come prima cosa, viene fatto notare come l’impatto del farmaco, a riguardo del PTSD, sia limitato. Viene osservato come un impatto significativo usando i farmaci di prima linea in questi casi (paroxetina e sertralina) avvenga in non più del 60% della popolazione studiata, e che una vera remissione dei sintomi si osservi in circa il 30% del totale dei soggetti. Quindi, vengono presi in esame differenti aspetti neurobiologici attraverso la lente psicofarmacologica.

SEROTONINA

Considerando la neurobiologia dei farmaci di prima linea usati per il Disturbo da stress post traumatico (paroxetina e sertralina), gli autori riportano molteplici studi che negli anni sono giunti a risultati controversi, arrivando a mettere in discussione lo stesso utilizzo dei suddetti farmaci nel trattamento del PTSD. I farmaci che promuovono il rilascio di maggiori quantità di serotonina in alcune aree del cervello del paziente, sembrano presentare alcune limitazioni di utilizzo, dai bassi livelli di impatto, agli effetti collaterali, all’eccessivo tempo intercorso tra l’assunzione e l’effetto desiderato. Viene infine riproposta la questione di un futuro possibile uso del MDMA (qui approfondito), promettente ma ancora poco studiato in modo accurato e che, a oggi, costituisce un trattamento sperimentale e non certo d’uso nella prassi clinica quotidiana.

SISTEMA NORADRENERGICO

In questa sezione dell’articolo viene effettuata un’analisi approfondita della neurobiologia connessa al sistema noradrenergico, coinvolto nella regolazione dello stato di arousal (la risposta neurofisiologica del sistema nervoso a stimoli ambientali -e non solo- più o meno attivanti in termini di sicurezza percepita); la liberazione di neurotrasmettitori da parte del sistema noradrenergico (collocato in un’area profonda del cervello e al di fuori della coscienza e del controllo volontario dell’individuo), è da considerarsi centrale nello sviluppo del PTSD se consideriamo come un’anomala risposta protratta di attacco e fuga (un cervello per così dire costantemente allarmato) interferisca sulla nostra modalità di percepire la realtà e sulla qualità del sonno, solo per citare alcuni aspetti problematici della risposta a un trauma.

In senso psicofarmacologico, vengono citati due principi attivi:

  1. prazosina (non commercializzato in Italia, usato come integrazione ad altre terapie usate per il trattamento dei disturbi del sonno connessi al PTSD; qui un approfondimento)
  2. desipramina (equivalente alla paroxetina in termini di effetti, particolarmente studiato in presenza di dipendenza da alcol in comorbilità al PTSD)

SISTEMA DEL GLUTAMMATO

Molteplici evidenze portano a ipotizzare che il PTSD si associ a una difettosa capacità inibitoria da parte della corteccia prefrontale su zone profonde del cervello come amigdala e ippocampo. In senso farmacologico, gli autori considerano:

  • ketamina in dosi sub-anestetiche: la ketamina assunta in dosi non pericolose e sotto controllo medico si è introdotta in ambito psicofarmacologico in primo luogo nel trattamento “rapido” di disturbi depressivi resistenti. La ketamina ha tuttavia mostrato risultati importanti anche in altri disturbi; a riguardo del PTSD, questo studio è l’unico studio RCT che ha messo a confronto l’uso di ketamina e di benzodiazepine su soggetti colpiti da PTSD, mostrando un netto superamento degli effetti positivi ottenuti dall’uso di ketamina.

SISTEMA GABAERGICO

Il GABA, in quanto neurotrasmettitore inibitorio, è ampiamente studiato nei quadri di PTSD. Gli autori rilevano come le comuni benzodiazepine vengano usate meno, negli ultimi tempi, a causa di una serie di effetti collaterali importanti da evitare (primo su tutti, il fatto che inducono dipendenza e assuefazione). Citano a supporto di questo punto numerosi studi che, anzi, sconsigliano l’utilizzo di benzodiazepine nel trattamento di PTSD, per via degli effetti collaterali già sopra citati e di potenziali effetti iatrogeni sul trattamento del PTSD (si veda qui per un approfondimento).

A questo livello agiscono gli antiepilettici tradizionali (topiramato, valproato, lamotrigina, gabapentin sono stati studiati in modo particolare nel trattamento del PTSD). La loro azione verosimile è quella di bilanciare il sistema GABAergico (ad azione inibitoria sul sistema nervoso centrale) con l’azione glutammatergica (ad effetto eccitatorio), facilitando pertanto la funzione inibitoria della corteccia prefrontale sulle strutture cerebrali profonde, le quali, come già citato, possono permanere molto attivate a seguito dell’esposizione ad un evento potenzialmente traumatico. L’effetto esercitato dagli antiepilettici risiederebbe pertanto nella modulazione dei network associativi cerebrali. Sulla base di ciò, gli antiepilettici costituirebbero una valida alternativa all’utilizzo di benzodiazepine per il controllo dei sintomi di iperarousal del PTSD.

GLI ANTIPSICOTICI

Gli antipsicotici sono una categoria di farmaci ampiamente usati nelle pratica clinica quotidiana. Anche per questa categoria di farmaci, le evidenze a favore del loro utilizzo nel trattamento del PTSD sono discordanti e non definitive. Nella già citata review condotta dal gruppo canadese nel tentativo di formulare delle linee guida per il trattamento farmacologico del PTSD, risperidone ha ottenuto un livello 1 di evidenza. Sicuramente, il potente effetto di blocco del sistema dopaminergico esercitato dagli antipsicotici (sedazione), può avere indicazioni nel trattamento dei sintomi determinati dall’iperarousal. Gli antipsicotici più studiati sono comunque quelli di seconda generazione, con particolare attenzione, oltre che per risperidone, per olanzapina, quetiapina ed aripiprazolo.

Indubbiamente, l’effetto negativo di questi farmaci che risulta particolarmente significativo nel trattamento del PTSD, è l’azione negativa sul sistema del rewarding che utilizza proprio la dopamina come neurotrasmettitore; questo potrebbe aumentare il rischio di complicanze legate al ricorso a sostanze psicoattive, già significativamente alto in pazienti affetti da disturbi post-traumatici. Un’altra significativa suggestione per la potenziale efficacia degli antipsicotici deriva dalla loro azione sulla salienza (ovvero la possibilità di discriminare intenzionalmente il dettaglio dallo sfondo, funzione anch’essa determinata dalla trasmissione dopaminergica che risulta gravemente alterata nei disturbi psicotici). Per un approfondimento su questo tema in realtà ancora poco studiato nell’ambito traumatologico, a differenza di quanto accade per le psicosi endogene, si rimanda ai lavori di Kapur, come ad esempio questo.

CANNABINOIDI

A riguardo dell’utilizzo di cannabis nel trattamento di PTSD, esistono alcune evidenze di scarsa forza in termini statistici, che quindi necessitano di ulteriori approfondimenti, maggiormente strutturati. Inoltre, alcuni aspetti problematici vengono riportati dagli autori:

  1. l’emergere di aspetti persecutori/paranoici nei soggetti consumatori
  2. la presenza di evidenze che correlano livelli alti di utilizzo di cannabis e sintomi di PTSD, senza una comprensione reale di cosa venga prima in termini causali (se i sintomi di PTSD o l’uso di cannabis)
  3. un uso prolungato di cannabis può alterare il funzionamento di alcuni recettori specifici, causando un conseguente effetto rebound di natura ansioso/depressiva

Occorre citare, per completezza, altre molecole in fase di studio che però non hanno ancora un’applicazione nella pratica clinica quotidiana; sicuramente i farmaci più studiati sono: ossitocina, melatonina ad alto dosaggio, corticosteroidi e betabloccanti; questi farmaci sono in fase di studio per differenti momenti dello sviluppo del PTSD, ovvero come trattamento preventivo (da somministrare immediatamente dopo l’esposizione all’evento – corticosteroidi-, oppure come trattamento vero e proprio del disturbo conclamato o, ancora, come agenti facilitanti l’elaborazione psicoterapica dei ricordi traumatici – betabloccanti, che riducono in modo consistente i sintomi fisici dell’iperarousal, permettendo al paziente di meglio tollerare l’esposizione ai ricordi).

OSSITOCINA

L’ossitocina viene studiata come farmaco “integrativo”, in grado di modulare la risposta allo stress e alla paura; in particolare, un po’ come si evince dalla ricerca sull’utilizzo dell’MDMA, anche qui si ragiona sulla possibilità di predisporre il soggetto a un miglior impatto della terapia espositiva, attraverso l’uso dell’ossitocina. Se infatti il lavoro sul PTSD consta di un inevitabile approccio ai ricordi traumatici (per via dell’approccio trifasico), un utilizzo coadiuvante di principi attivi di questo tipo potrebbe diminuire la risposta autonomica del soggetto di fronte al ricordo traumatico, favorendone una sua elaborazione/cognitivizzazione (per un approfondimento).

CONCLUSIONI

Sappiamo che parte della sintomatologia del PTSD è affrontabile valutando le modalità di funzionamento della memoria. Come qui approfondito, ogni modalità che nella terapia del PTSD aiuti il paziente ad avvicinarsi e a lavorare sui ricordi, elaborandoli almeno in parte, andrà nella direzione di un miglioramento clinico.

Tentando quindi una conclusione critica, il trattamento farmacologico del Disturbo da stress post traumatico presenta ancora notevoli criticità che sono ben lontane dall’essere chiarite. In mancanza di evidenze e di comprensione sull’utilizzo dei farmaci e sul loro effetto neurobiologico in situazioni cliniche che possono anche essere estremamente dirompenti (basti pensare ad alcuni dei sintomi da iperarousal manifestati da numerosi soggetti, in particolare i comportamenti aggressivi e le manifestazioni conseguenti al discontrollo della rabbia), la scelta di un farmaco deve essere innanzitutto cauta ed in ogni caso guidata da un’attenta riflessione entro un più globale inquadramento relativo al funzionamento del soggetto. Sicuramente le benzodiazepine devono essere evitate in terapia cronica; il loro utilizzo estemporaneo, soprattutto in ambito ospedaliero protetto, deve essere attentamente valutato. A livello farmacologico, possiamo cercare di migliorare singoli sintomi, ma non esiste ad oggi un farmaco unico che permetta una presa in carico “totale” del PTSD.
É d’altronde molto importante che il medico prescrittore, mentre cerca la migliore terapia sintomatica possibile insieme al paziente, tenga nella sua mente il quadro psicotraumatologico generale, di cui i singoli cluster sintomatici sono “punte dell’iceberg”.


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4 May 2023

ILLUSIONI IPNAGOGICHE, SONNO E PTSD

di Raffaele Avico

PREMESSA: questo articolo è parte di un lavoro di raccolta di materiale inerente il trauma e la dissociazione, reperibile attraverso la rubrica presente sulla rivista Psychiatry on Line.
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Non esiste una folta letteratura che metta insieme la questione delle cosiddette illusioni ipnagogiche e la presenza di PTSD. Sicuramente è molto nota la compresenza tra PTSD e disturbi del sonno (insonnia, risvegli precoci, sonno frammentato).

L’intrudere di memorie a contenuto traumatico corrompe la continuità della coscienza, frammentandola: per la persona è molto difficile concentrarsi in modo continuativo su un compito presente, perchè focalizzarsi su un compito alla vota, immergendovisi, è un compito cognitivo che richiede uno stato di assenza di minaccia percepita (cosa che non capita in chi vive un PTSD). “Abbassare le difese” significa predisporsi al ritorno del vissuto traumatico: per questo, per un soggetto intrappolato in un PTSD, è più semplice vivere in uno stato para-dissociativo costantemente evitativo, come un pattinatore che continui ad accelerare sul ghiaccio per evitare che questo si rompa sotto i suoi piedi e l’acqua lo inghiotta.

Il sonno rappresenta uno dei momenti che in teoria necessiterebbero di questa sensazione di tranquillità per poter essere vissuto a pieno; non succede così nel PTSD: insonnia e sonno frammentato rappresentano sintomi-target grandemente predittivi di un vissuto di stress post-traumatico.

Poco però è stato scritto però sul momento del pre-addormentamento, quando si “scivola” nel sonno. La letteratura sulle cosiddette illusioni ipnagogiche (epifenomeni simil-allucinatori che si presentano prima del sonno, a forma spesso sonora -come urla percepite, parole forti allucinate, spezzoni di discorso sconnessi tra loro, o ancora suoni) pertiene alla letteratura per lo più di matrice psicoanalitica: poco è stato scritto in senso psicotraumatologico.

In questo studio generale, scritto riferendosi all’evento traumatico del terremoto all’Aquila nel 2009, i ricercatori fanno notare che recenti ipotesi farebbero pensare che non solo i disturbi del sonno (insonnia da addormentamento, lunghi e frequenti risvegli notturni) sarebbero da considerarsi come conseguenza diretta di un PTSD, ma che potrebbero esser coinvolti nel suo stesso sviluppo.

Quello che viene osservato è che in assenza di una buona qualità del sonno, l’intero sistema di funzioni cognitive subisce una prostrazione tale da portare il soggetto a uno stato di esaurimento cognitivo favorevole proprio allo sviluppo del PTSD stesso. Pierre Janet, nel suo discorso del 1913, già aveva considerato come dal suo punto di vista fosse necessario un doppio movimento per “produrre” un PTSD nell’individuo: inizialmente sarebbe stato necessario un momento, per il soggetto, di “debolezza” o stanchezza psichica:  il trauma si sarebbe successivamente installato su questo primo problema, dando vita alla sindrome post-traumatica.

Nell’articolo si legge:

“Secondo Pace-Schott, un meccanismo che potrebbe condurre dal trauma psicologico al DPTS sarebbe da individuarsi proprio nei disturbi del sonno post-trauma, che interferirebbero con il consolidamento sonno-dipendente delle memorie emozionali e con la neuroplasticità legata alla regolazione delle emozioni.”

Inoltre, quello che viene evidenziato nell’articolo è che il collegamento causale tra deprivazione di sonno e sviluppo di PTSD, sarebbe rappresentato da una compromissione, per l’individuo, della possibilità di accedere al registro spaziale di memoria. L’ipotesi causale proposta dallo studio, è

  1. TRAUMA
  2. —>DEPRIVAZIONE DI SONNO
  3. —>MANCATA ELABORAZIONE MNESTICA
  4. —>PTSD

cioè:

“Sembrerebbe, infatti, che in seguito a un evento traumatico un sonno disturbato impedisca la normale elaborazione delle memorie emotive, inclusa l’estinzione della paura associata alle memorie traumatiche”

Sarebbe appunto la bassa qualità del sonno a favorire la non elaborazione mnestica che fa da fondo ai disturbi post-traumatici (tant’è che il lavoro che si fa con il PTSD è proprio quello inerente un’elaborazione più completa delle memorie traumatiche, per esempio con l’EMDR).

