• HOME
  • AREE TEMATICHE
    • #TRAUMA e #PTSD
    • #PANICO
    • #DOC
    • #TARANTISMO
    • #RECENSIONI
    • #PSICHEDELICI
    • #INTERVISTE
  • PSICOTERAPIA
  • PODCAST
  • CHI SIAMO
  • POPMED
  • PER SUPPORTARE IL BLOG

Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

8 May 2023

GLI PSICOFARMACI PER LO STRESS POST TRAUMATICO (PTSD)

di Paolo Calini, Raffaele Avico

Riguardo al trattamento farmacologico del Disturbo da stress post traumatico (PTSD), la letteratura internazionale è piuttosto ricca di lavori che purtroppo non arrivano, però, a conclusioni univoche. Mancano ancora delle linee guida supportate da evidenze chiare e soprattutto condivise dalla comunità scientifica.

Basti citare le linee guida, pubblicate nel 2014, dell’Anxiety Disorders Association of Canada che, curiosamente, reinseriscono il PTSD fra i disturbi d’ansia pur utilizzando il DSM 5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come strumento diagnostico – il DSM 5 ha riconosciuto dignità ed autonomia diagnostica al PTSD, scorporandolo dai disturbi d’ansia che tutte le precedenti edizioni del DSM, compreso il IV TR, gli avevano assegnato.

Questa indecisione nosografica è molto indicativa della scarsa chiarezza presente nella comunità scientifica internazionale al riguardo. In ogni caso, in queste linee guida fluoxetina, paroxetina e sertralina (SSRI) e venlafaxina (SNRI) vengono indicati come farmaci di prima scelta (ottenendo il livello 1 di evidenza nello studio metanalitico condotto dall’associazione Canadese); mentre trazodone viene considerato come farmaco di ultima scelta (livello 4).
In un altro studio metanalitico del 2011, gli autori evidenziano come trazodone sia particolarmente indicato nel trattamento farmacologico del PTSD, in significativo contrasto con le linee guida canadesi.

Qualunque approccio farmacologico al PTSD è, pertanto e ancora, argomento complesso e non definitivo.

In questo articolo del 2016 viene condotta una review di altri articoli che hanno discusso e approfondito la psicofarmacologia del PTSD. Come prima cosa, viene fatto notare come l’impatto del farmaco, a riguardo del PTSD, sia limitato. Viene osservato come un impatto significativo usando i farmaci di prima linea in questi casi (paroxetina e sertralina) avvenga in non più del 60% della popolazione studiata, e che una vera remissione dei sintomi si osservi in circa il 30% del totale dei soggetti. Quindi, vengono presi in esame differenti aspetti neurobiologici attraverso la lente psicofarmacologica.

SEROTONINA

Considerando la neurobiologia dei farmaci di prima linea usati per il Disturbo da stress post traumatico (paroxetina e sertralina), gli autori riportano molteplici studi che negli anni sono giunti a risultati controversi, arrivando a mettere in discussione lo stesso utilizzo dei suddetti farmaci nel trattamento del PTSD. I farmaci che promuovono il rilascio di maggiori quantità di serotonina in alcune aree del cervello del paziente, sembrano presentare alcune limitazioni di utilizzo, dai bassi livelli di impatto, agli effetti collaterali, all’eccessivo tempo intercorso tra l’assunzione e l’effetto desiderato. Viene infine riproposta la questione di un futuro possibile uso del MDMA (qui approfondito), promettente ma ancora poco studiato in modo accurato e che, a oggi, costituisce un trattamento sperimentale e non certo d’uso nella prassi clinica quotidiana.

SISTEMA NORADRENERGICO

In questa sezione dell’articolo viene effettuata un’analisi approfondita della neurobiologia connessa al sistema noradrenergico, coinvolto nella regolazione dello stato di arousal (la risposta neurofisiologica del sistema nervoso a stimoli ambientali -e non solo- più o meno attivanti in termini di sicurezza percepita); la liberazione di neurotrasmettitori da parte del sistema noradrenergico (collocato in un’area profonda del cervello e al di fuori della coscienza e del controllo volontario dell’individuo), è da considerarsi centrale nello sviluppo del PTSD se consideriamo come un’anomala risposta protratta di attacco e fuga (un cervello per così dire costantemente allarmato) interferisca sulla nostra modalità di percepire la realtà e sulla qualità del sonno, solo per citare alcuni aspetti problematici della risposta a un trauma.

In senso psicofarmacologico, vengono citati due principi attivi:

  1. prazosina (non commercializzato in Italia, usato come integrazione ad altre terapie usate per il trattamento dei disturbi del sonno connessi al PTSD; qui un approfondimento)
  2. desipramina (equivalente alla paroxetina in termini di effetti, particolarmente studiato in presenza di dipendenza da alcol in comorbilità al PTSD)

SISTEMA DEL GLUTAMMATO

Molteplici evidenze portano a ipotizzare che il PTSD si associ a una difettosa capacità inibitoria da parte della corteccia prefrontale su zone profonde del cervello come amigdala e ippocampo. In senso farmacologico, gli autori considerano:

  • ketamina in dosi sub-anestetiche: la ketamina assunta in dosi non pericolose e sotto controllo medico si è introdotta in ambito psicofarmacologico in primo luogo nel trattamento “rapido” di disturbi depressivi resistenti. La ketamina ha tuttavia mostrato risultati importanti anche in altri disturbi; a riguardo del PTSD, questo studio è l’unico studio RCT che ha messo a confronto l’uso di ketamina e di benzodiazepine su soggetti colpiti da PTSD, mostrando un netto superamento degli effetti positivi ottenuti dall’uso di ketamina.

SISTEMA GABAERGICO

Il GABA, in quanto neurotrasmettitore inibitorio, è ampiamente studiato nei quadri di PTSD. Gli autori rilevano come le comuni benzodiazepine vengano usate meno, negli ultimi tempi, a causa di una serie di effetti collaterali importanti da evitare (primo su tutti, il fatto che inducono dipendenza e assuefazione). Citano a supporto di questo punto numerosi studi che, anzi, sconsigliano l’utilizzo di benzodiazepine nel trattamento di PTSD, per via degli effetti collaterali già sopra citati e di potenziali effetti iatrogeni sul trattamento del PTSD (si veda qui per un approfondimento).

A questo livello agiscono gli antiepilettici tradizionali (topiramato, valproato, lamotrigina, gabapentin sono stati studiati in modo particolare nel trattamento del PTSD). La loro azione verosimile è quella di bilanciare il sistema GABAergico (ad azione inibitoria sul sistema nervoso centrale) con l’azione glutammatergica (ad effetto eccitatorio), facilitando pertanto la funzione inibitoria della corteccia prefrontale sulle strutture cerebrali profonde, le quali, come già citato, possono permanere molto attivate a seguito dell’esposizione ad un evento potenzialmente traumatico. L’effetto esercitato dagli antiepilettici risiederebbe pertanto nella modulazione dei network associativi cerebrali. Sulla base di ciò, gli antiepilettici costituirebbero una valida alternativa all’utilizzo di benzodiazepine per il controllo dei sintomi di iperarousal del PTSD.

GLI ANTIPSICOTICI

Gli antipsicotici sono una categoria di farmaci ampiamente usati nelle pratica clinica quotidiana. Anche per questa categoria di farmaci, le evidenze a favore del loro utilizzo nel trattamento del PTSD sono discordanti e non definitive. Nella già citata review condotta dal gruppo canadese nel tentativo di formulare delle linee guida per il trattamento farmacologico del PTSD, risperidone ha ottenuto un livello 1 di evidenza. Sicuramente, il potente effetto di blocco del sistema dopaminergico esercitato dagli antipsicotici (sedazione), può avere indicazioni nel trattamento dei sintomi determinati dall’iperarousal. Gli antipsicotici più studiati sono comunque quelli di seconda generazione, con particolare attenzione, oltre che per risperidone, per olanzapina, quetiapina ed aripiprazolo.

Indubbiamente, l’effetto negativo di questi farmaci che risulta particolarmente significativo nel trattamento del PTSD, è l’azione negativa sul sistema del rewarding che utilizza proprio la dopamina come neurotrasmettitore; questo potrebbe aumentare il rischio di complicanze legate al ricorso a sostanze psicoattive, già significativamente alto in pazienti affetti da disturbi post-traumatici. Un’altra significativa suggestione per la potenziale efficacia degli antipsicotici deriva dalla loro azione sulla salienza (ovvero la possibilità di discriminare intenzionalmente il dettaglio dallo sfondo, funzione anch’essa determinata dalla trasmissione dopaminergica che risulta gravemente alterata nei disturbi psicotici). Per un approfondimento su questo tema in realtà ancora poco studiato nell’ambito traumatologico, a differenza di quanto accade per le psicosi endogene, si rimanda ai lavori di Kapur, come ad esempio questo.

CANNABINOIDI

A riguardo dell’utilizzo di cannabis nel trattamento di PTSD, esistono alcune evidenze di scarsa forza in termini statistici, che quindi necessitano di ulteriori approfondimenti, maggiormente strutturati. Inoltre, alcuni aspetti problematici vengono riportati dagli autori:

  1. l’emergere di aspetti persecutori/paranoici nei soggetti consumatori
  2. la presenza di evidenze che correlano livelli alti di utilizzo di cannabis e sintomi di PTSD, senza una comprensione reale di cosa venga prima in termini causali (se i sintomi di PTSD o l’uso di cannabis)
  3. un uso prolungato di cannabis può alterare il funzionamento di alcuni recettori specifici, causando un conseguente effetto rebound di natura ansioso/depressiva

Occorre citare, per completezza, altre molecole in fase di studio che però non hanno ancora un’applicazione nella pratica clinica quotidiana; sicuramente i farmaci più studiati sono: ossitocina, melatonina ad alto dosaggio, corticosteroidi e betabloccanti; questi farmaci sono in fase di studio per differenti momenti dello sviluppo del PTSD, ovvero come trattamento preventivo (da somministrare immediatamente dopo l’esposizione all’evento – corticosteroidi-, oppure come trattamento vero e proprio del disturbo conclamato o, ancora, come agenti facilitanti l’elaborazione psicoterapica dei ricordi traumatici – betabloccanti, che riducono in modo consistente i sintomi fisici dell’iperarousal, permettendo al paziente di meglio tollerare l’esposizione ai ricordi).

OSSITOCINA

L’ossitocina viene studiata come farmaco “integrativo”, in grado di modulare la risposta allo stress e alla paura; in particolare, un po’ come si evince dalla ricerca sull’utilizzo dell’MDMA, anche qui si ragiona sulla possibilità di predisporre il soggetto a un miglior impatto della terapia espositiva, attraverso l’uso dell’ossitocina. Se infatti il lavoro sul PTSD consta di un inevitabile approccio ai ricordi traumatici (per via dell’approccio trifasico), un utilizzo coadiuvante di principi attivi di questo tipo potrebbe diminuire la risposta autonomica del soggetto di fronte al ricordo traumatico, favorendone una sua elaborazione/cognitivizzazione (per un approfondimento).

CONCLUSIONI

Sappiamo che parte della sintomatologia del PTSD è affrontabile valutando le modalità di funzionamento della memoria. Come qui approfondito, ogni modalità che nella terapia del PTSD aiuti il paziente ad avvicinarsi e a lavorare sui ricordi, elaborandoli almeno in parte, andrà nella direzione di un miglioramento clinico.

Tentando quindi una conclusione critica, il trattamento farmacologico del Disturbo da stress post traumatico presenta ancora notevoli criticità che sono ben lontane dall’essere chiarite. In mancanza di evidenze e di comprensione sull’utilizzo dei farmaci e sul loro effetto neurobiologico in situazioni cliniche che possono anche essere estremamente dirompenti (basti pensare ad alcuni dei sintomi da iperarousal manifestati da numerosi soggetti, in particolare i comportamenti aggressivi e le manifestazioni conseguenti al discontrollo della rabbia), la scelta di un farmaco deve essere innanzitutto cauta ed in ogni caso guidata da un’attenta riflessione entro un più globale inquadramento relativo al funzionamento del soggetto. Sicuramente le benzodiazepine devono essere evitate in terapia cronica; il loro utilizzo estemporaneo, soprattutto in ambito ospedaliero protetto, deve essere attentamente valutato. A livello farmacologico, possiamo cercare di migliorare singoli sintomi, ma non esiste ad oggi un farmaco unico che permetta una presa in carico “totale” del PTSD.
É d’altronde molto importante che il medico prescrittore, mentre cerca la migliore terapia sintomatica possibile insieme al paziente, tenga nella sua mente il quadro psicotraumatologico generale, di cui i singoli cluster sintomatici sono “punte dell’iceberg”.


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / ptsd

4 May 2023

ILLUSIONI IPNAGOGICHE, SONNO E PTSD

di Raffaele Avico

PREMESSA: questo articolo è parte di un lavoro di raccolta di materiale inerente il trauma e la dissociazione, reperibile attraverso la rubrica presente sulla rivista Psychiatry on Line.
——–
Non esiste una folta letteratura che metta insieme la questione delle cosiddette illusioni ipnagogiche e la presenza di PTSD. Sicuramente è molto nota la compresenza tra PTSD e disturbi del sonno (insonnia, risvegli precoci, sonno frammentato).

L’intrudere di memorie a contenuto traumatico corrompe la continuità della coscienza, frammentandola: per la persona è molto difficile concentrarsi in modo continuativo su un compito presente, perchè focalizzarsi su un compito alla vota, immergendovisi, è un compito cognitivo che richiede uno stato di assenza di minaccia percepita (cosa che non capita in chi vive un PTSD). “Abbassare le difese” significa predisporsi al ritorno del vissuto traumatico: per questo, per un soggetto intrappolato in un PTSD, è più semplice vivere in uno stato para-dissociativo costantemente evitativo, come un pattinatore che continui ad accelerare sul ghiaccio per evitare che questo si rompa sotto i suoi piedi e l’acqua lo inghiotta.

Il sonno rappresenta uno dei momenti che in teoria necessiterebbero di questa sensazione di tranquillità per poter essere vissuto a pieno; non succede così nel PTSD: insonnia e sonno frammentato rappresentano sintomi-target grandemente predittivi di un vissuto di stress post-traumatico.

Poco però è stato scritto però sul momento del pre-addormentamento, quando si “scivola” nel sonno. La letteratura sulle cosiddette illusioni ipnagogiche (epifenomeni simil-allucinatori che si presentano prima del sonno, a forma spesso sonora -come urla percepite, parole forti allucinate, spezzoni di discorso sconnessi tra loro, o ancora suoni) pertiene alla letteratura per lo più di matrice psicoanalitica: poco è stato scritto in senso psicotraumatologico.

In questo studio generale, scritto riferendosi all’evento traumatico del terremoto all’Aquila nel 2009, i ricercatori fanno notare che recenti ipotesi farebbero pensare che non solo i disturbi del sonno (insonnia da addormentamento, lunghi e frequenti risvegli notturni) sarebbero da considerarsi come conseguenza diretta di un PTSD, ma che potrebbero esser coinvolti nel suo stesso sviluppo.

Quello che viene osservato è che in assenza di una buona qualità del sonno, l’intero sistema di funzioni cognitive subisce una prostrazione tale da portare il soggetto a uno stato di esaurimento cognitivo favorevole proprio allo sviluppo del PTSD stesso. Pierre Janet, nel suo discorso del 1913, già aveva considerato come dal suo punto di vista fosse necessario un doppio movimento per “produrre” un PTSD nell’individuo: inizialmente sarebbe stato necessario un momento, per il soggetto, di “debolezza” o stanchezza psichica:  il trauma si sarebbe successivamente installato su questo primo problema, dando vita alla sindrome post-traumatica.

Nell’articolo si legge:

“Secondo Pace-Schott, un meccanismo che potrebbe condurre dal trauma psicologico al DPTS sarebbe da individuarsi proprio nei disturbi del sonno post-trauma, che interferirebbero con il consolidamento sonno-dipendente delle memorie emozionali e con la neuroplasticità legata alla regolazione delle emozioni.”

Inoltre, quello che viene evidenziato nell’articolo è che il collegamento causale tra deprivazione di sonno e sviluppo di PTSD, sarebbe rappresentato da una compromissione, per l’individuo, della possibilità di accedere al registro spaziale di memoria. L’ipotesi causale proposta dallo studio, è

  1. TRAUMA
  2. —>DEPRIVAZIONE DI SONNO
  3. —>MANCATA ELABORAZIONE MNESTICA
  4. —>PTSD

cioè:

“Sembrerebbe, infatti, che in seguito a un evento traumatico un sonno disturbato impedisca la normale elaborazione delle memorie emotive, inclusa l’estinzione della paura associata alle memorie traumatiche”

Sarebbe appunto la bassa qualità del sonno a favorire la non elaborazione mnestica che fa da fondo ai disturbi post-traumatici (tant’è che il lavoro che si fa con il PTSD è proprio quello inerente un’elaborazione più completa delle memorie traumatiche, per esempio con l’EMDR).

Gli autori concludono:

“I lavori in questione mostrano quanto una buona qualità del sonno sia necessaria per la nostra salute mentale e per un funzionamento cognitivo ottimale e suggeriscono l’importanza di attuare strategie preventive a sostegno della qualità del sonno in seguito a un evento fortemente stressante o traumatico. Questo tipo di prevenzione è cruciale, perché i disturbi del sonno possono influenzare negativamente il funzionamento cognitivo ed emotivo, rinforzare la sintomatologia depressiva ed essere un fattore di rischio per lo sviluppo e il mantenimento del DPTS . Tali influenze negative dei disturbi del sonno sembrano, ad oggi, non adeguatamente valutate.”

Altri studi recenti e di rilievo, vanno in questa direzione: per esempio questo studio del 2017 di Marco Pagani del CNR, in linea con altri lavori su questo tema, evidenzia come il sonno rappresenti un momento fondamentale dell’elaborazione mnestica e che, nel caso di PTSD, il rischio è che si crei un circuito vizioso (la memoria intrusiva disturba il sonno, non si creano quindi i presupposti per elaborarla, il che produce ulteriore sonno disturbato, e così via).

Il sonno avviene con un’alternanza di fasi cosiddette a onde corte (REM) e fasi a onde lunghe. Pagani sottolinea come la tipologia REM di sonno favorisca un’elaborazione delle memorie a salienza emotiva (come quelle immagazzinate nel corso di un evento traumatico); la tipologia NON REM, invece, sembrerebbe importante per un lavoro di “consolidamento” e di passaggio alla memoria “implicita” delle informazioni, in generale.

Nel PTSD, questo non avverrebbe in modo corretto, permanendo il ricordo traumatico intrappolato nelle strutture più profonde del cervello, primariamente coinvolte nel fronteggiamento dell’esperienza traumatica (come ippocampo e amigdala).

Si veda questa immagine esplicativa:


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / ptsd

27 April 2023

SI PUÓ DIRE MORTE? INTERVISTA A DAVIDE SISTO

di Raffaele Avico

Un’intervista a Davide Sisto, fondatore del blog Si può dire morte. Buona lettura!

  • Davide, ci racconti qual è la tua figura,e di cosa ti occupi?

Sono un ricercatore universitario in ambito filosofico e mi sono specializzato, nel corso degli ultimi dieci-quindici anni, nella cosiddetta “tanatologia digitale”. Mi occupo cioè di come le tecnologie digitali hanno modificato il nostro rapporto con la morte, con l’elaborazione del lutto, con la memoria e con l’immortalità. Collaboro anche con associazioni e fondazioni che si occupano di lutto e, in generale, che cercano di riportare il discorso della morte nello spazio pubblico. Infine, faccio consulenze per start up impegnate nel campo dell’eredità digitale. Diciamo che, oltre alle canoniche attività di natura accademica, mi piace sviluppare collaborazioni con ambiti differenti dal mio ma fortemente condizionati dalla metamorfosi antropologica in corso, a causa delle tecnologie digitali, e da modalità inedite di attribuire un senso e un significato al nostro rapporto con la morte.

  • Davide, cosa si intende con tanatologia, e attorno a quali temi verte il tuo lavoro di ricerca?

Il concetto di tanatologia ha un’origine abbastanza remota e indica quell’ambito specifico della medicina legale che si occupa dello studio delle cause di morte e delle modificazioni organiche che ne conseguono. In tal modo, è possibile accertare giuridicamente il momento del decesso. Nel Settecento, per esempio, il problema maggiore che riguardava la tanatologia medica era quello di non dichiarare come morta una persona che di fatto non lo era ancora. Nel corso dei secoli e, in particolare, nel Novecento la tanatologia ha cominciato ad affermarsi nel campo delle discipline umanistiche, sviluppando caratteristiche di natura psicologica, sociologica, antropologica, giuridica e filosofica. In altre parole, con il termine “tanatologia” si è cominciato a indicare tutto ciò che riguarda il nostro rapporto con la morte. Il mio lavoro di ricerca che, come dicevo sopra, è prevalentemente di natura filosofica mira a unire insieme le interpretazioni dei nostri comportamenti in merito alla relazione tra la vita e la morte, i percorsi di Death Education con partner lavorativi o formativi nei campi della psicologia, delle cure palliative, della pedagogia, ecc., lo studio della Digital Death o tanatologia digitale, come indicato nella risposta precedente. 

  • Davide, che rapporto intratteniamo con la morte, qui in Occidente? Che differenze noti con il modo di concettualizzare la morte presso altre culture?

