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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

10 December 2020

CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO

di Raffaele Avico

Il libro CRONOFAGIA di Davide Mazzocco è una lettura molto corta, ma molto istruttiva e densa di contenuti. L’approccio ideologico è chiaro: marxista e anti-capitalista, ma non per forza estremizzato o radicale. La tesi da cui parte l’autore è che il neoliberismo di cui la nostra società è impregnata, abbia raggiunto quote di pervicacia e presenza nelle nostre vite tali, da arrivare a erodere anche gli ultimi avamposti di spazio che, fino a poco tempo fa, sembravano esserci rimasti: il tempo libero e il sonno.

Sul problema del tempo libero speso a pubblicare contenuti sui social, di fatto lavorando per le piattaforme -nell’idea però di stare lavorando per sè e il proprio “progetto imprenditoriale”-, oppure sul problema del tempo impiegato a rispondere a mail e chiamate di lavoro anche al di fuori dei confini temporali lavorativi canonici, ne hanno scritto in diversi (tra cui Silvio Lorusso in Entreprecariat).

In Cronofagia, l’autore lo esprime in modo molto chiaro: il “produrre”, e in generale il consumare non possono fermarsi se vogliamo che la macchina (il “Leviatano che si nutre di dati”) continui a reggere sul suo peso. Le leggi non scritte del libero mercato, i suoi diktat, dal suo punto di vista sarebbero introiettati ora come mai furono in passato. Perchè introiettati? L’autore osserva come l’idea -meglio, l’imperativo- di produrre e mantenersi proattivi in senso auto-imprenditoriale, abbia così tanto scavato a fondo nel nostro terreno culturale, da essere stato introiettato, avendo in qualche modo intaccato il nostro Super io.

Il risultato è, nella sua visione, un senso latente di colpa per qualunque forma di spreco di tempo: nei tempi morti, appunto, saremmo forzati a “produrre contenuti”, a osservare contenuti prodotti da altri sulle piattaforme social (vero scempio di cronofagia, secondo Mazzocco), sentendoci in questo modo “attivi” in senso (auto)imprenditoriale -a scapito tuttavia di immaginazione, rapporti reali, creatività e -in generale- libere associazioni e pensiero.

Questa lettura del comportamento umano e del suo rapporto con il sistema economico in cui è immerso, è una lettura che potremmo definire, in qualche modo, paranoidea. Presuppone cioè che esista un’entità, una macchina, un “sistema” pensato per rubarci tempo ed attenzione. Sposare una visione di questo tipo significa immaginare l’uomo come facile preda di impulsi basici, condizionabile e soggetto a manipolazioni mediatiche in grado di creare dipendenza; i detrattori di una visione di questo tipo, oppongono in ultima istanza la presenza di un libero arbitrio che ci renderebbe sempre liberi di scegliere. Che posizione prendere? The Social Dilemma ha messo in luce questa doppia lettura del fenomeno, arrivando a conclusioni radicali, evidenziando il rischio di un furto non solo di dati, ma di quote di attenzione e, anche qui, di tempo. Lo abbiamo qui recensito.

L’autore chiude il suo breve libro immaginando forme diverse, nuove e più sostenibili, di vita (dall’economia circolare, al riuso, al DIY, alle banche del tempo, al tema della semplicità volontaria -su questo, si veda il progetto Smettere di lavorare).

Cosa trarre, in senso psicologico, da questa lettura? Osserviamo alcune questioni:

  1. la psicoterapia sempre più dovrà occuparsi, anche, di questi temi. Stando alle premesse prima delineate, occorrerà una visione di insieme che contempli la quotidiana lotta del cittadino contro la tendenza della macchina a erodere il suo tempo libero mentale. La moda della mindfulness ci racconta del bisogno di emanciparsi dal sistema da parte di individui “stanchi”, prostrati da questa battaglia. Uno psicoterapueta dovrà quindi spingere affinchè il suo paziente si legittimi a “non fare”: la battaglia si giocherà su un terreno etico, super-egoico, completamente interiore
  2. pur non costituendosi in forme psicopatologiche conclamate, l’esaurimento derivante da uno stile di vita da prosumer (cioè da produttore e consumatore insieme di contenuti in rete, lavoratore non pagato), si affaccerà sempre più di frequente allo studio di un terapeuta: il problema sarà capire come tornare a momenti di “ristoro”, di riposo energizzante; il tema sarà dunque lo “stile di vita”, in generale; completamente inutile, in questa battaglia, il ricorso a farmaci
  3. il problema dell’igiene del sonno è già centrale: potrebbe diventarlo sempre di più; l’uso di schermi, forme di stress negativo indotte da un giornalismo sensazionalistico a scopo di lucro, l’attrazione invincibile per le piattaforme, l’assenza di contatto con la natura, potrebbero ostacolare ulteriormente il riposo notturno
  4. parlare di salute solamente individuale, sarà una coperta sempre più corta: si impongono ragionamenti più ampi, che riguardino la salute collettiva
  5. centrale diventerà il discorso del management energetico. Il ricorso a metodiche di rilassamento che potremmo definire bottom up, come la mindfuness, lo Yoga, l’attività fisica usate come fonte di ristoro energetico, devono essere considerate come parte del problema: nient’altro che tamponi posti ad arginare un’emorragia incontenibile. Il vero problema, la sua radice, rimane l’iperattività, la saturazione dello spazio, la cronofagia, l’adesione “interiore” ai diktat del sistema capitalistico. Il pretendere meno -invece che produrre di più- potrà condurre a forme di vita svincolata da logiche di produzione obbligata, con più tempo vuoto, più relazioni e in generale più..pensiero.

In linea con questi ragionamenti, l’autore propone e consiglia il film distopico In Time (Netflix).


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Article by admin / Generale / recensioni

12 November 2020

PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm)

di Laura Salvai, Psychofilm

Sono moltissimi i film che si sono occupati di raccontare la malattia mentale e i modi in cui è stata definita, trattata e vissuta.

Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Ron Howard, Lars Von Trier, Scott Hicks, David Cronenberg, Milos Forman, M. Night Shyamalan (cfr. “Split“), sono solo alcuni dei grandi registi ad averci raccontato la sofferenza psicologica, in modo estremamente realistico o attraverso significati simbolici e scelte stilistiche originali.

La narrazione cinematografica ha cercato di spiegare, con diverse sfaccettature e suggestioni, il complesso mondo delle emozioni, dei comportamenti e delle motivazioni che spingono i soggetti psichiatrici e chi si è occupato e si occupa di loro a determinate scelte e azioni e alle relative loro conseguenze.

È molto difficile fare una scelta tra le tante apprezzabili opere che il Cinema internazionale ha prodotto nel corso degli anni e che sta continuando a produrre sul tema. Escludere dalla selezione film come “Ragazze interrotte”, “Shine”, “Spider”, “Melancholia”, o il più recente e acclamato “Joker”, da una lista di opere sull’argomento dispiace un po’, ma quella che vorrei fare è una riflessione storica, clinica e temporale per la quale alcuni titoli mi sembrano particolarmente indicati.

La malattia mentale è stata studiata, definita e trattata a livello pratico in modi molto diversi nel corso dei secoli.

La sua storia è infatti legata a quella delle società, con i loro sistemi di valori, di conoscenze e di credenze. Le circostanze storiche, il progresso scientifico, le condizioni sociali ed economiche che hanno caratterizzato le diverse epoche, hanno determinato il modo in cui i disturbi mentali sono stati “giudicati”, descritti e curati nel corso del tempo.

Durante tutto il Medioevo prevale l’idea che la “follia” non sia una malattia da curare, bensì la manifestazione di una possessione demoniaca. Essa non è dunque oggetto di competenza dei medici, bensì della Chiesa: c’è un “male esterno”, che è entrato in un corpo e che deve essere sconfitto per mezzo dell’esorcismo, della preghiera e della fede. Sono molti i film che hanno parlato e ancora oggi parlano di queste pratiche, ma non mi soffermerò su questi, che benché apprezzabili sono spesso legati al genere cinematografico “horror”, proprio per la loro vicinanza al “male”, all’oscuro, all’incomprensibile e al non spiegabile. In passato, tutti gli eventi che l’uomo non riusciva a comprendere ed era costretto in qualche modo a subire, venivano attribuiti alla volontà di entità potenti e incontrollabili: la siccità poteva essere la conseguenza di un maleficio, il terremoto l’espressione dell’ira di un dio, l’epilessia (che non si chiamava così, perché non era ancora stata studiata) la manifestazione di una possessione malefica.