Gli autori concludono:

“I lavori in questione mostrano quanto una buona qualità del sonno sia necessaria per la nostra salute mentale e per un funzionamento cognitivo ottimale e suggeriscono l’importanza di attuare strategie preventive a sostegno della qualità del sonno in seguito a un evento fortemente stressante o traumatico. Questo tipo di prevenzione è cruciale, perché i disturbi del sonno possono influenzare negativamente il funzionamento cognitivo ed emotivo, rinforzare la sintomatologia depressiva ed essere un fattore di rischio per lo sviluppo e il mantenimento del DPTS . Tali influenze negative dei disturbi del sonno sembrano, ad oggi, non adeguatamente valutate.”

Altri studi recenti e di rilievo, vanno in questa direzione: per esempio questo studio del 2017 di Marco Pagani del CNR, in linea con altri lavori su questo tema, evidenzia come il sonno rappresenti un momento fondamentale dell’elaborazione mnestica e che, nel caso di PTSD, il rischio è che si crei un circuito vizioso (la memoria intrusiva disturba il sonno, non si creano quindi i presupposti per elaborarla, il che produce ulteriore sonno disturbato, e così via).

Il sonno avviene con un’alternanza di fasi cosiddette a onde corte (REM) e fasi a onde lunghe. Pagani sottolinea come la tipologia REM di sonno favorisca un’elaborazione delle memorie a salienza emotiva (come quelle immagazzinate nel corso di un evento traumatico); la tipologia NON REM, invece, sembrerebbe importante per un lavoro di “consolidamento” e di passaggio alla memoria “implicita” delle informazioni, in generale.

Nel PTSD, questo non avverrebbe in modo corretto, permanendo il ricordo traumatico intrappolato nelle strutture più profonde del cervello, primariamente coinvolte nel fronteggiamento dell’esperienza traumatica (come ippocampo e amigdala).

Si veda questa immagine esplicativa:


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26 November 2022

Allucinazioni nel trauma e nella psicosi. Un confronto psicopatologico

PREMESSA: riportiamo in toto questo articolo di approfondimento riguardante il fenomeno delle “voci”, intese in senso transdiagnostico (Articolo originale su Psychiatryonline.it). Gli autori fanno parte del Circolo Romano di Psicopatologia. Capire quando una “voce” sia in realtà da ri-pensare come un sintomo post-traumatico, è di fondamentale importanza per una corretta diagnosi: già qui avevamo introdotto il tema.

di Stefano Naim, Matteo Maggiora, Massimiliano Aragona

Abstract

Scopo del nostro studio è quello di indagare se (e in che modo) le allucinazioni di ambito dissociativo differiscano dalle allucinazioni di marca psicotica. A tale scopo, abbiamo analizzato i caratteri psicopatologici delle allucinazioni nell’ambito dei flashback post-traumatici e nella schizofrenia. Per farlo, ci siamo serviti di un approccio idealtipico: ovvero, di descrizioni del fenomeno capaci di coglierlo nella sua forma più tipica (idealtipica) al di là di somiglianze e sovrapposizioni eventualmente esistenti tra un fenomeno e l’altro.

É emerso che le allucinazioni dei flashback post-traumatici insorgono in stato di coscienza chiaramente alterato, vissute spesso come esperienze molto vivide e multisensoriali, altamente personalizzate, solitamente echi realistici di esperienze traumatiche originali, associate a reazioni emotive coerenti con il loro contenuto. Inoltre, il soggetto che le sperimenta è spesso in grado di riconoscerne la natura patologica, di fenomeno “intrusivo” proveniente dalla sua mente.

Le allucinazioni schizofreniche, invece, appaiono di solito in stato di coscienza più lucido, sono a volte bizzarre, poco strutturate, meno vivide, definibili o localizzabili che nel trauma. Possono suscitare reazioni emotive inaspettate o incongrue. Nonostante questa maggiore “ambiguità” sul piano sensoriale, il soggetto tende a non criticare o dubitare delle sue esperienze percettive ma, in modo peculiare, ad accoglierle “passivamente” come fatti reali. Manca, cioè, una vera consapevolezza della loro natura patologica.

In conclusione, il nostro studio suggerisce che le più tipiche allucinazioni PTSD e schizofreniche, quando analizzate sul piano fenomenico, possano risultare nettamente distinguibili.

Parole chiave: Allucinazioni, AVHs, Schizofrenia, Psicosi, PTSD, Trauma, Flashback, Dissociazione, Fenomenologia, Psicopatologia, Idealtipo


Introduzione

Si tratta del terzo studio di un progetto – avviato dal Circolo Romano di Psicopatologia – volto a indagare le possibili specificità di allucinazioni presenti in diverse sindromi psichiatriche.

Le ricerche empiriche hanno frequentemente indagato i fenomeni allucinatori. Le allucinazioni acustiche verbali (le cosiddette “voci”) sono state ad esempio esaminate in diversi caratteri intrinseci – il numero di voci, l’origine (interna o esterna) accento, volume, durata, il contenuto e significato (imperative, dialoganti, denigratorie, teleologiche, ecc.) – come in molti caratteri estrinseci – strategie di coping, livello di insight, distress emotivo indotto dalle voci ecc.

Nell’ambito di queste ricerche non sono emerse differenze significative tra le allucinazioni appartenenti al registro dei disturbi psicotici, affettivi o traumatici (Junginger el al., 1985; Copolov et al., 2004; Nayani et al., 1996; Daalman et al., 2011). Si sono peraltro riscontrate differenze modeste tra le allucinazioni dei pazienti psichiatrici e fenomeni “allucinatori” che possono verificarsi in soggetti non clinici (cioè, che non hanno mai ricevuto una diagnosi psichiatrica) (Daalman et al., 2011).

Partendo da questi rilievi, si sono generate due “visioni” opposte: la prima considera le allucinazioni dei fenomeni tipicamente post-traumatici. Esse – anche nel caso dei disturbi psicotici – avrebbero comunque origine da episodi di “traumatizzazione” verificatisi nel corso della vita del soggetto (Longden et al., 2012, Moskowitz et al., 2011). In senso fisiopatologico, l’allucinazione si collocherebbe, dunque, nell’ambito di una dissociazione del piano di coscienza su base traumatica (Longden, Madill e Waterman 2012, Moskowitz et al. 2017).

La visione opposta vede invece nelle allucinazioni dei classici fenomeni psicotici, e considera quelle dei campioni non clinici dei fenomeni “mal-diagnosticati” (che cioè non sarebbero reali allucinazioni, ma qualcos’altro) oppure allucinazioni reali in soggetti ad “alto rischio di psicosi” ma non ancora riconosciuti (Laroi et al 2012 ). In questa visione, il meccanismo fisiopatologico si individua in un’alterazione del Sé di base (minimal self) correlandosi quindi ai disturbi del senso di “mineness” e “agency” (Zahavi, 2014; Parnas e Sass, 2001; Parnas et al., 2005).

Come affermato nei lavori precedenti (Maggiora e Aragona, 2020) queste due opposte posizioni condividono però, di fondo, una visione comune: il considerare, cioè, le allucinazioni sempre lo stesso oggetto, prescindendo da possibili differenze individuabili in condizioni di normalità o patologia, o in base al disturbo in cui si trovano.

Più in generale, abbiamo suggerito che la “sovrapposizione” fenomenica delle allucinazioni in diverse sindromi psichiatriche (e tra queste e i campioni non clinici) possa derivare dal tipo di strumenti usati per rilevarle: le comuni rating scales, infatti, tendono a indagare caratteri fenomenici piuttosto grossolani (es. quelli sopra elencati) favorendo la possibilità che fenomeni dispercettivi in sè distinti vengano “catturati” e trattati alla stregua di allucinazioni vere.

L’idea di fondo del nostro lavoro è che, invece, i fenomeni psicopatologici vadano indagati nei loro caratteri qualitativi: aspetti più “sottili” – di certo meno semplici da misurare – e tuttavia più specifici e, come tali, più vicini a cogliere la vera natura del fenomeno. In tal modo diventa possibile operare opportune distinzioni tra fenomeni che, tra loro, appaiono simili.

Partendo da ciò, il nostro progetto si è mosso nel tentativo di esplorare possibili specificità delle allucinazioni:

  • appartenenti all’ambito dei disturbi dello spettro traumatico, e in particolare dei pazienti affetti da PTSD (Maggiora e Aragona, 2020)
  • dall’altro lato, si sono esaminate le allucinazioni “per antonomasia”, quelle cioè proprie dei pazienti psicotici e, segnatamente, affetti da schizofrenia (Naim e Aragona, 2021).

Sulla base dei riscontri dei nostri lavori (a cui, per approfondimenti, si rimanda) pensiamo di poter sostenere che allucinazioni dissociative e allucinazioni psicotiche rappresentino fenomeni in sé diversi.

Questo, ovviamente, non significa escludere che pazienti affetti da PTSD possano sperimentare allucinazioni a carattere psicotico – abbiamo anzi descritto questa possibilità, come “schizophrenic-like hallucinations” (Maggiora e Aragona, 2020) – o ritenere che ai soggetti schizofrenici siano precluse esperienze del genere dissociativo (evenienza certamente plausibile). Queste possibilità esistono, e potrebbero – peraltro – supportare l’idea di un continuum psicopatologico nell’ambito delle esperienze dispercettive.

Noi, però, vogliamo far luce su ciò che differenzia i fenomeni, analizzare tratti e caratteri distintivi di fenomeni che rimangono qualitativamente diversi anche se, in alcuni casi, possono coesistere nella stessa persona, o “sfumare” uno in direzione dell’altro.

A supporto della nostra tesi, esporremo ora un confronto tra i caratteri psicopatologici evidenziabili nelle allucinazioni dei flashback post-traumatici ed in quelle schizofreniche.

Ci baseremo, per farlo, suI metodo della psicopatologia descrittiva di matrice jaspersiana, distinguendo tra gli aspetti di forma e contenuto dei fenomeni (Jaspers, 1913/2012) e dando priorità al piano dell’esperienza vissuta (Erlebnis) quella cioè riportata direttamente dalla persona, da una prospettiva in prima persona. Ci soffermeremo, in particolare, sul modo in cui la persona prende posizione di fronte alle sue esperienze allucinatorie.

Per enfatizzare i tratti più distintivi dei fenomeni in esame – evitando l’effetto confondente dei casi “sfocati” – useremo il metodo idealtipico (Weber, 1904/1949). L’idealtipo è una descrizione “ideale” (una sorta di prototipo) che raccoglie – tra le molteplici caratteristiche di un fenomeno – quelle che lo caratterizzano in modo più puro e coerente. I casi real world (quelli che concretamente incontriamo nella realtà quotidiana) sono spesso forme meno chiare ed esemplari rispetto al fenomeno puro idealtipico, ma indagarlo nella sua forma “pura” ci consente certamente di avvicinarci alla sua reale essenza psicopatologica. Considereremo, quindi, l’idealtipo delle allucinazioni post-traumatiche (dissociative) come appaiono nei casi gravi di PTSD. Dall’altro analizzeremo le più tipiche allucinazioni schizofreniche.

Come assunto di base, riteniamo inoltre che i fenomeni psicopatologici non siano semplici “oggetti” da descrivere singolarmente, ma parti di una più ampia costellazione clinica, e che vadano pertanto indagati in relazione ad una dinamica figura-sfondo che tenga conto dell’intero quadro fenomenico. Questa idea – di stampo ermeneutico – assume (come vedremo) molto rilievo nel disturbo allucinatorio, che può arrivare a coinvolgere in toto lo stato di coscienza e, ancora di più, interessare il globale modo di “essere-nel-mondo” del soggetto (vedi oltre).

N.B. Per un approfondimento della parte metodologica si rimanda alla pubblicazione dell’articolo su “Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences” (Volume 14, Issue 2, December 2021)

CARATTERI FORMALI DELLE ALLUCINAZIONI

Carattere di corporeità

Sia nei flashback PTSD che nella schizofrenia, le allucinazioni condividono una qualità di base: l’essere un’esperienza di tipo senso-percettivo. In modo immediato e pre-riflessivo, la persona vive l’esperienza allucinatoria nella forma di un oggetto dotato di corporeità, posto di fronte a sé nella sua concretezza e fisicità (Jaspers, 1913/2012, pp. 75) e come dato appartenente alla realtà esterna. Nei flashback PTSD, l’oggetto viene solitamente sperimentato con una vividezza sensoriale che le avvicina alle normali percezioni. Le allucinazioni schizofreniche, più spesso, sono molto meno chiare ed evidenti sul piano sensoriale (vedi oltre). Ma anche in questi casi, non viene mai meno il carattere primario di esperienza vissuta nei sensi (Jaspers, 1913/2012, pp.85; Scharfetter, 1976/1992, pp. 211 e 219). Tutte le allucinazioni mantengono perciò, seppur in vario grado, una qualità corporea di fondo.

Coinvolgimento sensoriale

Mono o multisensorialità

La percezione normale ha carattere multisensoriale: coinvolge cioè contemporaneamente i diversi sensi (vista, udito, olfatto, ecc.). Anche nei flashback post-traumatici le allucinazioni sono di norma multisensoriali, spesso in forma di scene che “ripetono” vicende traumatiche (persona che sente e vede il torturatore, percepisce l’odore della prigione, ecc).

Nella schizofrenia c’è più variabilità: possono verificarsi allucinazioni multisensoriali, ma più spesso esse coinvolgono un solo canale – e più tipicamente quello uditivo, es. le voci: il paziente sente qualcuno parlare, ma non lo vede. In alternativa (canale visivo) può vedere qualcuno o qualcosa, ma non sente la sua voce /suono, ecc.

Integrazione sensoriale

Nel normale atto percettivo, i dati che raccogliamo con i vari sensi si organizzano e strutturano in un unico oggetto di percezione. Nei flashback post-traumatici le scene allucinatorie sono solitamente integrate (l’aggressore viene visto, ascoltato, percepito come un tutto unico).

Nelle allucinazioni schizofreniche, al contrario, tale integrazione sensoriale può anche venir meno.

Vividezza percettiva

Le percezioni normali sono solitamente caratterizzate da un’elevata evidenza sensoriale (sono chiare, ben definite e dettagliate). Jaspers differenziava, in tal senso, la “freschezza” sensoriale delle percezioni, dall’esperienza sensorialmente più pallida e sbiadita delle rappresentazioni (prodotti della nostra attività immaginativa).

Nei flashback post-traumatici le scene allucinatorie sono di solito vivide e dettagliate, in modo simile alle normali percezioni.

Molte allucinazioni schizofreniche appaiono prive di questa «freschezza» percettiva: spesso anzi sono lacunose, «evanescenti» (voci maldefinite, come sussurri, sibili o fischi, poco comprensibili; visioni spesso sbiadite, ecc.) In alcuni casi, può aversi al contrario una maggiore salienza (per la quale l’oggetto o sue parti assumono particolare rilievo e si «impongono» a livello percettivo).