Un discorso generale è alquanto difficile da fare, tenuto conto delle differenze territoriali, religiose e culturali. Tuttavia, è abbastanza riconosciuto tra gli studiosi nel campo della tanatologia il problema della rimozione sociale e culturale della morte nel corso del Novecento. Ci sono studiosi fondamentali che ne hanno parlato, da Philippe Aries a Norbert Elias, da Geoffrey Gorer a Bauman. In ambito filosofico resta, senza dubbio, centrale il pensiero di Martin Heidegger ispirato dal grande classico letterario “La morte di Ivan Il’Ich” di Tolstoj. Diciamo che il problema della rimozione sociale e culturale della morte l’ha trasformata in un tabù, di cui si parla il meno possibile. Si cerca di non pronunciare nemmeno la parola “morte”, quasi fosse una bestemmia o un termine inopportuno e inelegante. Insieme a Marina Sozzi e ad Ana Cristina Vargas gestisco un blog chiamato opportunamente “Si può dire morte”. Le ragioni della rimozione della morte sono numerose e collegate alle trasformazioni mediche, scientifiche, economiche e politiche della nostra società contemporanea. L’ospedalizzazione dei morenti ci ha abituato a non vederne traccia negli spazi in cui svolgiamo le attività quotidiane. L’aumento vertiginoso della durata media della vita ha fatto sì che ci abituiamo a pensarci quasi immortali e a non esperire fino all’età adulta a morti dolorose nel cerchio delle nostre famiglie, ovviamente tenendo conto di tutte le eccezioni possibili. La difficoltà maggiore che ne deriva è l’accettazione della nostra fragilità costitutiva, per cui seguono comportamenti malsani sia in ambito medico che in quello socio-culturale. Ne abbiamo fatto esperienza durante il Covid-19. Moltissime persone hanno manifestato forme di grave ansia personale nel momento in cui hanno preso coscienza del pericolo mortale. Al tempo stesso, la non abitudine a scendere a patti con la propria mortalità e con l’idea che si può morire da un momento all’altro produce comportamenti di autentico terrore, nell’istante in cui si ragiona su questo fatto, o di onnipotenza, là dove si rimuove completamente da sé l’opzione della mortalità. Non è un caso che oggi si stiano sviluppando sempre più iniziative pubbliche per recuperare il discorso relativo al fine vita: Death Cafè, letture specifiche nelle biblioteche, percorsi di Death Education nelle scuole e nelle Università, ecc. 

  • Davide, hai spunti di lettura, film o articoli da consigliare? 

Per quanto riguarda i film e le serie televisive, meritano senz’altro “After Life” di Ricky Gervais su Netflix, serie che affronta con intelligenza il tema del lutto, “Truman. Un amico è per sempre” e “Il quaderno di Tomy”, due film argentini che si soffermano sul rapporto con la malattia tumorale. Il secondo film è ispirato a una storia vera. Per quanto riguarda le letture, oltre ai nomi che ho già menzionato, consiglio certamente di leggere tutti quegli studiosi e quelle studiose italiane che si stanno impegnando nel campo dei Death Studies: Ines Testoni, Marina Sozzi, Ana Cristina Vargas, Laura Campanello, Nicola Ferrari, Maria Angela Gelati e tanti altri che collaborano con queste persone. Meritano anche di essere seguite le principali attività pubbliche nel campo: dal Rumore del Lutto al Master “Death Studies & the End of Life” dell’Università di Padova, così come quelle dell’Associazione Zero K di Carpi e della Fondazione Ariodante Fabretti


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / interviste

12 April 2023

CENTRO SORANZO: INTERVISTA A MAURO SEMENZATO

di Raffaele Avico

Nel contesto di SERENIS, un’intervista a Mauro Semenzato, operatore del Centro Soranzo (centrosoranzo.it).
Il Centro Soranzo è un centro di eccellenza sul trattamento integrato dei disturbi da addiction. Al suo interno vengono usati approcci psicoterapici trauma-informed, interventi bottom-up incentrati sul corpo, lavori di gruppo, musicoterapia, mindfulness, etc.
Mauro è uno degli operatori e conosce molto bene il modello del Centro Soranzo, e ci parlerà appunto di come funziona la presa in carico di un paziente, il modello di cura, l’equipe di lavoro, il razionale che accomuna i diversi aspetti del lavoro, e altri aspetti operativi del Centro Soranzo.

Buon ascolto!


https://www.spreaker.com/user/psychiatryonlinepodcast/centrosoranzo


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale

6 April 2023

Laetrodectus, che morde di nascosto


di Raffaele Avico

Il documentario video “Laetrodectus, che morde di nascosto“ traccia un percorso di esplorazione sul fenomeno del tarantismo usando alcune figure professionali che tentano di profilare le origini e la natura del fenomeno e del suo surrogato odierno, rivoltato in chiave “commerciale” (l’interesse attuale per il neotarantismo e la pizzica, il gran numero di gruppi che la suonano).

L’opera di Jeremie Basset e Irene Gurrado, con le musiche originali di Ruggiero Inchingolo, uscita nel 2009, è stata girata tra Francia e Italia.

Viene intervistata la figlia del maestro Stifani, il “dottore delle tarantate”, che contò molteplici riti di taranta eseguiti con il suo violino, Ruggiero Inchingolo, un musicologo già allievo del prima citato Stifani, Gino Dimitri, uno storico ed esperto di tarantismo, e George Lapassade, sociologo di Parigi scomparso nel 2008 e studioso del fenomeno.

Vengono messi in luce diversi aspetti:

stati dissociativi patologici|normale dissociazione|stati mistici/realizzazione

  1. Quello che Lapassade osserva, è che il fenomeno cosiddetto di neotarantismo, diviene uno scimmiottamento attuale del rituale antico, svuotato del suo significato originale, autenticamente terapeutico
  2. In senso storico, con l’intervento di Gino Dimitri viene tracciato un breve affresco di quello che sembra essere stato il decorso del fenomeno del tarantismo, a partire dagli antichi riti pagani di origine romana e ancor prima, presumibilmente, greca (a questo proposito è da notare che qualche anno fa a Lecce e Melpignano fu stata allestita una mostra, divisa in due spazi, sulle “menadi danzanti”, ancelle devote al dio Dioniso secondo la mitologia greca- che voleva riprendere il tema della mousikè technè — intesa come unione di suoni, canto, danza e recitazione — usata in senso catartico e quindi connessa al fenomeno attuale del tarantismo). Lo storico parla del tarantismo come di un “relitto” dei rituali pagani pre-cristiani, oggi paradossalmente assunto a segno distintivo del territorio e occasione di festa. Fino a 40 anni fa, è presumibile che il tarantismo fosse ancora collegato a una condizione di malessere e povertà culturale, soprattutto per quanto riguarda lo stato della donna, costretta nei vincoli di una società patriarcale e povera, senza prospettive.
  3. Inizialmente, la credenza effettiva, reale, a proposito della nocività del morso del ragno, sembrava molto radicata nella popolazione: solo successivamente la questione sull’origine del “problema” della tarantolata venne trasposta in senso psicopatologico o almeno “socio-culturale”. Quello che Gino Dimitri fa notare è che inizialmente si credeva davvero al bisogno del ballo come cura per il veleno dei ragni nascosti nelle campagne del Salento (in particolare appunto da parte del ragno Latrodoectus, anche detto Vedova Nera): la questione venne poi allargata e medicalizzata, con l’avvento della psichiatria; esiste un’epoca di passaggio in cui al rituale di cura per le tarantate, si affiancarono gli internamenti in manicomio per coloro che sembravano soffrire di patologie nervose o di possessione
  4. Per mezzo dell’intervento dell’etnomusicologo Ruggiero Inchingolo, viene posta l’attenzione sull’effetto della musica suonata durante i rituali terapeutici. Viene illustrato come il suono ritmico, terzinato, del tamburo, pareva avere un effetto di induzione di transe sui soggetti colpiti dal “morso”, considerando che spesso le sessioni rituali avevano una durata molto lunga, anche giorni. Insieme al suono del tamburo, lo strumento melodicamente principale era il violino, in particolare suonato su toni molto acuti (il rumore del “pizzico” dell’archetto sulle corde, simile a uno sfregamento, pareva avere un forte potere attivante verso il soggetto sottoposto al rituale). Tamburo e violino, insieme, producevano un intensificarsi dell’effetto di “aggancio” della tarantata, condotta per mezzo della musica verso la liberazione dal dolore.
    Di seguito potete visualizzare il contributo di Inchingolo.

Un aspetto che durante la visione del documentario sembra ritornare, è infine il significato del “morso”, da interpretarsi come “passato che ritorna” — un qualche senso di colpa interiorizzato che necessita, periodicamente, di essere risolto e evacuato, oppure un qualche conflitto irrisolto che necessita di un suo luogo di “recitazione”/drammatizzazione.

Qui per aggregare altro (su questo blog) a tema “tarantismo”.


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / recensioni, tarantismo

4 April 2023

STABILIZZAZIONE E CONFINI: METTERE PALETTI PER REGOLARSI

di Raffaele Avico

PREMESSA: questo articolo è presente in un ebook in free download curato da AISTED, qui scaricabile.

Il problema della stabilizzazione riguarda la prima fase del lavoro con pazienti post traumatici: sappiamo che riguarda il tentativo di stabilizzare la potenza dei sintomi al fine di consentire un migliore accesso alle memorie traumatiche.

Un aspetto poco approfondito e poco trattato della stabilizzazione, da usare come strumento aggiuntivo agli altri, integrato alle restanti risorse da usare, è la regolazione della distanza interpersonale, intesa come capacità di creare un giusto confine tra sé e gli altri.

Per approfondire questo aspetto poco trattato prenderemo come riferimento il testo di Maria Puliatti “La psicotraumatologia nella pratica clinica”, che in un capitolo approfondisce il tema; il libro è un riferimento particolarmente importante per chi voglia interessarsi al tema stabilizzazione perchè è totalmente incentrato su questo aspetto nel lavoro con adulti, bambini e adolescenti.

La questione della regolazione dell’attivazione attraverso il tema dei confini (che è quindi centrale se intendiamo il lavoro di stabilizzazione come una lavoro atto a “regolare” in modo più efficace il tono di attivazione o disattivazione neurofisiologico, per riportarlo all’interno della finestra di tolleranza), si presta a essere inserita nel tema più vasto della “psicoeducazione”.

Se vogliamo procedere a una breve recensione del libro della Puliatti (fatta in modo più esteso in questo podcast), sappiamo che stabilizzazione dei sintomi post traumatici può essere svolta usando 3 modalità principali:

  • TIPO A: approccio farmacologico
  • TIPO B: approccio relazionale/interpersonale
  • TIPO C: approccio autonomo/regolativo

Per approccio relazionale, intendiamo il ricorso a espedienti totalmente interpersonali per regolare stati profondamente disturbanti: per esempio ricercare contatto fisico, cercare compagnia quando in presenza di sintomi invalidanti, e in generale qualunque cosa che contempli la presenza dell’altro.

La stabilizzazione fatta lavorando sulla questione dei confini, fa dunque parte di questa tipologia di approccio al sintomo, sintetizzata con il TIPO B.

Maria Puliatti ne parla nel suo La psicotraumatologia nella pratica clinica a pagina 43.

L’autrice osserva, usando le parole di Pat Ogden, che i soggetti fuoriusciti da esperienze traumatiche singole o cumulative, sembrano possedere confini interpersonali violati, troppo rigidi o troppo permeabili nei confronti dell’esterno.

Ma prima di tutto, cos’è un confine interpersonale?

Potremmo definire il confine interpersonale come un confine simbolico, psicologico ma anche interpersonale e profondamente in grado di impattare sul corpo, tra noi e gli altri. Il confine è un confine percepito e rappresentato in modo “pre-conscio”: ci fa sentire violati quando viene oltraggiato o sorpassato o non rispettato, ci fa sentire isolati o scollati dagli altri quando si sia irrigidito o impermeabilizzato (magari in risposta a una situazione traumatica, in modo difensivo).

Puliatti ne individua cinque tipologie, che elenca mettendo il concetto di confine in connessione con il vissuto soggettivo dell’individuo che li possegga:

  • Fisico: chi, quando, come e quanto gli altri possono toccarmi, e viceversa?
  • Emotivo: cosa considero come trattamento accettabile all’interno della relazione? Gli altri mi rispettano e mi trattano bene? Io faccio lo stesso?
  • Spirituale: quanto mi sento a mio agio nel condividere il mio sistema di credenze, la mia spiritualità e le mie pratiche? Quando e con chi?
  • Sessuale: quando, con chi e quanto della mia sessualità e delle mie opinioni riguardanti la sessualità condivido? (Si noti che i confini sessuali vanno oltre alla mera attività sessuale, essi si riferiscono anche a giochi, allusioni, gesti di natura sessuale e così via.)
  • Intellettuale: in che modo le mie idee e i miei pensieri vengono ricevuti? Vengono presi in considerazione? Rispettati? Io ho accesso alle informazioni e all’apprendimento?

Come prima cosa occorre osservare che il senso di sicurezza percepita aseguito di un trauma, risulta alterato.

Sappiamo che il soggetto post-traumatico è un soggetto iperestesico: percepisce la realtà come filtrata dalla sindrome post-traumatica, sentendo rumori più forti e selettivamente selezionati dall’attenzione in quanto possibili minacce: questo per via del senso di vigilanza protratto tipico del PTSD, concomitante a un’attivazione autonomica costante.

Come primo punto da osservare dunque, l’aspetto della distanza dall’altro: per stabilizzare un paziente che provenga da una storia traumatica o da un evento traumatico acuto, è necessario che si lavori sulla distanza che il soggetto percepisca “sicura” rispetto all’altro.

Puliatti suggerisce in questo senso di lavorare affinché il soggetto divenga consapevole a proposito della “percezione somatica di intrusione”, variabile da soggetto a soggetto e direttamente correlata alla distanza (reale o percepita) del soggetto nei confronti dell’altro, affinché la stesso paziente sappia, nella vita “reale” al di fuori della stanza di terapia, meglio regolarla e gestirla.

Non dimentichiamoci che la fear response, la reazione di paura concomitante alla messa in atto della risposta attacco/fuga, è dipendente dalla distanza percepita nei confronti dell’altro minaccioso, e che questo avviene in ogni animale dotato di sistema nervoso anche basico (per un approfondimento su questi aspetti, si veda qui).

La fear response nel PTSD può essere innescata anche solo da uno sguardo interpretato come minaccioso: è piuttosto frequente che lo sguardo venga percepito come intrusivo e “emotionally abusing” nei pazienti con PTSD, al di là della natura dello sguardo “esterno” stesso.

Procedendo in questo capitolo, leggiamo che Puliatti suggerisce di “spingere il paziente ad assumersi il diritto di difendere il proprio territorio”, in modo che possa attivamente meglio regolare le distanze inter-corporee tali da sentirle “sicure”, non intrusive né “dismissing”, verso un’ideale “giusta distanza”. Questo porta inoltre a far sì che i confini corporei prendano il posto delle difese messe in atto dal paziente.

Da un punto di vista applicato troviamo nel libro di Fisher e Ogden del 2015 Psicoterapia Sensomotoria, alcuni esercizi da suggerire al paziente per prendere consapevolezza dei propri confini corporei e di quando questi vengano violati.

Inoltre, viene qui fatto un passo ulteriore nella definizione di quelli che le autrici chiamano confini “interni” (riguardanti cioè l’effetto che un’opinione espressa da altri significativi possa avere sulla “nostra” modalità di pensare a una determinata cosa, di fatto “violando” un confine interno in un certo modo “identitario”)

In particolare vengono in questo volume suggeriti 4 esercizi:

  1. usare alcuni gesti corporei solitamente usati per “segnare” aspetti territoriali (fare no con la testa, fare il segno di stop con le mani, aggrottare le sopracciglia, piegarsi all’indietro e allontanarsi, etc.) per auto-osservare i pensieri e le emozioni suscitate da questi, calandoli in “episodi” realmente accaduti in passato
  2. segnare -da un elenco- episodi passati in cui i confini corporei vennero violati, per comprendere come evitare che questo succeda in futuro; un esempio di violazioni di confine, è rappresentato da questo schema:
  1. ricordare un episodio di violazione interna di un confine, per isolarlo e lavorarci. Questo esercizio prevede che l’individuo riporti alla mente un episodio in cui si sia sentito violato internamente (per esempio tramite l’attribuzione di una qualità negativa da parte di un caregiver abusante in senso psichico); successivamente immaginare di possedere un buon confine interno, tale da impedire all’attribuzione esterna di produrre un impatto traumatico, e osservarne le ricadute somatiche
  2. immaginare di allineare le risposte verbali (esterne o formulate tramite il solo pensiero, quindi internamente) con le risposte somatiche, rispondendo alla domanda cosa faccio fisicamente mentre dico di no/ sì?

Questi esercizi applicati, comuni in chi lavori con la psicoterapia sensomotoria, vogliono rendere il più possibile concreto/applicato il lavoro sui confini, in un contesto di psicoterapia.

Quello che è importante sottolineare è che un individuo che fuoriesca da una situazione traumatica, si trova in uno stato neurofisiologico costantemente distorto, con oscillazioni rapide da stati di iperarousal e allarme percepito (magari in concomitanza di flashback), e stati di spegnimento e mancanza di energia psichica.

Il lavoro con i confini e la distanza interpersonale vuole promuovere un miglioramento del senso di sicurezza percepito da parte del paziente, verso una permanenza più costante all’interno della finestra di tolleranza.

Un aspetto poco approfondito, vista la natura speculativa del concetto e la difficoltà insita nel voler indagare il tema usando le metodologie della ricerca psicosociale, è il tema dell’utilizzo del “no” come strumento di regolazione interpersonale. Nel lavoro con pazienti traumatizzati osserviamo confini interpersonali permeabili, nel contesto di relazioni invischiate ed cariche di aggressività, in cui a un’onestà “radicale” (dico tutto, sempre), si associa un grande senso di violazione interpersonale spesso associata all’impossibilità di dire “no” -mettendo un paletto simbolico tra sé e l’altro. Paletti per esempio utili a sottrarsi a inviti non graditi, ma anche utili a mantenere protetto uno spazio interno di pensiero e auto-riflessione.

Il lavoro di psicoterapia deve in questi casi procedere nella direzione di legittimare il paziente all’apposizione di “no” che lo aiutino a sottrarsi a tentativi di violazione dei confini, a spinte verso inversioni di attaccamento, così da consentirgli/le una più stabile permanenza in “posizione di sicurezza”.

BIBLIOGRAFIA

  • Pat Ogden & Janina Fisher, Psicoterapia sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento. Trad. ed ediz. it. a cura di Giovanni Tagliavini, Laura Bartocetti, Paola Bertulli & Maria Paola Boldrini. Illustrazioni di Deborah Del Hierro & Anthony Del Hierro. Milano: Raffaello Cortina, 2016
  • Puliatti, M. La psicotraumatologia nella pratica clinica. Maria Puliatti. Mimesis 2017.

NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale

31 March 2023

L’eredità teorica di Giovanni Liotti

di Raffaele Avico

Gianni Liotti è considerato uno dei padri della psicoterapia cognitiva in Italia, insieme a Vittorio Guidano.

Nel suo  “Sviluppi Traumatici” tentò di approfondire la questione relativa alle problematiche post-traumatiche fornendo moltissimi spunti di riflessione e una lettura estremamente plausibile di alcune comuni forme di psicopatologia nel paziente post-traumatico.

Liotti parte dal presentare la diagnosi di PTSDc, ovvero Stress Post Traumatico Complesso, costrutto diagnostico utilizzato per indicare situazioni di stress post traumatico in caso di abusi cumulativi e ripetuti, con le relative ripercussioni in termini psichici.

Lo stress Post Traumatico complesso differisce dal semplice Stress Post Traumatico per la qualità dei traumi subìti dal paziente: non singoli e devastanti traumi, ma traumi relazionali multipli e protratti nel tempo. Liotti porta come esempio lo stile di attaccamento di tipo D (disorganizzato) come ambiente naturale di sviluppo di un PTSDc. Cosa vuol dire, secondo l’autore, sviluppare un PTSDc in ambito di uno stile di attaccamento disorganizzato?
Gli attaccamentologi descrivono lo stile di attaccamento D come disorganizzato/disorganizzante. Questo vuol dire avere a che fare costantemente con uno o più figure di attaccamento imprevedibili o spaventanti verso le quali il bambino impara a rapportarsi in modo confuso e ambivalente, senza mantenere una reale linearità nel comportamento di attaccamento.

Nei famosi esperimenti di Mary Ainsworth relativi alla strange situation, osserviamo come i bambini con un attaccamento insicuro D manifestino verso la figura di attaccamento comportamenti ambivalenti e contraddittori, come spinti da pulsioni opposte (ricerca di attaccamento vs paura).

Crescere in un ambiente traumatico in modo continuativo conduce secondo Liotti a sviluppare un certo tipo di personalità post-traumatica, con tratti peculiari. Quello che riteniamo importante in questa sede approfondire è la questione relativa a quelle che Liotti chiamava strategie di controllo. La questione potrebbe essere sintetizzata, per punti, come segue:

  1. Crescere in ambienti traumatici vuol dire sperimentare profonde delusioni in senso relazionale. Spesso chi cresce in ambienti problematici si trova a vedersi rifiutato/a nei propri slanci di attaccamento: immaginiamo per esempio un bambino che tenti di aggrapparsi al collo della madre vedendosi rifiutato o umiliato in questo bisogno: imparerà a inibire, in sé, questa pulsione, o a manifestarla in particolari circostanze.
  2. I vissuti di umiliazione e i bisogni frustrati porteranno il bambino a evitare tutto ciò che potrebbe ri-attualizzare queste fratture relazionali; l’evitamento diventerà un tratto del carattere, che contrasta con i potenti bisogni di protezione e accudimento
  3. Crescendo, il bambino imparerà a disattivare i comportamenti di attaccamento pur sentendone il bisogno (sono stati a questo proposito effettuati interessanti esperimenti su bambini con atteggiamenti di evitamento, osservando come il bisogno di un contatto relazionale permanga, ma sia osservabile solo attraverso la modificazione di indici corporei come tachicardia, variazione del ritmo del respiro, etc. Questo dimostrerebbe come anche in bambini con uno stile di attaccamento evitante permanga a livello preconscio il bisogno di lanciarsi in movimenti di attaccamento).
  4. Nel corso dello sviluppo, e così come accade nei casi di stress post-traumatico, la gestione della rievocazione delle memorie traumatiche, così come la gestione del rapporto con le figure atte al caregiving, avverrà attraverso la messa in atto di quelle che l’autore chiama strategie di controllo, strategie cioè funzionali a mantenere il controllo (mastery) nel corso dell’attivazione del sistema di attaccamento, che muove emozioni veementi e collegate a vissuti traumatici e di rifiuto.
  5. Le strategie di controllo avvengono per mezzo di una distorsione del normale comportamento di attaccamento da parte del bambino: il bambino diviene eccessivamente accudente verso il genitore (genitorializzazione), o al contrario punitivo/autoritario/tirannico o ancora seduttivo (in senso non sessualizzato) verso la figura di attaccamento. Questo fa sì che non si trovi mai in balia e nella posizione di dipendere dal caregiver.
  6. Crescendo, le strategie controllanti precocemente sviluppate diverranno nei casi migliori tratti di personalità stabili e in qualche modo adattativi. Altre volte invece, quando non ben compensate o mal regolate, troveranno spazio nelle più comuni griglie diagnostiche in senso psicopatologico. A proposito di questo Liotti sottolinea come andrebbero ripensate alcune sindromi in relazione alla messa in atto di queste strategie (per es. un disturbo oppositivo/provocatorio, o quella che potrebbe essere definito un disturbo “isterico” in senso classico, potrebbe essere ripensato attraverso questa lente, cioè la messa in atto di strategie di controllo in un quadro post-traumatico).