Per quanto queste spiegazioni e questi “trattamenti” fossero bizzarri e spesso nocivi, c’era comunque l’idea che i soggetti vittime di queste sofferenze fossero “curabili”, appunto con la preghiera e la fede. L’idea di guaribilità viene soppiantata però con l’avvento dell’Inquisizione, per la quale solo attraverso la distruzione del corpo l’anima corrotta poteva essere liberata e il male sconfitto.

La segregazione del malato mentale ha inizio con l’avvento dell’Illuminismo e dell’Era della Ragione. A partire dal XVII secolo, tutte le forme di superstizione vengono osteggiate e combattute. Nei luoghi di contenzione si trovano tutte quelle forme sociali che si scontrano con la razionalità secentesca e che possono ledere la solidità della struttura sociale e famigliare: il malato mentale, il povero, il libertino, il sifilitico, il mendicante, l’omosessuale, il criminale, sono messi tutti sullo stesso piano e segregati nelle stesse strutture. Repressione, coercizione e isolamento servono ad assicurare l’ordine e la sicurezza sociale. 

Il “folle” rimane in catene fino alla fine del Settecento, quando il medico francese Philippe Pinel dà il via alla medicalizzazione della malattia mentale. Nascono gli istituti manicomiali, preposti ancora al controllo e alla custodia, ma anche allo studio e al trattamento del disturbo mentale. Si tratta di un trattamento che prevede l’utilizzo di mezzi coercitivi, ma l’uso di questi metodi ha un significato diverso rispetto al passato: la reclusione, la camicia di forza, le docce fredde, sono delle pratiche abominevoli che al tempo però avevano aggiunto al fine di custodire (per la sicurezza sociale) anche quello di “curare”.

Fino al processo di deistituzionalizzazione, la vita asilare è caratterizzata dalla segregazione e dall’utilizzo di metodi di cura esasperati e spesso brutali, tra i quali quello della lobotomia, procedura utilizzata dalla psichiatria a partire dagli anni Quaranta dello scorso secolo. 

Il film che maggiormente riflette quanto detto finora sulla vita manicomiale, un cult dalla drammaticità e potenza emotiva finora ineguagliate, è “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman (1975), prima tappa imprescindibile del nostro excursus storico sulla malattia mentale.

A partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, iniziarono ad imporsi delle teorie alternative a quelle più propriamente legate al modello medico: tra queste quella comportamentale. Il modello behavioristico descriveva la devianza e la malattia mentale come conseguenze di condizionamenti esercitati dall’ambiente sul soggetto. Alcune “distorsioni” delle tecniche di condizionamento furono utilizzate all’interno delle prigioni e degli ospedali psichiatrici criminali. Donata Francescato (1977) riporta un esempio di trattamento utilizzato nella “cura” delle “devianze sessuali”, che associava le tecniche di condizionamento all’uso di farmaci. In particolare, cita l’uso di una tecnica “usata sempre con omosessuali: al soggetto venne fatta un’iniezione di apomorfina. Dopo circa 8 minuti cominciò a sentirsi nauseato. Si mirava ad ottenere una forte nausea che durasse circa dieci minuti senza arrivare al vomito e la dose è stata aggiustata costantemente per ottenere questa risposta. Un minuto prima della nausea, il paziente azionava un proiettore e vedeva la diapositiva d’un uomo nudo o parzialmente nudo”. 

Arriviamo così alla seconda fondamentale tappa della nostra analisi cinematografica, e approdiamo a un altro must see movie, tratto, come il precedente di Milos Forman, da un libro. Si tratta di “Arancia meccanica”, di Stanley Kubrick (1971). 

Il protagonista del film è Alex, leader di una banda giovanile dedita allo stupro, al furto e alla violenza. Tradito dai suoi compagni, Alex viene catturato e immesso in un programma di “riabilitazione”. Attraverso la “terapia del disgusto” Alex diventa momentaneamente inoffensivo e viene reintegrato nella società. L’utilizzo di sostanze che provocano la nausea, associate alla proiezione di scene di violenza, fanno sì che Alex si senta male ogni volta che si trovi di fronte a un atto criminale o che tenti di compierlo. La stessa cosa accade quando Alex sente la musica di Ludwig Van Beethoven, che fino a quel momento era stata lo stimolo per le sue malefatte: la Quinta Sinfonia è infatti stata utilizzata per le sue sedute di “terapia”, battezzata per questa ragione come “Tecnica Ludovico”.

Molti passi sono stati fatti, nel tempo, per migliorare le condizioni dei pazienti, per cambiare il modo di definire e trattare i disturbi mentali e anche per decostruire i consolidati stereotipi negativi culturali su questi temi, anche se molto è il lavoro ancora da fare. In Italia la prima vera grande innovazione nell’ambito della legislazione psichiatrica è stata fatta in seguito all’opera di Basaglia e all’approvazione della Legge 180/1978, assorbita nello stesso anno dalla Legge 833 di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

Uno dei passi più fondamentali fatti nell’ambito della salute, sia fisica che mentale, è stato inoltre certamente quello di coinvolgere sempre di più i pazienti nelle decisioni di cura, grazie all’introduzione della pratica del consenso informato in medicina, in psichiatria e in psicoterapia.

Parlando di passi, non posso non citare tra i miei film consigliati il film di Bille August del 2017 “55 passi”, che racconta della battaglia legale per il consenso informato sull’utilizzo dei farmaci con i pazienti psichiatrici messa in atto da una paziente e dalla sua avvocata. 

La storia si focalizza sul fatto che sia fondamentale che i medici condividano, con i pazienti in grado di comprendere, i piani terapeutici, illustrino in modo trasparente e chiaro lo scopo delle terapie, i rischi e gli effetti collaterali spesso gravi delle cure, le conseguenze dell’accumulo di certe sostanze nei trattamenti a lungo termine.

Un ultimo aspetto da considerare, per completare questo quadro certamente non esaustivo sulla sofferenza mentale, è quello a cui ho già accennato: l’importanza del cambiamento di visione non solo in ambito scientifico, ma anche “popolare” della malattia mentale. Le visioni del passato, radicate in stereotipi e false credenze, si sono consolidate e sono difficili da scardinare, si trascinano ancora oggi, nonostante le grandi innovazioni in campo scientifico, nonostante i cambiamenti a livello sanitario e legislativo, nonostante le lotte contro le discriminazioni e la diffusione dell’informazione.

Sono molti i film che ci aiutano a comprendere la sofferenza psichica, la sua umanità, la sua vicinanza al nostro complesso mondo interiore, e quanto siano immense le risorse e il patrimonio culturale scaturiti da molte menti travagliate e geniali della nostra storia. 

Gli ultimi due suggerimenti di visione che vi voglio lasciare in proposito, al termine di questo breve viaggio, sono “A beautiful mind”, di Ron Howard, del 2001 e “Il professore e il pazzo” di P.B. Shemran del 2019.

Come affermai tempo fa in un articolo, forse se le vite di alcuni uomini, ad esempio pittori, compositori e poeti, fossero state prive di sofferenze e disagi, oggi noi avremmo dei girasoli in meno da ammirare, delle sinfonie in meno da ascoltare, delle poesie in meno da recitare.


BIBLIOGRAFIA:

  • Basaglia F. (a cura di), Che cos’è la psichiatria?
  • Basaglia F. (a cura di), L’istituzione negata
  • Burgess. A., Arancia Meccanica
  • Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia
  • Foucault M., Malattia mentale e psicologia
  • Foucault M., Storia della follia nell’età classica
  • Francescato D., Psicologia di Comunità
  • Goffman E., Asylum – Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza
  • Szasz T.S., Il mito della malattia mentale

[Per chi fosse interessato all’argomento “Film psicologici e psicologia spiegata attraverso il cinema” può seguirmi sul sito www.psicofilm.it]


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Article by admin / Generale / recensioni

6 October 2020

ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA

di Raffaele Avico

Radical Choc, l’ultimo episodio della trilogia del collasso di Raffaele Alberto Ventura, è un trattato forse più sociologico che economico, idealmente da collocarsi -a detta dell’autore stesso- come precedente agli altri due volumi della trilogia (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti).