In ogni caso, nella schizofrenia, l’evidenza sensoriale dell’oggetto allucinatorio risulta di frequente alterata.

Costanza percettiva

Le percezioni di norma si presentano in modo stabile e costante nella coscienza – a differenza delle rappresentazioni, che risultano più mutevoli e difficili da “fissare” nella mente.

Nell’esperienza dei flashback PTSD – in modo simile agli stati del sogno – la scena si evolve e cambia rapidamente, fino al momento in cui il paziente “si sveglia”. E’ frequente, tuttavia, che una stessa scena traumatica possa ripresentarsi più volte (come qualcosa del passato che torna alla coscienza in modo ciclico).

Le allucinazioni schizofreniche offrono su questo piano una grande variabilità: possono essere più stabili (si “fissano” nel campo di coscienza, si ripresentano con le stesse modalità) o, più spesso, essere mutevoli e intermittenti (visioni flebili e sfuggenti, voci che cambiano di contenuto, volume, tono ecc.)

Localizzazione spaziale

Gli psicopatologi classici da sempre sottolineano che le rappresentazioni sono immagini interne, mentre le senso-percezioni si realizzano nello spazio esterno: il soggetto, cioè, registra qualcosa che si trova nell’ambiente al di fuori di sè (una voce, un’immagine, un odore, ecc.). I sensi coinvolti hanno una diversa capacità nel precisare l’esatta localizzazione dello stimolo percepito (es. la posizione spaziale di un oggetto osservato è più facile da individuare, rispetto alla voce di una persona al buio o a un odore che si diffonde nell’aria). E’ comunque sempre possibile riconoscere l’origine esterna della fonte percettiva.

N.B. La propriocezione riguarda invece sensazioni del proprio corpo (movimenti, posizioni del corpo o di sue parti, es. “sento il mio braccio muoversi”) ed è quindi principalmente una percezione interna. La propriocezione si presenta come un’eccezione, e verrà discussa a parte.

Nei flashback PTSD, la scena allucinatoria viene percepita nell’ambiente esterno. Le voci, i suoni, le immagini, gli odori appartengono a una data fonte sensoriale (spesso corrispondente alla figura dell’aggressore) localizzabile nell’ambiente. Il soggetto vive tipicamente la scena nel “qui e ora”, di fronte a sè, come spettatore coinvolto. Coerentemente con il flashback, c’è un distacco dall’ambiente circostante e il soggetto può sperimentare di trovarsi in un luogo diverso da quello reale o trasposto in un altro tempo, connessi con l’originaria esperienza traumatica (es. la prigione, il campo di battaglia, la casa dell’aggressore, ecc.). L’esternalizzazione della scena allucinatoria, in ogni caso, viene mantenuta.

L’equazione percezione=spazio esterno diventa più problematica nella schizofrenia. Non di rado le allucinazioni vengono avvertite nello spazio interno (voci nella testa, nel petto, nell’addome ecc.). Qui il soggetto assegna alla sua esperienza (la voce) il carattere di concreta percezione – diversa, dunque, da un prodotto di immaginazione – e tuttavia ne stabilisce la sede dentro il suo corpo, piuttosto che nella realtà circostante.

Inoltre, anche quando l’allucinazione mantiene una collocazione esterna, possono riscontrarsi diverse anomalie: percezioni mal localizzabili (il paziente non è in grado di riconoscere il luogo da cui proviene il suono, o la voce della persona che sta parlando); fuori dal normale campo sensoriale, come le allucinaz. extracampine (“vedere” una persona alle proprie spalle, udire suoni o voci distanti migliaia di chilometri, da altri mondi, ecc.); bizzarre (voci o telecamere situate dentro le pareti, negli indumenti, voci emesse da dispositivi tecnici; addirittura, comunicazioni dirette mente-a-mente).

In ultima analisi – nell’ambito del disturbo schizofrenico – sul tema della spazialità emergono forti criticità riguardo alla presunta sovrapposizione tra percezione normale ed allucinatoria.

Localizzazione propriocettiva

Nei flashback PTSD, la persona di solito vive la scena traumatica da spettatore coinvolto, spesso interagendo con essa. La tensione muscolare è frequente, la persona può sentire il dolore, ecc. Talvolta c’è una reazione di congelamento, la persona si sente come paralizzata. Sono tutte, comunque, reazioni fisiche coerenti e connesse con la scena terrifica (allucinatoria) che il soggetto si trova ad affrontare.

Nella schizofrenia la percezione corporea è spesso tipicamente disturbata: il corpo è avvertito come diverso (organi che si spostano, si modificano nella forma o dimensioni, corpo che si muove, ecc.). Soprattutto – come se qualcosa di “sottile”, ma fondamentale si stesse modificando nella percezione globale di sé – viene a perdersi la naturalezza dell’esperienza corporea. Ad es. il soggetto può sperimentare una sensazione di meccanizzazione dei suoi movimenti. Qui esperienza vissuta e credenza delirante (es. che parti del proprio corpo siano intenzionalmente spostate da entità esterne) sono così strettamente intrecciate da rendere perfino discutibile l’utilizzo stesso del termine allucinazione (Naim e Aragona, 2021).

Personificazione

Normalmente sappiamo identificare l’oggetto della nostra percezione: riconosciamo la sua identità (quella persona lì, quell’animale lì) i suoi tratti caratterizzanti (sesso, età, tratti somatici ecc.). Nelle allucinazioni dei flashback c’è un alto grado di personificazione: le persone della scena sono chiaramente riconosciute (l’aggressore, il torturatore, ecc). Le immagini viste, le voci ascoltate sono di persone distinte (come detto, spesso gli abusatori) con caratteristiche distinte. A volte la persona non rivive una scena esatta del passato, ma una sua rappresentazione in chiave simbolica (es. al posto dell’aggressore possono esservi “delle mucche mi stavano attaccando, ero con le spalle al muro …” [cosa rappresentano le mucche?] “probabilmente i nemici”). Anche in quel caso, la rappresentazione è comunque altamente personalizzata.

Nella schizofrenia le allucinazioni sono a volte ben identificabili (“è quella persona lì che sta parlando”). Più spesso però perdono riconoscibilità: le voci si fanno impersonali, scarsamente distinguibili («sento una voce ma non so chi è che parla»; non so se è uomo o donna» ecc.). Si può arrivare al punto in cui la personificazione viene completamente persa (es. non saper dire se la voce è di origine umana).

CONTENUTO DELLE ALLUCINAZIONI

Nel flashback PTSD i temi sono tipicamente di abuso e violenza. Come il termine “rivivere” suggerisce, i contenuti allucinatori si correlano a frammenti di memoria sensoriale che intrudono nella coscienza. Il paziente rivive immagini, odori e percepisce sensazioni fisiche ed emozioni simili o uguali a quelle che ha provato durante l’evento traumatico (come detto, a volte in forma esplicita altre in forma simbolica).

Al contrario, c’è una grande variabilità di contenuti nella schizofrenia. Alcuni sono certamente più frequenti: le voci hanno spesso carattere persecutorio o comunque negativo (comandano, criticano, denigrano il paziente ecc.). Tuttavia, alla stregua dei deliri schizofrenici – dove al versante persecutorio può affiancarsi una controparte di grandiosità (es. temi mistici, cosmologici, idee genealogiche) anche il contenuto delle allucinazioni può essere altamente variabile.

RELAZIONE TRA FORMA E CONTENUTO

Più che il contenuto specifico, vanno sottolineati alcuni aspetti peculiari delle allucinazioni schizofreniche:

a) l’incoerenza: spesso si rileva incongruenza tra diversi livelli, ad es. la risposta emotiva e/o il comportamento possono apparire strani e inattesi, rispetto al contenuto delle allucinazioni (una voce annuncia al pz che sta per essere avvelenato, e tuttavia lui mangia il cibo che gli è stato preparato). Talvolta contenuti tra loro contrastanti possono contemporaneamente coesistere (voci incoraggianti e minacciose allo stesso tempo).

b) il carattere autocentrico: le allucinazioni schizofreniche sono tipicamente incentrate sul paziente. Le voci possono rivolgersi direttamente a lui, o dialogare in terza persona senza coinvolgerlo apertamente. In ogni caso quelle voci si riferiscono a lui, stanno lì perché possa comprendere il messaggio a lui rivolto. A volte, il messaggio è permeato di una forte atmosfera esistenziale: significati importanti, profondi e nascosti che riguardano il paziente, che rivelano qualcosa su di lui e il mondo (Wyrsch, 1949/2014).

Questi aspetti, piuttosto caratteristici nella schizofrenia, sono sostanzialmente assenti nei flashback PTSD, dove c’è congruenza tra il contenuto allucinatorio e la reazione emotiva (di solito terrore, sofferenza, ecc.) e il paziente si trova nel “punto focale” della scena in coerenza con quanto da lui vissuto.

ALTRI FENOMENI PSICOPATOLOGICI

Come detto in apertura, le allucinazioni non vanno considerate “oggetti” isolati, ma fenomeni all’interno di una costellazione clinica più complessa (dinamica figura-sfondo). Analizzeremo qui, in particolare, il loro rapporto con lo stato di coscienza e, in seguito, le caratteristiche di temporalità del fenomeno allucinatorio.

Stato di coscienza

Nel caso del PTSD, le allucinazioni rientrano in una più ampia condizione (o sindrome) da iperarousal. Il paziente si trova usualmente in uno stato di allerta, tensione psico-motoria, insonnia, irritabilità, iperreattività agli stimoli (da quelli che gli ricordano il trauma ad altri meno specifici, come semplici rumori ecc.). Ciò avviene anche in assenza di evidenti stati dissociativo-allucinatori.

Se i pazienti hanno dei flashback, si assiste in aggiunta a un’alterazione dello stato di coscienza, nell’ambito della quale vivono le scene allucinatorie. In questi casi la loro coscienza è di tipo crepuscolare o oniroide: la lucidità e l’orientamento sono in parte o in tutto compromessi, e si ha perdita di contatto con la realtà circostante: il soggetto appare distaccato dall’ambiente e ha una ridotta capacità di reagire ad esso (stimoli delle persone che lo circondano, comprensione di quanto gli viene detto ecc.). Superata la crisi, spesso (ma non sempre) non conserva memoria di quanto è avvenuto durante l’episodio.

Per quanto invece riguarda la schizofrenia, da Kraepelin in poi si è sempre affermato che deliri e allucinazioni avvengono a coscienza lucida. Su questa base viene anche tracciata la classica distinzione tra delirio (dello schizofrenico) e delirium (nell’alcolismo). E’ frequente tuttavia constatare una ricca produzione allucinatoria negli stati di acuzie (esordio della malattia, riesacerbazioni ecc.) durante i quali si ha spesso una «destrutturazione», seppur parziale e transitoria, del campo di coscienza. In generale, sembra possibile fare una distinzione tra le fasi acute di malattia, in cui le allucinazioni (come anche gli stati deliranti) sembrano più strettamente connesse a una disorganizzazione del campo di coscienza (Ey, 1934, 1954) e le fasi di evoluzione e cronicità (psicosi schizofrenica conclamata) in cui le alterazioni di coscienza – intese in senso stretto – appaiono meno chiare ed evidenti, e non sembrano giustificare la produzione delirante-allucinatoria del paziente.

N.B. Per un approfondimento del dibattito sul tema della coscienza si rimanda alla pubblicazione dell’articolo su “Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences” (Volume 14, Issue 2, December 2021)

Temporalità

Dinamica temporale

I flashback del PTSD presentano esordio rapido, spesso innescato da stimoli (esterni o interni) aventi un legame simbolico con gli eventi traumatici del passato. Anche la conclusione è spesso rapida, con un improvviso ritorno allo stato lucido di coscienza. Questa dinamica può essere descritta come switch off/switch on (spento/acceso). La dinamica temporale dell’esperienza allucinatoria si rivela strettamente connessa a quella del flashback: ovvero inizia e finisce con esso, all’interno dell’alterazione crepuscolo-oniroide della coscienza. La scena allucinatoria evolve quindi come una sorta di film (o di sogno, ma molto vivido e realistico).

Nella schizofrenia non si verifica un simile shift della coscienza, e le allucinazioni, come detto, si verificano in stato per lo più lucido. La loro dinamica di insorgenza-scomparsa è altamente variabile: alcune vanno e vengono rapidamente, altre persistono più insidiosamente e/o svaniscono lentamente; alcune voci cambiano continuamente, altre rimangono per anni inalterate, ecc.

Esperienza del tempo

Nei pazienti con PTSD l’esperienza del tempo è caratteristicamente quella di un “tempo circolare“: il passato si “riattualizza”, ossia periodicamente ritorna, immodificato, nel presente (si dice, classicamente, che “la persona non può lasciare il passato nel passato“). Come detto, le memorie traumatiche possono presentarsi sottoforma di flashback e scene allucinatorie. Tuttavia, in questi casi il vissuto non è quello del ricordo, ma di fatti che si verificano nel qui e ora (non sono il “ricordo di lui che mi picchiava” ma il “vedo che cerca di farmi del male, lo sento urlarmi contro” ecc.). Come da classica definizione delle allucinazioni, il paziente cioè percepisce, nella realtà attuale, qualcosa che effettivamente non esiste. In altri termini, tali esperienze si riferiscono a vicende traumatiche del passato, ma sul piano soggettivo vengono sperimentate come qualcosa di reale e attuale, nel presente della persona. Di fronte all’emergere di queste esperienze psicopatologiche, la naturale progressione del flusso temporale (dal passato verso il futuro) può essere alterata: le stesse scene, infatti, possono tornare più e più volte, in una generale stagnazione del tempo vissuto del soggetto.

Nella schizofrenia, l’esperienza del tempo è stata spesso descritta in termini di tempo congelato e immobilizzato (Minkowski, 1933). Vi è un eterno e sfuggente “ora”, nel quale può inserirsi la sensazione che qualcosa di importante e imminente stia per accadere: una posizione descritta da Kimura (2005) come ante-festum. Secondo Stanghellini et al. (2016) l’alterata esperienza del tempo schizofrenico sta nella sua disarticolazione: vi sarebbe cioè un’alterazione fondamentale nella costituzione del Sé di base, che si tradurrebbe in micro-lacune dell’esperienza cosciente: cosicché fenomeni mentali, non più incorporati nella continuità del flusso temporale dell’esistenza, possono venire vissuti come “blocchi”, inserzioni del pensiero o, se esternalizzati, manifestarsi come allucinazioni uditive.