Quest’ultimo punto è particolarmente degno di nota e rappresenta un punto di novità rispetto alla comune considerazione della psicopatologia.

Secondo Liotti cioè la presenza di un disturbo post-traumatico è grandemente sottovalutata e andrebbe ricercata nella storia di qualunque paziente arrivi all’ascolto di uno psicoterapeuta/psichiatra. Se si sospetta la presenza di un PTSDc, andrà indagata la presenza di strategie controllanti nello stile di attaccamento del paziente e nella gestione della sua emotività.

Per esempio, quando arrivi in seduta un paziente con un disturbo simil-depressivo, è utile cercare di capire se dietro questo disturbo primario non si nasconda un disturbo post-traumatico originario a cui il paziente, nel tempo, abbia imparato ad adattarsi attraverso al messa in atto di strategie di controllo. Quella che Janet aveva definito “stanchezza mentale” o “declino post-traumatico”, è spesso riscontrabile nei casi di stress post-traumatico cronico precipitato in una forma simil-depressiva, quello che in tempi non lontani dal nostro veniva chiamata –non a caso- “esaurimento nervoso”.

L’importanza del lavoro di Liotti è quindi quello di aver spinto sulla messa in discussione delle procedure consuete di diagnosi. Occorre quindi indagare se al di là dei sintomi eclatanti portati dal paziente non esista un disturbo primevo con caratteristiche di stress post-traumatico. Vivere uno stress post-traumatico significa d’altronde incorrere in una serie di sintomi fisici non indifferenti (come vampate di iper-arousal, sudorazione sregolata, etc.) e spesso in disturbi inerenti la qualità del sonno, che minano quella che è stata genericamente definita “forza dell’Io” e conducono a un generale senso di impotenza e debolezza psicologica.

Abbiamo su questo blog pubblicato in precedenza alcuni approfondimenti sul lavoro di Liotti:

  1. LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti)
  2. PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  3. IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  4. Qui un audio (puntata podcast) sul modello Liottiano

Qui di seguito invece riportiamo un estratto da un articolo di Camilla Marzocchi (AISTED) su un libro recentissimo pubblicato sul lavoro di Liotti.

Recensione: “Conversazioni con Giovanni Liotti su Trauma e Dissociazione“, a cura di Cristiano Ardovini, Cecilia La Rosa, Antonio Onofri (Edizioni ApertaMenteWeb 2023)

di Camilla Marzocchi, Consigliera AISTED

Ultimo arrivato nella nostra Bibliografia Essenziale di Psicotraumatologia, “Conversazioni con Giovanni Liotti su trauma e dissociazione” risulta un dono speciale per tutti i terapeuti esperti o che vogliano avvicinarsi alla psicotraumatologia, un dono perché gli autori si sono dedicati con perizia e cura ad un corposo lavoro di raccolta di materiali personali, appunti, interviste, trascritti di lezioni e supervisioni, per offrire al lettore un dialogo diretto con Giovanni Liotti, a ormai cinque anni dalla sua morte, rendendo fruibile il suo pensiero e soprattutto la sua dialettica e apertura inconfondibili.

Per chi ha avuto l’onore di assistere alle lezioni di Liotti, la lettura scorre veloce e appassionata proprio come le sue lezioni, con qualche sorriso e molta nostalgia, ma lasciando l’attenzione incollata alle parole che affiorano dalla sua viva voce, insieme alla consueta e inarrestabile velocità del pensiero e delle riflessioni di ampio respiro che permettono di spaziare dalle neuroscienze alla letteratura, dalla fisiologia alla pittura, mantenendoci però ben saldi allo sguardo clinico sempre centrato alla chiave di lettura a lui cara: identificare la psicopatologia della dissociazione attraverso le più svariate e complesse esperienze di umana sofferenza. Per chi non avesse mai avuto la possibilità di un incontro diretto con Giovanni Liotti, questo libro è certamente un’occasione preziosa da cogliere, ricca di spunti storici e riflessioni sulla nascita del suo pensiero, digressioni sulle diverse fasi storiche che la ricerca sulla psicopatologia del trauma e della dissociazione ha attraversato, il tutto arricchito da molti inserti e note degli autori che permettono anche ai lettori meno esperti di orientarsi nel testo e di integrare le informazioni e le citazioni essenziali che scorrono densissime nel dialogo-intervista.

Il testo è organizzato in tre parti tra loro complementari e interconnesse.

La Prima parte si focalizza su Psicopatologia e Dissociazione, offrendo un’ampia riflessione sulle basi del pensiero liottiano: la definizione di trauma dello sviluppo, la disorganizzazione del sistema di attaccamento legato all’esposizione ad eventi sfavorevoli e traumatici nella prima infanzia, il sistema di difesa come organizzatore centrale dell’esperienza del bambino, in assenza di aiuto e protezione, e la dissociazione come effetto di questi fallimenti nel ripristino di condizioni sufficienti di sicurezza. La disgregazione della coscienza che ne consegue configura la dissociazione come un effetto diretto (e non difesa!) del collasso di tutte le altre risposte di sopravvivenza. Questa inaccessibilità al sistema di attaccamento/accudimento è per Liotti sempre la causa primaria alla base di tutta la psicopatologia post-traumatica e in particolare della psicopatologia legata ai traumi cumulativi (trauma complesso), poiché per un bambino non c’è trauma se intervengono protezione e salvezza da parte delle figure di riferimento e non c’è disorganizzazione della coscienza se quel bambino, pur esposto a condizioni di pericolo di vita, può accedere tempestivamente alle cure e al sistema di accudimento di almeno un adulto centrato e capace di sintonizzarsi con i suoi bisogni primari. Per ogni bambino un evento di minaccia seguito immediatamente da un’esperienza efficace di sintonizzazione e sicurezza resta un brutto ricordo di un pericolo scampato, ma non necessariamente un trauma. In estrema sintesi questi assunti guidano tutto il pensiero di Liotti, orientato a valorizzare – nella ricerca come nella clinica – la necessità di riparare alla frattura originaria della coscienza, che non è mai determinata (solo) dal trauma, inteso come evento di minaccia alla vita, ma dalla concomitante assenza di una connessione sicura e protettiva capace di offrire aiuto e supporto. Questa assenza può manifestarsi a causa di un caregiver spaventoso/spaventante o trascurante (neglect), ma anche di un caregiver presente ma abdicante, condizione quest’ultima particolarmente dolorosa e difficile da riconoscere poiché il caregiver c’è ma è assorbito da altro, dalle sue stesse emozioni o sopraffatto da altri problemi all’interno e non è emotivamente disponibile.  Liotti definisce “la solitudine in presenza” come una condizione irredimibile, peggiore dell’assenza in cui è ancora possibile e accessibile il tentativo di raggiungere l’altro.

Ognuna di queste condizioni relazionali è foriera, in ogni bambino che si trovi a sperimentarla, di un blocco del naturale sistema di attaccamento di fronte a quella che si configura come una situazione emotiva “senza via di uscita” (paura senza sbocco): il bisogno di protezione attiva naturalmente il sistema di attaccamento verso il caregiver, che si rivela del tutto inadeguato – se non addirittura minaccioso – nell’offrire cura e conforto. Dunque nell’impossibilità fisiologica di lottare o fuggire quel bambino dovrà sopperire alla mancanza di protezione con strategie controllanti verso il caregiver – accudenti o punitive – che gli consentiranno (forse) di avere quel minimo di contatto sufficiente a garantirsi la sopravvivenza in un ambiente ostile e per recuperare un senso di padronanza di sé (appena) sufficiente a non scivolare nel collasso generale delle strategie di difesa (crollo dorso vagale), che significherebbero altrimenti svenimento (morte apparente) e quindi dissociazione. Queste ultime manifestazioni potranno restare silenti nel sistema nervoso, inibite dall’attivazione delle strategie di controllo, ma prima o poi tenderanno a manifestarsi, spesso anche a distanza di anni, di fronte al fallimento delle stesse strategie controllanti (as esempio: in caso di lutto, malattia, separazioni).

Da qui la nascita dei presupposti clinici che aprono alla Seconda parte del testo: Clinica della Dissociazione, in cui l’alleanza terapeutica e la stabilizzazione costituiscono i meccanismi centrali del lavoro terapeutico proposto, preliminari ad un lavoro solo successivo sull’Elaborazione delle memorie traumatiche e possibilmente poi di Integrazione.

–>CONTINUA SUL SITO DI AISTED.


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale

7 March 2023

“UN RITMO PER L’ANIMA”, TARANTISMO E DINTORNI


di Raffaele Avico

Il DVD “Un ritmo per l’anima”, curato da Giuliano Capani, mette insieme un documento videofilmato e un libretto con raccolte le trascrizioni delle interviste agli autori coinvolti nel progetto.

Il DVD, della durata di 45’ circa, si apre con una costruzione romanzata di una storia di “tarantismo”, dove vediamo una ragazza salentina alle prese con una serie di problemi connessi alla questione del “morso” della taranta: la ragazza si aggira per un paese dove ogni finestra ha i suoi occhi, e in preda a una sorta di stato di transe, raggiunge il mare e batte, a ritmo, due pietre. Su questa scena compare quindi la voce narrante vera e propria, che racconta il fenomeno del tarantismo dalle sue origini, soffermandosi su come “il rito” fosse visibile in Salento fino alla fine degli anni ’60, e fornendone una descrizione nelle sue diverse fasi.

Già altri autori avevano tentato di scomporre il rituale nel suo svolgersi: dal momento “a terra”, in cui la tarantolata si contorce sul pavimento, passando per un momento di danza vera e propria e di armonizzazione crescente del corpo con la musica, fino al ritorno a terra, segno di un raggiunto stato di quiete.

Qui però si fa riferimento, in particolare, alla questione dello “scazzicare”. Cosa si intende con il termine scazzicare? La voce narrante ci spiega come i musicisti, prima di riuscire ad agganciare emotivamente la tarantata, spaziavano tra diverse sonorità cercando di capire quale fosse la più emotivamente coinvolgente, quella in grado di “toccare” o agganciare in senso emotivo la donna sottoposta al rituale. Il momento del “tocco”, o di aggancio, è il momento in cui la donna viene “scazzicata”, perturbata dal suono. I musicisti, osservando il comportamento della tarantata, adattano e modulano il suono, così da renderlo sempre più attivante e potenzialmente terapeutico, verso un’armonizzazione di tutte le parti (suonatori, tarantata, collettività che guarda), come in una sorta di cerchio terapeutico.

Il documentario prosegue poi con diverse interviste fatte a personaggi in qualche modo riconosciuti per il loro studio a riguardo del fenomeno:

  1. come primo intervistato, il Dr. Giuliano Guerra, medico psicoterapeuta e allora (si parla del 2001) presidente dell’Associazione Italiana di Ipnosi Terapeutica, spiega il suo punto di vista sulla questione: come prima ipotesi, parla di “quadro” isterico, ovvero, sarebbe stato l’elemento coreografico e corale a curare un disturbo conversivo di origine isterica, nel suo senso quindi più classico e in qualche modo teatralizzato; racconta però come, dal suo punto di vista, la questione potrebbe essere anche declinata in un altro modo: la compresenza di uno stato alterato di coscienza (elemento di sfondo) insieme a un certo potere del suono (e di alcune caratteristiche del suono stesso: la sua ritmica ipnotica, la forza del suono del violino), sarebbero dal suo punto di vista in grado di “agganciare” l’”onda vibratoria negativa” che a suo tempo produsse il “male” (la sofferenza psichica). Qui parliamo dunque, a suo dire, di una “potenzialità sciamanica” del suonatore, che entrando in un profondo stato di connessione interiore con il malato, lo guarisce usando un canale di accesso preferenziale, che in questo caso è il suono.
    É chiaro come in questo caso si vadano a mettere in discussione aspetti più complessi inerenti la cura delle turbe psichiche in generale e la loro natura: esistono in molte culture forme di terapia, e nella nostra ne osserviamo allo stesso modo un ritorno, che usano canali “altri” rispetto alla parola, con risultati quasi sempre positivi.
    Come se la sofferenza psichica avesse forma non solo di “discorso“ interiore in qualche modo distorto, ma possedesse una sua peculiare natura anche solamente incarnata, non vincolata alla questione delle parole, ma anzi in grado di prendere forme altre (suoni? immagini? sensazioni?) e in quanto tale fosse appunto curabile attraverso altri canali. Guerra fa infine notare che si tratta qui di una forma di cura del male “sintomatica”, e non risolutiva, tant’è vero che ciclicamente il “morso” ritornava e si doveva riprocedere a un altro rituale.
  2. Altro intervistato, Georges Lapassade, che focalizza la questione sulla questione bioenergetica esplorata da Reich, psicoanalista dissidente che introdusse una visione alternativa di male psichico, ovvero come di “energia bloccata nel corpo”. Tutto questo è molto simile a quello che oggi si fa in psicoterapia sensomotoria tentando di sbloccare “tendenze all’azione” rimaste congelate nel corpo – si veda per esempio il lavoro di Pat Odgen in ambito psicotraumatologico. Il ballo della tarantata, dal suo punto di vista, sarebbe stato in grado di sbloccare questa quota di energia psichica rimasta bloccata, liberandola e fluidificandola.
    Anche qui, teorie formulate in epoche differenti sembrano convergere in una concettualizzazione univoca (“idraulica”) inerente la dinamica della libido/energia psichica/tendenza all’azione. La questione, in fondo, seppur riformulata in termini differenti e in epoche diverse, ruota sempre intorno allo stesso cardine: qualcosa che voleva essere liberato o espresso, e non ha potuto farlo, qualcosa di solido che vuole tornare liquido.
  3. Viene quindi intervistato Antonio Fassina, medico milanese e direttore, al tempo, del centro “Nuove Terapie” a Milano (oggi rinominato Centro di Terapia Naturali), sulla questione relativa al fenomeno del tarantismo in generale: Fassina parla di competenze sciamaniche inconsapevoli possedute dai terapeuti/musici, compiendo un parallelismo tra le terapia del tarantismo e quelle della psicoterapia di oggi: “il paziente libera, lascia sul lettino del terapeuta quello che una volta lasciava sul pavimento della chiesa di Galatina”. Anche qui viene messo in luce il carattere sintomatico della terapia, in fin dei conti provvisorio: non andando a estirpare alla radice il male, questo poi si presentava, come ciclicamente, e quindi andava, nuovamente, bonificato
  4. Viene intervistato poi Tullio Seppilli, professore di Antropologia medica, che fa riferimento ad altre culture dove la danza e la possessione sembrino aver assunto valore o funzione catartica. La differenza forte, spiega Seppilli, è il fatto che per esempio nelle culture afro-americane brasiliane, in cui si ritrovano corrispettivi laici del nostro tarantismo, il fatto di essere “cavalli del dio”, di essere cioè “invasati”, era qualcosa visto positivamente e anzi considerato uno stato speciale di grazia; nello stato invece di transe indotta da una possessione prodotta dal “morso”, la cosa era vissuta con estrema preoccupazione vista la connotazione diabolica del fatto -com’è tipico della religione cristiana. Seppilli colloca nel lavoro di Ernesto Demartino la nascita dell’odierna etnopsichiatria, di fatto riconoscendo all’antropologo italiano ruolo di precursore di una visione più ”ampia” della psichiatria, che abbracci anche la soggettività umana in tutta la sua complessità e natura “sistemica”. Nel 1980 in Canada, a Montreal, venne organizzato un importante convegno chiamato “sciamanesimo ed endorfine”, in cui appunto venne discusso lo stato dell’arte intorno a questi aspetti che riguardavano la connessione tra pratiche di guarigione sciamanica e la psichiatria attuale; il tamburo suonato in modo ritmico -questo uno degli aspetti- è in grado di produrre un rilascio di endorfine con funzione anestetica del dolore psichico, questione appunto centrale se pensiamo a quanto il “tamburello” sia lo strumento cardine di ogni rito di tarantismo.

Altro aspetto messo in luce dal documentario, il parallelismo tra le pratiche di tarantismo e le attuali discipline di meditazione “dinamica”, basate sulla messa in scena del dolore mentale sul teatro del corpo (creazione di uno stato di caos indotto per mezzo di una respirazione volutamente caotica – espressione del dolore per via corporea – riappropriazione dello stato di equilibrio). Anche qui si va idealmente da uno stato di disequilibrio a una condizione di calma, da uno stato di disgregazione a uno stato di integrazione e armonia.
Platone, nel suo simposio, parla della medicina come l’arte umana di cercare equilibrio tra gli opposti, e della musica come di un’invenzione umana che concretizza il mettere insieme l’alto con il basso, il veloce con il lento, il forte con il piano, etc.: strumento dunque elettivo dove si debba eseguire un’operazione di “sintesi” o di riequilibratura di istanze disarmoniche, o di unione di pezzi tra loro scollegati.

Luigi Chiriatti, in uno spezzone del film, racconta di come la pizzica-pizzica come genere musicale, sembri racchiudere in sè un potere liberatorio non solo connesso al contesto salentino: il successo planetario del genere racconterebbe di questo “potere” intrinseco e quindi transculturale (pensiamo al recente successo del Canzoniere Grecanico Salentino negli USA, o al lavoro di recupero di pezzi tradizionali fatto da Ludovico Einaudi nel suo bellissimo Taranta Project).

Insieme a questi intervistati, il documentario Un ritmo per l’anima, importante lavoro di raccolta di testimonianze, vede al suo interno altri noti studiosi sul tema: Caterina Durante -fondatrice teorica del Canzoniere Grecanico Salentino-, Anna Nacci, Daniele Durante (nipote di Caterina Durante e primo tamburellista del Canzoniere Grecanico Salentino) e Mauro Durante, giovane violinista nel film, ora frontman del gruppo co-fondato dal padre.

In sintesi, ciò che emerge dalla visione di questo lavoro e ne definisce l’attualità, è sintetizzabile per punti in due aspetti:

  1. il razionale terapeutico che vuole portare unità dove c’è disgregazione, flessibilità dove c’è rigidità (movente clinico sottoscrivibile da tutte le odierne scuole di pensiero psicoterapeutico)
  2. l’aspetto dello sforzo fisico come strumento di vero risanamento psichico. Nel libretto contenuto nel DVD, viene riportata una testimonianza di Gurdjeff, che scrive: “Per far sì che tutti i centri lavorino nel modo giusto e non si ostacolino tra loro c’è bisogno di un vero sforzo fisico, solo in questo modo si crea la possibilità per l’armonia. Alcune nostre capacità possono essere espresse solo quando sottoponiamo il nostro corpo ad uno sforzo che esige una grande attenzione e un enorme consumo di energia, cioè quando gli sforzi che si fanno sono al limite dell’esaurimento, dandoci così la possibilità di accedere ad un contenitore speciale di energia: il grande accumulatore […]”

Altri documenti relativi al tarantismo, alle sue origini, ai libri che ne parlano, presenti su Psychiatry on Line e su Il Foglio Psichiatrico:

  1. apporti video sul tarantismo parte 1
  2. apporti video sul tarantismo parte 2
  3. intervista a Luigi Chiriatti
  4. “Sul tarantismo”di Luigi Chiriatti
  5. “sul tamburello” di Luigi Chiriatti
  6. “recensione del film “latrodoectus, che morde di nascosto”
  7. recensione di “Il tarantolismo” di Francesco de Raho
  8. immagini del tarantismo: Chiara Samugheo

NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / tarantismo

9 January 2023

SUICIDIO: SPUNTI DAL LAVORO DI MAURIZIO POMPILI E EDWIN SHNEIDMAN

di Raffaele Avico

In questo post prendiamo alcuni spunti dal lavoro di ricerca a proposito del suicidio effettuato da Maurizio Pompili, a sua volta ispiratosi al padre della suicidologia moderna, Edwin Shneidman.

Esistono aree di sovrapposizione tra i contenuti dei due autori, e peculiarità mutuate dai singoli apporti. Da una scorsa generale del lavoro di entrambi, emergono due aspetti centrali:

  1. il suicidio è un tentativo estremo di riprendere il controllo, di fronte a un dolore mentale percepito come insopportabile. Il fine del suicidio in questo senso non sembra tanto il non vivere, quanto lo spegnere la coscienza e con essa il dolore. Può sembrare paradossale, ma può essere in questo senso pensato come un movimento di autoaffermazione liberatoria, un gesto affermativo.
  2. Il gesto del suicidio viene spesso eseguito in una condizione di “visione a tunnel”: è spesso un gesto impulsivo che libera il soggetto da uno stato mentale rigido, costrittivo e intollerabile.

Vediamo alcuni spunti dal lavoro di Pompili e Shneidman.