Ventura per la prima metà del libro, esegue una lettura dall’alto della società di oggi, tentando di spiegarne la difficile sostenibilità soprattutto in termini di rapporto costi/benefici. Per poter procedere in avanti e verso l’alto, e garantire una riproposizione continua dei rapporti dialettici tra le parti sociali al suo interno (per esempio tra la domanda e l’offerta nel mercato), la tecnostruttura statale dovrebbe essere in grado di, nel tempo, “scalare” in termini di grandezza verso l’alto: in assenza di questo movimento di crescita perpetua, visto il finire dello spazio di sviluppo, parti di o intere fasce di professionisti potrebbero, nel tempo, risultare inutili.

La tecnostruttura statale, dovrebbe in altri termini garantire a se stessa il perpetuarsi della domanda di servizi e lavori necessari per far funzionare la macchina stessa -ma per fare questo, occorre che essa diventi sempre più grande. É una nevrosi della tecnostruttura stessa, per così dire, generata da un problema di economia libidica interna, con troppa energia da smaltire, e pochi strumenti per farlo; un po’ come un uomo o una donna che, irrequieti, si auto-procurino nuove fonti di stress -nuovi progetti, nuove idee, case più grandi- da usare come alibi per giustificare o convogliare la stessa loro irrequietezza, dilaniati nella sostanziale impossibilità di fermarsi, o vivere il momento presente.

In particolare, Ventura sottolinea come a partire dalla nascita dello stato moderno, avvenuta per difendere la popolazione dai suoi stessi impulsi più basici e dai rischi di un contatto troppo poco filtrato con la natura (lo stato di natura di Hobbes), la classe di quelli che Ventura chiama “competenti” sia stata lo strumento umano con cui la tecnostruttura si sia incaricata di ridurre le incertezze e i difetti strutturali interni al suo funzionamento, così che questa potesse meglio procedere nella sua corsa -all’apparenza- infinita.

I competenti, risolutori di problemi, utili a offrire alla società quote maggiori di sicurezza percepita, sono coloro che nel suo primo libro aveva definito membri della classe disagiata: laureati, nuovi intellettuali, operai cognitivi, architetti, psicologi, filosofi: figure professionali utili fintanto che la macchina statale -la tecnostruttura- possieda sufficiente spazio e bisogni -che quindi richiedano la risoluzione di sempre nuovi problemi.

Ma cosa succede sa la macchina, per cause di forza maggiore, si ferma?

Volendo provare a sintetizzare il lavoro di Ventura, anche relativamente agli altri suoi saggi (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti, qui recensito), e provando a darne una lettura in senso psicologico, cosa potremmo trarne?

Alcuni spunti:

  • abbiamo osservato negli ultimi anni continui tentativi di giustificare e spiegare la “crisi”, effettuati spostando il centro della crisi stessa da un tavolo all’altro: la crisi economica spiegata attraverso la crisi climatica, a sua volta usata per spiegare crisi sanitarie, come un continuo gioco di spostamento, che ora sembra essere arrivato a un punto di arresto: se veramente di crisi si tratti, dovremmo inserire questa crisi nel contesto di un più esteso cambio di paradigma, che Ventura descrive nel dettaglio, trasversalmente, nella sua trilogia del collasso. La crisi, è prima di tutto una crisi di senso. Non è un caso che Ventura esegua una lunga rincorsa storica per tracciare i confini del cambio paradigmatico che intravede nella società odierna: come lui, lo fanno Alessandro Baricco e, sopra tutti gli altri, Harari. Per capire dove stiamo andando, sembrano sostenere questi autori, occorre capire da dove siamo venuti: solo così riusciremo a tracciare le linee di un nuovo orizzonte di senso.
  • Harari, insieme a Ventura -anche se in modo diverso-, focalizza molto bene come uno dei problemi che si potranno presentare, nel prossimo futuro, sarà mantenere una qualità della vita alta pur essendo sganciati dall’idea di essere “utili” alla sopravvivenza della tecnostruttura/società. É probabile, spiega Harari, che in un futuro non troppo lontano, molte persone -tra cui molti competenti o disagiati- si raggrupperanno in quella che definisce la classe degli inutili, la useless class. Costoro dovranno capire come vivere bene, rendendosi conto di non essere necessari al proseguimento del progresso sociale. Questo problema, come si diceva, tocca l’ambito del senso e del significato: che senso dare a una vita passata nel poco lavoro, o nel non lavoro, e nell’assenza di pericoli contingenti a riguardo della sicurezza? Per riuscire a vivere bene in queste condizioni, occorrerebbe eseguire un lavoro di distanziamento, un superamento prima di tutto interiore da tutto ciò che, a proposito del valore etico del lavoro, abbiamo imparato.
  • è necessario che i competenti, i “disagiati”, superino l’impasse del bisogno di riconoscimento, descritta a fondo nel libro La guerra di tutti, verso una nuova forma di flessibilità, una nuova capacità di adattarsi: non è detto infatti -o meglio, è improbabile-, che quello che al tempo fu promesso loro, verrà realmente offerto in premio per la corsa a ostacoli da essi intrapresa
  • è necessario tenere a mente i rischi ingenerati da un sistema tecnocratico che abbia come motore centrale la preservazione della sicurezza (o meglio, la sua “produzione” come dice Ventura): questi rischi, potrebbero concretizzarsi in forme di governo anti-democratiche, o “burocratico/fascistoidi”, e per parlare di questo Ventura tira in mezzo il modello cinese.

La guerra di tutti, è la guerra dei competenti gli uni contro gli altri, delusi da promesse non mantenibili, in un sistema che non cresce alla velocità necessaria alla produzione di sufficiente domanda.

Ci troviamo dunque in un interregno paradigmatico, in una terra che, come ben descrive il già citato Harari nel suo 21 lezioni per il XXI secolo, ha perso i suoi simboli, e ne cerca di nuovi. Un deserto senza indicazioni che procura vertigine, e che vede nuovi paradigmi alternarsi -per ora- senza che nessuno di questi riesca realmente a divenire dominante. Come nota Harari, i due paradigmi per ora più forti, in grado potenzialmente di prendere il posto delle grandi istituzioni novecentesche -a rischio di collasso (Ventura chiude il libro con l’immagine di Economia e Politica, abbracciate, che si schiantano al suono, ma con estrema lentezza, tanto da non produrre nessun rumore, solo un lungo brusio di fondo)-, sono il paradigma laico guidato da un’etica di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dell’ambiente in cui vive, e quello scientifico, sempre più ingombrante in termini di potenza semantica, pur nelle sue derive negative (per esempio il fatto che la scienza non fornisca mai una risposta definitiva, e limitandosi a risposte “sospese” non produca fidelizzazioni “forti”)

Con la sua trilogia, insieme ad altri pionieri del mondo “nuovo”, Ventura ci propone non tanto una soluzione, quanto uno strumento di interpretazione del presente, una chiave di lettura che con cui unire i puntini per far affiorare nuovi orizzonti di senso.


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26 August 2020

FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza


di Raffaele Avico

Questo volume (la tesi di laurea di un medico Leccese nato nel 1881, Francesco de Raho), rappresenta un efficace tentativo di integrare gli studi sul tarantismo che fino ad allora avevano letto il fenomeno pugliese alla luce del paradigma medico/scientifico ottocentesco, agli studi successivi che vollero invece indagarne gli aspetti antropologico/folkloristici, legati alla cultura della terra del Salento.

Il libro è stato pubblicato nel 1908, e rappresenta di fatto la tesi di laurea del medico De Raho.

Il volume venne ignorato negli anni successivi, per ritornare citato da Ernesto De Martino nel suo La terra del rimorso, opera centrale per chiunque si voglia approcciare a una lettura critica sul fenomeno del tarantismo pugliese. De Martino omaggia De Raho nel suo La terra del rimorso onorando la generazione di cui lo stesso De Raho faceva parte, precedente alla propria, riconoscendone il contributo scientifico.

Il volume va, in primo luogo, contestualizzato entro il periodo storico che lo vide nascere: erano gli anni dell’affermazione della psicoanalisi e di un psichiatria aperta ad aspetti puramente psicologici, incentrata sul concetto di isteria come malattia nervosa più diffusa, e sulla sue cause.

De Raho apre, nel suo lavoro, con un’iniziale disamina sommaria della letteratura sul tarantismo (vecchia, ai suoi tempi, già di 300 anni, essendo i primi documenti scritti a proposito del fenomeno risalenti al 1600). Quindi, entra nel vivo della sua sperimentazione, operando un’indagine sul campo finalizzata a comprendere l’origine del fenomeno del tarantismo pugliese.