PRESA DI POSIZIONE (POSITION-TAKING)

E’ stato evidenziato che la persona, normalmente, non solo è cosciente della sua esperienza ma prende anche posizione su quello che soggettivamente sperimenta. Molti sintomi psichiatrici, ad esempio, possono essere visti come risultato di una specifica “reazione” psico-emotiva del soggetto al suo vissuto disturbante di base (Stanghellini, 2016). Questa impostazione è in accordo con quella ermeneutica di Berrios (2013) sull’auto-interpretazione soggettiva delle esperienze fondamentali.

Secondo Aragona et al (in stampa) ci sono due livelli di presa di posizione. Nel primo, vi è una “presa” più immediata (pre-riflessiva) della propria esperienza. Nel secondo il soggetto opera su di essa una ricerca di significato più volontaria ed esplicita.

Presa di posizione implicita

Normalmente, alle nostre percezioni, attribuiamo implicitamente un carattere di realtà: siamo sicuri di vedere ciò che vediamo, di sentire ciò che sentiamo, ecc. Siamo cioè certi della loro concreta esistenza, come “oggetti” parte dell’ambiente a noi circostante. In altre parole, in tutte le percezioni “la certezza di realtà ci è semplicemente data” (Scharfetter, 1976/1992). Sebbene sia spesso usato il termine “giudizio di realtà”, questo non è un vero e proprio giudizio (come ad es. nella valutazione di un pro e contro). Si tratta piuttosto di una capacità pre-riflessiva, tramite cui, in modo “automatico” e immediato, il soggetto assegna un carattere di realmente esistente a quello che percepisce tramite i sensi.

Anche le allucinazioni, notoriamente, sono spesso giudicate reali: alla stregua delle normali percezioni, il soggetto le sperimenta come fatti “oggettivi” dei sensi che si “impongono” nel campo di coscienza, piuttosto che “prodotti” di un’esplicita attività mentale. In altre parole, sia le percezioni normali che quelle allucinatorie condividono il senso di realtà di quanto percepito.

Sia le allucinazioni dei flashback PTSD che quelle schizofreniche hanno, quindi, questa caratteristica.

Una differenza è che le prime si verificano in stato dissociativo di coscienza, e la qualità (di realtà) dell’esperienza viene dedotta dall’osservatore esterno, sulla base del modo in cui il paziente interagisce con la scena allucinatoria. Il paziente, infatti, uscito dall’episodio può avere un ricordo dell’evento, ma più spesso non ne conserva memoria. Le voci schizofreniche, al contrario, si verificano in stato “lucido”, quindi è il paziente stesso che può descrivere ciò che sta vivendo.

Altrove (Naim e Aragona, 2021) abbiamo sottolineato che, nonostante i dati percettivi si “impongano” nel campo soggettivo di coscienza, di norma conserviamo nei loro confronti un certo “margine d’azione”: es. possiamo spostare l’attenzione, allontanarci e/o “stoppare” una fonte sensoriale che ci disturba (tappiamo le orecchie se il rumore è forte, chiudiamo gli occhi se la luce è eccessiva ecc.). Ma soprattutto, possiamo dubitare della realtà della nostra percezione, qualora essa ci appaia “dubbia” o strana”.

Nel caso della schizofrenia questa capacità tende a ridursi. Anche i soggetti schizofrenici possono cercare di fronteggiare le loro allucinazioni (per quanto, non di rado, con modalità «bizzarre»). Spesso però nemmeno provano a opporsi, ma rimangono come «catturati» dalla loro esperienza allucinatoria. Essi cioè mostrano, caratteristicamente, una maggiore passività ricettiva, per la quale raramente arrivano a mettere in discussione la realtà delle loro allucinazioni: nonostante siano percettivamente ambigue o strane, il soggetto tipicamente non «corregge» il suo giudizio. Il dato allucinatorio (come discusso) può quindi avere caratteristiche sensoriali dubbie, incomplete, contraddittorie, tali anche da porsi “in conflitto” con il contesto percettivo globale, ma per i pazienti rimane ugualmente un dato di realtà («quel che i malati vedono o sentono è per loro una realtà inoppugnabile», Bleuler).

Interpretazione esplicita

La presa di posizione di secondo livello riguarda una ricerca più volontaria ed esplicita di significato per la propria esperienza. Concentriamo qui la discussione sul livello che concerne la “consapevolezza di malattia”: chiamata anche insight – termine in verità più ampio – essa si riferisce alla condizione in cui una persona che sperimenta un fenomeno disturbante lo riconosce come patologico.

Nei flashback PTSD la scena allucinatoria si presenta in modo invadente, intrudendo nella mente contro la volontà del soggetto. Tuttavia, poiché si verifica in stato alterato di coscienza, il paziente non è in grado, mentre la sperimenta, di giudicarla come patologica. Una volta che comunque torna lucido, di solito non ha difficoltà nel giudicare l’abnormità di quanto accaduto – a condizione che ne conservi almeno in parte memoria; a volte, infatti, il giudizio è possibile solo indirettamente, dopo aver ricevuto un “feedback” da chi gli sta attorno.

Il paziente schizofrenico, invece, spesso non riconosce le sue allucinazioni come fatti patologici. La sua scarsa consapevolezza affonda in un problema fondamentale connesso con il suo disturbo di base: egli perde il senso di proprietà sulla propria esperienza (disturbo della meità) perde titolarità sui propri contenuti di coscienza. In altre parole, a livello soggettivo non si sente il proprietario, bensì come uno spettatore di ciò che soggettivamente sperimenta (Naim e Aragona, 2021).

Di fronte, allora, alle sue allucinazioni, il soggetto tende a giudicarle come fatti “estranei” alla sua attività mentale. Può arrivare a elaborare spiegazioni deliranti (considerarle es. “corpi estranei” – imposte da entità esterne – nell’ambito di sindromi di «influenzamento»). Può viceversa, quando soggettivamente meno disturbanti, accoglierle in modo totalmente passivo (per cui esse stanno semplicemente lì). In ogni caso giudicandole, da un lato, come eventi plausibili e reali, e non riconoscendole come fatti “generati” dalla propria mente, egli non considera le sue esperienze allucinatorie come un possibile segno di malattia.

Conclusioni

In questo studio abbiamo confrontato due diverse tipologie di allucinazioni:

  • quelle che caratterizzano i flashback dissociativi nei pazienti con PTSD, che emergono nel contesto di uno stato di coscienza alterato (crepuscolo-oniroide) come scene vivide e multisensoriali, altamente personalizzate, spesso “echi” realistici di esperienze traumatiche originali, e dotate sul piano soggettivo di una reazione emotiva coerente con il loro contenuto. Quando la persona ne ha ricordo (o viene informato su quanto accaduto) le considera chiaramente fatti irreali, provenienti dalla propria mente, di carattere patologico.
  • le tipiche allucinazioni schizofreniche che, d’altra parte, sono vissute a coscienza lucida (o quasi), presentano minor vividezza sensoriale (più incomplete, mutevoli e sfuggenti) sono a volte incoerenti o bizzarre, meno personalizzate e più scarsamente localizzabili. Nonostante la loro stranezza e ambiguità percettiva il soggetto non le giudica però irreali, contraddittorie, ecc. ma le “accetta” passivamente, le prende così come sono senza mettere in discussione la loro plausibilità. Manca quindi la consapevolezza della loro natura patologica.

Per evidenziare opportunamente gli aspetti psicopatologici differenziali abbiamo usato un approccio idealtipico, ovvero un metodo atto a descrivere i fenomeni nella loro forma più pura. Presupposto di questa scelta è che un’indagine rigorosa dei fenomeni, in grado di coglierne gli aspetti più sottili e caratterizzanti, permetta di migliorare la loro definizione sul piano clinico. Con questo approccio abbiamo cercato di mettere in luce come – al netto di possibili somiglianze e sovrapposizioni – le allucinazioni di ambito post-traumatico e quelle tipiche schizofreniche siano qualitativamente diverse.

Nel real world è frequente incontrare forme meno pure, con pazienti che vivono esperienze psicopatologiche appartenenti a un “territorio di mezzo”; la stessa ricerca empirica può riscontrare diversi livelli di sovrapposizione, con riscontro di pazienti in cui coesistono entrambi i tipi di fenomeni, o presentano forme “sfocate” o “a ponte”. E rimane aperta la questione di investigare questo ampio “territorio di confine” (le allucinazioni post-traumatiche senza completa dissociazione di coscienza; le allucinazioni schizophrenic-like in pazienti con diagnosi di PTSD ecc. – Maggiora e Aragona, 2020). La sua esistenza, tuttavia, non rappresenta per noi la prova di un continuum dimensionale: nella misura in cui – per quanto esposto – i due tipi di allucinazioni, prese nella loro forma caratteristica, conservano dal nostro punto di vista sembianze molto diverse.

Una possibile obiezione al nostro lavoro è che solo quelle schizofreniche siano allucinazioni “reali”, mentre le esperienze dei flashback nel PTSD non siano allucinazioni, ma fenomeni intrusivi connessi ad eventi traumatici. Dal canto nostro abbiamo cercato di evidenziare come, nel vissuto del paziente, essi non si configurano come memorie ma come vere e proprie esperienze di carattere allucinatorio. A questa obiezione può, inoltre, essere contrapposta l’ipotesi che le allucinazioni schizofreniche, anch’esse, si correlino a ricordi basati sul trauma (Steel, 2015). Ad ogni modo abbiamo preferito astenerci in questa fase dalle confutazioni teoriche, per mantenerci su un rigoroso piano di descrizione fenomenica.

Un importante passo può essere, in futuro, quello di indagare se le caratteristiche fenomeniche descritte siano sottese da dimensioni psichiche più “profonde”: ovvero, se esista una corrispondenza tra le differenze psicopatologiche riscontrate nelle diverse forme allucinatorie e il tipo di organizzazione (o alterazione) nelle strutture di base dell’esperienza. L’obiettivo diventa cioè quello di esplorare le allucinazioni – come, potenzialmente, qualsiasi altro fenomeno psicopatologico – in rapporto ad alterazioni più sottili a carico delle strutture primarie della soggettività, che vanno a minare il modo stesso in cui il soggetto costruisce la sua esperienza (alterazioni che concernono l’esperienza di sè, del proprio corpo, delle altre persone e del mondo). In definitiva, si apre allo studio delle relazioni tra le singole forme psicopatologiche – per come esse vengono osservate e descritte nella realtà clinica – e le strutture di base da cui emergono, quelle su cui l’intera esperienza soggettiva si costruisce, origina e prende forma. Si entra qui nel vasto campo dei disturbi del Sè – argomento già ampiamente trattato, a proposito delle allucinazioni schizofreniche, in uno dei nostri precedenti lavori (Naim e Aragona, 2021). Questa indagine, di impronta più strettamente fenomenologica, può essere il punto di partenza di successivi studi.

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  • Ritunnano R, Stanghellini G, Broome MR. (2021) Self-interpretation and meaning-making processes: re-humanizing research on early psychosis. World psychiatry, 20:304-306.
  • Scharfetter C. (1976/1992) Psicopatologia generale, un’introduzione. Prima edizione italiana. Feltrinelli Editore, Milano.
  • Stanghellini G. (2016) Lost in dialogue: anthropology, psychopathology, and care. Oxford University Press, Oxford.
  • Stanghellini G, Ballerini M, Presenza S, Mancini M, Raballo A, Blasi S, Cutting J. (2016) Psychopathologyof lived time: abnormal time experience in persons with schizophrenia. Schizophrenia Bulletin, 42:45-55.
  • Steel C. (2015) Hallucinations as a trauma-based memory: implications for psychological interventions. Frontiers in Psychology, 6:1262.
  • Villagrán JM. (2003) Consciousness disorders in schizophrenia: a forgotten land for psychopathology. International Journal of Psychology and Psychological Therapy, 3:209-234.
  • Wallis S, Denno P, Ives J, Mallikarjun P, Wood SJ, Oyebode F, Broome M, Upthegrove R. (in press) The phenomenology of auditory verbal hallucinations in emotionally unstable personality disorder and post-traumatic stress disorder. Ir J Psychol Med.
  • Weber M. (1904/1949) ‘Objectivity’ in social science and social policy. In: The methodology of the social sciences. The Free Press of Glencoe, Glencoe (IL):50-112.
  • Woon FL, Farrer TJ, Braman CR, Mabey JK, Hedges DW (2017) A meta-analysis of the relationship between symptom severity of Post-traumatic Stress Disorder and executive function. Cognitive Neuropsychiatry, 22:1-16.
  • Wyrsch J. (1949/2014) La persona dello schizofrenico. Fioriti Editore, Roma.
  • Zahavi D. (2014) Self and other: exploring subjectivity, empathy, and shame. Oxford University Press, Oxford.

  • NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

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10 May 2022

PTSD: ALCUNE SLIDE IN FREE DOWNLOAD

di Raffaele Avico

Qui di seguito alcune slide a proposito della teoria del PTSD, in free download.

Consentono di farsi un’idea generale sugli sviluppi più attuali relativi alla teoria del trauma psichico.

Contengono molte delle tematiche indagate a tema “trauma” su questo blog (PTSD con o senza sintomi dissociativi, il modello a cascata di Ruth Lanius, l’approccio liottiano al problema, gli approcci psicoterapici, etc.).

É possibile scaricarle qui: PRESENTAZIONE PTSD.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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11 April 2022

Considerazioni sul trattamento di bambini e adolescenti traumatizzati

di Davide Boraso


PREMESSA: questo è un estratto dal libro PTSD: che fare?

Il trattamento di bambini o adolescenti traumatizzati deve tener conto di altri fattori oltre che quelli citati in relazione al lavoro con gli adulti.

Gli interventi rivolti a questo tipo di utenza devono porsi quattro obiettivi/punti di arrivo centrali:

  1. la sicurezza dell’ambiente di vita abituale del bambino (casa, scuola e ambiente sociale)
  2. lo sviluppo delle competenze nella regolazione emotiva e nel funzionamento interpersonale
  3. l’elaborazione del significato dell’esperienza traumatica in modo che il giovane possa assumere prospettive più positive e adattive, aumentando la fiducia verso il futuro
  4. il rafforzamento delle capacità di resilienza e l’allargamento della propria rete di “sicurezza” sociale

Il problema principale, per questi pazienti, è rappresentato dalla mancanza di sicurezza, e molti sforzi sono impiegati nel sopravvivere a un ambiente continuamente traumatizzante.

La prima fase del trattamento deve concentrarsi quindi sulla creazione di un sistema di cura e di sicurezza nel quale il bambino e la famiglia possano iniziare a sviluppare benessere. Spesso, questo significa per il clinico collaborare con i servizi di protezione per l’infanzia e il sistema giudiziario, così da promuovere un ambiente di vita più sicuro. È importante coinvolgere anche la famiglia e la scuola così come altre figure di supporto importanti, al fine di creare una rete che crei senso di protezione nell’ambiente di vita.