  • In senso psicologico, sono 3 le caratteristiche della persona suicida:
    1.  ambivalenza (fino alla fine il soggetto è combattuto nel suo intento suicidario: il dialogo a proposito del “sì o del no” permane fino al momento dell’attuazione)
    2. impulsività (di fronte alla prima citata ambivalenza, il gesto suicidario viene eseguito dando spazio a un impulso che sopravviene e porta il soggetto ad auto-annientarsi)
    3. rigidità e pensiero limitato/visione “tunnel” (lo stato mentale pre-suicidario viene spesso descritto come alterato/dissociato, in particolare nei momenti precedenti l’atto; durante invece il periodo temporalmente precedente il suicidio stesso, è stata osservata la presenza di una visione particolarmente limitata e rigida in senso cognitivo, con una concezione rigidamente pessimistica sulla realtà, e poca libertà di pensiero)
  • fino a due terzi delle persone che commettono suicidio, lasciano segnali che vanno presi sul serio, soprattutto in età adulta: si veda questo studio.
  • più che “depressivo”, si potrebbe definire lo stato mentale del suicida come caratterizzato da disperazione o hopelessness, un costrutto psicologico che si riferisce a quegli schemi cognitivi nei quali il comune denominatore è l’aspettativa negativa verso il futuro; gli individui ritengono che nulla si rivelerà a loro favore, che non avranno mai successo nel corso della vita, che i loro obiettivi importanti non saranno raggiunti e che i loro problemi non verranno risolti. Al senso di hopelessness si accompagna spesso il senso di helplessness, la convinzione di non poter essere aiutato e soprattutto di non potere aiutarsi, di non avere il controllo sugli eventi
  • Nel mondo occidentale attuale il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso alle prese con un problema, che considera il suicidio come la migliore soluzione.
  • La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in uno stato chiamato comunemente stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine dolore mentale/psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto che si suicida nel quale la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura, l’ansia sono caratteristiche facilmente identificabili. L’individuo ha dunque necessità di porre fine a tale stato; il rischio di suicidio diviene grave quando quel soggetto lo considera come la migliore ed unica soluzione per porre fine a quel grande dolore psicologico.
  • L’individuo sperimenta come prima accennato uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi: avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile.
  • Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni: il soggetto trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
  • C’è un dolore mentale che, quando risolto, allontana le idee suicidarie: Pompili dà molta più importanza alla presenza di dolore mentale (qui un approfondimento su questo) come elemento di diagnosi, che non ad altri fattori. La sua tesi è che proprio questo elemento, il “dolore mentale”, rappresenti il punto chiave, il sintomo da ricercare per eseguire una corretta formulazione del rischio suicidario. Si veda: The relationship between mental pain, suicide risk, and childhood traumatic experiences: results from a multicenter study.
  • Valutare il rischio di suicidio è un compito particolarmente arduo. Questa complessa meta-analisi della letteratura esistente sull’argomento ha portato alla constatazione che i fattori di rischio sono predittori deboli e imprecisi del comportamento suicidario: in questo studio gli autori concludono che la capacità predittiva dei fattori di rischio non è migliorata negli ultimi cinquant’anni e che, anzi, è rimasta modesta anche nei periodi di follow-up più frequenti rispetto alla norma. I segnali d’allarme vengono spesso raccolti in un acronimo utile a elencarli, per tenerli a mente: in inglese, IS PATHWARM?

Secondo Shneidman (1996) ci sono 10 elementi che sono presenti in almeno il 95% dei soggetti suicidi; egli li chiama Commonalities of Suicide:

  1. Lo scopo del suicidio è trovare una soluzione; non si tratta mai di un atto privo di fine. Si riferisce invece al voler uscire da una crisi, da una situazione insopportabile che genera il dolore psicologico;
  2. Il fine del suicidio è quello della cessazione della coscienza. Si può meglio comprendere il suicidio se lo si considera come un atto che abolisce la coscienza dell’individuo dove alberga il dolore mentale insopportabile e perciò si propone come la migliore soluzione per l’individuo. È questa la miscela esplosiva per il suicidio, ossia il momento in cui l’individuo, abbandonate altre possibilità di soluzione, inizia l’organizzazione dell’atto letale;
  3. Lo stimolo al suicidio è il dolore psicologico. Se la cessazione è ciò che l’individuo cerca di ottenere, il dolore psicologico è ciò da cui l’individuo cerca di fuggire. Nei suicidi si ritrova, ad un’attenta analisi, la combinazione tra volere la cessazione della coscienza e l’allontanamento dal dolore psicologico insopportabile. Il suicidio non esita mai dai momenti felici. I pazienti descrivono tale dolore in molti modi come “Sono morto dentro”, “Sentivo un dolore fortissimo dentro”; “Sentivo onde di dolore propagarsi nel mio corpo”. Il suicidio è una risposta ad appannaggio esclusivo dell’uomo nei confronti di un dolore psicologico estremo. Se si riduce il livello di sofferenza il suicidio non si verifica;
  4. Lo stressor comune nei suicidi si riferisce ai bisogni psicologici insoddisfatti. Paradossalmente, il soggetto suicida tenta la carta del suicidio per soddisfare bisogni psicologici vitali rimasti frustrati. Questo porta nuovamamente a concludere che possono esserci molte morti nelle quali manca la motivazione del soggetto (incidenti, morti naturali), ma ogni suicidio riflette alcuni bisogni psicologici non soddisfatti;
  5. Lo stato emotivo dei soggetti suicidi è riferibile all’hopelessness-helplessness. Questi soggetti affermano “Non c’è nulla che io possa fare (oltre al suicidio) e non c’è nessuno che possa aiutarmi (con il dolore che sto soffrendo);
  6. Lo stato cognitivo tipico del soggetto suicida è l’ambivalenza. I soggetti suicidi sono caratterizzati dall’ambivalenza tra la vita e la morte fino al compimento dell’atto letale. Sebbene si apprestino alla morte desiderano ardentemente essere salvati;
  7. I soggetti suicidi presentano uno stato di costrizione mentale. Il suicidio può essere compreso come uno stato di costrizione psicologica transitoria che coinvolge le emozioni e l’intelletto. I soggetti suicidi infatti affermano “Non c’era altro che potessi fare”, “L’unica via di uscita era la morte”, “L’unica cosa che potessi fare era uccidermi”. È questa la visione tunnel di cui spesso si parla, nella quale vi è un restringimento del campo delle opzioni disponibili; e nel quale la mente è sintonizzata su due sole possibilità: una soluzione lieta (quasi magica) oppure la cessazione, il suicidio. In questi casi vige la legge del tutto o del nulla.
  8. L’azione tipica dei suicidi è la fuga, un esodo da qualcosa di angosciante;
  9. L’atto interpersonale tipico dei soggetti suicidi è la comunicazione dell’intenzione. Dalle prime autopsie psicologiche è emerso che nelle morti equivoche, poi classificate come suicidi, veniva comunicato l’intento suicidario in modo più o meno esplicito. Questi soggetti, piuttosto che comunicare ostilità, rabbia o depressione, comunicavano verbalmente o con il loro comportamento il fatto che si sarebbero uccisi;
  10. I pattern del suicidio sono assimilabili agli schemi adattativi della vita dell’individuo suicida. In altre parole, osservando come una certa persona si è comportata in altri momenti difficili della propria vita si può prevedere come quella persona si approcci al suicidio. Probabilmente durante altre difficoltà quella persona ha sperimentato la tendenza al pensiero dicotomico e alla fuga dal dolore. Sebbene il suicidio, per definizione, sia un evento mai sperimentato in precedenza, possiamo indagare la mente dei soggetti nei confronti del gesto letale analizzando lutti, separazioni, perdite di vario genere.

SUGGERIMENTI PER LA GESTIONE DELLA CRISI SUICIDARIA

Come comunicare

  • ascoltare attentamente, con calma
  • comprendere i sentimenti dell’altro con empatia
  • emettere segnali non verbali di accettazione e rispetto
  • esprimere rispetto per le opinioni e i valori della persona in crisi
  • parlare onestamente e con semplicità
  • esprimere la propria preoccupazione, l’accudimento e la solidarietà
  • concentrarsi sui sentimenti della persona in crisi

Come non comunicare

  • interrompere troppo spesso
  • esprimere il proprio disagio
  • dare l’impressione di essere occupato e frettoloso
  • dare ordini
  • fare affermazioni intrusive o poco chiare
  •  fare troppe domande

Domande utili

  • Ti senti triste?
  • Senti che nessuno si prende cura di te?
  • Pensi che non valga la pena di vivere?
  • Pensi che vorresti suicidarti?

Indagine sulla pianificazione del suicidio

  • Ti è capitato di fare piani per porre fine alla tua vita?
  • Hai un idea di come farlo?

Indagine su possibili metodi di suicidio

  • Possiedi farmaci, armi da fuoco o altri mezzi per commettere il suicidio?
  • Sono facilmente accessibili e disponibili?

Indagine su un preciso lasso di tempo

  • Hai deciso quando vuoi porre fine alla tua vita?
  • Quando hai intenzione di farlo?

SUICIDIO ADULTO, ELEMENTI A CUI PRESTARE ATTENZIONE DURANTE IL COLLOQUIO CLINICO:

  • parlare del suicidio o della morte
  • dare segnali verbali come “Magari fossi morto” o “Ho intenzione di farla finita”
  • oppure segnali meno diretti come “A che serve vivere?”, “Ben presto non dovrai più preoccuparti di me” e “A chi importase muoio?”
  • isolarsi dagli amici e dalla famiglia
  • esprimere la convinzione che la vita non ha senso e non ha speranza;
  • disfarsi di cose care;
  • mostrare un miglioramento improvviso e inspiegabile dell’umore dopo essere stato depresso;
  • trascurare l’aspetto fisico e l’igiene
  • con riferimento, agli anziani, ma non esclusivamente ad essi:
  • mettere da parte farmaci
  • comprare armi
  • esprimere un improvviso interesse oppure perdere un interesse per la religione
  • trascurare attività quotidiane di routine
  • fissare un appuntamento medico anche per sintomi lievi

SUICIDIO GIOVANILE/ADOLESCENZIALE. ELEMENTI A CUI PRESTARE ATTENZIONE DURANTE IL COLLOQUIO CLINICO:

  • mancanza di interesse per le attività abituali;
  • generale calo delle qualità (attenzione, memoria etc.);
  • mancanza o diminuzione della forza di volontà;
  • comportamenti negligenti in classe;
  • inspiegabile assenza o ripetute assenze ingiustificate;
  • abuso di tabacco, alcool o droga (compresa la cannabis);
  • coinvolgimento in atti di violenza tra studenti o atti che richiamano l’intervento della polizia;
  • isolamento;
  • hopelessness, cioè l’atteggiamento di mancanza di speranza;
  • dichiarazioni scritte e verbali riguardanti la morte, l’intenzione di morire e la mancanza di voglia di vivere;
  • attrazione per la morte ed il morire;
  • disfarsi di beni o lasciare le proprie volontà;
  • drastici cambiamenti del comportamento o della personalità, come trascurarsi nell’aspetto e isolarsi dagli amici e familiari.

CHE FARE?

Eseguita una valutazione del rischio, e quando in presenza di idee suicidarie ricorrenti, la linea guida generica da seguire la troviamo su molteplici siti a tema, tra cui questo. Viene sempre consigliato il ricorso a personale formato (meglio psichiatri) e, se in presenza di un soggetto in evidente “stato mentale perturbato” e mosso da impulsività suicidaria, la soluzione può essere quella di chiamare soccorsi che possano raggiungere l’individuo dove si trova fisicamente (quindi chiamando, per l’Italia, il 118). Ciò su cui si può intervenire, di fatto, è l’impulsività suicidaria, dal momento che risulta pressochè impossibile interrompere le pianificazioni suicidarie “lunghe”, eseguite a mente fredda.

Altri spunti: https://www.prevenireilsuicidio.it e questa rubrica su Psychiatry On Line.


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale

5 December 2022

SUPERHERO THERAPY. INTERVISTA A MARTINA MIGLIORE

di Raffaele Avico

Abbiamo intervistato la Dott.ssa Martina Migliore, psicoterapeuta CBT, a proposito di Superhero Therapy e ACT.

La Superhero Therapy è un approccio psicoterapico pensato per il lavoro con ragazzi (ma non solo), mutuato dall’Acceptance and Commitment Therapy, compreso negli strumenti di intervento appartenenti alla cosiddetta “terza onda” dell’approccio cognitivo comportamentale.

Per integrare i contenuti di questa intervista, si veda anche questo.

Buona visione!



NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / interviste

26 November 2022

Allucinazioni nel trauma e nella psicosi. Un confronto psicopatologico

PREMESSA: riportiamo in toto questo articolo di approfondimento riguardante il fenomeno delle “voci”, intese in senso transdiagnostico (Articolo originale su Psychiatryonline.it). Gli autori fanno parte del Circolo Romano di Psicopatologia. Capire quando una “voce” sia in realtà da ri-pensare come un sintomo post-traumatico, è di fondamentale importanza per una corretta diagnosi: già qui avevamo introdotto il tema.

di Stefano Naim, Matteo Maggiora, Massimiliano Aragona

Abstract

Scopo del nostro studio è quello di indagare se (e in che modo) le allucinazioni di ambito dissociativo differiscano dalle allucinazioni di marca psicotica. A tale scopo, abbiamo analizzato i caratteri psicopatologici delle allucinazioni nell’ambito dei flashback post-traumatici e nella schizofrenia. Per farlo, ci siamo serviti di un approccio idealtipico: ovvero, di descrizioni del fenomeno capaci di coglierlo nella sua forma più tipica (idealtipica) al di là di somiglianze e sovrapposizioni eventualmente esistenti tra un fenomeno e l’altro.

É emerso che le allucinazioni dei flashback post-traumatici insorgono in stato di coscienza chiaramente alterato, vissute spesso come esperienze molto vivide e multisensoriali, altamente personalizzate, solitamente echi realistici di esperienze traumatiche originali, associate a reazioni emotive coerenti con il loro contenuto. Inoltre, il soggetto che le sperimenta è spesso in grado di riconoscerne la natura patologica, di fenomeno “intrusivo” proveniente dalla sua mente.

Le allucinazioni schizofreniche, invece, appaiono di solito in stato di coscienza più lucido, sono a volte bizzarre, poco strutturate, meno vivide, definibili o localizzabili che nel trauma. Possono suscitare reazioni emotive inaspettate o incongrue. Nonostante questa maggiore “ambiguità” sul piano sensoriale, il soggetto tende a non criticare o dubitare delle sue esperienze percettive ma, in modo peculiare, ad accoglierle “passivamente” come fatti reali. Manca, cioè, una vera consapevolezza della loro natura patologica.

In conclusione, il nostro studio suggerisce che le più tipiche allucinazioni PTSD e schizofreniche, quando analizzate sul piano fenomenico, possano risultare nettamente distinguibili.

Parole chiave: Allucinazioni, AVHs, Schizofrenia, Psicosi, PTSD, Trauma, Flashback, Dissociazione, Fenomenologia, Psicopatologia, Idealtipo


Introduzione

Si tratta del terzo studio di un progetto – avviato dal Circolo Romano di Psicopatologia – volto a indagare le possibili specificità di allucinazioni presenti in diverse sindromi psichiatriche.

Le ricerche empiriche hanno frequentemente indagato i fenomeni allucinatori. Le allucinazioni acustiche verbali (le cosiddette “voci”) sono state ad esempio esaminate in diversi caratteri intrinseci – il numero di voci, l’origine (interna o esterna) accento, volume, durata, il contenuto e significato (imperative, dialoganti, denigratorie, teleologiche, ecc.) – come in molti caratteri estrinseci – strategie di coping, livello di insight, distress emotivo indotto dalle voci ecc.

Nell’ambito di queste ricerche non sono emerse differenze significative tra le allucinazioni appartenenti al registro dei disturbi psicotici, affettivi o traumatici (Junginger el al., 1985; Copolov et al., 2004; Nayani et al., 1996; Daalman et al., 2011). Si sono peraltro riscontrate differenze modeste tra le allucinazioni dei pazienti psichiatrici e fenomeni “allucinatori” che possono verificarsi in soggetti non clinici (cioè, che non hanno mai ricevuto una diagnosi psichiatrica) (Daalman et al., 2011).

Partendo da questi rilievi, si sono generate due “visioni” opposte: la prima considera le allucinazioni dei fenomeni tipicamente post-traumatici. Esse – anche nel caso dei disturbi psicotici – avrebbero comunque origine da episodi di “traumatizzazione” verificatisi nel corso della vita del soggetto (Longden et al., 2012, Moskowitz et al., 2011). In senso fisiopatologico, l’allucinazione si collocherebbe, dunque, nell’ambito di una dissociazione del piano di coscienza su base traumatica (Longden, Madill e Waterman 2012, Moskowitz et al. 2017).

La visione opposta vede invece nelle allucinazioni dei classici fenomeni psicotici, e considera quelle dei campioni non clinici dei fenomeni “mal-diagnosticati” (che cioè non sarebbero reali allucinazioni, ma qualcos’altro) oppure allucinazioni reali in soggetti ad “alto rischio di psicosi” ma non ancora riconosciuti (Laroi et al 2012 ). In questa visione, il meccanismo fisiopatologico si individua in un’alterazione del Sé di base (minimal self) correlandosi quindi ai disturbi del senso di “mineness” e “agency” (Zahavi, 2014; Parnas e Sass, 2001; Parnas et al., 2005).

Come affermato nei lavori precedenti (Maggiora e Aragona, 2020) queste due opposte posizioni condividono però, di fondo, una visione comune: il considerare, cioè, le allucinazioni sempre lo stesso oggetto, prescindendo da possibili differenze individuabili in condizioni di normalità o patologia, o in base al disturbo in cui si trovano.

Più in generale, abbiamo suggerito che la “sovrapposizione” fenomenica delle allucinazioni in diverse sindromi psichiatriche (e tra queste e i campioni non clinici) possa derivare dal tipo di strumenti usati per rilevarle: le comuni rating scales, infatti, tendono a indagare caratteri fenomenici piuttosto grossolani (es. quelli sopra elencati) favorendo la possibilità che fenomeni dispercettivi in sè distinti vengano “catturati” e trattati alla stregua di allucinazioni vere.

L’idea di fondo del nostro lavoro è che, invece, i fenomeni psicopatologici vadano indagati nei loro caratteri qualitativi: aspetti più “sottili” – di certo meno semplici da misurare – e tuttavia più specifici e, come tali, più vicini a cogliere la vera natura del fenomeno. In tal modo diventa possibile operare opportune distinzioni tra fenomeni che, tra loro, appaiono simili.

Partendo da ciò, il nostro progetto si è mosso nel tentativo di esplorare possibili specificità delle allucinazioni:

  • appartenenti all’ambito dei disturbi dello spettro traumatico, e in particolare dei pazienti affetti da PTSD (Maggiora e Aragona, 2020)
  • dall’altro lato, si sono esaminate le allucinazioni “per antonomasia”, quelle cioè proprie dei pazienti psicotici e, segnatamente, affetti da schizofrenia (Naim e Aragona, 2021).

Sulla base dei riscontri dei nostri lavori (a cui, per approfondimenti, si rimanda) pensiamo di poter sostenere che allucinazioni dissociative e allucinazioni psicotiche rappresentino fenomeni in sé diversi.

Questo, ovviamente, non significa escludere che pazienti affetti da PTSD possano sperimentare allucinazioni a carattere psicotico – abbiamo anzi descritto questa possibilità, come “schizophrenic-like hallucinations” (Maggiora e Aragona, 2020) – o ritenere che ai soggetti schizofrenici siano precluse esperienze del genere dissociativo (evenienza certamente plausibile). Queste possibilità esistono, e potrebbero – peraltro – supportare l’idea di un continuum psicopatologico nell’ambito delle esperienze dispercettive.

Noi, però, vogliamo far luce su ciò che differenzia i fenomeni, analizzare tratti e caratteri distintivi di fenomeni che rimangono qualitativamente diversi anche se, in alcuni casi, possono coesistere nella stessa persona, o “sfumare” uno in direzione dell’altro.

A supporto della nostra tesi, esporremo ora un confronto tra i caratteri psicopatologici evidenziabili nelle allucinazioni dei flashback post-traumatici ed in quelle schizofreniche.

Ci baseremo, per farlo, suI metodo della psicopatologia descrittiva di matrice jaspersiana, distinguendo tra gli aspetti di forma e contenuto dei fenomeni (Jaspers, 1913/2012) e dando priorità al piano dell’esperienza vissuta (Erlebnis) quella cioè riportata direttamente dalla persona, da una prospettiva in prima persona. Ci soffermeremo, in particolare, sul modo in cui la persona prende posizione di fronte alle sue esperienze allucinatorie.

Per enfatizzare i tratti più distintivi dei fenomeni in esame – evitando l’effetto confondente dei casi “sfocati” – useremo il metodo idealtipico (Weber, 1904/1949). L’idealtipo è una descrizione “ideale” (una sorta di prototipo) che raccoglie – tra le molteplici caratteristiche di un fenomeno – quelle che lo caratterizzano in modo più puro e coerente. I casi real world (quelli che concretamente incontriamo nella realtà quotidiana) sono spesso forme meno chiare ed esemplari rispetto al fenomeno puro idealtipico, ma indagarlo nella sua forma “pura” ci consente certamente di avvicinarci alla sua reale essenza psicopatologica. Considereremo, quindi, l’idealtipo delle allucinazioni post-traumatiche (dissociative) come appaiono nei casi gravi di PTSD. Dall’altro analizzeremo le più tipiche allucinazioni schizofreniche.

Come assunto di base, riteniamo inoltre che i fenomeni psicopatologici non siano semplici “oggetti” da descrivere singolarmente, ma parti di una più ampia costellazione clinica, e che vadano pertanto indagati in relazione ad una dinamica figura-sfondo che tenga conto dell’intero quadro fenomenico. Questa idea – di stampo ermeneutico – assume (come vedremo) molto rilievo nel disturbo allucinatorio, che può arrivare a coinvolgere in toto lo stato di coscienza e, ancora di più, interessare il globale modo di “essere-nel-mondo” del soggetto (vedi oltre).

N.B. Per un approfondimento della parte metodologica si rimanda alla pubblicazione dell’articolo su “Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences” (Volume 14, Issue 2, December 2021)

CARATTERI FORMALI DELLE ALLUCINAZIONI

Carattere di corporeità

Sia nei flashback PTSD che nella schizofrenia, le allucinazioni condividono una qualità di base: l’essere un’esperienza di tipo senso-percettivo. In modo immediato e pre-riflessivo, la persona vive l’esperienza allucinatoria nella forma di un oggetto dotato di corporeità, posto di fronte a sé nella sua concretezza e fisicità (Jaspers, 1913/2012, pp. 75) e come dato appartenente alla realtà esterna. Nei flashback PTSD, l’oggetto viene solitamente sperimentato con una vividezza sensoriale che le avvicina alle normali percezioni. Le allucinazioni schizofreniche, più spesso, sono molto meno chiare ed evidenti sul piano sensoriale (vedi oltre). Ma anche in questi casi, non viene mai meno il carattere primario di esperienza vissuta nei sensi (Jaspers, 1913/2012, pp.85; Scharfetter, 1976/1992, pp. 211 e 219). Tutte le allucinazioni mantengono perciò, seppur in vario grado, una qualità corporea di fondo.

Coinvolgimento sensoriale

Mono o multisensorialità

La percezione normale ha carattere multisensoriale: coinvolge cioè contemporaneamente i diversi sensi (vista, udito, olfatto, ecc.). Anche nei flashback post-traumatici le allucinazioni sono di norma multisensoriali, spesso in forma di scene che “ripetono” vicende traumatiche (persona che sente e vede il torturatore, percepisce l’odore della prigione, ecc).