Nella seconda parte del volume, infatti, vengono descritti gli esperimenti che lo stesso medico effettuò su diversi animali da laboratorio, in situazioni diverse, per testare l‘effettivo potenziale tossico del veleno del “ragno” pugliese. Fino a quel periodo, infatti, l’origine del male sofferto dalle donne colpite da tarantismo, era attribuito al potenziale nocivo del veleno del ragno.

Diversi aspetti però non tornavano, e questo De Raho lo chiarisce molto bene nel suo lavoro di tesi: come mai le donne sembravano soffrire di tarantismo, solamente in campagna? Come mai inoltre il male sembrava riproporsi in modo ciclico, una volta l’anno?

Gli animali da laboratorio, morsicati molteplici volte da ragni raccolti dallo stesso De Raho (facendo attenzione a raccoglierli senza far sì che il veleno da essi ritenuto si disperdesse, per esempio rovesciando sulla terra una bottiglia di vetro, e spingendo il ragno dentro di essa), sembravano non subire alcun tipo di danno organico, coma a provare l’innocuità del veleno del ragno stesso.

Questi esperimenti erano svolti utilizzando un ragionamento di tipo deduttivo, entro una cornice “scientifica” che avrebbe nell’idea di De Raho “sotterrato” la mole di credenze e pensieri magici raccolti intorno alla figura (simbolica) del morso e intorno alla pratica rituale del tarantismo stesso.

Dimostrata, all’interno della sezione “zootecnica”, la sostanziale innocuità del veleno del ragno, il medico si spinge quindi a una rassegna di casi clinici (molto frequenti e facili da reperire a inizio ‘900, a differenza del periodo in cui De Martino effettuò le sue ricerche, negli anni ’60, quando il fenomeno conosceva già il suo declino), molto numerosa. Vengono riportati 25 casi clinici suddivisi in gruppi differenti a seconda che vi fosse stato o meno il morso “reale” di un ragno; questi casi sarebbero stati successivamente ripresi da De Martino come materiale di studio e citati nel suo La terra del rimorso.

Infine, de Raho si spinge a una valutazione del fenomeno tarantismo, per via medico/psichiatrica, “declassandolo” a forma minore di isteria.

La cosa interessante tuttavia della sua valutazione clinica, è la spiazzante modernità di lettura del fenomeno, usando lo stesso De Raho concetti che all’epoca dovevano essere particolarmente “innovativi”, che tuttavia sono ancora oggi validi e, per certi versi purtroppo, insuperati.

In particolare, De Raho cita gli studi di Pierra Janet a proposito del trauma, da un lato citando l’idea Janetaina di una personalità “divisa” e difficilmente “sintetizzata” ad opera delle funzioni mentali superiori della coscienza (idea che ancora oggi fa da fondo a molte delle teoria psicotraumatologiche più apprezzate), dall’altro osservando in modo molto acuto come il disturbo isterico fosse da ricercarsi laddove ci fosse, a monte, una personalità pronta a riceverlo (sia per una questione di suggestionabilità, che per una problema di fragilità contestuale). Giustamente, De Raho osserva, il fatto che non tutti sviluppassero una forma isterica come il tarantismo, ci dice di come è spesso più importante il “terreno” del “seme”. Anche qui, osserviamo, si sente un’eco janetiana (il disturbo post traumatico si innesta su un terreno di prostrazione psichica preesistente). 
Si spinge poi, il medico leccese, a una valutazione (neuro)fisiologica degli effetti della musica sulla mente dell’individuo, citando i più importanti studiosi dell’epoca, pur in grado di operare spiegazioni insufficienti -che tuttavia ci ricordano di come ancor oggi non tutto sia stato spiegato (per esempio la base neurobiologica di un evento catartico).

La musica, dice De Raho, “squassa simultaneamente tutti i rami e tutte le fronde dell’albero psichico come un vento impetuoso che aggiri il tronco alla base”; potrebbe essere definita come un “trascendente idioma senza parole che scorta sino al lembo dell’infinito”. Il che certamente è vero, ma non spiega il potere curativo della stessa.

È possibile, si chiede l’autore, che la musica eserciti un effetto realmente curativo, al pari di un farmaco, sul veleno iniettato dal ragno, così come sembravano credere i contadini del leccese di inizio ‘900? Pur assumendo che la musica “spinga” lo “spirito del corpo” a portare dei benefici a livello somatico (accertati da molteplici studi che lo stesso De Raho cita), non è possibile per la musica operare in senso terapeutico “al di fuori dei suoi confini”, per esempio facendo ricrescere un arto deputato, oppure guarendo un malato di polmonite. A meno che, ragiona De Raho, lo stesso atto di ascoltare un certo tipo di musica entro un certo tipo di rito socialmente condiviso, da parte di persone dotate di una certa disposizione d’animo, non poggi su un unico elemento centrale: la suggestione nel contesto di un problema “solamente” psicologico -che è poi, come abbiamo visto, la conclusione a cui arriva De Raho pensando al tarantismo, un problema cioè del tutto assimilabile a una forma minore di isteria.

Il volume rappresenta un elemento prezioso della bibliografia sul tarantismo (raccolta in toto da Sergio Torsello), perchè rappresenta una pietra miliare tra i primi lavori che vollero spogliare il tarantismo del suo portato magico/pagano, portandolo sotto lo sguardo della scienza biomedica -così facendo, però, decretandone la scomparsa.

Infine, raccoglie al suo interno le prime 4 fotografie mai apparse di donne tarantate, interessanti poichè mostrano come in passato (presumibilmente prima dei primi anni del ‘900) il rituale di tarantismo si svolgesse con l’aiuto di una corda appesa al soffitto, funzionale ad agevolare i movimenti e il ballo dei soggetti “morsicati”.


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27 July 2020

LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia

di Raffaele Avico

La luna e i falò gira intorno a un tema centrale, un pilastro che doveva essere portante non solo per Anguilla (il protagonista del romanzo), ma anche per Pavese: la perdita, il recupero, il ricongiungimento cercato, la partenza e il ritorno. Per questo, il libro è impregnato di melanconia, risultando quasi insostenibile alla lettura in termini emotivi, seppur bellissimo. Anguilla, come sappiamo dalla sinossi, torna in patria dopo almeno 20 (?) anni, dalla California, avendo fatto fortuna, come un vero e proprio “zio d’America”. Partito per scappare alla persecuzione fascista, tornerà alla sua terra (le Langhe) a contare i morti del dopoguerra, e ad affacciarsi su ciò che rimane del suo passato.

Il libro è un lungo affaccio a ciò che del passato di Anguilla rimane; potremmo definirlo una lunga visita al museo di ciò che fu: l’infanzia di Anguilla come bracciante, i giochi di bambino, l’amicizia con Nuto (rimasta inalterata), la famiglia affidataria, la vergogna e la rabbia di classe.

Rintracciamo due piani del sogno melanconico di Anguilla, al suo ritorno:

  1. il cambiamento dei luoghi, la casa in cui crebbe ormai abitata da un’altra famiglia, rappresentano lo scorrere lineare di un tempo che viaggia sempre in una sola direzione: verso l’entropia e la morte. La narrazione di Anguilla si perde in ciò che i luoghi sanno riportargli alla mente: le feste di paese, i falò propiziatori nella notte di San Giovanni, i balli di paese prima della guerra. La percezione bruciante dello scorrere impietoso del tempo, sembra aggravare lo stato di sradicamento di cui Anguilla soffre da sempre, nato e vissuto “bastardo”, senza una radice. Durante la lettura, viviamo con Anguilla il tentativo di riappropriarsi dei luoghi che furono i suoi.
    Ma sarà veramente possibile?
    Nelle pagine di “La luna e i falò”, ci confrontiamo con il problema dell”’oggetto perduto”, che in qualche modo potremmo riformulare o semplificare nel problema dell’”infanzia perduta”, nell’elaborazione di un lutto che riguarda i propri, intimi sogni, la perdita di un sè bambino (che troveremo reincarnato -è possibile leggerla in questo modo- nel piccolo Cinto, anch’esso abusato, violato da una realtà brutale, oggetto di un forte transfert da parte dello stesso Anguilla). Essere andato via, dunque, non sembra aver risolto Anguilla: quel lutto “a metà”, l’attaccamento a quella perdita sembra, nella lettura, ancora vivo, ancora bruciante in lui, tanto da farcelo cogliere come affondato insieme all’oggetto perduto, aderente, incollato ad esso– e con esso lontano, distante. Freud ci mise in guardia sul pericolo di perderci dietro l’oggetto perduto, di morire un po’ per volta dentro un sogno melanconico infinito, che sembra essere quello che accade ad Anguilla.
  2. un secondo piano, sembra in qualche modo meta-melanconico. A circa metà libro, Anguilla si chiede cosa resterà di quei luoghi, con lo scorrere del tempo. La sua non è solo quindi melanconica ricerca di ciò che fu: il rapporto con la sua terra di origine sembra subire un processo di metamorfosi, sembra piuttosto amore corrotto in pietà per i luoghi del suo passato. Il che, potremmo dire, vuol dire amore corrotto in pietà per se stesso.
    Il lutto è ovunque, pervasivo, endemico, irrisolvibile.
    É un lutto attuale, del momento presente, ma anche “futuro”, vissuto prima del tempo, anticipato, pre-vissuto. Anguilla osserva con occhi di madre luoghi che gli appartennero solamente in parte (ricordiamoci che, in quanto bastardo, il tema della mancanza di appartenenza gli si propose fin da subito), cercando una fusione, una simbiosi fuori-tempo, clamorosamente patetica.

Il percorso di Anguilla, è tutto interiore, tutto interno. La natura indifferente, diviene un grande schermo su cui lo osserviamo costruire delle domande, porsi delle questioni basali, umanissime, ma senza risposte tranne una: la fuga (Anguilla tornerà a Genova a fine romanzo; Pavese si suiciderà poco tempo dopo aver concluso il romanzo). La natura intima, psicologica, del percorso di Anguilla, il tema dell’appartenenza e del ritorno, del ricongiungimento impossibile verso quello che i lacanisti chiamerebbero oggetto piccolo (lo stadio iniziale, fusionale, unico, non ancora diviso della vita) struttura tutto il romanzo, facendone un capolavoro, pur difficile da leggere per la sua potenza evocativa e, in qualche modo, depressiva.

Il libro è infatti in grado di produrre melanconia nel lettore, in modo vivo e potente. Andrebbe letto da chiunque si confronti con un’emigrazione, con un distacco necessario, con un allontanamento dal proprio nucleo familiare di origine per ragioni di sopravvivenza. O dai bullizzati, o dai “tagliati fuori”. Ci si sentirà totalmente capiti, totalmente a fianco di Anguilla di fronte alla brutalità di una sola domanda, fatale: “perché?”.

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9 May 2020

PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch

di Raffaele Avico

Change è un libro di Watzlawick e bla bla bla (qui una recensione del libro). In questo articolo cerchiamo di fare alcune riflessioni sugli aspetti da tenere a mente o da mettere in discussione del libro.

Watzlawick è un teorico realmente geniale: si veda per esempio questo video:

CHANGE: PUNTI A FAVORE

  • gli autori ragionano sul tema generale del cambiamento, distinguendone due tipologie : il cambiamento di tipo 1, interno al gioco che contempla gli elementi che partecipano al gioco stesso (le pedine della scacchiera e come muoverle), e il cambiamento di tipo 2, su di un livello logico superiore (le regole del gioco stesso degli scacchi). Per ottenere un vero cambiamento, gli autori osservano, è importante che il cambiamento sia di tipo 2: dovremo agire cioè per cambiare le regole del gioco stesso (che alimentano l’immobilità del gioco in sè). Questo, già di per sè, pone a favore del libro, realmente geniale. La scuola di Palo Alto già aveva fatto parlare di sè con il fondamentale “pragmatica della comunicazione umana”, antecedente.
  • come fare a cambiare? Gli autori ci invitano a considerare come, per arrivare a un vero cambiamento, questo dovrà essere attuato facendo un “passo indietro” a riguardo della situazione che si desidera cambiare, in modo da poterne avere una visione “dall’alto”. Così, scopriremo che spesso ciò che mantiene in piedi un problema, è il tentativo che facciamo di risolverlo, quello che gli autori chiamano tentata soluzione. Per cambiare, dovremo quindi lavorare su questa tentata soluzione. Esempio: se mi sforzo di addormentarmi, quando insonne, è più che probabile che rimarrò sveglio, incastrato in uno sforzo paradossale. Per risolvere questo problema, dovrò, contro-paradossalmente, tentare di stare sveglio, rompendo il paradasso originario
  • la logica del paradosso e del contro paradosso, ha ispirato sia la psicoterapia sistemica in senso lato, che la psicoterapia breve strategica (quest’ultima in particolare). La “prescrizione del sintomo” (l’intervento paradossale) viene usata in entrambi questi approcci alla psicoterapia
  • quando vi sia una stratificazione del pensiero, e la messa in piedi di “tentate soluzioni” basate sull’evitamento e sul controllo (in particolar modo nei disturbi da attacco di panico, nei disturbi fobici, in alcune forme di disturbo sessuale e di DOC -ovunque cioè vi sia una parte della mente impegnata attivamente a controllare o a gestirne un’altra), la logica contro-paradossale assume un’enorme portata in termini di efficacia. A volte un intervento può essere risolutivo, o in ogni caso molto efficace
  • l’approccio degli autori alla psicoterapia, è un approccio pragmatico, americano: si ragiona sul qui e ora, per obiettivi chiari e tempi definiti. Il problema prima di tutto dev’essere riconosciuto e vissuto dal soggetto come un problema: in caso contrario non avrebbe senso approcciarvisi.
  • il libro chiarisce bene che tentare di approcciare il problema “dall’interno”, usando per così dire lo stesso “suo” linguaggio, non serve: il problema viene mantenuto. Occorre capire come fuoriuscirne cambiando i presupposti sui cui si fonda. Molto importante il riferimento alle 4 fasi del cambiamento promosse dagli autori:
    1. Una definizione chiara del problema in termini concreti;
    2. Un’analisi della soluzione finora tentata;
    3. Una chiara definizione del cambiamento concreto da effettuare;
    4. La formulazione e la messa in atto di un piano per provocare tale cambiamento.
  • Il cambio di paradigma suggerito dagli autori si basa sostanzialmente sul passaggio dal PERCHÉ al COME. Gli autori propongono di non cercare necessariamente un insight, una comprensione profonda del problema: è più importante concentrarsi su come quello stesso problema si mantiene, quali sono i fattori contestuali e di comportamento che mantengano quella stesso problema in piedi.