Il terapeuta dovrà quindi concentrarsi sulla capacità del bambino di sperimentare sicurezza in ogni ambiente, a partire dal setting terapeutico. È probabile che all’aumentare del senso di sicurezza diminuiscano anche i disturbi comportamentali del bambino.

In seconda istanza occorre concentrarsi sulla capacità di auto- regolazione: non avendo avuto la possibilità di sperimentare una relazione con attaccamento sicuro, il bambino cresciuto nel contesto di uno “sviluppo traumatico”, non ha potuto imparare a co-regolare il proprio stato emotivo con il caregiver. Tali abilità dovranno essere sviluppate nel setting terapeutico e risultano fondamentali gli interventi diretti alla stabilizzazione dei sintomi.

Raggiunta una sufficiente competenza sulla regolazione emotiva è possibile iniziare il lavoro sui ricordi traumatici. È possibile che in alcuni casi la fase di lavoro sulla regolazione emotiva sia lunga e complessa dato che, in situazioni estremamente traumatiche, possono non essere presenti ricordi legati a senso di sicurezza e connessione amorevole con l’altro; in questi casi i tentativi di installare risorse o utilizzare strategie di cambiamento potrebbero inizialmente rivelarsi fallimentari.

È quindi necessario, in questi casi, aiutare il bambino a sperimentare senso di sicurezza e di connessione (senza paura) all’interno della relazione terapeutica, con eventuali interventi esperienziali.

Successivamente, sarà possibile iniziare il trattamento psicosociale per il recupero dei danni causati dall’abuso e riabilitare le abilità perdute o mai formatesi. Lo sviluppo di queste abilità di base, come la capacità di riconoscere i propri sentimenti e costruire relazioni interpersonali, avvengono nel contesto terapeutico e con il coinvolgimento di “tutti” i caregiver affinché questi possano continuare il rinforzo del lavoro anche fuori del setting ambulatoriale. L’obiettivo finale è la trasmissione e il mantenimento di tali abilità nel quotidiano.

Questo sforzo finale può avere il suo centro nel trattamento, ma necessita della collaborazione della famiglia e dei servizi sociali presenti sul territorio.

Anche ai bambini, come per gli adulti, è fondamentale fornire una buona psicoeducazione sul funzionamento psichico, sul trauma e sui suoi effetti. Ciò restituisce chiavi di lettura corrette rispetto ad alcuni comportamenti, riduce il senso di colpa e di indegnità rispetto a reazioni automatiche che non si sanno controllare e stimola l’auto osservazione.

Con i bambini occorrono cautele nel fare comunicazioni riguardanti il trauma; tra i modi più utilizzati e sicuri vi sono le metafore: esse permettono di spiegare, ma allo stesso tempo di prendere una distanza da situazioni che altrimenti potrebbero risultare soverchianti.

Esiste una grande quantità di metafore che possono essere utilizzare o costruite per comunicare sul trauma a seconda dell’età e del livello intellettivo del bambino; alcune interessanti riportate da Puliatti (2017, La psicotraumatologia nella pratica clinica –qui alcuni spunti da questo libro) sono:

  • l’analogia della perla: si può iniziare domandando se si sa cos’è una perla. Si può utilizzare un’immagine a supporto spiegando che la creazione di una perla è un evento straordinario. La vita di una perla inizia con un oggetto estraneo che entra nell’ostrica. Per proteggersi dall’irritazione causata dall’intruso, l’ostrica produce una sostanza. Col tempo, l’oggetto estraneo verrà completamente rinchiuso da diversi strati di quella sostanza protettiva prodotta dall’ostrica. Il risultato è una meravigliosa perla, che rappresenta il sistema protettivo e difensivo dell’ostrica. Quando si apre l’ostrica si trova la meravigliosa perla: “aprire il guscio è importante così possiamo trovare la tua perla, quella che hai costruito per difenderti dalle brutte cose che ti sono accadute”
  • l’analogia dell’albero: quando un albero è avvolto dall’oscurità o i rami sono danneggiati, esso continua a cercare la luce. La perdita di un ramo fa sì che l’albero si trasformi e cresca in modi eccezionali, che gli danno una forma unica. Quando attraversiamo situazioni difficili nella vita, anche noi dobbiamo allungarci per ritrovare luce e, con essa, un’opportunità per crescere e trasformarci. “Il mio lavoro come aiutante, è quello di supportarti nel trovare ancora la luce nella tua vita. Mentre cerchi la luce, si svilupperanno e cresceranno in te qualità speciali, rendendoti la persona unica che sei”
  • l’analogia della borsa delle cose mescolate: quando ci accadono cose brutte, proviamo molti sentimenti e pensieri confusi. Non ci sentiamo bene nelle nostre menti, corpi e cuori. È come portare delle borse con cose mescolate e alla rinfusa. Quando siamo così occupati a portare tutte queste borse, non abbiamo spazio nei nostri cuori, nelle nostre menti e nei nostri corpi, per i sentimenti e i pensieri buoni. Se lavoriamo per rendere queste borse più piccole o addirittura per liberarcene, avremo lo spazio per i sentimenti e i pensieri buoni.

Questi sono solo alcuni degli esempi che si possono fare per spiegare ai bambini come il trauma può impattare sulla loro vita: in alternativa si possono utilizzare concetti più “scientifici” come la finestra di tolleranza, opportunamente spiegato a seconda dell’età e delle abilità cognitive del bambino.

PS: questo è un estratto dal libro PTSD: che fare?


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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3 February 2022

INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD

di Raffaele Avico

Un evento traumatico pone l’individuo nella situazione di confrontarsi quotidianamente con il suo ricordo; la mente si impegna nel gestire le recrudescenze della sindrome post-traumatica, il rivivere il momento del trauma, l’oscillare dello stato di allerta, che come sappiamo percorre un andamento a cascata, o a dente di sega.

Si parla spesso di cognizione negativa, di pensieri negativi rivolti a sé, a seguito di un trauma. Su questo blog abbiamo intervistato Rossella Valdrè (link) nel tentativo di comprendere se e in che modo esista, a seguito di un evento traumatico, una tendenza a ricercarne il ricordo dentro di sé, come presi da una forza masochistica, o paradossalmente per tentare di risolvere il trauma stesso -ricercandone appunto la presenza.

Abbiamo anche osservato come il ricordo traumatico sembri riempire il vuoto mentale quando la persona sta attraversando un momento di relativa tranquillità. Come accade per una dipendenza, è come se il ricordo traumatico tendesse a riempire ogni momento di libertà sperimentato dall’individuo. Alcuni individui sembrano addirittura insospettirsi a riguardo del loro sentirsi liberi, cosa che alimenta il ritorno del pensiero, in un meccanismo mentale ossessivo, con un bisogno estremo di controllo -che in realtà produce il perdere il controllo stesso.

Un aspetto relativamente poco esplorato, è l’evento traumatico come “elemento” agonistico, in grado di produrre in chi lo subisca un sentimento di resa. Il ricordo del trauma diviene talmente pervasivo e potente da generare negli individui un senso di sconfitta, di arrendevolezza, cosa che ricade immediatamente sul corpo.

La psicoterapia sensomotoria lavora per riportare nella mente del soggetto un senso di empowerment, a partire dal corpo.

Pensiamo solamente al lavoro che viene fatto sulla postura, sulla posizione della testa, sul lavoro di rinforzo del “core” del corpo dell’individuo, cosicché questo possa recuperare, psicologicamente, un senso di potere. Sembra in altre parole che una parte del lavoro di terapia, sia restituire potere all’individuo nei confronti del “nemico” interiore -verso cui questo percepisce una sensazione di resa impotente.

Lo stesso potremmo osservarlo negli approcci al PTSD tramite lo sport. Abbiamo qui approfondito le varie ipotesi sull’approccio al PTSD tramite l’attività fisica; i punti centrali sono due:

  • lo sport, rinforzando il corpo, procura una sensazione di auto-contenimento e maggiore potere percepito a livello anche psicologico; questo aiuta il soggetto a contrastare il senso di impotenza appresa nella traumatizzazione
  • lo sport espone il soggetto a variazioni nel tono di attivazione dell’arousal, a tachicardia indotta dall’allenamento; questo rappresenta un elemento di terapia espositiva in soggetti che temono il loro stesso attivarsi: parlando in prima persona, nel momento in cui l’attività fisica sarà cessata e mi troverò in uno stato di allarme indotto dal presentarsi del ricordo traumatico, sarà per me più semplice gestire il momento dell’allarme a livello corporeo, dato che padroneggio meglio le mie stesse alterazioni. É una forma di terapia espositiva (d’altronde in questi casi si parla di fobia degli stati interni)

Spesso si ha la sensazione in questi casi che il paziente fuoriesca dalla spirale del PTSD quando acquisisca sufficiente forza mentale da gestire il confronto con il ricordo traumatico, quando senta di aver raggiunto una posizione di dominanza su questo, rendendolo non più invalidante. Pensare che il ricordo scompaia o non esista più, non è realistico; ci troviamo invece spesso a che fare con persone che a un certo punto riferiscono di sentirsi sufficientemente corazzati per affrontare il ricordo traumatico, con meno conseguenze.

In altre parole, è come se nello scontro con un’entità nei confronti della quale ci sente in una posizione sottomessa, si acquisiscono nuove risorse, e una posizione “gerarchicamente”, progressivamente superiore.

A proposito delle modalità di fronteggiamento della sindrome post-traumatica per via “bottom-up”, ovvero a partire dal corpo per andare verso i pensieri, diversi studiosi nell’ambito (tra cui Peter Levine e Pat Ogden) osservano come il trauma rimanga per così dire “memorizzato” in senso somatico all’interno del corpo, e sostengono come sia proprio attraverso questo che dovrebbe essere “dissipato”.

Usare lo sport o la psicoterapia sensomotoria, rappresentano in realtà uno stesso strumento che viene modulato in modo differente; l’idea di fondo è che esistano delle tensioni/energie/movimenti rimasti “inespressi” nel corso della traumatizzazione, che debbano essere svincolati e liberati attraverso il corpo stesso.

In un certo senso, la sindrome “post-traumatica” rappresenta una forma di apprendimento che necessita di essere disappreso; le conseguenze di questo senso di minaccia e impotenza “appresi”, li notiamo nei macro-ambiti della mente (con tutti i vari sintomi più tipici del PTSD, come la riesperienza dell’evento traumatico, le cognizioni negative e il senso di “mortificazione”, l’arousal aumentato e il senso minato di sicurezza) e del corpo (con cambio della postura, alterazioni dell’arousal con diversi effetti sul corpo, senso di accelerazione e stato protratto di allerta, tachicardie indotte dall’accesso al ricordo traumatico, reazioni “fobiche” e contratture del corpo da iperattivazione dei sistemi di difesa, disturbi gastrici da attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, etc.).

La direzione del lavoro sul trauma andrà dunque intesa come un lavoro integrato che metta insieme il lavoro di psicoterapia partendo dai contenuti di pensiero per andare sul corpo (top-down), e il lavoro sul corpo che possa impattare sullo stato mentale (bottom-up).

Peter Levine osserva come negli animali esistano dei meccanismi innati che inducono un senso di “release” del vissuto post-traumatico, per via di un tremore “neurogeno”: ne abbiamo scritto qui.

Sulla scia di osservazioni di questo tipo esiste una metodologia bottom-up di approccio a particolari condizioni psichiche (compreso il PTSD), chiamato metodo TRE, fondato sull’induzione volontaria di tremore corporeo con una funzioni di scarico corporeo. Ne parla diffusamente David Berceli in questo libro tradotto da Riccardo Cassiani Ingoni, di cui pubblichiamo di seguito un’intervista:

In questa intervista, Riccardo Cassiani Ingoni spiega il razionale del metodo TRE, allargandosi anche su aspetti laterali della questione, coerenti con linee di ricerca psicotraumatologica molto attuali; nel corso dello sviluppo, per come avviene la maturazione in senso “neuro” del bambino, in caso di trauma è maggiormente probabile che quest’ultimo utilizzi difese “dissociative” che non invece una risposta di attacco/fuga, non possedendone i mezzi. In età adulta, di fronte a uno stimolo minaccioso, sappiamo che la prima risposta a essere messa in atto è una iperattivazione, quindi una risposta di fuga e, dove questa non sia possibile, di attacco. Solo nei casi dove questa non sia possibile, si arriva a una risposta di “collasso” concomitante a una dissociazione mentale. Nei casi dunque più complessi di trauma, maturati in ambito famigliare, è necessario tenere presente come un bambino che si adatti a un contesto vissuto come traumatico opterà più frequentemente per reazioni dissociative che non per reazioni di attacco/fuga -elemento questo da tenere in considerazione quando quello stesso bambino passi a un’età più adulta, magari avendo mantenuto lo stesso “stile“ di risposta.

A proposito del metodo TRE, che prevede l’induzione di tremori fisici al fine di arrivare a uno stato di “release” di tensioni accumulate nel corpo a seguito di (anche) eventi traumatizzanti, abbiamo posto alcune domande a Riccardo.

Ecco l’intervista.

Buongiorno Riccardo, ci vuoi raccontare chi sei, qual è stato il tuo percorso di formazione e di cosa ti occupi?

Ho conseguito la laurea in Scienze Biologiche a Pisa e poi un dottorato di ricerca in neurofisiologia negli USA, dove per sei anni ho lavorato come ricercatore presso il National Institutes of Health (NINDS-NIH), uno dei principali centri statunitense di ricerca biomedica. Mi occupavo prevalentemente di progetti clinici e di ricerca nell’ambito delle malattie neurodegenerative e delle lesioni cerebrali traumatiche.

Durante il mio soggiorno statunitense, oltre al mio impegno nella ricerca di base nel campo della neuroimmunologia, ho potuto frequentare numerosi corsi di formazione nel campo delle tecniche di gestione dello stress post-traumatico con varie metodiche di medicina integrata, di riflessoterapia, di massaggio, e di bio-neurofeedback.

Successivamente sono stato impegnato nel progetto NeuroLab del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) e per cinque anni ho anche condotto a Roma una pratica privata incentrata sull’utilizzo del bio-neurofeedback e del tremore neurogeno nella preparazione atletica.

Negli USA, durante uno dei corsi da me frequentati, ho incontrato David Berceli e ho avuto modo di conoscere il suo metodo. Dal 2007, al suo fianco, il mio impegno è stato dedicato alla ideazione e alla realizzazione del programma didattico sul metodo TRE, di cui conduco laboratori pratici e corsi di formazione in numerosi paesi del mondo, generalmente nell’ambito dei percorsi formativi offerti da varie scuole di formazione, associazioni professionali ed enti per la promozione della salute e del benessere.

Mi appassiona formare i professionisti del settore, insegnando come integrare l’approccio del tremore neurogeno con le loro altre competenze specifiche. Trovo il TRE un approccio naturale alla salute, un metodo efficace, versatile e appassionante, capace di essere applicato in qualsiasi contesto e in tutti gli ambiti rivolti al benessere della persona. Ciò si sposa perfettamente con le mie altre competenze in ambito neurofisiologico e nelle terapie naturali.