Nella schizofrenia c’è più variabilità: possono verificarsi allucinazioni multisensoriali, ma più spesso esse coinvolgono un solo canale – e più tipicamente quello uditivo, es. le voci: il paziente sente qualcuno parlare, ma non lo vede. In alternativa (canale visivo) può vedere qualcuno o qualcosa, ma non sente la sua voce /suono, ecc.

Integrazione sensoriale

Nel normale atto percettivo, i dati che raccogliamo con i vari sensi si organizzano e strutturano in un unico oggetto di percezione. Nei flashback post-traumatici le scene allucinatorie sono solitamente integrate (l’aggressore viene visto, ascoltato, percepito come un tutto unico).

Nelle allucinazioni schizofreniche, al contrario, tale integrazione sensoriale può anche venir meno.

Vividezza percettiva

Le percezioni normali sono solitamente caratterizzate da un’elevata evidenza sensoriale (sono chiare, ben definite e dettagliate). Jaspers differenziava, in tal senso, la “freschezza” sensoriale delle percezioni, dall’esperienza sensorialmente più pallida e sbiadita delle rappresentazioni (prodotti della nostra attività immaginativa).

Nei flashback post-traumatici le scene allucinatorie sono di solito vivide e dettagliate, in modo simile alle normali percezioni.

Molte allucinazioni schizofreniche appaiono prive di questa «freschezza» percettiva: spesso anzi sono lacunose, «evanescenti» (voci maldefinite, come sussurri, sibili o fischi, poco comprensibili; visioni spesso sbiadite, ecc.) In alcuni casi, può aversi al contrario una maggiore salienza (per la quale l’oggetto o sue parti assumono particolare rilievo e si «impongono» a livello percettivo).

In ogni caso, nella schizofrenia, l’evidenza sensoriale dell’oggetto allucinatorio risulta di frequente alterata.

Costanza percettiva

Le percezioni di norma si presentano in modo stabile e costante nella coscienza – a differenza delle rappresentazioni, che risultano più mutevoli e difficili da “fissare” nella mente.

Nell’esperienza dei flashback PTSD – in modo simile agli stati del sogno – la scena si evolve e cambia rapidamente, fino al momento in cui il paziente “si sveglia”. E’ frequente, tuttavia, che una stessa scena traumatica possa ripresentarsi più volte (come qualcosa del passato che torna alla coscienza in modo ciclico).

Le allucinazioni schizofreniche offrono su questo piano una grande variabilità: possono essere più stabili (si “fissano” nel campo di coscienza, si ripresentano con le stesse modalità) o, più spesso, essere mutevoli e intermittenti (visioni flebili e sfuggenti, voci che cambiano di contenuto, volume, tono ecc.)

Localizzazione spaziale

Gli psicopatologi classici da sempre sottolineano che le rappresentazioni sono immagini interne, mentre le senso-percezioni si realizzano nello spazio esterno: il soggetto, cioè, registra qualcosa che si trova nell’ambiente al di fuori di sè (una voce, un’immagine, un odore, ecc.). I sensi coinvolti hanno una diversa capacità nel precisare l’esatta localizzazione dello stimolo percepito (es. la posizione spaziale di un oggetto osservato è più facile da individuare, rispetto alla voce di una persona al buio o a un odore che si diffonde nell’aria). E’ comunque sempre possibile riconoscere l’origine esterna della fonte percettiva.

N.B. La propriocezione riguarda invece sensazioni del proprio corpo (movimenti, posizioni del corpo o di sue parti, es. “sento il mio braccio muoversi”) ed è quindi principalmente una percezione interna. La propriocezione si presenta come un’eccezione, e verrà discussa a parte.

Nei flashback PTSD, la scena allucinatoria viene percepita nell’ambiente esterno. Le voci, i suoni, le immagini, gli odori appartengono a una data fonte sensoriale (spesso corrispondente alla figura dell’aggressore) localizzabile nell’ambiente. Il soggetto vive tipicamente la scena nel “qui e ora”, di fronte a sè, come spettatore coinvolto. Coerentemente con il flashback, c’è un distacco dall’ambiente circostante e il soggetto può sperimentare di trovarsi in un luogo diverso da quello reale o trasposto in un altro tempo, connessi con l’originaria esperienza traumatica (es. la prigione, il campo di battaglia, la casa dell’aggressore, ecc.). L’esternalizzazione della scena allucinatoria, in ogni caso, viene mantenuta.

L’equazione percezione=spazio esterno diventa più problematica nella schizofrenia. Non di rado le allucinazioni vengono avvertite nello spazio interno (voci nella testa, nel petto, nell’addome ecc.). Qui il soggetto assegna alla sua esperienza (la voce) il carattere di concreta percezione – diversa, dunque, da un prodotto di immaginazione – e tuttavia ne stabilisce la sede dentro il suo corpo, piuttosto che nella realtà circostante.

Inoltre, anche quando l’allucinazione mantiene una collocazione esterna, possono riscontrarsi diverse anomalie: percezioni mal localizzabili (il paziente non è in grado di riconoscere il luogo da cui proviene il suono, o la voce della persona che sta parlando); fuori dal normale campo sensoriale, come le allucinaz. extracampine (“vedere” una persona alle proprie spalle, udire suoni o voci distanti migliaia di chilometri, da altri mondi, ecc.); bizzarre (voci o telecamere situate dentro le pareti, negli indumenti, voci emesse da dispositivi tecnici; addirittura, comunicazioni dirette mente-a-mente).

In ultima analisi – nell’ambito del disturbo schizofrenico – sul tema della spazialità emergono forti criticità riguardo alla presunta sovrapposizione tra percezione normale ed allucinatoria.

Localizzazione propriocettiva

Nei flashback PTSD, la persona di solito vive la scena traumatica da spettatore coinvolto, spesso interagendo con essa. La tensione muscolare è frequente, la persona può sentire il dolore, ecc. Talvolta c’è una reazione di congelamento, la persona si sente come paralizzata. Sono tutte, comunque, reazioni fisiche coerenti e connesse con la scena terrifica (allucinatoria) che il soggetto si trova ad affrontare.

Nella schizofrenia la percezione corporea è spesso tipicamente disturbata: il corpo è avvertito come diverso (organi che si spostano, si modificano nella forma o dimensioni, corpo che si muove, ecc.). Soprattutto – come se qualcosa di “sottile”, ma fondamentale si stesse modificando nella percezione globale di sé – viene a perdersi la naturalezza dell’esperienza corporea. Ad es. il soggetto può sperimentare una sensazione di meccanizzazione dei suoi movimenti. Qui esperienza vissuta e credenza delirante (es. che parti del proprio corpo siano intenzionalmente spostate da entità esterne) sono così strettamente intrecciate da rendere perfino discutibile l’utilizzo stesso del termine allucinazione (Naim e Aragona, 2021).

Personificazione

Normalmente sappiamo identificare l’oggetto della nostra percezione: riconosciamo la sua identità (quella persona lì, quell’animale lì) i suoi tratti caratterizzanti (sesso, età, tratti somatici ecc.). Nelle allucinazioni dei flashback c’è un alto grado di personificazione: le persone della scena sono chiaramente riconosciute (l’aggressore, il torturatore, ecc). Le immagini viste, le voci ascoltate sono di persone distinte (come detto, spesso gli abusatori) con caratteristiche distinte. A volte la persona non rivive una scena esatta del passato, ma una sua rappresentazione in chiave simbolica (es. al posto dell’aggressore possono esservi “delle mucche mi stavano attaccando, ero con le spalle al muro …” [cosa rappresentano le mucche?] “probabilmente i nemici”). Anche in quel caso, la rappresentazione è comunque altamente personalizzata.

Nella schizofrenia le allucinazioni sono a volte ben identificabili (“è quella persona lì che sta parlando”). Più spesso però perdono riconoscibilità: le voci si fanno impersonali, scarsamente distinguibili («sento una voce ma non so chi è che parla»; non so se è uomo o donna» ecc.). Si può arrivare al punto in cui la personificazione viene completamente persa (es. non saper dire se la voce è di origine umana).

CONTENUTO DELLE ALLUCINAZIONI

Nel flashback PTSD i temi sono tipicamente di abuso e violenza. Come il termine “rivivere” suggerisce, i contenuti allucinatori si correlano a frammenti di memoria sensoriale che intrudono nella coscienza. Il paziente rivive immagini, odori e percepisce sensazioni fisiche ed emozioni simili o uguali a quelle che ha provato durante l’evento traumatico (come detto, a volte in forma esplicita altre in forma simbolica).

Al contrario, c’è una grande variabilità di contenuti nella schizofrenia. Alcuni sono certamente più frequenti: le voci hanno spesso carattere persecutorio o comunque negativo (comandano, criticano, denigrano il paziente ecc.). Tuttavia, alla stregua dei deliri schizofrenici – dove al versante persecutorio può affiancarsi una controparte di grandiosità (es. temi mistici, cosmologici, idee genealogiche) anche il contenuto delle allucinazioni può essere altamente variabile.

RELAZIONE TRA FORMA E CONTENUTO

Più che il contenuto specifico, vanno sottolineati alcuni aspetti peculiari delle allucinazioni schizofreniche:

a) l’incoerenza: spesso si rileva incongruenza tra diversi livelli, ad es. la risposta emotiva e/o il comportamento possono apparire strani e inattesi, rispetto al contenuto delle allucinazioni (una voce annuncia al pz che sta per essere avvelenato, e tuttavia lui mangia il cibo che gli è stato preparato). Talvolta contenuti tra loro contrastanti possono contemporaneamente coesistere (voci incoraggianti e minacciose allo stesso tempo).

b) il carattere autocentrico: le allucinazioni schizofreniche sono tipicamente incentrate sul paziente. Le voci possono rivolgersi direttamente a lui, o dialogare in terza persona senza coinvolgerlo apertamente. In ogni caso quelle voci si riferiscono a lui, stanno lì perché possa comprendere il messaggio a lui rivolto. A volte, il messaggio è permeato di una forte atmosfera esistenziale: significati importanti, profondi e nascosti che riguardano il paziente, che rivelano qualcosa su di lui e il mondo (Wyrsch, 1949/2014).

Questi aspetti, piuttosto caratteristici nella schizofrenia, sono sostanzialmente assenti nei flashback PTSD, dove c’è congruenza tra il contenuto allucinatorio e la reazione emotiva (di solito terrore, sofferenza, ecc.) e il paziente si trova nel “punto focale” della scena in coerenza con quanto da lui vissuto.

ALTRI FENOMENI PSICOPATOLOGICI

Come detto in apertura, le allucinazioni non vanno considerate “oggetti” isolati, ma fenomeni all’interno di una costellazione clinica più complessa (dinamica figura-sfondo). Analizzeremo qui, in particolare, il loro rapporto con lo stato di coscienza e, in seguito, le caratteristiche di temporalità del fenomeno allucinatorio.

Stato di coscienza

Nel caso del PTSD, le allucinazioni rientrano in una più ampia condizione (o sindrome) da iperarousal. Il paziente si trova usualmente in uno stato di allerta, tensione psico-motoria, insonnia, irritabilità, iperreattività agli stimoli (da quelli che gli ricordano il trauma ad altri meno specifici, come semplici rumori ecc.). Ciò avviene anche in assenza di evidenti stati dissociativo-allucinatori.

Se i pazienti hanno dei flashback, si assiste in aggiunta a un’alterazione dello stato di coscienza, nell’ambito della quale vivono le scene allucinatorie. In questi casi la loro coscienza è di tipo crepuscolare o oniroide: la lucidità e l’orientamento sono in parte o in tutto compromessi, e si ha perdita di contatto con la realtà circostante: il soggetto appare distaccato dall’ambiente e ha una ridotta capacità di reagire ad esso (stimoli delle persone che lo circondano, comprensione di quanto gli viene detto ecc.). Superata la crisi, spesso (ma non sempre) non conserva memoria di quanto è avvenuto durante l’episodio.

Per quanto invece riguarda la schizofrenia, da Kraepelin in poi si è sempre affermato che deliri e allucinazioni avvengono a coscienza lucida. Su questa base viene anche tracciata la classica distinzione tra delirio (dello schizofrenico) e delirium (nell’alcolismo). E’ frequente tuttavia constatare una ricca produzione allucinatoria negli stati di acuzie (esordio della malattia, riesacerbazioni ecc.) durante i quali si ha spesso una «destrutturazione», seppur parziale e transitoria, del campo di coscienza. In generale, sembra possibile fare una distinzione tra le fasi acute di malattia, in cui le allucinazioni (come anche gli stati deliranti) sembrano più strettamente connesse a una disorganizzazione del campo di coscienza (Ey, 1934, 1954) e le fasi di evoluzione e cronicità (psicosi schizofrenica conclamata) in cui le alterazioni di coscienza – intese in senso stretto – appaiono meno chiare ed evidenti, e non sembrano giustificare la produzione delirante-allucinatoria del paziente.

N.B. Per un approfondimento del dibattito sul tema della coscienza si rimanda alla pubblicazione dell’articolo su “Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences” (Volume 14, Issue 2, December 2021)

Temporalità

Dinamica temporale

I flashback del PTSD presentano esordio rapido, spesso innescato da stimoli (esterni o interni) aventi un legame simbolico con gli eventi traumatici del passato. Anche la conclusione è spesso rapida, con un improvviso ritorno allo stato lucido di coscienza. Questa dinamica può essere descritta come switch off/switch on (spento/acceso). La dinamica temporale dell’esperienza allucinatoria si rivela strettamente connessa a quella del flashback: ovvero inizia e finisce con esso, all’interno dell’alterazione crepuscolo-oniroide della coscienza. La scena allucinatoria evolve quindi come una sorta di film (o di sogno, ma molto vivido e realistico).

Nella schizofrenia non si verifica un simile shift della coscienza, e le allucinazioni, come detto, si verificano in stato per lo più lucido. La loro dinamica di insorgenza-scomparsa è altamente variabile: alcune vanno e vengono rapidamente, altre persistono più insidiosamente e/o svaniscono lentamente; alcune voci cambiano continuamente, altre rimangono per anni inalterate, ecc.

Esperienza del tempo

Nei pazienti con PTSD l’esperienza del tempo è caratteristicamente quella di un “tempo circolare“: il passato si “riattualizza”, ossia periodicamente ritorna, immodificato, nel presente (si dice, classicamente, che “la persona non può lasciare il passato nel passato“). Come detto, le memorie traumatiche possono presentarsi sottoforma di flashback e scene allucinatorie. Tuttavia, in questi casi il vissuto non è quello del ricordo, ma di fatti che si verificano nel qui e ora (non sono il “ricordo di lui che mi picchiava” ma il “vedo che cerca di farmi del male, lo sento urlarmi contro” ecc.). Come da classica definizione delle allucinazioni, il paziente cioè percepisce, nella realtà attuale, qualcosa che effettivamente non esiste. In altri termini, tali esperienze si riferiscono a vicende traumatiche del passato, ma sul piano soggettivo vengono sperimentate come qualcosa di reale e attuale, nel presente della persona. Di fronte all’emergere di queste esperienze psicopatologiche, la naturale progressione del flusso temporale (dal passato verso il futuro) può essere alterata: le stesse scene, infatti, possono tornare più e più volte, in una generale stagnazione del tempo vissuto del soggetto.

Nella schizofrenia, l’esperienza del tempo è stata spesso descritta in termini di tempo congelato e immobilizzato (Minkowski, 1933). Vi è un eterno e sfuggente “ora”, nel quale può inserirsi la sensazione che qualcosa di importante e imminente stia per accadere: una posizione descritta da Kimura (2005) come ante-festum. Secondo Stanghellini et al. (2016) l’alterata esperienza del tempo schizofrenico sta nella sua disarticolazione: vi sarebbe cioè un’alterazione fondamentale nella costituzione del Sé di base, che si tradurrebbe in micro-lacune dell’esperienza cosciente: cosicché fenomeni mentali, non più incorporati nella continuità del flusso temporale dell’esistenza, possono venire vissuti come “blocchi”, inserzioni del pensiero o, se esternalizzati, manifestarsi come allucinazioni uditive.

PRESA DI POSIZIONE (POSITION-TAKING)

E’ stato evidenziato che la persona, normalmente, non solo è cosciente della sua esperienza ma prende anche posizione su quello che soggettivamente sperimenta. Molti sintomi psichiatrici, ad esempio, possono essere visti come risultato di una specifica “reazione” psico-emotiva del soggetto al suo vissuto disturbante di base (Stanghellini, 2016). Questa impostazione è in accordo con quella ermeneutica di Berrios (2013) sull’auto-interpretazione soggettiva delle esperienze fondamentali.

Secondo Aragona et al (in stampa) ci sono due livelli di presa di posizione. Nel primo, vi è una “presa” più immediata (pre-riflessiva) della propria esperienza. Nel secondo il soggetto opera su di essa una ricerca di significato più volontaria ed esplicita.

Presa di posizione implicita

Normalmente, alle nostre percezioni, attribuiamo implicitamente un carattere di realtà: siamo sicuri di vedere ciò che vediamo, di sentire ciò che sentiamo, ecc. Siamo cioè certi della loro concreta esistenza, come “oggetti” parte dell’ambiente a noi circostante. In altre parole, in tutte le percezioni “la certezza di realtà ci è semplicemente data” (Scharfetter, 1976/1992). Sebbene sia spesso usato il termine “giudizio di realtà”, questo non è un vero e proprio giudizio (come ad es. nella valutazione di un pro e contro). Si tratta piuttosto di una capacità pre-riflessiva, tramite cui, in modo “automatico” e immediato, il soggetto assegna un carattere di realmente esistente a quello che percepisce tramite i sensi.

Anche le allucinazioni, notoriamente, sono spesso giudicate reali: alla stregua delle normali percezioni, il soggetto le sperimenta come fatti “oggettivi” dei sensi che si “impongono” nel campo di coscienza, piuttosto che “prodotti” di un’esplicita attività mentale. In altre parole, sia le percezioni normali che quelle allucinatorie condividono il senso di realtà di quanto percepito.

Sia le allucinazioni dei flashback PTSD che quelle schizofreniche hanno, quindi, questa caratteristica.

Una differenza è che le prime si verificano in stato dissociativo di coscienza, e la qualità (di realtà) dell’esperienza viene dedotta dall’osservatore esterno, sulla base del modo in cui il paziente interagisce con la scena allucinatoria. Il paziente, infatti, uscito dall’episodio può avere un ricordo dell’evento, ma più spesso non ne conserva memoria. Le voci schizofreniche, al contrario, si verificano in stato “lucido”, quindi è il paziente stesso che può descrivere ciò che sta vivendo.

Altrove (Naim e Aragona, 2021) abbiamo sottolineato che, nonostante i dati percettivi si “impongano” nel campo soggettivo di coscienza, di norma conserviamo nei loro confronti un certo “margine d’azione”: es. possiamo spostare l’attenzione, allontanarci e/o “stoppare” una fonte sensoriale che ci disturba (tappiamo le orecchie se il rumore è forte, chiudiamo gli occhi se la luce è eccessiva ecc.). Ma soprattutto, possiamo dubitare della realtà della nostra percezione, qualora essa ci appaia “dubbia” o strana”.

Nel caso della schizofrenia questa capacità tende a ridursi. Anche i soggetti schizofrenici possono cercare di fronteggiare le loro allucinazioni (per quanto, non di rado, con modalità «bizzarre»). Spesso però nemmeno provano a opporsi, ma rimangono come «catturati» dalla loro esperienza allucinatoria. Essi cioè mostrano, caratteristicamente, una maggiore passività ricettiva, per la quale raramente arrivano a mettere in discussione la realtà delle loro allucinazioni: nonostante siano percettivamente ambigue o strane, il soggetto tipicamente non «corregge» il suo giudizio. Il dato allucinatorio (come discusso) può quindi avere caratteristiche sensoriali dubbie, incomplete, contraddittorie, tali anche da porsi “in conflitto” con il contesto percettivo globale, ma per i pazienti rimane ugualmente un dato di realtà («quel che i malati vedono o sentono è per loro una realtà inoppugnabile», Bleuler).

Interpretazione esplicita

La presa di posizione di secondo livello riguarda una ricerca più volontaria ed esplicita di significato per la propria esperienza. Concentriamo qui la discussione sul livello che concerne la “consapevolezza di malattia”: chiamata anche insight – termine in verità più ampio – essa si riferisce alla condizione in cui una persona che sperimenta un fenomeno disturbante lo riconosce come patologico.

Nei flashback PTSD la scena allucinatoria si presenta in modo invadente, intrudendo nella mente contro la volontà del soggetto. Tuttavia, poiché si verifica in stato alterato di coscienza, il paziente non è in grado, mentre la sperimenta, di giudicarla come patologica. Una volta che comunque torna lucido, di solito non ha difficoltà nel giudicare l’abnormità di quanto accaduto – a condizione che ne conservi almeno in parte memoria; a volte, infatti, il giudizio è possibile solo indirettamente, dopo aver ricevuto un “feedback” da chi gli sta attorno.

Il paziente schizofrenico, invece, spesso non riconosce le sue allucinazioni come fatti patologici. La sua scarsa consapevolezza affonda in un problema fondamentale connesso con il suo disturbo di base: egli perde il senso di proprietà sulla propria esperienza (disturbo della meità) perde titolarità sui propri contenuti di coscienza. In altre parole, a livello soggettivo non si sente il proprietario, bensì come uno spettatore di ciò che soggettivamente sperimenta (Naim e Aragona, 2021).

Di fronte, allora, alle sue allucinazioni, il soggetto tende a giudicarle come fatti “estranei” alla sua attività mentale. Può arrivare a elaborare spiegazioni deliranti (considerarle es. “corpi estranei” – imposte da entità esterne – nell’ambito di sindromi di «influenzamento»). Può viceversa, quando soggettivamente meno disturbanti, accoglierle in modo totalmente passivo (per cui esse stanno semplicemente lì). In ogni caso giudicandole, da un lato, come eventi plausibili e reali, e non riconoscendole come fatti “generati” dalla propria mente, egli non considera le sue esperienze allucinatorie come un possibile segno di malattia.