CHANGE: PUNTI CONTRO

  • la logica paradossale, non può essere applicata a qualunque problema, specialmente in ambito clinico; non tutti i problemi infatti si basano sul paradosso, nè sulle tentate soluzioni. L’anoressia, per esempio, non è una tentata soluzione a riguardo di un altro problema, ma un modo d’essere che trova le sue radici in questioni esistenziali e affettive, così come la depressione, ruotante intorno a tematiche inerenti il lutto, la colpa, la perdita. Non sembra possibile cioè risolvere la questione nei termini di un singolo problema, unico, che debba essere “disciolto o sbloccato”. Vedere in tutti i problemi delle tentate soluzioni rischia di divenire -questo sì- un bias cognitivo, un po’ come succede ai “pantraumatologi” che ricercano, dietro ogni disturbo, la presenza di uno stress post traumatico
  • questa visione “risolutoria” (che si radicalizza con i teorici della “seduta singola”) viene denigrata dagli “ortodossi” della psicologia clinica anche se, va detto, non tutto ciò che storicamente produsse scetticismo si rivelò sbagliato. La stessa psicoanalisi inizialmente destava scandalo. Qui potremmo però ipotizzare un errore strutturale: pensare di “sbloccare” un paziente, significa avere una considerazione del suo problema basata sulla presenza di un errore di fondo, come un passaggio sbagliato fatto nella risoluzione di un’equazione complessa che quindi, se corretto, porti infine al risultato giusto. Il punto centrale è che chiunque lavori con pazienti gravi, si rende conto che la mente non funziona in questo modo, la psicoterapia non può divenire un’indagine diagnostica che ha dell’investigativo, non può limitarsi alla ricerca del “bias” (cioè dell’errore), dato che non è risolvendo un errore del pensiero che si cura uno stato di malessere soggettivo, che prescinde spesso dal pensiero stesso. Invece di “domandare”, “esplorare”, “sentire”, “osservare”, osserviamo qui l’utilizzo di altri verbi, mutuati da un approccio “risolutorio” alla psicologia clinica, da una modellizzazione della mente per certi versi cibernetica, “algoritmica”: “sbloccare”, “disinstallare”, “risolvere”, il che risulta sospetto, per lo meno limitato, insufficiente.
  • il tipo d’intervento che gli autori propongono, è un intervento che si fonda sull’assunto che la persona possieda una fiducia totale in quello che i terapeuti gli propongono. Parlano di prescrizioni da seguire, non facendo tuttavia i conti con chi si ponga in modo scettico, chi si possa sentire manipolato, chi non ritenga sufficiente che “il dottore abbia capito, anche se io no”; di fatto ritengono sufficiente che sia il comportamento a cambiare: il pensiero arriverà dopo; il paziente arriverà in seguito a capire -se mai lo farà- la logica sottesa all’intervento, al suo razionale clinico.
  • La teoria che fonda questo approccio, non ha prodotto in seguito nessun filone serio di ricerca scientifica. Come mai? In “Change” vengono citati sia Bateson che Milton Erickson, riferimenti teorici del movimento (l’uno per via del lavoro sulla teoria dei giochi e del paradosso, l’altro grazie alle sue capacità –geniali– suggestivo/ipnotiche). Questo alimenta personalizzazioni e dogmatismi incentrati su persone singole, benché carismatiche. Quello che dobbiamo ricordare è che nelle professioni di cura, il curante dovrebbe essere un funzionario: altrimenti, andremo dal suo “nome” e non dalla sua “tecnica”. Quindi: dove stanno la ricerca, le prove di efficacia, in tutto questo? Dov’è la famosa peer review? C’è da considerare tuttavia che il libro rappresenta un impulso, un incipit a qualcosa che sarebbe avvenuto da lì in avanti; in questo sta, al di là di tutto, il suo peso specifico. Il problema della terapia strategica e delle prove di efficacia scarse, tuttavia, rimane.

Per concludere con un solo aggettivo, Change è imprescindibile per chiunque si occupi di clinica e di “cambiamento” in senso lato, soprattutto per l’accento posto sui temi del paradosso, delle tentate soluzioni e della causalità circolare (sempre più attuale in clinica, come qui approfondito). Gli autori possiedono un brillante, realmente complesso punto di vista sul modo di ragionare, pensare, vivere dell’essere umano, dimostrandosi paurosamente consapevoli di come il soggetto viva e sappia mettere in atto dei comportamenti e delle reazioni all’ambiente circostante a scapito di se stesso, spesso in modo non consapevole.

L’accento messo sugli aspetti suggestivi, infine, ci racconta di una precoce saggezza degli autori su tutto ciò che oggi chiamiamo “effetto placebo”, cioè sull’importanza degli aspetti relazionali, contestuali, relativi al come viene percepito il terapeuta del paziente, sull’importanza cioè della fiducia in clinica (qui un approfondimento a proposito del lavoro di Fabrizio Benedetti, italiano tra i massimi esperti di effetto placebo in senso internazionale).


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27 March 2020

TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2


di Giulia Virtù (SISSA, Trieste)

L’11 novembre del 1999 Gregg Easterbrook, giornalista statunitense, pubblicò sulla rivista progressista “The new Republic” una frase destinata a rimanere nella storia:

“Se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa”[1].

Al di là delle controversie legate al contesto in cui questa frase venne scritta (effetto serra e riscaldamento globale), questa affermazione contiene una allarmante verità.

Non dobbiamo dimenticarci che i numeri, per loro natura così neutri e onesti, non sono entità a sé stanti: non esistono cioè indipendentemente dall’uomo che li manipola e li utilizza. Già solo questo dovrebbe farci capire quanto sia ingiustificata gran parte dell’oggettività che attribuiamo loro.
Eppure è innegabile che, quando si parla di numeri, di dati, di grafici e percentuali, tendiamo a fidarci di più, a dimenticarci che spesso non sono altro che marionette nelle mani di chi regge i fili.

Siamo abituati a credere a tutti gli aumenti/diminuzioni di prezzi senza chiederci come si è arrivati a quel risultato. Ci beviamo tutte le percentuali che ci vengono propinate senza chiederci quale sia il valore assoluto a partire dal quale sono state calcolate. Ci fidiamo delle stime senza conoscere il campione da cui sono tratte. Pretendiamo di fare medie aritmetiche, o addirittura ponderate, tra numeri che derivano da valutazioni completamente arbitrarie, le cui griglie sono state costruite da noi o da altri come noi (un esempio lampante sono i voti scolastici).

Questa aura di oggettività che i numeri emanano può trarci in inganno anche quando si tratta di cifre estrapolate da paper scientifici. Ecco perché è fondamentale la lettura critica: perché ovunque si può nascondere la possibilità di errore, sia esso dovuto a manipolazione, superficialità di analisi o incompetenza, distrazione, fretta o pregiudizio.

Bias di conferma (cherry picking)

Nessuno di noi è immune dal pregiudizio. In effetti, il bias di conferma può essere inteso come un vero e proprio pregiudizio, che si manifesta come una cecità parziale. Esso ci porta a raccogliere, selezionare e interpretare solo le informazioni che confermano le nostre convinzioni o ipotesi, e viceversa, ignorare o sminuire informazioni che le contraddicono. A causa di questo fenomeno cognitivo le persone tendono a muoversi entro un ambito delimitato.
Già Dante lo descriveva perfettamente quando, nel Paradiso, affermava che

più volte piega / l’opinion corrente in falsa parte / e poi l’affetto l’intelletto lega (cioè: spesso l’opinione corrente si rivolge al falso, e l’attaccamento a quell’opinione imbriglia l’intelligenza)

Per questo motivo, anche all’interno di un paper scientifico, bisogna tenere conto delle credenze pregresse di chi l’ha scritto e delle nostre convinzioni che potrebbero ostacolarci nell’acquisire nuove informazioni ‘dissonanti’.

Alcune insidie degli articoli scientifici

Il bias di conferma non è l’unica insidiosa minaccia alla verità (ammesso che esita) cui bisogna prestare attenzione mentre si scorrono le righe di un articolo scientifico. Aggirandosi tra le sue parole, sono molti i tranelli in cui si può cadere. Si tratta di trabocchetti, il più delle volte, tesi in buona fede, spesso con l’unico intento di esaltare i risultati della ricerca, ma questo non toglie la necessità di una lettura autonoma, attiva e critica.

Di seguito vengono messe in luce alcune delle più comuni insidie in cui il lettore può imbattersi, dagli errori di campionamento ai modi tendenziosi in cui si possono presentare i risultati.

1.1 Campionamento

Immaginiamo di avere un enorme sacco stracolmo di fagioli, alcuni borlotti rossi e alcuni bianchi di Spagna. C’è un solo modo per sapere esattamente quanti ne abbiamo di ciascun colore: contarli tutti. Tuttavia, se il sacco è davvero enorme e davvero stracolmo, l’operazione potrebbe risultare lunga e complicata. Quindi potremmo decidere, per velocizzare un po’ la pratica, di tirarne fuori una manciata e contare quanti borlotti rossi e quanti bianchi di Spagna abbiamo in mano. Immaginando che la proporzione sia la stessa per tutto il sacco, possiamo arrivare ad una stima approssimativamente corretta del numero di fagioli di ciascun colore. Se la manciata (campione) è abbastanza grande e correttamente pescata dal sacco, rappresenterà il totale (popolazione) in modo adeguato. Se non lo è, il procedimento potrebbe essere molto meno affidabile di una stima fatta “tirando a indovinare”.

Si parla spesso di numerosità del campione come sinonimo di attendibilità. Tuttavia, la bontà dei risultati non dipende unicamente da quanti individui compongono il campione stesso, ma anche dal modo con cui essi sono stati selezionati. Il campione, per essere attendibile, dovrebbe rispecchiare ‘in piccolo’ tutte le caratteristiche dell’intera popolazione che si vuole studiare, o si rischia di incappare in errori madornali. Un classico esempio di campionamento inefficace ci viene dalle elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel 1936. L’indagine venne condotta dalla rivista Literary Digest e, dai risultati, si prevedeva la vittoria di Landon su Roosevelt. Il campionamento avvenne per mezzo degli elenchi del telefono e del registro automobilistico e le interviste furono condotte telefonicamente. Il campione era numeroso (2,3 milioni di americani), ma non attendibile. In questo modo, infatti, il Digest aveva finito per intervistare troppi repubblicani (mediamente più ricchi e quindi più facilmente in possesso di un’utenza telefonica o di una automobile), sottostimando l’elettorato democratico. Il 3 novembre del 1936, come ben sappiamo, Franklin Delano Roosevelt venne riconfermato presidente.