Riccardo, ci vuoi raccontare brevemente il razionale che muove il metodo TRE? Molteplici studi relativi al trauma indagano la ricaduta sul corpo del trauma stesso; mi vengono in mente per esempio gli studi di Pat Ogden relativi alla psicoterapia sensomotoria, alle tendenze all’azione rimaste inespresse all’interno del corpo a seguito di un trauma. Il metodo TRE vuole indurre un tremore neurogeno, per aiutare il paziente a scaricare queste tendenze e queste tensioni intrappolate nel corpo. Ci dici qualcosa a riguardo?

Il metodo si sviluppa attraverso una serie di esercizi fisici che hanno il fine di attivare una risposta fisiologica di vibrazione muscolare. Una volta indotta, questa vibrazione tende a procedere in maniera autonoma e ad irradiarsi ai diversi distretti corporei: solitamente il tremore di prima istanza tende a manifestarsi nella zona iliaca e nelle gambe, ma successivamente l’attività muscolare involontaria si propaga anche nei distretti superiori (torace, spalle, collo, mandibola, muscoli facciali), zone nelle quali possono ristagnare le emozioni non espresse. Attraverso la vibrazione involontaria si sollecitano pertanto quelle aree di “blocco” che sono frequentemente soggette ad un controllo nervoso inconsapevole e che pertanto operano cronicamente in uno stato di iper- o ipotonicità.

Ogni individuo possiede un proprio schema corporeo e l’innesco della vibrazione muscolare può innanzitutto aiutare la persona a svilupparne consapevolezza. Frequentemente infatti accade che alcune parti del corpo inizieranno a vibrare con facilità mentre in altre la vibrazione sarà molto più lieve o anche del tutto assente; altre volte ancora la vibrazione magari sarà presente in maniera uniforme ma il soggetto invece si accorgerà di percepirla diversamente, o addirittura di non riuscire a percepirla affatto, in alcune parti rispetto alle altre. Magari sarà quella la prima volta che la persona si accorge di esercitare un controllo inconsapevole su alcune parti di se, e già questa diversa percezione dei vari distretti corporei sarà di aiuto affinchè il soggetto possa sviluppare un contatto più intimo con il corpo. Proseguendo potrà imparare a rilassare o ad attivare maggiormente determinati muscoli, e questo lo aiuterà via via a sviluppare una percezione più armonica di se.

Questo metodo è stato sviluppato anche in seguito all’osservazione che tutti i mammiferi, incluso l’uomo, dopo un trauma innescano meccanismi biologici di auto-riabilitazione basati sull’emergere di una reazione di vibrazione muscolare (es. il cavallo da corsa dopo una caduta; la gazzella dopo un inseguimento). Si ritiene che questa sia una reazione importante di scarica dell’eccitazione neurofisiologica e che, se o quando, ciò non accade completamente allora il soggetto diventa maggiormente suscettibile a sviluppare tensioni da accumulo e manifestare sindromi post traumatiche da stress. In casi simili si osserva che la pratica del TRE può permettere la completa scarica dell’eccitazione fin lì trattenuta nel corpo. Si cerca pertanto di mettere in atto – di “sbloccare” – una risposta naturale, fisiologica del corpo che può avvenire solo al di là del controllo cosciente dell’individuo. Al movimento autonomo di tali muscoli ne consegue un loro parziale rilassamento che è spesso accompagnato anche dal riemergere in maniera gestibile di immagini o di memorie legate alle esperienze emotivamente significative. La conseguente riduzione del livello di arousal porta a uno stato vigile e tranquillo percepito globalmente come un’esperienza piacevole, motivante e rinforzante.

Riccardo ci vuoi dare qualche informazione in più in termini neuroscientifici, relativamente a questo metodo?

Il trauma o lo stress ripetuto frammenta la mappa originale interna del nostro corpo, per cui il nostro cervello si riorganizzerà in una maniera non ottimale, anche disconoscendo alcune parti di se fino a creare l’esperienza di vivere in modo disgregato e disorganizzato il nostro corpo e le nostre emozioni. Quando si attiva la vibrazione miofasciale si produce un nuovo stimolo al cervello che permette una corretta riorganizzazione delle vie nervose.

Sono almeno tre i meccanismi neurologici che contribuiscono a tale processo:
L’attività propriocettiva dei fusi muscolari durante la vibrazione muscolare genera un importante flusso di informazioni dai recettori muscolari e tendinei, attraverso i nervi periferici, alla corteccia cerebrale nella zona associativa e somatosensitiva. La stimolazione delle terminazioni libere ampiamente rappresentate negli strati interconnettivali della fascia stimola ulteriormente e più a lungo le vie sensoriali ascendenti. Soprattutto quando lo scuotimento corporeo interessa la zona addominale e toracica si amplifica la stimolazione delle vie proprie della interocezione (si intende con questo termine la percezione delle informazioni “interne”, quali il respiro, la peristalsi gastrointestinale, il senso di fame e sazietà, ma anche la cognizione del dolore e delle altre emozioni). Infine, si presuppone che anche l’attivazione degli archi riflessi tra vie sensoriali e motorie dei muscoli striati, che si interfacciano nel midollo spinale, crei un ulteriore stimolo midollare che viene convogliato prontamente al tronco dell’encefalo e da li al resto del cervello.

Per mezzo di registrazioni elettroencefalografiche ho potuto misurare le modificazioni dei ritmi cerebrali stimolate dalla fase attiva della vibrazione muscolare involontaria; dimostrando anche che tali modificazioni perduravano nel tempo post-vibrazione. Il cambiamento di alcuni ritmi corticali (nello specifico incrementi significativi del ritmo alpha, gamma, e del ritmo sensorimotorio nelle cortecce e centrali e parietali) mi hanno permesso di validare come la pratica del metodo abbia un forte effetto di stimolazione a livello corticale in un senso che è contrario rispetto a quelle modificazione che solitamente si osservano nelle persone diagnosticate con il PTSD. Questa potrebbe essere una delle principali ragioni del successo del metodo. La vibrazione miofasciale indotta dagli esercizi rappresenta quindi un importante intervento di stimolazione endogena di gran parte del sistema nervoso centrale e specialmente di quelle aree la cui corretta funzionalità permette alla persona di percepire con maggior efficacia e accuratezza il proprio corpo. In questo modo si viene ad instaurare un maggiore senso di connessione tra mente e corpo, migliorando la stabilità emotiva del soggetto.

Riccardo, quali sono i punti di forza e limiti di questo approccio metodologico?

È un metodo particolarmente utile quando la persona desidera partecipare attivamente al processo di cura personale e sviluppare le proprie risorse interiori. Può essere proposto e utilizzato in modi diversi a seconda delle finalità e della fase del processo terapeutico. Una possibilità è quella di proporlo come esercizio di rilassamento per aiutare a risolvere o migliorare un determinato sintomo come l’insonnia o il dolore articolare. Il metodo può essere utilizzato, come gli esercizi di base della bioenergetica, anche per aumentare il radicamento a terra e per prendere coscienza e sciogliere la corazza muscolare. 

La sessione di tremore potrebbe poi offrire l’opportunità sia al paziente che al terapeuta di comprendere come la persona senta e si relazioni al proprio corpo e dunque, su un piano simbolico, come stia al mondo, con quali bisogni e modalità. Sentire il piacere o al contrario il timore di un movimento spontaneo nel corpo, osservare come, sotto forma di vibrazione, ci siano delle parti di esso nelle quali l’energia fluisce liberamente e altre in cui si blocca, imparare a gestire le pause nel corso della sessione o la sua durata complessiva, raccogliere i vissuti legati al passaggio dalle esperienze di tremore condotte dal terapeuta a quelle svolte in autonomia a casa, sono alcune delle esperienze che aprono territori di ulteriore approfondimento. 

Altri punti di forza ritengo siano il fatto non sia strettamente necessario un contatto fisico col il paziente, fattore importante nel caso si dovesse lavorare su traumi legati alla sfera sessuale. Inoltre il metodo può essere agilmente implementato in un contesto di gruppo rendendolo quindi uno strumento versatile anche di primo intervento sul campo, specialmente quando il trauma colpisce un ampio numero di persone, come ad esempio nel caso di un terremoto.

È frequente però che ad un osservatore esperto le prime esperienze di tremore indotte con il TRE appaiano meccaniche, “muscolari”: la persona è alle prese con una nuova espressione motoria, un pó riesce a lasciarsi andare e un pó sente la necessita di mantenersi saldamente in controllo. Il soggetto è come se fosse “combattuto”: appare così concentrato e desideroso di “eseguire il giusto modo di tremare” che invece di lasciarsi andare trattiene involontariamente tutto il corpo in una postura rigida, che faticosamente vibra per effetto di quello sforzo. Perdere il controllo, anche se solo per un breve istante, equivale a farci sentire privati di un supporto e di conseguenza a disagio. Pertanto, nonostante il TRE sia nato come metodo autosomministrato, specialmente nella fase iniziale di pratica è invece importante avere uno sguardo competente che sappia guidare e accompagnare anche al fine di evitare la sovrastimolazione del sistema nervoso, quindi contenendo il livello di stimolazione entro limiti appropriati.
Sensazioni ed emozioni eccessive non sono sempre utili al fine di rimodulare efficacemente le nostre risposte automatiche; solo riconducendo costantemente la persona ad una esperienza più focalizzata e profonda, assistendola nell’attivare un movimento spontaneo autentico, focalizzandone l’interocezione e calibrando i tempi con opportune pause di integrazione, si farà sì che la persona si senta accompagnata e al sicuro nell’esperienza di lasciarsi andare al tremore. Solo allora il suo sistema nervoso potrà veramente integrare le energie in eccesso e ripristinare in maniera duratura una condizione di rilassamento fisico e mentale.

Riccardo, quali sono i migliori autori e le fonti principali attraverso cui approfondire questa metodologia?

La vibrazione muscolare come meccanismo di reset psico-fisico è trattata esaustivamente nei testi di psicoterapia bioenergetica di Wilhelm Reich e di Alexander Lowen. Ci sono molti aspetti in comune con quanto applicato nel TRE e alcune delle differenze si identificano forse nella maggiore attenzione che nel TRE si pone sulla componente neurofisiologica rispetto a quella psicologica. Questa maggiore attenzione alla componente fisiologica è coerente con le metodiche sviluppate da Peter Levine, Pat Odgen, Bessel Van der Kolk. I libri di David Berceli (che si trovano online principalmente in lingua inglese) sono un buono strumento per iniziare a comprendere sia le basi applicative del metodo e sia la complessità della sua applicazione. Ulteriori informazioni si possono anche trovare sul nostro sito dedicato www.metodotreitalia.com

Qui una presentazione di Riccardo Cassiani Ingoni. Sul metodo TRE, questo libro rappresenta un ottimo punto di partenza.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale / interviste, ptsd

17 January 2022

LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti)

di Antonio Onofri, Giovanni Liotti

PREMESSA #1: questo articolo è tratto dai volumi Cecilia La Rosa e Antonio Onofri (a cura di): Dal basso in alto (e ritorno). Nuovi approcci bottom-up: terapia cognitiva, corpo, EMDR, ApertaMenteWeb, Roma 2017 e da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (a cura di): Il corpo nell’EMDR. Dal basso in alto (e ritorno): casi clinici. ApertaMenteWeb, Roma 2021. Per gentile concessione di www.ApertaMenteWeb.com

PREMESSA #2: su questo blog abbiamo diffusamente parlato di sindromi post traumatiche e teorie bottom-up: il materiale riguardante le sindromi post-traumatiche è consultabile qui

Le emozioni e i processi primari e secondari secondo Panksepp

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una trasformazione del modello generale con il quale le moderne neuroscienze che studiano i processi emozionali negli animali e negli esseri umani considerano l’evoluzione della mente. Sempre maggiore attenzione viene prestata all’idea che lo sviluppo evoluzionistico proceda “dal basso verso l’alto” (bottom- up) secondo una concezione gerarchica dell’organizzazione cerebrale in maniera almeno complementare all’evoluzione del controllo “dall’alto verso il basso” esercitato dalle strutture cerebrali superiori su quelle inferiori (Panksepp e Biven 2012).

Una tale visione – e i dati offerti dalla ricerca scientifica – sembrerebbe confermare alcune antiche intuizioni sulle interazioni mente-corpo e suggerire l’abbandono di ogni rigida dicotomia tra lo studio delle malattie fisiche e quello dei disturbi emotivi. Le nuove prospettive bottom-up, che questo volume si ripropone di illustrare e descrivere, sembrano infatti ribaltare la concezione interpretativa, valutativa e quindi prettamente cognitiva delle emozioni, almeno per quanto riguarda quei processi emotivi che Panksepp e Biven (2012) considerano primari, ancestrali, quasi – istintuali e localizzati nel cervello più antico, strettamente connessi a funzioni di sopravvivenza (e riproduzione). Proprio questi processi emozionali primari, del resto, sembrano prendere il sopravvento in non poche condizioni psicopatologiche. “Quando gli affetti hanno la meglio, la cura della parola è destinata a fallire in quanto il metodo interpretativo, lo strumento psicoterapeutico cardine, può essere spesso inefficace nei confronti delle nostre passioni primitive.” (Panksepp 2012). Se è vero infatti che come esseri umani possediamo espansioni cerebrali di livello superiore che ci permettono di pensare in maniera approfondita e di riflettere sulla nostra natura, per molte persone in molte condizioni, e per molti pazienti che presentano disturbi psichiatrici, le emozioni non appaiono certo sotto il controllo completo della mente superiore. Tanto che proprio tale osservazione rende spesso necessario il ricorso alle terapie farmacologiche, più in grado – anche se certamente in maniera ancora molto grossolana – di arrivare a questi processi emotivi “più bassi”.

Sembra riemergere, nelle sopra menzionate considerazioni, una concezione decisamente gerarchica non solo del cervello, ma anche delle stesse emozioni. Per esempio, Panksepp e Biven (2012) leggono le risposte emozionali quasi – istintive in termini di esperienze psicologiche di processo primario, che in un secondo momento si unirebbero a una varietà di meccanismi di memoria e apprendimento chiamati processi secondari del cervello. I processi mentali di ordine ancora superiore, al vertice dell’attività cerebrale, son quelli che permettono di riflettere sui dati dell’esperienza e dell’apprendimento e vengono chiamati processi terziari. Secondo una tale visione, né le abilità cognitive, né la capacità di pensare in termini verbali sono considerate condizioni necessarie per una coscienza di tipo affettivo. “Nel sentire i nostri stati affettivi – sono ancora Panksepp e Biven che scrivono – non abbiamo bisogno di sapere che cosa stiamo sentendo. In altre parole, i sentimenti emotivi di processo primario sono affetti grezzi che prendono automaticamente decisioni importanti per noi”. Le reazioni corporee, sia di tipo viscerale sia motorie, sembrano in grado di influenzare – e spesso rafforzare – le stesse esperienze emotive primarie. Nel costituirsi e nell’esprimersi delle emozioni sembra dunque imprescindibile la considerazione di aspetti gerarchici della struttura e delle funzioni del cervello/mente.