Conclusioni

In questo studio abbiamo confrontato due diverse tipologie di allucinazioni:

  • quelle che caratterizzano i flashback dissociativi nei pazienti con PTSD, che emergono nel contesto di uno stato di coscienza alterato (crepuscolo-oniroide) come scene vivide e multisensoriali, altamente personalizzate, spesso “echi” realistici di esperienze traumatiche originali, e dotate sul piano soggettivo di una reazione emotiva coerente con il loro contenuto. Quando la persona ne ha ricordo (o viene informato su quanto accaduto) le considera chiaramente fatti irreali, provenienti dalla propria mente, di carattere patologico.
  • le tipiche allucinazioni schizofreniche che, d’altra parte, sono vissute a coscienza lucida (o quasi), presentano minor vividezza sensoriale (più incomplete, mutevoli e sfuggenti) sono a volte incoerenti o bizzarre, meno personalizzate e più scarsamente localizzabili. Nonostante la loro stranezza e ambiguità percettiva il soggetto non le giudica però irreali, contraddittorie, ecc. ma le “accetta” passivamente, le prende così come sono senza mettere in discussione la loro plausibilità. Manca quindi la consapevolezza della loro natura patologica.

Per evidenziare opportunamente gli aspetti psicopatologici differenziali abbiamo usato un approccio idealtipico, ovvero un metodo atto a descrivere i fenomeni nella loro forma più pura. Presupposto di questa scelta è che un’indagine rigorosa dei fenomeni, in grado di coglierne gli aspetti più sottili e caratterizzanti, permetta di migliorare la loro definizione sul piano clinico. Con questo approccio abbiamo cercato di mettere in luce come – al netto di possibili somiglianze e sovrapposizioni – le allucinazioni di ambito post-traumatico e quelle tipiche schizofreniche siano qualitativamente diverse.

Nel real world è frequente incontrare forme meno pure, con pazienti che vivono esperienze psicopatologiche appartenenti a un “territorio di mezzo”; la stessa ricerca empirica può riscontrare diversi livelli di sovrapposizione, con riscontro di pazienti in cui coesistono entrambi i tipi di fenomeni, o presentano forme “sfocate” o “a ponte”. E rimane aperta la questione di investigare questo ampio “territorio di confine” (le allucinazioni post-traumatiche senza completa dissociazione di coscienza; le allucinazioni schizophrenic-like in pazienti con diagnosi di PTSD ecc. – Maggiora e Aragona, 2020). La sua esistenza, tuttavia, non rappresenta per noi la prova di un continuum dimensionale: nella misura in cui – per quanto esposto – i due tipi di allucinazioni, prese nella loro forma caratteristica, conservano dal nostro punto di vista sembianze molto diverse.

Una possibile obiezione al nostro lavoro è che solo quelle schizofreniche siano allucinazioni “reali”, mentre le esperienze dei flashback nel PTSD non siano allucinazioni, ma fenomeni intrusivi connessi ad eventi traumatici. Dal canto nostro abbiamo cercato di evidenziare come, nel vissuto del paziente, essi non si configurano come memorie ma come vere e proprie esperienze di carattere allucinatorio. A questa obiezione può, inoltre, essere contrapposta l’ipotesi che le allucinazioni schizofreniche, anch’esse, si correlino a ricordi basati sul trauma (Steel, 2015). Ad ogni modo abbiamo preferito astenerci in questa fase dalle confutazioni teoriche, per mantenerci su un rigoroso piano di descrizione fenomenica.

Un importante passo può essere, in futuro, quello di indagare se le caratteristiche fenomeniche descritte siano sottese da dimensioni psichiche più “profonde”: ovvero, se esista una corrispondenza tra le differenze psicopatologiche riscontrate nelle diverse forme allucinatorie e il tipo di organizzazione (o alterazione) nelle strutture di base dell’esperienza. L’obiettivo diventa cioè quello di esplorare le allucinazioni – come, potenzialmente, qualsiasi altro fenomeno psicopatologico – in rapporto ad alterazioni più sottili a carico delle strutture primarie della soggettività, che vanno a minare il modo stesso in cui il soggetto costruisce la sua esperienza (alterazioni che concernono l’esperienza di sè, del proprio corpo, delle altre persone e del mondo). In definitiva, si apre allo studio delle relazioni tra le singole forme psicopatologiche – per come esse vengono osservate e descritte nella realtà clinica – e le strutture di base da cui emergono, quelle su cui l’intera esperienza soggettiva si costruisce, origina e prende forma. Si entra qui nel vasto campo dei disturbi del Sè – argomento già ampiamente trattato, a proposito delle allucinazioni schizofreniche, in uno dei nostri precedenti lavori (Naim e Aragona, 2021). Questa indagine, di impronta più strettamente fenomenologica, può essere il punto di partenza di successivi studi.

Bibliografia

  • Anscombe R. (1987) The disorder of consciousness in schizophrenia. Schizophrenia Bulletin, 13:241-260.
  • Aragona M, Marková IS. (2015) The hermeneutics of mental symptoms in the Cambridge School. Revista Latinoamericana de Psicopatologia Fundamental, 18:599-618.
  • Aragona M. (2019) The influence of Max Weber on the concept of empathic understanding (Verstehen) in the psychopathology of Karl Jaspers. History of Psychiatry, 30:283-299.
  • Aragona M. (2020) Phenomenology of hallucinations: the contribution of Henri Ey’s organodynamism to the appraisal of qualitative differences. Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences, 6:39-48.
  • Aragona M, Mancini M, Scudiero M, Stanghellini G. (in press) Position-taking. An example of philosophical contribution in refining clinical practice in mental health. In: Fiorillo A, Falkai P, Gorwood P. (Eds.) Mental health research and practice: scientific evidence and clinical experience. Cambridge University Press, Cambridge.
  • Berrios GE. (2013) Formation and meaning of mental symptoms: history and epistemology. Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences, 13:8-12.
  • Berrios GE, Marková IS. (2012) The construction of hallucination: history and epistemology. In: Blom JD, Sommer IEC. (Eds.) Hallucinations: research and practice. Springer, New York.
  • Cabaleiro Goas M. (1966) Temas psiquiátricos. Morata, Madrid.
  • Charlton B. (2000) Psychiatry and the human condition. Radcliff e Medical Press, Abingdon.
  • Copolov DL, Mackinnon A, Trauer T. (2004) Correlates of the affective impact of auditory hallucinations in psychotic disorders. Schizophrenia Bulletin, 30:163-171.
  • Daalman K, Boks MP, Diederen KM, de Weijer AD, Blom JD, Kahn RS, Sommer IE. (2011) The same or different? A phenomenological comparison of auditory verbal hallucinations in healthy and psychotic individuals. Journal of Clinical Psychiatry, 72:320-325.
  • Larøi F. (2012) How do auditory verbal hallucinations in patients differ from those in non-patients? Frontiers in Human Neuroscience, 6:25.
  • Ey H. (1934) Hallucinations et délire. Librairie Felix Alcan, Paris.
  • Ey H. (1954) Structure et déstructuration de la conscience. Étude Nº 27. In: Études Psychiatriques, vol. 3. Desclée de Bouwer, París:653-760.
  • Frith CD. (1992) The cognitive neuropsychology of schizophrenia. Taylor & Francis, London.
  • Giersch A, Mishara AL. (2017) Is Schizophrenia a disorder of consciousness? Experimental and phenomenological support for anomalous unconscious processing. Frontiers in Psychology, 8:1659.
  • Graham B, Herlihy J, Brewin CR. (2014) Overgeneral memory in asylum seekers and refugees. Journal of Behavioral Therapy and Experimental Psychiatry, 45:375-380.
  • Hemsley DR. (1987) An experimental psychological model for schizophrenia. In: Häfner H, Fattaz WF, Janzarik W. (Eds.) Search for the causes of schizophrenia. SpringerVerlag, Stuttgart:179-188.
  • Herlihy J, Scragg P, Turner S. (2002). Discrepancies in autobiographical memories. Implications for the assessment of asylum seekers: Repeated interviews study. British Medical Journal, 324, 324-327.
  • Jaspers K (1913/2012) Psicopatologia generale. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma.
  • Jervis G (1975) Manuale critico di psichiatria. Feltrinelli Editore, Milano.
  • Kanagaratnam P, Asbjørnsen AE. (2007) Executive deficits in chronic PTSD related to political violence. Journal of Anxiety Disorders, 21:510-525
  • Kiaris F, Petta AM, Begotaraj E, Libertas M, Lai C, Spitoni GF. (2020) Profi lo cognitivo nei migranti con sintomi post-traumatici. SIMM National Congress, Roma.
  • Kimura B. (2005) Scritti di psicopatologia Fenomenologica. Fioriti Editore, Rome.
  • Koso M, Sarač-Hadžihalilović A, Hansen S. (2012) Neuropsychological performance, psychiatric symptoms, and everyday cognitive failures in Bosnian ex-servicemen with posttraumatic stress disorder. Review of Psychology, 19:131-139.
  • Larøi F. (2012) How do auditory verbal hallucinations in patients diff er from those in non-patients? Frontiers in Human Neuroscience, 6:25.
  • Leskin LP, White PM (2007) Attentional networks reveal executive function deficits in posttraumatic stress disorder. Neuropsychology, 21:275.
  • Longden E, Madill A, Waterman MG. (2012) Dissociation, trauma, and the role of lived experience: toward a new conceptualization of voice hearing. Psychological Bulletin, 138:28-76.
  • Junginger J, Frame CL. (1985) Self-report of the frequency and phenomenology of verbal hallucinations. Journal of Nervous and Mental Disease, 173:149-155.
  • Maggiora M, Aragona M. (2020) Phenomenal aspects of auditory verbal hallucinations in post-traumatic reactions. Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences, 13:47-53.
  • Maung HH. (2021) Thought insertion and the Minimal Self. Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences, 14:32-41.
  • Minkowski E. (1933) Le temps vécu. d’Arey, Paris.
  • Moskowitz A. (2011) Schizophrenia, trauma, dissociation, and scientific revolutions. Journal of Trauma & Dissociation, 12:347-357.
  • Moskowitz A. Mosquera D, Longden E. (2017) Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of schizophrenia and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives. European Journal of Trauma & Dissociation, 1:37-46.
  • Naim S, Aragona M. (2021) Psychopathology of hallucinations in schizophrenic patients. Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences, 14:9-18.
  • Nayani TH, David AS. (1996) The auditory hallucination: a phenomenological survey. Psychological Medicine, 26:177-189.
  • Parnas J, Møller P, Kircher T, Thalbitzer J, Jansson L, Handest P, Zahavi D. (2005) EASE: Examination of
  • Anomalous Self-Experience. Psychopathology, 38:236-258.
  • Parnas J, Sass LA. (2001) Self, solipsism, and schizophrenic delusions. Philosophy, Psychiatry, & Psychology,
  • 8: 101-120.
  • Petta AM, Kiaris F, Aragona M, Begotaraj E, GobboCarrer E, Curcio V, Lai C, Spitoni GF (2018) Cultural adaptation of the Lifespan Memory Interview in the Asylum Seekers (LMI-AS). Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences, 11:19-31.
  • Ritunnano R, Stanghellini G, Broome MR. (2021) Self-interpretation and meaning-making processes: re-humanizing research on early psychosis. World psychiatry, 20:304-306.
  • Scharfetter C. (1976/1992) Psicopatologia generale, un’introduzione. Prima edizione italiana. Feltrinelli Editore, Milano.
  • Stanghellini G. (2016) Lost in dialogue: anthropology, psychopathology, and care. Oxford University Press, Oxford.
  • Stanghellini G, Ballerini M, Presenza S, Mancini M, Raballo A, Blasi S, Cutting J. (2016) Psychopathologyof lived time: abnormal time experience in persons with schizophrenia. Schizophrenia Bulletin, 42:45-55.
  • Steel C. (2015) Hallucinations as a trauma-based memory: implications for psychological interventions. Frontiers in Psychology, 6:1262.
  • Villagrán JM. (2003) Consciousness disorders in schizophrenia: a forgotten land for psychopathology. International Journal of Psychology and Psychological Therapy, 3:209-234.
  • Wallis S, Denno P, Ives J, Mallikarjun P, Wood SJ, Oyebode F, Broome M, Upthegrove R. (in press) The phenomenology of auditory verbal hallucinations in emotionally unstable personality disorder and post-traumatic stress disorder. Ir J Psychol Med.
  • Weber M. (1904/1949) ‘Objectivity’ in social science and social policy. In: The methodology of the social sciences. The Free Press of Glencoe, Glencoe (IL):50-112.
  • Woon FL, Farrer TJ, Braman CR, Mabey JK, Hedges DW (2017) A meta-analysis of the relationship between symptom severity of Post-traumatic Stress Disorder and executive function. Cognitive Neuropsychiatry, 22:1-16.
  • Wyrsch J. (1949/2014) La persona dello schizofrenico. Fioriti Editore, Roma.
  • Zahavi D. (2014) Self and other: exploring subjectivity, empathy, and shame. Oxford University Press, Oxford.

  • NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / ptsd

15 November 2022

FUGA DI CERVELLI

di Raffaele Avico

Sul podcast di questo blog abbiamo caricato diversi interventi, per lo più inerenti il trauma e la psicoterapia delle sindromi post-traumatiche. Nel corso dei mesi del primo lockdown (prima metà del 2020) abbiamo intervistato diversi professionisti emigrati all’estero (per lo più psichiatri), nel tentativo di fare un confronto tra “modelli” diversi nei termini di presa in carico della malattia mentale.

Come viene preso in carico un paziente in Belgio? E in Svizzera? Come si lavora con pazienti psichiatrici a Chicago?

La serie si chiama Fuga di Cervelli, e qui di seguito alleghiamo le varie interviste fatte fino ad ora. C’è anche un approfondimento sul “modello triestino”, qui approfondito.

  1. FUGA DI CERVELLI EP.1 Modello italiano e modello statunitense a confronto, con Fernando Espi Forcen!
  2. FUGA DI CERVELLI EP.2 Modello italiano e modello svizzero a confronto, con Omar Timothy Khachouf!
  3. FUGA DI CERVELLI EP.3 Modello italiano e modello belga a confronto, con Giovanna Jannuzzi!
  4. FUGA DI CERVELLI (SPECIALE TRIESTE) Modello triestino, PARTE 1, con Roberta Balestra!
  5. FUGA DI CERVELLI (SPECIALE TRIESTE) Modello triestino, PARTE 2, con Mariagrazia Cogliati Dezza!
  6. FUGA DI CERVELLI EP.6 Modello italiano e modello statunitense a confronto, con Matteo Respino!

NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / interviste

7 November 2022

PSICOTERAPIA DELL’ANSIA: ALCUNI SPUNTI

di Raffaele Avico

La neurobiologia dell’ansia la troviamo spiegata in modo puntuale in questo doppio articolo in inglese, che riassume tutto quello che, per ora, c’è da sapere: fa parte di una newsletter dal nome “More to that” .

Viene raccontata l’ansia usando come teoria di partenza la teoria del cervello tripartito/triuno di Paul MacLean: si tratta di entrare nel mondo della “sovrainterpretazione degli stimoli”, delle “reazioni di allarme” e del “processo di cognitivizzazione” (che ci consente di interpretare in modo “digeribile” stimoli che provengono dalla parte più antica (rettiliana) del nostro cervello).

I passaggi “neurobiologici” fondamentali, sono:

“The stimulus first reaches the thalamus, which relays this information over to the amygdala. The amygdala quickly interprets the response as threatening so it alerts the hypothalamus, kicking off a multi-step process that produces adrenaline and norepinephrine. This then fires off the sympathetic nervous system, which finally creates the sensations of chest tension, sweaty palms, and lip quivers” ..ovvero la sensazione di ansia.

Leggendo questa completa disamina, troviamo molto materiale per eseguire degli approfondimenti sul tema.

Esistono molteplici modalità per lavorare con l’ansia in senso psicoterapico (al di là dell’approccio farmacologico), che potremmo considerare ugualmente importanti, strumenti da mettere in campo quando dovessimo avere a che fare con questo tipo di problema.

Vediamone alcuni:

  • PSICOEDUCAZIONE SULLA NEUROBIOLOGIA DELL’ANSIA: spiegare a un paziente cosa significhi soffrire d’ansia, e quali siano i meccanismi sottesi all’ansia e alla relazione di allarme, rappresenta un importante strumento preliminare. Concettualizzare/dare un significato/nominare permette di esercitare un primo meccanismo di controllo.
  • ESERCIZIO FISICO: il rilascio di sostanze indotto dall’esercizio fisico, svolge un effetto ansiolitico naturale. Qui per approfondire
  • La psicoterapia CBT rappresenta il primo pilastro per lavorare con l’ansia e uno degli strumenti centrali nel contrastarne i derivati. In particolare, quando di ansia “sociale” si tratti, la psicoterapia CBT permette di correggere i difetti di interpretazione di alcuni segnali sociali (segnali che a volte vengono sovra-interpretati, altre volte mal-interpretati); l’idea è che vi sia un’operazione intepretativa fatta dal soggetto, e che si debba in questo senso lavorare per “ripulire” il suo sguardo da questa “intepretatività” spesso arbitraria, a volte con strumenti ad hoc come l’ABC.
  • IMAGERY RESCRIPTING: uno degli strumenti usati in psicoterapia per contrastare l’allarme, la “fear response” e l’ansia, si propone di lavorare sulle immagini mentali disturbanti attraverso l’Imagery rescripting, che Pierre Janet aveva chiamato, in tempi estremamente precoci, “sostituzione immaginativa“. Di cosa si tratta? Qui troviamo una breve introduzione al tema. L’idea è quella di “sostituire” le immagini mentali in grado generare allarme con immagini migliori in termini di “digeribilità” psichica
  • TERAPIA ESPOSITIVA E REHEARSAL: la terapia espositiva rappresenta il secondo pilastro da usare per lavorare con l’ansia, soprattutto considerando che come accennato in precedenza l’ansia è una reazione di allarme, uno stato di accensione protratta del sistema di difesa di un individuo. Se consideriamo l’ansia una reazione di allarme, è implicito che questa sia una reazione frutto di condizionamento, nata in concomitanza di un qualche tipo di apprendimento. Nessuno nasce ansioso: è possibile che esista una certa suscettibilità alle reazioni di allarme: lo sviluppo tuttavia di un disturbo d’ansia passerà da una (ri)lettura allarmata dell’ambiente di vita, spesso mutuata dalla relazione con familiari a loro volta ansiosi, magari “interiorizzati” nel tempo. Come dire: l’ansia è spesso appresa in modo implicito durante la crescita, divenendo una sorta di “stile”, di “forma mentale” attraverso cui il paziente tende a leggere gli eventi di vita. In questo senso la “terapia espositiva” rappresenta uno strumento “implicito” di affrontare le risposte di allarme, non mediato dal ragionamento. Si tratta di esporsi all’oggetto dei propri timori, così da uscirne de-sensibilizzati e maggiormente calmi.  Si veda per esempio questo. Qua avevamo approfondito il tema “terapia espositiva” in ambito “fobie”: il tema delle “risposte d’allarme” è tuttavia presente anche in ambito “ansia”
  • APPROCCI BOTTOM-UP: negli ultimi anni sono stati messi in evidenza dagli studi di ricerca molteplici strumenti da usare come “aiuto” nei momenti di maggiore attivazione ansiosa, dal respiro lento (che attivando il sistema nervoso autonomo parasimpatico, contribuisce a regolare l’arousal), al grounding, alla meditazione/mindfulness (usata per non colludere con le immagini ansiogene interiori, che vengono “lasciate andare”)

Uno dei maggiori studiosi mondiali in ambito, LeDoux, sottolinea come le due forme di approccio all’ansia (implicite, come la terapia espositiva, ed esplicite come la CBT), debbano essere usate insieme, una a supporto dell’altra.

Per approfondire.


NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale

25 October 2022

LA Q DI QOMPLOTTO

di Raffaele Avico

Questa poderosa inchiesta sul fenomeno di Qanon rappresenta un lavoro fondamentale per chiunque sia interessato ad approfondire il tema “complotti”, nel tentativo di capire come sia possibile che -in epoca attuale- fioriscano e divampino narrazioni così devianti e “diversive” (come le definisce Wu Ming 1, autore del libro), paranoidee e incentrate appunto su ipotesi e cospirazioni mondiali -con vari contenuti e sotto-narrazioni annesse.

Cos’è, prima di tutto, Qanon?

Su questa recensione dal portale Doppiozero ne viene data una definizione puntuale:

“QAnon è in estrema sintesi una fantasia distopica diffusa in rete (in particolare modo negli Stati Uniti e in Germania) nei network della destra radicale: un complotto immaginario secondo cui il mondo sarebbe segretamente governato da una setta di miliardari “di sinistra” e depravati, dediti a terribili misfatti (satanismo, pedofilia e torture ai danni di bambini) che avrebbero la funzione di dare sfogo alla loro avidità energetica, sessuale ed economica e di garantire loro privilegio e dissolutezza. Al netto delle diverse varianti, alcuni “veri patrioti” guidati da Donald Trump starebbero conducendo una guerra segreta contro i malvagi potenti della cosiddetta Cabal (di cui farebbero parte Hillary Clinton, Barack e Michelle Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, etc.) animando così una crociata dai tratti apocalittici che chiede adesione e coinvolgimento per porre fine a l’atroce situazione.”

Questo gruppo di pedo-satanisti userebbe per incontrarsi una serie di tunnel scavati al di sotto della superficie terrestre negli Stati Uniti, luoghi sicuri dove portare i bambini e compiere i rituali.

Le caratteristiche intrinseche del movimento sono riassunte ottimamente sulla pagina Wikipedia dedicata.

Da questo libro da più di 500 pagine, a opera di un membro del collettivo Wu Ming di Bologna, apprendiamo che il tema è molto antico, e troviamo fantasie complottiste già in epoca medioevale, a fare da sostrato “culturale” a persecuzioni sistematiche che si protrassero per molto tempo; leggendolo, scopriremo che le radici storiche del fenomeno Qanon sono da rintracciarsi nella forma di odio razziale più antico, quello verso la popolazione ebraica, a sua volta di antichissima origine, derivata dalle narrazioni diffuse dalla chiesa cattolica per secoli, originatesi da letture distorte dei testi sacri e mistificazioni cumulatesi nel tempo a proposito del popolo ebraico.

Leggendo La Q di Qomplotto osserveremo come il tema di una cospirazione montata da un gruppo ristretto di ricchi a danno di persone normali per un proprio vantaggio, sia storicamente ricorrente, costante, e che spesso la “messa a terra” delle fantasie cospirazionistiche si verificò in concomitanza di particolari contingenze storiche adatte al loro divampare.

Il libro si divide in due parti principali.

Nella prima parte viene cronologicamente descritto il fenomeno della nascita del movimento Qanon, fin dalle prime apparizioni sul web (su portali dedicati come 4chan o 8chan, portali aperti a ogni forma di contenuto, senza nessun tipo di censura) fino al suo culmine, ovvero l’invasione del campidoglio da parte di centinaia di persone, nel 2021, a fine mandato presidenziale di Donald Trump -divenuto nel frattempo leader simbolico del movimento stesso.