Un campione può dirsi rappresentativo del proprio universo quando c’è l’identità delle proporzioni secondo le quali sono presenti, nell’uno e nell’altro, i vari caratteri della popolazione. A cominciare dai caratteri cosiddetti sociodemografici (il sesso, l’età, il grado di istruzione, la condizione professionale, ecc.) e geografici (la regione di residenza, l’ampiezza demografica del comune, ecc.), comprendendo anche altre caratteristiche di tipo antropometrico (come la statura o il peso), socioculturale o psicologico.
Se la proporzionalità tra campione e universo sussiste rispetto a ciascuna delle caratteristiche (o variabili) prese in esame, potremo aspettarci che tale proporzionalità sia mantenuta anche rispetto alle variabili ancora incognite, sulle quali ci proponiamo di indagare. Questa identità di proporzioni tra campione e popolazione costituisce il presupposto della rappresentatività statistica.

Quando si legge un articolo scientifico, dunque, è necessario prestare attenzione a come è stato eseguito il campionamento e se il gruppo scelto è rappresentativo dell’intera popolazione oggetto di indagine. Inoltre, soprattutto per quanto riguarda gli studi che prevedono di sondare credenze, opinioni, pensieri e motivazioni, è necessario tenere conto di altri due fattori: l’onestà di chi risponde e l’influenza che può creare chi fa l’intervista. Di questo, purtroppo, il lettore dell’articolo non può essere a conoscenza.

1.2 Media – Moda – Mediana

La più proverbiale osservazione a proposito delle medie statistiche è quella del pollo di Trilussa. Secondo questo componimento umoristico in dialetto romanesco, se qualcuno mangia due polli, e qualcun altro no, in media hanno mangiato un pollo ciascuno.

«[…] Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e se nun entra nelle spese tue
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due»

Come appare chiaro dalla storiella del ‘pollo statistico’, la media è un dato spesso poco significativo o addirittura fuorviante, se non si sa esattamente su quale base è calcolata e con quali criteri è definita. Basti pensare all’inattendibilità del dato sul reddito medio nazionale: può risultare elevato grazie alla presenza di pochi individui multimiliardari a fronte di una massa di persone sotto la soglia di povertà.

Inoltre, alcune volte la parola media viene utilizzata impropriamente anche per indicare la moda o la mediana. È necessario prestare attenzione al contesto in cui il termine viene utilizzato. Infatti, mentre la media aritmetica è il rapporto tra la somma dei dati numerici e il numero di dati, la moda rappresenta il valore che si presenta con la maggior frequenza e la mediana il valore centrale. Infine, è bene ricordare che la media non ha alcun significato se non viene riportata la varianza.
La varianza, infatti, identifica la dispersione dei valori della variabile intorno al valore medio: rappresenta cioè quanto i dati che abbiamo raccolto si scostano dalla media, il nostro errore rispetto al valore atteso.

1.3 L’importanza dell’errore e della significatività  

Durante la lettura di un paper scientifico, tenere conto sia della significatività che dell’errore associato ai dati statistici (sia esso sotto forma di varianza, deviazione standard o errore standard) è fondamentale per capire la rilevanza di certe affermazioni. Talvolta, infatti, nella presentazione dei risultati viene posta un’enfasi esagerata su differenze/uguaglianze/correlazioni che sono sì matematicamente reali e dimostrabili, ma di poca importanza. Durante la lettura di un articolo scientifico è necessario tenere a mente che:

  • Non sempre le differenze presentate sono effettivamente significative
  • Non sempre a una significatività statistica corrisponde una significatività clinica (cioè una rilevanza per il soggetto)
  • Non sempre viene riportato l’errore.

L’espressione “statisticamente significativo” indica una bassa probabilità che la differenza osservata nello studio tra i due gruppi (per esempio trattati e non) sia dovuta al caso. Fornisce quindi indicazioni su quanto sia alta la probabilità che l’effetto osservato (per esempio l’efficacia di un farmaco nel ridurre la mortalità) sia dovuto all’intervento preso in esame piuttosto che al caso. La significatività viene espressa attraverso il valore P.
La P è il livello di significatività che viene definito a priori dai ricercatori, di solito p<0,05. Si parte dall’ipotesi che non ci siano differenze tra i gruppi (ipotesi nulla): la P esprime la probabilità di errore nel rifiutare l’ipotesi nulla, cioè nel dire che le differenze che osservo non siano dovute al caso, e quindi siano dovute proprio all’intervento che si sta valutando. Quando la probabilità di errore è bassa, cioè inferiore al 5% (p<0,05) significa che la differenza osservata è statisticamente significativa[2].

Parafrasando un esempio tratto dal libro di Darrel Huff “Mentire con le statistiche”[3]: supponiamo, per assurdo, che, nell’articolo scientifico che stiamo leggendo, sia enfatizzata la differenza tra due misurazioni del Q.I. eseguite con il test Revised Stanford-Binet. Il primo soggetto, S., presenta un Q.I. di 98, mentre il secondo, B., di 101. Entrambi i valori sono riferiti a una media o livello atteso pari a 100. Come ogni prodotto di un metodo basato su un campione, anche la nostra media 100 è dotata di relativo errore statistico, che ne determina la precisione e l’affidabilità.
Utilizzando il test di Stanford-Binet il valore atteso o media presenta un errore del 3%. Quindi il Q.I. di S. si trova tra 95 e 101 con una probabilità non superiore a ½, mentre quello di B. tra 98 e 104 con una probabilità del 50%. C’è, quindi, una probabilità su 4 che il Q.I. di S. sia in realtà superiore a quello di B.

1.4 Numero pseudo-connesso[4]

Il numero pseudo-connesso indica una strategia secondo la quale, se non si riesce a dimostrare quello che si vorrebbe, si può dimostrare qualcos’altro e fingere che sia la stessa cosa.
Cerchiamo di capirlo con un esempio. Supponiamo che, in un periodo in cui il pregiudizio razziale è in aumento, l’agenzia pubblicitaria per la quale lavoriamo abbia deciso di promuovere un sondaggio per dimostrare il contrario.
L’intervista è strutturata e presenta una serie di quesiti volti a stabilire o no la presenza di pregiudizio razziale, compresa la domanda: “Pensa che i neri abbiano la stessa probabilità dei bianchi di trovare lavoro?”.
Il risultato, ottenuto con questa strategia, è che i soggetti con forti pregiudizi razziali rispondono positivamente alla domanda sulle possibilità di lavoro.
Le risposte a questa domanda, estrapolate dal contesto, danno una percezione diversa delle opinioni della popolazione campione.

Non tutti i numeri pseudo-connessi sono il prodotto di un inganno intenzionale. Molte statistiche, comprese quelle mediche, sono distorte da un errore di definizione all’origine. Ad esempio, non è corretto affermare “più di un giovane su tre è disoccupato”. Infatti, in base agli standard internazionali, il tasso di disoccupazione è definito come il rapporto tra i disoccupati e le forze di lavoro (ovvero gli “attivi”, i quali comprendono gli occupati e i disoccupati). Se, dunque, un giovane studente non cerca attivamente un lavoro perché impegnato negli studi, non è da considerarsi disoccupato. È una questione di uniformità e universalità delle definizioni adottate.

1.5 Correlazione e causalità

Osservando un fenomeno notiamo che, al verificarsi di alcuni eventi (X), segue (si correla) il verificarsi di altri eventi (Y). Allora X ha causato Y? No.

Talvolta si nota, in alcuni articoli scientifici, una certa confusione tra due concetti statistici non equivalenti: la correlazione e la causalità. Il termine ‘correlazione’ si riferisce a una relazione tra due (o più) variabili che cambiano insieme. Può essere positiva (quando all’aumentare della prima variabile si riscontra un aumento anche nella seconda) o negativa (quando, all’aumentare della prima la seconda diminuisce).