La concezione gerarchica del cervello secondo J.H.Jackson

Una prima compiuta concezione gerarchica delle strutture e funzioni del cervello/mente, formulata in accordo con l’allora nascente pensiero evoluzionistico, è legata al nome di John Hughlings Jackson (per un’antologia degli scritti di Jackson, vedi Taylor 1958). Una breve sintesi della teoria di Jackson può essere utile per cogliere alcuni aspetti cruciali della sua concezione gerarchica, che mai ha cessato di influenzare neurologia e psichiatria (Franz e Gillett 2011).

Le applicazioni del pensiero di Darwin allo studio del cervello/mente, precedenti all’opera di Jackson, sostenevano che le strutture cerebrali di specie evoluzionisticamente più antiche venissero sostituite da nuove strutture nel corso dell’evoluzione di specie più recenti. Jackson sostenne, al contrario, che le strutture più evoluzionisticamente recenti del cervello si stratificano su una base costituita dalle strutture più antiche, le quali dunque permangono, con mutamenti soltanto secondari e limitati, nel nevrasse di specie più recenti. Secondo Jackson, le funzioni delle strutture cerebrali più antiche vengono rappresentate di nuovo nelle reti neurali più recenti (neostrutture), le quali così permettono forme di elaborazione dell’informazione più articolate e flessibili. Non solo le strutture neurali più evoluzionisticamente antiche non scompaiono dai cervelli delle specie più recenti, ma esse continuano a elaborare input informativi dai quali dipendono le funzioni delle neostrutture. Di grande importanza è anche l’idea Jacksoniana che le strutture evoluzionisticamente recenti esercitino funzioni di controllo e inibizione su quelle più arcaiche. Infine, le strutture più recenti sarebbero anche le più sensibili a “dissolversi” (dissolution o de-evolution, nella terminologia di Jackson), in modo contingente, di fronte a influenze ambientali patogene. Le manifestazioni conseguenti alla dissoluzione delle funzioni cerebrali superiori (evoluzionisticamente recenti) sarebbero espressione dell’attività delle funzioni inferiori (evoluzionisticamente più antiche) che, non più controllate e rese flessibili dalle superiori, appaiono come automatismi sregolati (Jackson 1884/1958).

Le concezioni evoluzionistiche di Jackson si sono rivelate influenti in psicopatologia per oltre un secolo, e lo sono ancora. Per esempio, il concetto di dissoluzione è stato usato recentemente per comprendere le risposte dissociative ai traumi psicologici (Farina et al. 2015; Meares 1999, 2012) e – classicamente – per distinguere, nella schizofrenia, i sintomi positivi da quelli negativi (Berrios 1985). Tutte queste influenze sulla psicopatologia del pensiero di Jackson sono riconducibili all’attenta considerazione, da parte del neurologo inglese, dell’intreccio continuo di processi che vanno dal basso verso l’alto (bottom-up) e – ricorsivamente – dall’alto verso il basso (top-down) nel complesso sistema gerarchico che l’evoluzione avrebbe progressivamente selezionato nel “costruire” il cervello/mente umano.

L’attività mentale secondo Pierre Janet e Sigmund Freud

Continuando a rivolgere la nostra attenzione alle radici storiche della moderna psicotraumatologia, appare interessante ricordare come una delle principali critiche rivolte da Pierre Janet alla teoria di Freud, riguardante la concezione dei rapporti fra attività mentali coscienti e sub-coscienti (o inconsce, nella teoria psicoanalitica) potrebbe essere meglio apprezzata, nel linguaggio delle neuroscienze contemporanee, proprio considerando la diversa attenzione prestata da parte dei due Autori ai processi top-down e bottom-up. Janet riteneva, nell’ipotizzare la genesi della dissociazione post-traumatica, che si trattasse soprattutto di un processo bottom-up procedente dai livelli inferiori della mente e del cervello verso i livelli superiori (autocoscienza e neocorteccia). Freud, invece, si mostrava più interessato, nella sua teoria psicopatologica, a descrivere i meccanismi che avanzerebbero in senso inverso, top-down (Liotti e Farina 2013). Per Freud erano infatti i livelli superiori della mente, connessi alle funzioni dell’Io, a mettere in atto l’esclusione difensiva dall’auto-coscienza delle emozioni e degli altri contenuti mentali disturbanti, che venivano così a collocarsi in un livello inferiore, inconscio, di attività mentale (Liotti 2014).

Janet affermava che i processi più alti della coscienza umana, cioè quelli più caratterizzati dall’esercizio attivo della volontà e della libertà, si pongono al vertice di una gerarchia di sistemi mentali e cerebrali i cui livelli inferiori risulterebbero di fatto automatici (parlava infatti di automatismi psicologici, Janet 1898). I livelli superiori, che richiedono un’elevata quantità di tensione psicologica (come Janet chiamava l’energia mentale) subirebbero, in altre parole, l’influenza disaggregante dei livelli inferiori, automatici, sottoposti al trauma. Gli effetti di questo fenomeno sarebbero l’esaurimento di quella tensione psicologica necessaria per un efficace funzionamento dell’autocoscienza, e di conseguenza un funzionamento mentale privo di coscienza riflessiva (sub-cosciente), con la comparsa dei diversi automatismi psicologici tipici dei sintomi dissociativi post-traumatici. In altre parole, secondo Janet, i processi mentali legati a memorie traumatiche farebbero emergere gli automatismi mentali normalmente celati dalle funzioni caratterizzanti la coscienza integra cui Janet (1907) attribuiva quelle attività che denominava come sintesi personale (coscienza piena dell’Io), funzione di realtà e presentificazione (in sostanza, la capacità di distinguere il passato dal presente e l’immaginazione dalla realtà).

Riassumendo al massimo, potremmo dire che secondo il sistema gerarchico delle funzioni di coscienza proposto da Janet, la funzione di realtà e la presentificazione costituiscano i livelli superiori, la sintesi personale un livello intermedio, e gli automatismi sub-coscienti i livelli inferiori. L’eccesso di tensione psicologica nei livelli inferiori della gerarchia (di cui l’esempio prototipico sono le emozioni veementi attivate dalle memorie traumatiche) porterebbe così all’esaurimento della tensione anche nei livelli superiori, e quindi all’emergere degli automatismi in uno stato soggettivo di coscienza alterata. Ecco emergere chiaramente, da questa sintesi, l’importanza che Janet attribuiva ai processi bottom-up nella genesi della sintomatologia post- traumatica.

Freud, invece, sottolineava come fossero le funzioni dell’Io a generare le influenze patogene, attraverso l’esclusione difensiva dalla coscienza di impulsi ed emozioni e la formazione dell’Inconscio proprio come conseguenza della rimozione, privilegiando così i processi top-down nello spiegare l’origine dei sintomi (sia quelli legati a memorie di eventi traumatici sia quelli più generali legati a conflitti interiori fra le esigenze dell’Es e quelle del Super-Io).

Il sistema di difesa secondo Stephen Porges

Le ricerche e le teorie attuali proposte dalla psicofisiologia – e applicabili al campo di studi ormai comunemente denominato come psicotraumatologia – sembrerebbero accordarsi maggiormente con la prospettiva di Janet rispetto a quella di Freud. Tra i contributi più importanti della psicofisiologia a questo riguardo citiamo la teoria polivagale (Porges 2011), secondo la quale le reazioni dell’organismo di fronte a eventi che ne minacciano la vita o l’integrità sono regolate da un sistema neurobiologico localizzato nel tronco encefalico che coinvolge le strutture del sistema nervoso vegetativo, e cioè da un lato la rete neurale centrale che controlla il sistema ortosimpatico e dall’altro il nucleo del vago (parasimpatico) con la sua bipartizione (i complessi vagali dorsale e ventrale) (per le implicazioni cliniche della teoria polivagale cfr. anche il capitolo 7, di Gabriella Giovannozzi , in questo stesso volume).

Le ricerche che utilizzano la teoria polivagale suggeriscono che l’attivazione del sistema di difesa dai pericoli ambientali, durante l’esposizione a un evento traumatico e probabilmente anche durante la sua rievocazione nella memoria, potrebbe influenzare proprio “dal basso in alto” le strutture e le funzioni cerebrali superiori (proponendo quindi una visione concorde con quella proposta da Janet) più di quanto queste ultime influenzino il sistema di difesa. Si spiegherebbero forse così, cioè con un’azione bottom-up esercitata dal sistema di difesa dai pericoli ambientali, anche l’ipometabolismo della corteccia frontale durante la rievocazione di memorie traumatiche e l’utilità di molti approcci terapeutici come quelli descritti nei diversi capitoli di questo volume (dall’EMDR, alla mindfulness, alla terapia sensomotoria etc.) che utilizzano grandemente i processi bottom-up, e non solo top-down, nella psicoterapia soprattutto delle reazioni post-traumatiche complesse caratterizzate da quote importanti di dissociazione. In altre parole, l’attivazione del sistema di difesa dai pericoli ambientali – localizzato nel tronco encefalico – eserciterebbe da un lato profondi effetti sull’esperienza corporea (mediata dall’ortosimpatico e dal parasimpatico) e dall’altra genererebbe quella particolare percezione e coscienza di sé – di tipo dissociativo – che si accompagna alle suddette disfunzioni corticali.

Anche queste nuove acquisizioni sembrerebbero confermare l’idea di Janet, secondo il quale la risposta disfunzionale al trauma psicologico, una volta che si sia in presenza di una particolare vulnerabilità del Sistema Nervoso, sia sostanzialmente l’effetto della cosiddetta emozione veemente (che potremmo considerare in sostanza come un’emozione primaria di eccezionale intensità, se preferissimo utilizzare il più moderno linguaggio di Panksepp) sulle funzioni mentali superiori della coscienza. La risposta patologica al trauma psicologico, in altre parole, andrebbe considerata, secondo Janet, come un deficit funzionale della coscienza causato direttamente dalla memoria traumatica. Tale visione diverge profondamente dalla proposta freudiana, secondo il quale la patologia post-traumatica sarebbe invece l’effetto di un’attività difensiva da parte dell’Io, volta a escludere dalla coscienza emozioni e rappresentazioni avvertite come inaccettabili.

Sullo stesso tema, infatti, Janet – parlando delle sue prime osservazioni cliniche (precedenti al 1894) -scriveva: “… il ricordo traumatico non poteva essere espresso durante la veglia e si presentava solo in condizioni particolari in un altro stato psicologico … [uno stato] … di modificazione della coscienza che avevo cercato di descrivere … come subcoscienza per disgregazione [désagrégation] … Questa dissociazione … mi sembrava in relazione con l’esaurimento provocato da cause diverse e in particolare dall’emozione.” (Janet 1923, tr. it. p. 37). Janet, nel contrapporre la propria prospettiva a quella di Freud, usava le seguenti parole: “il Dr Sigmund Freud … considerò come una rimozione quel che io attribuivo a un restringimento della coscienza … ma soprattutto trasformò un’osservazione clinica e un procedimento terapeutico con indicazioni precise e limitate in uno smisurato sistema di filosofia medica.” (Janet 1923, tr. it. p. 38).

La differenza fra l’idea che in persone particolarmente vulnerabili la coscienza possa subire più o meno passivamente una sorta di “esaurimento”, cioè un patologico restringimento delle sue attività (il “sub-cosciente” secondo Janet), come effetto di eventi o di ricordi traumatici, e l’idea secondo la quale si tratti invece di un’attiva operazione mentale di tipo prettamente difensivo nella genesi della dissociazione post-traumatica, appare ancora più chiara se si confrontano le seguenti parole di Freud con quelle appena citate di Janet: “… mi è più volte riuscito di dimostrare che la scissione del contenuto di coscienza è la conseguenza di un atto di volontà del malato, e che cioè essa è indotta da uno sforzo di volontà la cui motivazione è comunque rintracciabile.” (Freud 1894, tr. it. 1968, p. 121).

Liotti (2014) ricorda come la teoria secondo la quale la dissociazione post-traumatica sia una difesa dal dolore mentale (nel senso di un’operazione psichica in qualche modo voluta, anche se inconscia) è stata certamente predominante nel campo della psicotraumatologia, anche oltre l’ambiente psicodinamico. Tuttavia, anche in ambito psicoanalitico sono state espresse alcune importanti perplessità su questa teoria, sia indirettamente (Lyons-Ruth 2008) sia direttamente (Howell 2011, 35-36; Meares 2012, 139-147), su basi sia cliniche sia di ricerca.. Tali perplessità hanno portato ormai diversi psicoanalisti a riflettere sulla possibilità che esista un importante aspetto della dissociazione post-traumatica non inquadrabile come attivamente difensivo, bensì automatico, proprio come riteneva Janet, che almeno si affiancherebbe a quello più tipicamente difensivo ipotizzato da Freud (vedi, per esempio, Craparo 2013). In ambito non psicoanalitico, invece, prospettive teoriche e terapeutiche fondate esplicitamente sulle tesi di Janet molto di più che su quelle di Freud sono facilmente reperibili anche in italiano (solo per citarne alcuni, Liotti e Farina 2011; Ogden, Pain, Fisher 2006a; van der Hart, Nijenhuis, Steele 2006).

I contributi della psicologia sperimentale

Come abbiamo già detto, i risultati di un ormai significativo numero di ricerche sperimentali, sia nell’ambito della psicologia generale, sia delle neuroscienze, sembrano convergere nell’affermare la sostenibilità (se non altro parziale) della tesi janetiana sulla natura primaria – cioè non secondaria a una “volontà” difensiva nel senso inteso da Freud – del restringimento del campo di coscienza come risposta a un trauma psicologico. A tale proposito, possiamo ricordare come l’esperimento effettuato da Horowitz e Telch (2007) abbia fornito risultati sostanzialmente incompatibili con l’idea che gli stati dissociativi (equivalenti al restringimento del campo di coscienza o al sub- cosciente della terminologia janetiana) possano ricoprire una valenza

protettiva nei confronti di esperienze dolorose. I partecipanti all’esperimento di Horowitz e Telch, ai quali veniva indotto uno stato dissociativo mediante una stimolazione pulsante audio-visiva, riportavano una maggiore risposta dolorosa durante l’immersione della mano in acqua ghiacciata rispetto a quelli in uno stato di coscienza più usuale: un risultato assolutamente in contrasto con l’ipotesi che la dissociazione funga da protezione dal dolore. L’unico modo per conciliare questo tipo di risultati con quelli provenienti da altri studi sperimentali, che invece mostrerebbero una certa correlazione fra stati mentali dissociativi e analgesia, consiste nel ricorrere nuovamente a quanto andiamo scoprendo relativamente al sistema cerebrale deputato a gestire le minacce ambientali e il dolore conseguenti a un trauma (Porges 2011). Tale sistema sembrerebbe infatti operare oscillando alternativamente fra una iperattivazione neurovegetativa (l’hyperarousal mediato dall’ortosimpatico), come nell’esperimento di Horowits e Telch, che può amplificare la paura e il dolore, e una ipoattivazione (l’hypoarousal mediato dal vago) che invece può essere correlata all’ottundimento del sensorio e pertanto a una certa analgesia. Entrambe queste modalità operative comportano quel che Janet avrebbe chiamato restringimento del campo di coscienza e abbassamento del livello mentale (Janet 2016).