La seconda parte del libro è invece una ricostruzione filologica della storia del movimento, eseguita tentando di prendere in mano i “filamenti genetici” del movimento a partire dai suoi primordi, ovvero collegandosi a tutti i movimenti cospirazionisti generatisi in Europa (Qanon nasce, culturalmente, in Europa, per poi rimbalzare e divampare in USA) e tracciando la traiettoria storica di ognuno di questi fili; notiamo come Qanon abbia solamente messo insieme, e fatto convergere, molteplici movimenti culturali sotterranei, anche attraverso la mediazione fondamentale dei Social Network. Wu Ming 1 descrive Qanon come un mostro nato sui Social, grazie al potere di interconnessione totale creato da piattaforme così orizzontali e ubique.

L’inchiesta fatta per questo lavoro (a partire da un’impressionante raccolta di appunti, fonti e materiale, sistematizzata e organizzata in modo lineare in tre anni di scrittura, durante la pandemia Covid19) è di una meticolosità impressionante, e il libro rappresenta una pietra miliare nella letteratura sul tema “complotti”.

Procedendo nella sua ricostruzione filologica, chiarendo dunque la genealogia del fenomeno Qanon, Wu Ming 1 racconta di come alcuni autori cospirazionisti (spesso fortemente cattolici) abbiano -in precisi momenti storici che definisce “momenti di singolarità” – fatto convergere e sistematizzato alcune tematiche legate ai complotti, producendo dei punti di svolta nella letteratura sul tema, con pesanti ricadute nel “mondo reale”.

L’ultimo momento di singolarità, Wu Ming 1 osserva, lo rintracciamo nella storia recente: la sovra-interpretazione della comunicazione di Trump a seguito della sua destituzione come Presidente USA, accompagnata da una crisi pandemica e sociale a fare da corroborante, da tensioni sempre più accese in senso sociale negli Stati Uniti.. tutti elementi in grado di innescare -sui social- e dare vita a un fenomeno come il movimento Qanon.

Wu Ming 1, in questo lavoro, osserva come negli ultimi 2 anni, quelli di pandemia, diverse narrazioni “complottistiche” abbiano fatto irruzione sulla scena, mediate ancora una volta dai Social Network. Pensiamo per esempio alle fantasie di complotto sulla nascita della pandemia stessa, alla questione 5g, al problema con gli anti-vaccinisti: narrazioni in grado di convogliare -nel punto di vista dell’autore- una parte della tensione sociale, in questo modo salvaguardando i veri responsabili della crisi sistemica in atto ancora oggi, che l’autore sostiene essere i fautori delle politiche di sfruttamento ambientale e sociale degli ultimi decenni.

Al di là del libro a firma Wu Ming 1, traiamo dalla lettura alcune riflessioni:

  • i Social hanno un potere aggregativo e corroborante enorme, e questo si vede nella nascita di fenomeni come Qanon; sempre più osserviamo come la realtà “fattuale” (i fatti neutri, spogliati del loro significato) venga caricata e rivestita da narrazioni in grado di esplodere sulle piattaforme Social: lo avevamo osservato parlando di Social Dilemma, anche in questo caso osserviamo come questo fenomeno di mistificazione della realtà produca risultati reali, concreti, anche “offline”. In questo gioco, il giornalismo sembra avere un ruolo centrale, fondamentale: la realtà viene venduta alla popolazione usando toni necessariamente emozionali/caricati di emotività per ragioni di neuromarketing. Il risultato è il crearsi di una comunicazione Social sempre più emotiva, poco mediata, poco pensata, in grado di radicalizzare individui spesso isolati socialmente. Come non pensare che i due anni pandemici passati incollati sugli schermi degli smartphone, non abbiano costituito il terreno ideale perché potesse nascere un fenomeno come Qanon?
  • dibattere a voce, guardando in volto le persone, obbliga a una maggiore pacatezza, al produrre pensiero; diffondere notizie in tono troppo allarmistico, produce polarizzazione e risposte emotive del lettore/osservatore. Wu Ming 1, nel ricostruire i prodromi e la storia di Qanon, e i “precedenti” mediatici delle correnti cospirazioniste osservate di recente in Italia, effettua una critica spietata al lavoro fatto dal Resto del Carlino negli anni del caso “bambini di satana”, accusando il giornale di scarsa professionalità ed eccessiva ricerca dello scoop. Al tempo (parliamo degli anni’90), il collettivo Luther Blissett (poi Wu Ming) orchestrò una beffa mediatica proprio per mettere in evidenza la scarsa credibilità dell’impianto mediatico: è qui descritta
  • ciclicamente esistono movimenti sociali che prendono forme di natura paranoide: l’”altro” viene confinato ed espulso; ne parla molto bene Massimo Recalcati nel suo “La tentazione del muro”: la salvaguardia della tenuta identitaria è garantita attraverso l’espulsione dell’altro; questo fenomeno lo osserviamo sia nell’individuo singolo, che nel corpo sociale. Le fasi della “paranoicizzazione”, sono puntualmente descritte ne Il signore delle mosche: fa da sfondo sempre la paura, il senso di scarsa prevedibilità, e il bisogno di compattarsi intorno a elementi sociali percepiti “solidi”/forti.

Volendo provare a tracciare un “insegnamento” conclusivo mutuato dalla lettura di La Q di Qomplotto, lo troviamo nell’osservare un meccanismo che si ripete, con narrazioni inquinananti che fanno largo uso di meccanismi di paranoicizzazione, trovando ogni volta forme diverse/oggetti di odio differenti.

Come prima accennato, Wu Ming 1 in questo libro fa notare che c’è, sul fondo, una colpa non riconosciuta ed attribuita all’altro; il pensiero assume così una forma del tipo: “non riconosco come mia la responsabilità di un determinato fatto, la proietto sull’altro esterno da me, e lo perseguito”; pensiamo alle fantasie di complotto sulle cause della pandemia Covid: è più semplice pensare a un gesto deliberato che non tracciare la linea che collega l’ipersfruttamento ambientale, il cambiamento delle abitudini animali, un maggior contatto tra certi animali e l’uomo e il salto di specie di un virus come il Covid 19. Il vero nemico, in tutto questo, è l’antropocene, l’impatto dell’uomo sulla natura e il suo modellarla a fini economici. Wu Ming 1 questo lo sottolinea con forza, osservando come le fantasie complottiste in fondo difendano il sistema, dirottando le accuse non sui reali fautori del disastro, ma su target più facili, e spesso più deboli.

Su questi temi, si veda anche questo.


NB “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti.

Article by admin / Generale / recensioni

12 October 2022

POPMED: UN ESEMPIO DI NEWSLETTER

di Raffaele Avico, Francesco della Gatta

Un esempio delle newsletter inviate, ogni due settimane, attraverso Popmed.

Popmed è una newsletter a pagamento, costa 9,90€ al mese, propone articoli scientifici di libera lettura estratti da riviste ad alto impatto scientifico, presentati con una sinossi minima; per professionisti o interessati alle tematiche inerenti la psicoterapia e la psichiatria, che vogliano aggiornarsi sulla ricerca di settore.

—-

Settembre 2022: POPMED #3

  1. Negli ultimi 10 anni numerose ricerche hanno evidenziato come l’uso eccessivo dei dispositivi mobili sia un alto fattore di rischio nel minare la salute mentale; e tale rischio cresce al diminuire dell’età dei soggetti. Sintomatologie depressive, ritiro sociale, esposizione al cyberbullismo, disturbi d’ansia sono alcuni degli outcome più frequenti della sempre più frequente e totale immersione nel virtuale. La logica e i dati ci suggeriscono che più una persona investe il proprio tempo nell’utilizzo dello smartphone, maggiore sarà il rischio, ad esempio, di sviluppare un profilo ansioso. La pandemia Covid è stata, per certi versi, un propulsore nella decrescita dei livelli di salute mentale e, nel 2020, il numero di ore di utilizzo degli smartphone ha avuto una notevole impennata verso l’alto. Alcuni ricercatori Cinesi si sono chiesti se, nel periodo della pandemia, i due eventi correlassero positivamente, ovvero maggiore esposizione smartphone=maggiore rischio di ansia. I risultati, ottenuti su un campione di 250 studenti universitari in lockdown, mostrano tuttavia un dato controintuitivo, suggerendo che l’utilizzo dello smartphone possa avere aiutato i soggetti nel mantenere i contatti con le persone non più frequentabili causa pandemia e tenuto a bada la crescita della sintomatologia ansiosa. Come narra un vecchio detto “Non tutto il virtuale vien per nuocere”. Trovi qui l’articolo: Smartphone Usage and Anxiety among College Students during Social Isolation for Covid-19 Epidemic in China
  2. La violenza domestica, una vera piaga del nostro millennio. Secondo la Europian Union Agency For Fundamental Rights a partire dall’età di 15 anni, più di una donna su due ha subito molestie sessuali, una su tre ha subito violenza fisica e/o sessuale, una su cinque è stata vittima di stalking (18%) e una su venti di stupro (5%). Il 43% delle donne ha subìto violenza psicologica. Qui un’ulteriore indagine approfondita a cura dell’ISTAT. Un gruppo di ricercatori britannici si è recentemente occupato di analizzare l’incidenza che tali numeri hanno nella generazione di outcome psicopatologici. Il campione, composto da oltre 7000 soggetti dai sedici anni in su, mostra come le vittime di violenza domestica (in ogni sua forma) presentino un altissimo rischio di comportamenti autolesivi e tentati suicidi rispetto alla restante popolazione psichiatrica. Un’interessante chiave di lettura che la ricerca offre è che agli operatori della salute mentale che si trovino di fronte ad un paziente che mette in atto comportamenti autolesivi e/o suicidari debba sempre risuonare un campanello d’allarme ed esplorare il dominio domestico alla ricerca di episodi di violenza passati o in corso. Solo in tal modo si potrà comprendere “the whole picture” e impostare un adeguato piano terapeutico per i pazienti. “A new must is to ask”; trovi qui l’articolo: Intimate partner violence, suicidality, and self-harm:
    a probability sample survey of the general population in England
  3. Negli ultimi anni, e in particolare nel periodo della pandemia da Covid19, la lettura di quotidiani online ha rappresentato un affaccio diretto da parte della popolazione su tutto ciò che accadeva nel mondo. Esporsi però a news catastrofiche con una frequenza costante, può avere delle conseguenze in termini di salute mentale. Questa ricerca ha voluto indagare il fenomeno del news-avoidance, le conseguenze della sovra-esposizione alle news e l’impatto che il tenersi lontani dall’ambito “comunicazione” avrebbe sull’ingaggio politico. Ne parla qui il direttore del Post Luca Sofri che, citando l’articolo, scrive: «la presentazione degli autori della ricerca spiega che “mentre gli studiosi di comunicazione politica hanno spesso trattato il consumo delle news come la pietra angolare della buona cittadinanza, abbiamo scoperto che le scelte e le percezioni sul dovere di tenersi informati degli avoiders sono irregolari e poco elaborate, in buona parte per via di una previsione che le news procureranno loro ansie senza essere rilevanti per le loro vite: con il risultato di un coinvolgimento limitato nelle news stesse, e per estensione nelle questioni politiche e civiche. Promuovere società più informate richiede che si affrontino questi radicati punti di vista”». Particolarmente interessante per gli interessati all’ambito giornalismo/comunicazione. Trovi qui l’articolo: How News Feels: Anticipated Anxiety as a Factor in News Avoidance and a Barrier to Political Engagement
  4. La psicosi è comunemente definita come un disturbo psichiatrico che implica una grave alterazione dell’equilibrio psichico del paziente e comporta una serie di sintomi che ne invalidano e compromettono il regolare funzionamento. Bene, questa è una delle definizioni più canoniche ed allo stesso tempo più spersonalizzanti di tale patologia, cosa che succede spesso nel dominio psichiatrico. Grande attenzione ai sintomi, quasi totale neglect dell’esperienza soggettiva del paziente. È nell’ottica di colmare questo dilaniante gap che vi proponiamo questo ricco articolo ad impronta neurofenomenologica, che tiene cioè insieme una lettura di tale patologia dal punto di vista della terza persona (approccio canonico della scienza hard, dalla teoria al soggetto) e della prima persona (approccio fenomenologico, dalla persona alla teoria). Un modo nuovo di comprendere la patologia psichiatrica, partendo dall’esperienza vissuta in prima persona dal paziente stesso; comprensione arricchita inoltre dall’integrazione dei punti di vista di familiari, assistenti ed operatori. Trovi qui l’articolo: The lived experience of psychosis: a bottom-up review co-written by experts by experience and academics
  5. Chi non ha sentito parlare di mindfulness negli ultimi anni? Ce la si ritrova praticamente ovunque e purtroppo chiunque la propone come pratica di benessere psicofisico. Detta così sembra una vera supercazzola e questo tiene lontani da essa molti clinici che scelgono di non voler cadere nel qualunquismo spicciolo che troviamo nei salotti di chi si vende come istruttore di mindfulness dopo aver comprato un corso di qualche ora online. Tuttavia, la mindfulness funziona, la letteratura scientifica è ricca di evidenze per trattamenti di successo e noi è su questo che vogliamo informarvi. Per il clinico formato su protocolli validati, la mindfulness è, in primo luogo, un ottimo strumento di regolazione emotiva, sia in termini neurofisiologici che semantici ed ha una economia intrinseca che, rapportata all’efficacia, sarebbe una mossa superficiale non tenere in considerazione. Recentemente un gruppo di ricercatori ne ha testato l’efficacia nel trattamento di disturbi d’ansia refrattari ad altri trattamenti psicoterapici, e i risultati sono assolutamente degni di nota. Sarà il caso di ripensare alla mindfulness come pratica da integrare in ogni approccio psicoterapico e, soprattutto, di appropriarcene in quanto esperti di salute mentale? Trovi qui l’articolo: Mindfulness-based cognitive group therapy for treatment-refractory anxiety disorder: A pragmatic randomized controlled trial
  6. La separazione tra ricerca di base ed applicata ha origini storiche che probabilmente risalgono all’antica Grecia. Tuttavia, una semplificazione forzata ma legittima può spingerci ad indicare un punto zero con la nascita del metodo scientifico ad opera di Galileo Galilei. Nei successivi 500 anni ne sono successe di cose, da grandi fallimenti a grandi rivoluzioni, e si è strutturata sempre più la distinzione nel modo di fare scienza: puro e duro (di base) oppure soft e applicato. Distinzione questa un po’ artificiosa, già annunciata 200 anni fa da Louis Pasteur, con la sua celeberrima frase “non esiste la scienza applicata, esistono solo le applicazioni della scienza”. Sembra ragionevole sostenere dunque un’unica differenza nel campo scientifico, ovvero quella tra buona o scarsa ricerca; a tal proposito qui trovate un interessante editoriale. Quando poi ci spostiamo nel campo della salute mentale, mantenere distinte le applicabilità di conoscenze teoriche rispetto alla pratica clinica è quanto meno deleterio. Infatti, sempre più ricerche mostrano quanto l’efficacia in termini di comprensione e trattamento delle patologie psichiatriche acquisisca un livello qualitativamente e quantitativamente superiore nell’integrazione dei due approcci. A questo proposito, un articolo interessante è uscito recentemente sull’American Journal of Psychiatry. Trovi l’articolo qui: Integrating Clinical and Basic Research: Opioid UseDisorder, Psychotic Illnesses, and PrefrontalMicrocircuits Relevant to Schizophrenia
  7. L’ipotesi di uno squilibrio neurotrasmettitoriale a fare da base alla depressione ci ha accompagnati per molti anni, qualcuno sostiene grazie alle campagne di marketing che seguirono -a fine anni ‘80- l’immisione sul mercato del farmaco Prozac. Al di là di questi aspetti, è recentemente stata pubblicata una revisione di revisioni (un articolo cioè che accorpa meta-analisi, che viene chiamato tecnicamente “umbrella review”) su Nature, che mette in crisi l’ipotesi serotoninergica riguardante la patogenesi della depressione. Articolo che ha, giustamente, avuto molta risonanza mediatica. Trovi qui l’articolo: The serotonin theory of depression: a systematic umbrella review of the evidence
  8. Il trauma è tornato di moda. Da una parte è un bene, dato che si ri-palesa la necessità di prendere in carico di pazienti da sempre definiti come troppo complessi e poco rispondenti ai trattamenti psicoterapici (e farmacologici). Dall’altra si corre un rischio, la nascita ogni sei mesi di un approccio nuovo e rivoluzionario con cui “guarire” i pazienti traumatizzati, spesso senza prove scientificamente validate. Ora, la visione critica nel suo complesso è materia lunga e complessa, sul trauma ti proporremo molti approfondimenti nel corso dell’anno (un “serpente” di articoli a tema trauma lo trovi qui). Il tema che oggi vorremmo approfondire è il trattamento del Complex Post-Traumatic Stress Disorder (CPTSD). In letteratura chi soffre di questa patologia è spesso definito come un paziente con aspetti del sé molto disorganizzati e che presenta elevati livelli di stress (arousal) all’esposizione dei canonici protocolli focalizzati sul trauma. La recente ricerca che ti proponiamo, condotta su 150 pazienti, dà una nuova chiave di lettura teorica e clinica per il CPTSD, affermando che questi pazienti, a differenza di come sempre pensato, possano beneficiare dei trattamenti canonici già presenti e validati, suggerendo di puntare su questi al posto di ricercare continuamente nuove mode e nuovi protocolli. Trovi qui l’articolo: Does complex PTSD predict or moderate treatment outcomes of three variants of exposure therapy?
  9. Il sonno ha rappresentato negli ultimi tempi un tema importante, centrale. In particolare se ne è parlato durante in mesi di lockdown, a marzo 2020, in relazione agli aspetti post-traumatici dell’avvento della pandemia da Covid19, e ancor di più nel corso del cosiddetto “secondo lockdown”, nell’inverno a cavallo tra il 2020 e il 2021. Una buona qualità del sonno rappresenta un importante “pilastro” per la tenuta della salute mentale di ogni individuo. Il management dell’insonnia è un tema che ogni professionista impegnato in ambito di salute mentale si è trovato, prima o dopo, ad affrontare (qui alcuni spunti su questo). Tra le altre cose, questo articolo approfondisce in modo articolato e chiaro il rapporto tra infiammazione e sonno. Gli autori così aprono questo lavoro: “Il sonno influenza profondamente le risposte immunitarie e infiammatorie, proteggendo dai disturbi immunitari associati all’età, comprese le malattie cardiovascolari, il cancro e le malattie neurodegenerative. Nonostante queste associazioni, più della metà degli adulti non dorme a sufficienza. Il sonno influisce su molti aspetti del sistema immunitario, comprese le risposte adattative, l’infiammazione e la sintesi di citochine e mediatori immunitari”. Trovi qui l’articolo: Sleep exerts lasting effects on hematopoietic stem cell function and diversity
  10. ARTICOLO STORICO! Un articolo fondamentale sulla trasmissione intergenerazione del trauma, scritto nel 2018 da una delle più esperte al mondo sul tema, Rachel Yehuda. Trovi qui l’articolo (pubblicato su World Psychiatry): Intergenerational transmission of trauma effects: putative role of epigenetic mechanisms

Per oggi è tutto.

Ci aggiorniamo tra due settimane su PopMed!

🙂

Article by admin / Generale

  • « Previous Page
  • 1
  • …
  • 5
  • 6
  • 7
  • 8
  • 9
  • …
  • 27
  • Next Page »

I NOSTRI ARTICOLI!