Possiamo ormai disporre di un certo numero di ricerche, provenienti dal campo di studio delle neuroscienze, che sembrerebbero confermare l’idea che vi sia un diretto e passivo abbassamento del livello mentale generale, più che un’attività difensiva intrapsichica, come risposta a traumi o a ricordi traumatici (per una rassegna, vedi Liotti e Farina 2013). Diversi studi sperimentali hanno infatti mostrato un ipometabolismo, come conseguenza dell’attivazione di ricordi traumatici, nelle stesse zone della corteccia cerebrale deputate sia ad azioni che comportano attivi “sforzi di volontà” da parte dell’Io (secondo la visione di Freud), sia alle funzioni mentali superiori della coscienza. Pertanto, un tale ipometabolismo sembra corrispondere di più alla visione janetiana di un restringimento del campo di coscienza e di un abbassamento del livello mentale generale che non all’idea freudiana di un motivato “sforzo di volontà”, seppur inconscio (Liotti e Farina 2013): come potrebbe infatti uno sforzo di volontà corrispondere a un ipometabolismo proprio in quelle zone corticali del cervello che dovrebbero essere più impegnate negli atti di volontà?

Considerazioni analoghe, relative alla compatibilità tra le tesi di Janet e i risultati delle neuroscienze sperimentali, potrebbero essere avanzate a proposito dei dati provenienti da quelle ricerche che utilizzano, in condizioni patologiche connesse alla dissociazione post-traumatica, la rilevazione dell’attività bioelettrica della corteccia cerebrale al posto dell’indagine di variabili metaboliche. Una di queste ricerche dimostra, attraverso la rilevazione dei potenziali evocati, un deficit nella “sintesi” dell’onda P300, che si presenta normalmente unitaria (Meares 2012), e che invece non riuscirebbe a raggiungere la “sintesi” nelle patologie post-traumatiche, restando quindi sdoppiata nelle sue due componenti (una prevalentemente frontale e una seconda prevalentemente parietale).

In conclusione, ecco quindi che appare se non altro ragionevole affiancare, al tradizionale studio dei processi mentali e degli interventi clinici ascrivibile al campo denominabile come top-down, anche l’indagine dei fenomeni mentali bottom-up e – parallelamente – degli strumenti terapeutici in grado di facilitare cambiamenti “dal basso in alto” delle funzioni mentali di ordine superiore. E’ proprio questo tema che i curatori del presente volume, attraverso i diversi contributi presentati, hanno voluto indagare.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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  • L’eredità teorica di Giovanni Liotti 31 March 2023
  • “UN RITMO PER L’ANIMA”, TARANTISMO E DINTORNI 7 March 2023
  • SUICIDIO: SPUNTI DAL LAVORO DI MAURIZIO POMPILI E EDWIN SHNEIDMAN 9 January 2023
  • SUPERHERO THERAPY. INTERVISTA A MARTINA MIGLIORE 5 December 2022
  • Allucinazioni nel trauma e nella psicosi. Un confronto psicopatologico 26 November 2022
  • FUGA DI CERVELLI 15 November 2022
  • PSICOTERAPIA DELL’ANSIA: ALCUNI SPUNTI 7 November 2022
  • LA Q DI QOMPLOTTO 25 October 2022
  • POPMED: UN ESEMPIO DI NEWSLETTER 12 October 2022
  • INTERVISTA A MAURO BOLOGNA, PRESIDENTE SIPNEI 10 October 2022
  • IL “MANUALE DELLE TECNICHE PSICOLOGICHE” DI BERNARDO PAOLI ED ENRICO PARPAGLIONE 6 October 2022
  • POPMED, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO IN AREA “PSI”. PER TORNARE ALLA FONTE 30 September 2022
  • IL CONVEGNO SIPNEI DEL 1 E 2 OTTOBRE 2022 (FIRENZE): “LA PNEI NELLA CLINICA” 20 September 2022
  • LA TEORIA SULLA NASCITA DEL PENSIERO DI WILFRED BION 1 September 2022
  • NEUROFEEDBACK: INTERVISTA A SILVIA FOIS 10 August 2022
  • La depressione come auto-competizione fallimentare. Alcuni spunti da “La società della stanchezza” di Byung Chul Han 27 July 2022
  • SCOPRIRE LA SIPNEI. INTERVISTA A FRANCESCO BOTTACCIOLI 6 July 2022
  • PERFEZIONISMO: INTERVISTA A VERONICA CAVALLETTI (CENTRO TAGES ONLUS) 6 June 2022
  • AFFRONTARE IL DISTURBO DISSOCIATIVO DELL’IDENTITÁ 28 May 2022
  • GARBAGE IN, GARBAGE OUT.  INTERVISTA FIUME A ZIO HACK 21 May 2022
  • PTSD: ALCUNE SLIDE IN FREE DOWNLOAD 10 May 2022
  • MANAGEMENT DELL’INSONNIA 3 May 2022
  • “IL LAVORO NON TI AMA”: UN PODCAST SULLA HUSTLE CULTURE 27 April 2022
  • “QUI E ORA” DI RONALD SIEGEL. IL LIBRO PERFETTO PER INTRODURSI ALLA MINDFULNESS 20 April 2022
  • Considerazioni sul trattamento di bambini e adolescenti traumatizzati 11 April 2022
  • IL COLLASSO DEL CONTESTO NELLA PSICOTERAPIA ONLINE 31 March 2022
  • L’APPROCCIO “OPEN DIALOGUE”. INTERVISTA A RAFFAELLA POCOBELLO (CNR) 25 March 2022
  • IL CORPO, IL PANICO E UNA CORRETTA DIAGNOSI DIFFERENZIALE: INTERVISTA AD ANDREA VALLARINO 21 March 2022
  • RECENSIONE: L’EREDITÁ DI BION (A CURA DI ANTONIO CIOCCA) 20 March 2022
  • GLI PSICHEDELICI COME STRUMENTO TRANSDIAGNOSTICO DI CURA, IL MODELLO BIPARTITO DELLA SEROTONINA E L’INFLUENZA DELLA PSICOANALISI 7 March 2022
  • FOTOTERAPIA: JUDY WEISER e il lavoro con il lutto 1 March 2022
  • PLACEBO E DOLORE: IL POTERE DELLA MENTE (da un articolo di Fabrizio Benedetti) 14 February 2022
  • INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD 3 February 2022
  • SPIDER, CRONENBERG 26 January 2022
  • LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti) 17 January 2022
  • 24 MESI DI PSICOTERAPIA ONLINE 10 January 2022
  • LA TOSSICODIPENDENZA COME TENTATIVO DI AMMINISTRARE LA SINDROME POST-TRAUMATICA 7 January 2022
  • La Supervisione strategica nei contesti clinici (Il lavoro di gruppo con i professionisti della salute e la soluzione dei problemi nella clinica) 4 January 2022
  • PSICHEDELICI: LA SCIENZA DIETRO L’APP “LUMINATE” 21 December 2021
  • ASYLUMS DI ERVING GOFFMAN, PER PUNTI 14 December 2021
  • LA SINDROME DI ASPERGER IN BREVE 7 December 2021
  • IL CONVEGNO DI SAN DIEGO SULLA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI (marzo 2022) 2 December 2021
  • PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA E DEEP BRAIN REORIENTING. INTERVISTA A PAOLO RICCI (AISTED) 29 November 2021
  • INTERVISTA A SIMONE CHELI (ASSOCIAZIONE TAGES ONLUS) 25 November 2021
  • TRAUMA: IMPOSTAZIONE DEL PIANO DI CURA E PRIMO COLLOQUIO 16 November 2021
  • TEORIA POLIVAGALE E LAVORO CON I BAMBINI 9 November 2021
  • INTRODUZIONE A BYUNG-CHUL HAN: IL PROFUMO DEL TEMPO 3 November 2021
  • IT (STEPHEN KING) 27 October 2021
  • JUDITH LEWIS HERMAN: “GUARIRE DAL TRAUMA” 22 October 2021
  • ANCORA SU PIERRE JANET 15 October 2021
  • PSICONUTRIZIONE: IL LAVORO DI FELICE JACKA 3 October 2021
  • MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI: LE STRATEGIE DI CONTROLLO IN INFANZIA (PTSDc) 30 September 2021
  • OVERLOAD COGNITIVO ED ECOLOGIA MENTALE 21 September 2021
  • UN LUOGO SICURO 17 September 2021
  • 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD 13 September 2021
  • UN LIBRO PER L’ESTATE: “COME ANNOIARSI MEGLIO” DI PIETRO MINTO 6 August 2021
  • “I fondamenti emotivi della personalità”, JAAK PANKSEPP: TAKEAWAYS E RECENSIONE 3 August 2021
  • LIFESTYLE PSYCHIATRY 28 July 2021
  • LE DIVERSE FORME DI SINTOMO DISSOCIATIVO 26 July 2021
  • PRIMO LEVI, LA CARCERAZIONE E IL TRAUMA 19 July 2021
  • “IL PICCOLO PARANOICO” DI BERNARDO PAOLI. PARANOIA, AMBIVALENZA E MODELLO STRATEGICO 14 July 2021
  • RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE” 8 July 2021
  • I VIRUS: IL LORO RUOLO NELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE 7 July 2021
  • LA PLUSDOTAZIONE SPIEGATA IN BREVE 1 July 2021
  • COS’É LA COGNITIVE PROCESSING THERAPY? 24 June 2021
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE 19 June 2021
  • É USCITO IL SECONDO EBOOK PRODOTTO DA AISTED 15 June 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche -con il blog Psicologia Fenomenologica. 7 June 2021
  • PSICHIATRIA DI COMUNITÁ: LA SCELTA DI UN METODO 31 May 2021
  • PTSD E SPAZIO PERIPERSONALE: DA UN ARTICOLO DI DANIELA RABELLINO ET AL. 26 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI 22 May 2021
  • MDMA PER IL PTSD: NUOVE EVIDENZE 21 May 2021
  • MAP (MULTIPLE ACCESS PSYCHOTHERAPY): IL MODELLO DI PSICOTERAPIA AD APPROCCI COMBINATI CON ACCESSO MULTIPLO DI FABIO VEGLIA 18 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO GRATUITO ONLINE (21 MAGGIO) 13 May 2021
  • BALBUZIE: COME USCIRNE (il metodo PSICODIZIONE) 10 May 2021
  • PANICO: INTERVISTA AD ANDREA IENGO (PANICO.HELP) 7 May 2021
  • Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP) 4 May 2021
  • SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO. Liberalizzare come terapia: il problema dell’autocontrollo in clinica 30 April 2021
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO” 25 April 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche 25 April 2021
  • 3 STRUMENTI CONTRO IL TRAUMA (IN BREVE): TAVOLA DISSOCIATIVA, DISSOCIAZIONE VK E CAMBIO DI STORIA 23 April 2021
  • IL MALADAPTIVE DAYDREAMING SPIEGATO PER PUNTI 17 April 2021
  • UN VIDEO PER CAPIRE LA DISSOCIAZIONE 12 April 2021
  • CORRELATI MORFOLOGICI E FUNZIONALI DELL’EMDR: UNA PANORAMICA SULLA NEUROBIOLOGIA DEL TRATTAMENTO DEL PTSD 4 April 2021
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE IN ETÁ EVOLUTIVA: (VIDEO)INTERVISTA AD ANNALISA DI LUCA 1 April 2021
  • GLI EFFETTI POLARIZZANTI DELLA BOLLA INFORMATIVA. INTERVISTA A NICOLA ZAMPERINI DEL BLOG “DISOBBEDIENZE” 30 March 2021
  • SVILUPPARE IL PENSIERO LATERALE (EDWARD DE BONO) – RECENSIONE 24 March 2021
  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE 22 March 2021
  • 8 LIBRI FONDAMENTALI SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 14 March 2021
  • VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA 7 March 2021
  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD 2 March 2021
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA 25 February 2021
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1) 21 February 2021
  • FLOW: una definizione 15 February 2021
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD) 8 February 2021
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI 3 February 2021
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA 1 February 2021
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION? 25 January 2021
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA) 15 January 2021
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO 11 January 2021
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT 6 January 2021
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO 2 January 2021
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum) 28 December 2020
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI 18 December 2020
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti 14 December 2020
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO 10 December 2020
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino 8 December 2020
  • COME GESTIRE UNA DIPENDENZA? 4 PIANI DI INTERVENTO 3 December 2020
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP 28 November 2020
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA 20 November 2020
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO) 16 November 2020
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm) 12 November 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento 7 November 2020
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING 2 November 2020
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING) 28 October 2020
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al. 24 October 2020
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO 21 October 2020
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO 18 October 2020
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè 13 October 2020
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 6 October 2020
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI 30 September 2020
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix 28 September 2020
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico 21 September 2020
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura” 15 September 2020
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI 27 August 2020
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza 26 August 2020
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO 7 August 2020
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO 31 July 2020
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia 27 July 2020
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO 20 July 2020
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF) 14 July 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI 2 May 2020
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE” 30 April 2020
  • FOBIE SPECIFICHE IN BREVE 25 April 2020
  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
  • LO STATO DELL’ARTE INTORNO ALLA DIMENSIONE SOCIALE DELLA MEMORIA: SUL MODO IN CUI SI E’ ARRIVATI ALLA CREAZIONE DEL CONCETTO DI RICORDO CONGIUNTO E SU QUANTO LA VITA RELAZIONALE INFLUENZI I PROCESSI DI SVILUPPO DELLA MEMORIA 25 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI! 22 April 2020
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA? 21 April 2020
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI 17 April 2020
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO 13 April 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3 10 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF! 6 April 2020
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI 4 April 2020
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO? 31 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2 27 March 2020
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT 25 March 2020
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO 16 March 2020
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI 12 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1 6 March 2020
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN 29 February 2020
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD 13 February 2020
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET 3 February 2020
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM 17 January 2020
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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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