  • INTRODUZIONE AL SOMATIC EXPERIENCING DI PETER LEVINE 2 October 2025
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI RUSSELL MEARES SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 24 September 2025
  • IL PRIMO CORSO DI PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI IN ITALIA (PESCARA, 2026) 22 September 2025
  • Recensione e riassunto di “Liberi dal panico” di Pietro Spagnulo (un agile ed economico ebook per introdursi al problema-ed autoaiutarsi) 15 September 2025
  • Being Sapiens e la rubrica “psicoterapeuti italiani”: intervista a Gianandrea Giacoma 1 September 2025
  • 10 ESERCIZI PER LAVORARE CON LE SOTTOPERSONALITÀ GENERATE DAL TRAUMA (#PTSD) 28 July 2025
  • IL PRIMO CONGRESSO AISTED A MILANO (24 E 25 OTTOBRE 2025) 21 July 2025
  • INTERVENTI CLINICI CENTRATI SULLA SOLUZIONE: LE CINQUE DOMANDE (da “Terapia breve centrata sulla soluzione” di Cannistrà e Piccirilli) 15 July 2025
  • A proposito di psicologia dell’aviazione 1 July 2025
  • Clinica del trauma oggi: un approfondimento da POPMed 30 June 2025
  • Collegno: la quarta edizione del Fòl Fest (“Quando cantavo dov’eri tu?”) 11 June 2025
  • Il trauma indotto da perpetrazione (“un altro problema, meno noto, dell’industria della carne”) 10 June 2025
  • Ancora sul modello diagnostico “HiTop” 3 June 2025
  • L’EMDR: AGGIORNAMENTO, CONTROVERSIE E IPOTESI DI FUNZIONAMENTO 15 May 2025
  • NEUROCRIMINOLOGIA: ANNA SARA LIBERATI 6 May 2025
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI FLAVIO CANNISTRÀ 29 April 2025
  • L’UOMO SOVRASOCIALIZZATO. INTRODUZIONE AL PENSIERO DI Ted Kaczynski (UNABOMBER) 23 April 2025
  • RECENSIONE DI “CONVERSAZIONI DI TERAPIA BREVE” DI FLAVIO CANNISTRÁ E MICHAEL F. HOYT 15 April 2025
  • RICERCA E DIVULGAZIONE IN AMBITO DI PSICHEDELICI: 10 LINK 1 April 2025
  • INTERVISTA A MANGIASOGNI 24 March 2025
  • Introduzione al concetto di neojacksonismo 19 March 2025
  • “LE CONSEGUENZE DEL TRAUMA PSICOLOGICO”, UN LIBRO SUL PTSD 5 March 2025
  • Il ripassone. “Costrutti e paradigmi della psicoanalisi contemporanea”, di Giorgio Nespoli 20 February 2025
  • PSICOGENEALOGIA: INTRODUZIONE AL LAVORO DI ANNE ANCELIN SCHÜTZENBERGER 11 February 2025
  • Henri Ey: “Allucinazioni e delirio”, la pubblicazione in italiano per Alpes, a cura di Costanzo Frau 4 February 2025
  • IL CONVEGNO DI BOLOGNA SULLA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI (dicembre 2024) 10 January 2025
  • Hakim Bey: T.A.Z. 8 January 2025
  • L’INTEGRAZIONE IN AMBITO PSICHEDELICO – IN BREVE 3 January 2025
  • CARICO ALLOSTATICO: UN’INTRODUZIONE 19 December 2024
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI, EMOZIONI IN CLINICA, LIOTTI: UN APPROFONDIMENTO (E UN’INTERVISTA A LUCIA TOMBOLINI) 2 December 2024
  • Una buona (e completa) introduzione a Jung e allo junghismo. Intervista ad Andrea Graglia 4 November 2024
  • TRAUMA E PSICOSI: ALCUNI VIDEO DALLE “GIORNATE PSICHIATRICHE CERIGNALESI 2024” 17 October 2024
  • “LA GENERAZIONE ANSIOSA”: RECENSIONE APPROFONDITA E VALUTAZIONI 10 October 2024
  • Speciale psichedelici, a cura di Studio Aegle 7 October 2024
  • Le interviste di POPMed Talks 3 October 2024
  • Disturbi da sintomi somatici e di conversione: un approfondimento 17 September 2024
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE: IL CONGRESSO ESTD DI OTTOBRE 2024, A KATOWICE (POLONIA) 20 August 2024
  • POPMed Talks #7: Francesco Sena (speciale Art Brut) 3 August 2024
  • LA (NEONATA) SIMEPSI E UN INTERVENTO DI FABIO VILLA SULLA TERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A LOSANNA 30 July 2024
  • L'”IMAGERY RESCRIPTING” NEL PTSD 18 July 2024
  • Intervista a Francesca Belgiojoso: le fotografie in psicoterapia 1 July 2024
  • Attaccamento traumatico: facciamo chiarezza (di Andrea Zagaria) 24 June 2024
  • KNOT GARDEN (A CURA DEL CENTRO VENETO DI PSICOANALISI) 10 June 2024
  • Costanza Jesurum: un’intervista all’autrice del blog “bei zauberei”, psicoanalista junghiana e scrittrice 3 June 2024
  • LA SVIZZERA, CUORE DEL RINASCIMENTO PSICHEDELICO EUROPEO 29 May 2024
  • Un’alternativa alla psicopatologia categoriale: Hierarchical Taxonomy of Psychopathology (HiTOP) 9 May 2024
  • INVITO A BION 8 May 2024
  • INTERVISTA A FEDERICO SERAGNOLI: IL VIDEO 18 April 2024
  • INCONSCIO NON RIMOSSO E MEMORIA IMPLICITA: UNA RECENSIONE 9 April 2024
  • UN FREE EBOOK (SUL TRAUMA) IN COLLABORAZIONE CON VALERIO ROSSO 3 April 2024
  • GLI INCONTRI DI AISTED: LA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI A GINEVRA (16 APRILE 2024) 28 March 2024
  • La teoria del ‘personaggio’ nell’opera di Antonino Ferro 21 March 2024
  • Psicoterapia assistita da psichedelici: intervista a Matteo Buonarroti 14 March 2024
  • BRESCIA, FEBBRAIO 2024: DUE ESTRATTI DALLA MASTERCLASS “VERSO UNA NUOVA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE” 27 February 2024
  • CAPIRE LA DISPNEA PSICOGENA: DA “SENZA FIATO” DI GIORGIO NARDONE 14 February 2024
  • POPMED TALKS 5 February 2024
  • NASCE L’ASSOCIAZIONE COALA (TORINO) 1 February 2024
  • Camilla Stellato: “Diventare genitori” 29 January 2024
  • Offline is the new luxury, un documentario 22 January 2024
  • MARCO ROVELLI, LA POLITICIZZAZIONE DEL DISAGIO PSICHICO E UN PODCAST DI psicologia fenomenologica 10 January 2024
  • La terapia espositiva enterocettiva (per il disturbo di panico) – di Emiliano Toso 8 January 2024
  • INTRODUZIONE A VIKTOR FRANKL 27 December 2023
  • UN APPROFONDIMENTO DI MAURIZIO CECCARELLI SULLA CONCEZIONE NEO-JACKSONIANA DELLE FUNZIONI MENTALI 14 December 2023
  • 3 MODI DI INTENDERE LA DISSOCIAZIONE: DA UN INTERVENTO DI BENEDETTO FARINA 12 December 2023
  • Il burnout oltre i luoghi comuni (DI RICCARDO GERMANI) 23 November 2023
  • TRATTAMENTO INTEGRATO DELL’ANSIA: INTERVISTA A MASSIMO AGNOLETTI ED EMILIANO TOSO 9 November 2023
  • 10 ARTICOLI SUL JOURNALING E SUI BENEFICI DELLO SCRIVERE 6 November 2023
  • UN’INTERVISTA A GIUSEPPE CRAPARO SU PIERRE JANET 30 October 2023
  • CONTRASTARE IL DECADIMENTO COGNITIVO: ALCUNI SPUNTI PRATICI 26 October 2023
  • PTSD (in podcast) 25 October 2023
  • ANIMALI CHE SI DROGANO, DI GIORGIO SAMORINI 12 October 2023
  • VERSO UNA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE: PREFAZIONE 7 October 2023
  • Congresso Bari SITCC 2023: un REPORT 2 October 2023
  • GLI INCONTRI ORGANIZZATI DA AISTED, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione 25 September 2023
  • CANNABISCIENZA.IT 22 September 2023
  • TERAPIA ESPOSITIVA (IN PODCAST) 18 September 2023
  • TERAPIA ESPOSITIVA: INTERVISTA A EMILIANO TOSO (PARTE SECONDA) 4 September 2023
  • POPMED: 10 articoli/novità dal mondo della letteratura scientifica in ambito “psi” (ogni 15 giorni) 30 August 2023
  • DIFFUSIONE PATOLOGICA DELL’ATTENZIONE E SUPERFICIALITÀ DIGITALE. UN ESTRATTO DA “PSIQ” di VALERIO ROSSO 23 August 2023
  • LE FRONTIERE DELLA TERAPIA ESPOSITIVA. INTERVISTA A EMILIANO TOSO 12 August 2023
  • NIENTE COME PRIMA, DI MANGIASOGNI 8 August 2023
  • NASCE IL “GRUPPO DI INTERESSE SULLA PSICOPATOLOGIA” DI AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione) 26 July 2023
  • Psychedelic Science Conference 2023 – lo stato dell’arte sulle terapie psichedeliche  15 July 2023
  • RENDERE NON NECESSARIA LA DISSOCIAZIONE: DA UN ARTICOLO DI VAN DER HART, STEELE, NIJENHUIS 29 June 2023
  • EMBODIED MINDS: INTERVISTA A SARA CARLETTO 21 June 2023
  • Psychiatry On Line Italia: 10 rubriche da non perdere! 7 June 2023
  • CURARE LA PSICHIATRIA DI ANDREA VALLARINO (INTRODUZIONE) 1 June 2023
  • UN RICORDO DI LUIGI CHIRIATTI, STUDIOSO DI TARANTISMO 30 May 2023
  • PHENOMENAUTICS 20 May 2023
  • 6 MESI DI POPMED, PER TORNARE ALLA FONTE 18 May 2023
  • GLI PSICOFARMACI PER LO STRESS POST TRAUMATICO (PTSD) 8 May 2023
  • ILLUSIONI IPNAGOGICHE, SONNO E PTSD 4 May 2023
  • SI PUÓ DIRE MORTE? INTERVISTA A DAVIDE SISTO 27 April 2023
  • CENTRO SORANZO: INTERVISTA A MAURO SEMENZATO 12 April 2023
  • Laetrodectus, che morde di nascosto 6 April 2023
  • STABILIZZAZIONE E CONFINI: METTERE PALETTI PER REGOLARSI 4 April 2023
  • L’eredità teorica di Giovanni Liotti 31 March 2023
  • “UN RITMO PER L’ANIMA”, TARANTISMO E DINTORNI 7 March 2023
  • SUICIDIO: SPUNTI DAL LAVORO DI MAURIZIO POMPILI E EDWIN SHNEIDMAN 9 January 2023
  • SUPERHERO THERAPY. INTERVISTA A MARTINA MIGLIORE 5 December 2022
  • Allucinazioni nel trauma e nella psicosi. Un confronto psicopatologico 26 November 2022
  • FUGA DI CERVELLI 15 November 2022
  • PSICOTERAPIA DELL’ANSIA: ALCUNI SPUNTI 7 November 2022
  • LA Q DI QOMPLOTTO 25 October 2022
  • POPMED: UN ESEMPIO DI NEWSLETTER 12 October 2022
  • INTERVISTA A MAURO BOLOGNA, PRESIDENTE SIPNEI 10 October 2022
  • IL “MANUALE DELLE TECNICHE PSICOLOGICHE” DI BERNARDO PAOLI ED ENRICO PARPAGLIONE 6 October 2022
  • POPMED, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO IN AREA “PSI”. PER TORNARE ALLA FONTE 30 September 2022
  • IL CONVEGNO SIPNEI DEL 1 E 2 OTTOBRE 2022 (FIRENZE): “LA PNEI NELLA CLINICA” 20 September 2022
  • LA TEORIA SULLA NASCITA DEL PENSIERO DI WILFRED BION 1 September 2022
  • NEUROFEEDBACK: INTERVISTA A SILVIA FOIS 10 August 2022
  • La depressione come auto-competizione fallimentare. Alcuni spunti da “La società della stanchezza” di Byung Chul Han 27 July 2022
  • SCOPRIRE LA SIPNEI. INTERVISTA A FRANCESCO BOTTACCIOLI 6 July 2022
  • PERFEZIONISMO: INTERVISTA A VERONICA CAVALLETTI (CENTRO TAGES ONLUS) 6 June 2022
  • AFFRONTARE IL DISTURBO DISSOCIATIVO DELL’IDENTITÁ 28 May 2022
  • GARBAGE IN, GARBAGE OUT.  INTERVISTA FIUME A ZIO HACK 21 May 2022
  • PTSD: ALCUNE SLIDE IN FREE DOWNLOAD 10 May 2022
  • MANAGEMENT DELL’INSONNIA 3 May 2022
  • “IL LAVORO NON TI AMA”: UN PODCAST SULLA HUSTLE CULTURE 27 April 2022
  • “QUI E ORA” DI RONALD SIEGEL. IL LIBRO PERFETTO PER INTRODURSI ALLA MINDFULNESS 20 April 2022
  • Considerazioni sul trattamento di bambini e adolescenti traumatizzati 11 April 2022
  • IL COLLASSO DEL CONTESTO NELLA PSICOTERAPIA ONLINE 31 March 2022
  • L’APPROCCIO “OPEN DIALOGUE”. INTERVISTA A RAFFAELLA POCOBELLO (CNR) 25 March 2022
  • IL CORPO, IL PANICO E UNA CORRETTA DIAGNOSI DIFFERENZIALE: INTERVISTA AD ANDREA VALLARINO 21 March 2022
  • RECENSIONE: L’EREDITÁ DI BION (A CURA DI ANTONIO CIOCCA) 20 March 2022
  • GLI PSICHEDELICI COME STRUMENTO TRANSDIAGNOSTICO DI CURA, IL MODELLO BIPARTITO DELLA SEROTONINA E L’INFLUENZA DELLA PSICOANALISI 7 March 2022
  • FOTOTERAPIA: JUDY WEISER e il lavoro con il lutto 1 March 2022
  • PLACEBO E DOLORE: IL POTERE DELLA MENTE (da un articolo di Fabrizio Benedetti) 14 February 2022
  • INTERVISTA A RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER L’APPROCCIO AL PTSD 3 February 2022
  • SPIDER, CRONENBERG 26 January 2022
  • LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti) 17 January 2022
  • 24 MESI DI PSICOTERAPIA ONLINE 10 January 2022
  • LA TOSSICODIPENDENZA COME TENTATIVO DI AMMINISTRARE LA SINDROME POST-TRAUMATICA 7 January 2022
  • La Supervisione strategica nei contesti clinici (Il lavoro di gruppo con i professionisti della salute e la soluzione dei problemi nella clinica) 4 January 2022
  • PSICHEDELICI: LA SCIENZA DIETRO L’APP “LUMINATE” 21 December 2021
  • ASYLUMS DI ERVING GOFFMAN, PER PUNTI 14 December 2021
  • LA SINDROME DI ASPERGER IN BREVE 7 December 2021
  • IL CONVEGNO DI SAN DIEGO SULLA PSICOTERAPIA ASSISTITA DA PSICHEDELICI (marzo 2022) 2 December 2021
  • PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA E DEEP BRAIN REORIENTING. INTERVISTA A PAOLO RICCI (AISTED) 29 November 2021
  • INTERVISTA A SIMONE CHELI (ASSOCIAZIONE TAGES ONLUS) 25 November 2021
  • TRAUMA: IMPOSTAZIONE DEL PIANO DI CURA E PRIMO COLLOQUIO 16 November 2021
  • TEORIA POLIVAGALE E LAVORO CON I BAMBINI 9 November 2021
  • INTRODUZIONE A BYUNG-CHUL HAN: IL PROFUMO DEL TEMPO 3 November 2021
  • IT (STEPHEN KING) 27 October 2021
  • JUDITH LEWIS HERMAN: “GUARIRE DAL TRAUMA” 22 October 2021
  • ANCORA SU PIERRE JANET 15 October 2021
  • PSICONUTRIZIONE: IL LAVORO DI FELICE JACKA 3 October 2021
  • MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI: LE STRATEGIE DI CONTROLLO IN INFANZIA (PTSDc) 30 September 2021
  • OVERLOAD COGNITIVO ED ECOLOGIA MENTALE 21 September 2021
  • UN LUOGO SICURO 17 September 2021
  • 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD 13 September 2021
  • UN LIBRO PER L’ESTATE: “COME ANNOIARSI MEGLIO” DI PIETRO MINTO 6 August 2021
  • “I fondamenti emotivi della personalità”, JAAK PANKSEPP: TAKEAWAYS E RECENSIONE 3 August 2021
  • LIFESTYLE PSYCHIATRY 28 July 2021
  • LE DIVERSE FORME DI SINTOMO DISSOCIATIVO 26 July 2021
  • PRIMO LEVI, LA CARCERAZIONE E IL TRAUMA 19 July 2021
  • “IL PICCOLO PARANOICO” DI BERNARDO PAOLI. PARANOIA, AMBIVALENZA E MODELLO STRATEGICO 14 July 2021
  • RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE” 8 July 2021
  • I VIRUS: IL LORO RUOLO NELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE 7 July 2021
  • LA PLUSDOTAZIONE SPIEGATA IN BREVE 1 July 2021
  • COS’É LA COGNITIVE PROCESSING THERAPY? 24 June 2021
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE 19 June 2021
  • É USCITO IL SECONDO EBOOK PRODOTTO DA AISTED 15 June 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche -con il blog Psicologia Fenomenologica. 7 June 2021
  • PSICHIATRIA DI COMUNITÁ: LA SCELTA DI UN METODO 31 May 2021
  • PTSD E SPAZIO PERIPERSONALE: DA UN ARTICOLO DI DANIELA RABELLINO ET AL. 26 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI 22 May 2021
  • MDMA PER IL PTSD: NUOVE EVIDENZE 21 May 2021
  • MAP (MULTIPLE ACCESS PSYCHOTHERAPY): IL MODELLO DI PSICOTERAPIA AD APPROCCI COMBINATI CON ACCESSO MULTIPLO DI FABIO VEGLIA 18 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO GRATUITO ONLINE (21 MAGGIO) 13 May 2021
  • BALBUZIE: COME USCIRNE (il metodo PSICODIZIONE) 10 May 2021
  • PANICO: INTERVISTA AD ANDREA IENGO (PANICO.HELP) 7 May 2021
  • Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP) 4 May 2021
  • SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO. Liberalizzare come terapia: il problema dell’autocontrollo in clinica 30 April 2021
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO” 25 April 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche 25 April 2021
  • 3 STRUMENTI CONTRO IL TRAUMA (IN BREVE): TAVOLA DISSOCIATIVA, DISSOCIAZIONE VK E CAMBIO DI STORIA 23 April 2021
  • IL MALADAPTIVE DAYDREAMING SPIEGATO PER PUNTI 17 April 2021
  • UN VIDEO PER CAPIRE LA DISSOCIAZIONE 12 April 2021
  • CORRELATI MORFOLOGICI E FUNZIONALI DELL’EMDR: UNA PANORAMICA SULLA NEUROBIOLOGIA DEL TRATTAMENTO DEL PTSD 4 April 2021
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE IN ETÁ EVOLUTIVA: (VIDEO)INTERVISTA AD ANNALISA DI LUCA 1 April 2021
  • GLI EFFETTI POLARIZZANTI DELLA BOLLA INFORMATIVA. INTERVISTA A NICOLA ZAMPERINI DEL BLOG “DISOBBEDIENZE” 30 March 2021
  • SVILUPPARE IL PENSIERO LATERALE (EDWARD DE BONO) – RECENSIONE 24 March 2021
  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE 22 March 2021
  • 8 LIBRI FONDAMENTALI SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 14 March 2021
  • VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA 7 March 2021
  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD 2 March 2021
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA 25 February 2021
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1) 21 February 2021
  • FLOW: una definizione 15 February 2021
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD) 8 February 2021
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI 3 February 2021
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA 1 February 2021
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION? 25 January 2021
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA) 15 January 2021
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO 11 January 2021
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT 6 January 2021
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO 2 January 2021
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum) 28 December 2020
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI 18 December 2020
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti 14 December 2020
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO 10 December 2020
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino 8 December 2020
  • COME GESTIRE UNA DIPENDENZA? 4 PIANI DI INTERVENTO 3 December 2020
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP 28 November 2020
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA 20 November 2020
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO) 16 November 2020
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm) 12 November 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento 7 November 2020
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING 2 November 2020
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING) 28 October 2020
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al. 24 October 2020
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO 21 October 2020
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO 18 October 2020
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè 13 October 2020
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 6 October 2020
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI 30 September 2020
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix 28 September 2020
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico 21 September 2020
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura” 15 September 2020
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI 27 August 2020
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza 26 August 2020
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO 7 August 2020
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO 31 July 2020
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia 27 July 2020
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO 20 July 2020
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF) 14 July 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI 2 May 2020
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE” 30 April 2020
  • FOBIE SPECIFICHE IN BREVE 25 April 2020
  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
  • LO STATO DELL’ARTE INTORNO ALLA DIMENSIONE SOCIALE DELLA MEMORIA: SUL MODO IN CUI SI E’ ARRIVATI ALLA CREAZIONE DEL CONCETTO DI RICORDO CONGIUNTO E SU QUANTO LA VITA RELAZIONALE INFLUENZI I PROCESSI DI SVILUPPO DELLA MEMORIA 25 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI! 22 April 2020
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA? 21 April 2020
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI 17 April 2020
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO 13 April 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3 10 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF! 6 April 2020
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI 4 April 2020
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO? 31 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2 27 March 2020
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT 25 March 2020
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO 16 March 2020
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI 12 March 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1 6 March 2020
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN 29 February 2020
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD 13 February 2020
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET 3 February 2020
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM 17 January 2020
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO 15 January 2020
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO 30 December 2019
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI 27 December 2019
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA 19 December 2019
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER 12 December 2019
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA” 24 November 2019
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRI EY 15 November 2019
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi 4 November 2019
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE 29 October 2019
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO” 18 October 2019
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA 24 September 2019
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING 20 September 2019
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD 13 September 2019
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA 9 September 2019
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO 14 August 2019
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE? 8 August 2019
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE 28 July 2019
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI 24 July 2019
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA? 16 July 2019
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY: PERCHÉ ABBIAMO DUE EMISFERI? 8 July 2019
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA 28 June 2019
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO 11 June 2019
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI? 6 June 2019
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare 4 June 2019
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 28 May 2019
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade 22 May 2019
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL “DEFAULT MODE” 18 May 2019
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI 14 May 2019
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI 7 May 2019
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA 3 May 2019
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI 30 April 2019
  • SUL REHEARSAL 15 April 2019
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO 12 April 2019
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI 3 April 2019
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA 29 March 2019
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI” 26 March 2019
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ 22 March 2019
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA? 19 March 2019
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE 15 March 2019
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI 12 March 2019
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA 8 March 2019
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE 5 March 2019
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO 19 February 2019
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA 15 February 2019
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO 11 February 2019
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES 1 February 2019
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE 28 January 2019
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA 25 January 2019
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE 22 January 2019
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO? 18 January 2019
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA 15 January 2019
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA? 12 January 2019
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO 7 January 2019
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA? 2 January 2019
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION 21 December 2018
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER 18 December 2018
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK 13 December 2018
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING 11 December 2018
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO 6 December 2018
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI 30 November 2018
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI 27 November 2018
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA? 23 November 2018
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE 20 November 2018
  • IL PTSD IN VIDEO 12 November 2018
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT 9 November 2018
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO 2 November 2018
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER? 30 October 2018
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI? 23 October 2018
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel 19 October 2018
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE 16 October 2018
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit 9 October 2018
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche? 4 October 2018
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS 2 October 2018
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE? 28 September 2018
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini 17 September 2018
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori 26 July 2018
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg 12 July 2018
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO 9 July 2018
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL 5 July 2018
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL 3 July 2018
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG 28 June 2018
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA 25 June 2018
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO 22 June 2018
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO 18 June 2018
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO 11 June 2018
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO 7 June 2018
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI 4 June 2018

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
  • HOME
  • AREE TEMATICHE
  • PSICOTERAPIA
  • PODCAST
  • CHI SIAMO
  • POPMED
  • PER SUPPORTARE IL BLOG

Copyright © 2025 · Education Pro on Genesis Framework · WordPress · Log in

a cura di Raffaele Avico ‭→ logo
  • HOME
  • AREE TEMATICHE
    • #TRAUMA e #PTSD
    • #PANICO
    • #DOC
    • #TARANTISMO
    • #RECENSIONI
    • #PSICHEDELICI
    • #INTERVISTE
  • PSICOTERAPIA
  • PODCAST
  • CHI SIAMO
  • POPMED
  • PER SUPPORTARE IL BLOG