La causalità, invece, si riferisce ad una relazione tra due (o più) variabili che soddisfi questi tre criteri:

  • le variabili devono essere correlate;
  • una variabile deve precedere l’altra variabile;
  • deve essere dimostrato che non esiste una terza variabile tale da generare un cambiamento nelle due variabili di interesse (assenza di correlazione spuria)

Per chiarire la differenza tra casualità e correlazione pensiamo ad alcuni esempi:

  • Causalità o causazione: se mettiamo una pentola piena d’acqua sul fornello dopo qualche minuto l’acqua comincerà a bollire. Siamo di fronte a una relazione causale infatti il fornello (variabile causa) provoca il verificarsi dell’ebollizione (variabile effetto).
  • Correlazione: si può osservare che la vendita di gelati e l’incidenza di scottature solari sono correlate. All’aumentare della vendita di gelati, infatti, aumenta anche la percentuale di scottature. Si potrebbe erroneamente pensare che consumare gelato provoca scottature solari. In realtà esiste una terza variabile, calde giornate estive, che fa da denominatore comune alle prime due.

Un simpatico sito creato da Tyler Vigen (studente alla Harvard Law School) “Spurious correlations”[5] offre divertenti spunti per comprendere appieno come correlazione non significhi causalità:

La curva della spesa statunitense per scienza, spazio e tecnologia e la curva dei suicidi per impiccagione, strangolamento o soffocamento appaiono correlate al 99,79%.

 

La curva che mostra il numero di persone annegate dopo essere cadute in piscina appare inquietantemente correlata al numero di film in cui appare Nicolas Cage.

La curva dei divorzi nel Maine e la curva del consumo pro-capite di margarina appaiono correlate al 99,26%.

La coincidenza delle curve è davvero suggestiva, ma la correlazione è casuale e tra i fenomeni non c’è alcun tipo di legame.

1.6 Bias di pubblicazione

Il bias di pubblicazione riguarda in particolare (anche se non solo) gli studi su farmaci e presidi. In questi casi capita spesso che ricerche con risultati negativi non arrivino mai alla pubblicazione. Ciò ha conseguenze rilevanti anche per la nostra lettura critica. Quando consultiamo una ‘revisione sistematica’, cioè un articolo riassuntivo che dovrebbe mettere insieme tutti i dati disponibili sul tema, positivi e negativi, per poter condurre metanalisi adeguate, non dovremmo mai dimenticarci di tutti gli studi disastrosi svaniti nel nulla.

Perché non vengono pubblicati gli studi con risultati negativi? Perché nessuno ha interesse a farlo: non le aziende farmaceutiche che hanno sponsorizzato lo studio, non i ricercatori, che arrivano a un risultato negativo e quindi poco utile per ottenere nuovi fondi in futuro, non le riviste su cui andrebbero pubblicati perché finirebbero col ridurre l’impact factor, cioè la rilevanza, della rivista stessa[6].
Quali sono le conseguenze di questo bias?
Nel 2008 è stato condotto uno studio che riguardava la pubblicazione delle ricerche condotte su 12 antidepressivi e presentate alla FDA statunitense per chiederne l’autorizzazione alla commercializzazione[7]. Nell’analisi si andava a controllare se gli studi presentati alla FDA erano stati effettivamente pubblicati negli anni successivi sulle riviste scientifiche. Risultato? Dei 74 studi presentati il 97% di quelli che avevano raggiunto risultati positivi (37 in tutto) erano stati pubblicati e quindi letti dai medici, mentre solo il 33% di quelli che avevano portato a risultati negativi o dubbi ha visto la luce.
Di conseguenza, dei 12.564 pazienti coinvolti negli studi presentati, ben 3.369 (i pazienti degli studi con esiti negativi) non hanno potuto esprimere la propria opinione sui farmaci in questione. In altre parole, la visione che abbiamo dell’efficacia di quei farmaci è distorta.

La soluzione a questo problema, in atto da qualche anno (con scarso successo a dire il vero), è stata la creazione di registri di studi clinici, il più importante dei quali è clinicaltrial.gov[8]. Questo registro prevede l’obbligo di protocollare ogni ricerca all’inizio, aggiungendo via via i dati ottenuti, siano essi positivi o negativi. Qualora il trial non sia stato registrato, il lavoro non viene accettato dalle più importanti riviste mediche internazionali.

Ciononostante, solo il 45% degli studi viene registrato correttamente nei database, gli altri o sono incompleti o vengono registrati alla fine[9]


[1] Our Warming World, in New Republic, 11 November 1999, vol. 221, page 42.

[2] 2

[3] Darrell Huff, Irving Geis, Mentire con le statistiche, traduzione di Giancarlo Livraghi, Riccardo Puglisi, Monti&Ambrosini editori, 2007, p. 206, ISBN 978-88-89479-09-4.

[4] Darrell Huff, Irving Geis, Mentire con le statistiche, traduzione di Giancarlo Livraghi, Riccardo Puglisi, Monti&Ambrosini editori, 2007, p. 206, ISBN 978-88-89479-09-4.

[5] http://www.tylervigen.com/spurious-correlations

[6] 6

[7] Turner E, Matthews A, et al. Selective publication of antidepressant trials and its influence on apparent efficacy. New Engl J Med 2008;358:252-60.

[8] www.clinicaltrials.gov

[9] Mathieu S, Boutron I, et al. Comparison of registered and published primary outcomes in randomized controlled trials. JAMA 2009;302:977-84.

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16 March 2020

NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO

di Raffaele Avico

Il lavoro di Lidia Dutto, traduttrice, linguista, etnografa impegnata da anni nella stesura di lavori incentrati sulla cultura della Valle Pesio (CN), al momento consta di una Collana di libri autoprodotti tuttora in fase di scrittura con diverse tematiche inerenti le tradizioni e il folklore delle genti della suddetta area circoscritta della provincia di Cuneo. I volumi della Collana possono essere qui visionati.

Come si osserva, i lavori hanno ognuno un contenuto specifico. Il lavoro di approfondimento etnografico è il risultato, per ognuno di questi temi, di un lavoro di interviste fatte con un numero elevato di testimoni locali, nell’arco di un periodo superiore ai 20 anni.

Uno di questi volumi, “Nelle corna del bue lunare”, affronta il tema della etnoiatria, o della medicina popolare (compresa la psichiatria, per così dire, popolare), indagata nella Valle Pesio a partire da testimonianze di anziani locali, quindi in grado di raccontare fedelmente i costumi di un tempo che, come si evince dalla lettura, allunga le sue “ombre” ancora sul tempo d’oggi, con il sopravvivere di metodologie “alternative” di cura. Nel testo, si parla di “segnature” di vermi, uso di erbe medicamentose, fiori, ricorso alla grazia di Santi venerati ognuno per uno specifico male, il tutto integrato alle pratiche più riconosciute dalla medicina intesa in senso scientifico.

La medicina di retaggio folkloristico e popolare, pre-scientifica, creatasi nel susseguirsi dei secoli molto indietro nella storia, sembra essersi storicamente posta in modo alternativo alla medicina “ufficiale”, a causa di alcune questioni peculiari:

  1. scarsa possibilità di accesso alla figura del medico nei territori di alta montagna, soprattutto d’inverno
  2. scarsa fiducia nei metodi ufficiali e diffidenza dalla categoria medica
  3. retaggio culturale di provenienza pagana, pre-scientifico; presenza di pensiero magico
  4. difficile accesso economico alla categoria medica

Da un lato, il libro ci racconta di una serie di usanze popolari che potremmo ascrivere alla categoria generale di “medicina popolare” considerando come il contatto con la natura, in passato, procurasse tutto il necessario affinché certe malattie venissero trattate con piante, fiori e altri materiali disponibili. Dall’altro, vengono messe in luce pesanti incursioni di pensiero “magico”, approcci astrologici e credenze connesse alla religione cristiana.

Per esempio, viene osservato come la medicina popolare trovasse un suo razionale di intervento nelle fasi lunari (la Dutto su questo ha scritto un libro focalizzato sul tema dell’Epatta). Oppure, alcune forme di terapia sembravano essere connesse all’utilizzo di particolari colori (nel capitolo “colori per lenire”), all’utilizzo del latte materno, o dell’urina. O ancora, il ricorso a Santi e guaritori in grado, per intercessione, di agire su malattie non approcciabili in senso medico.

A proposito di guaritori, la Dutto raccoglie importanti testimonianze su pratiche di guarigione mediate da:

  • “segnatori” di vermi
  • donne in grado di sciogliere un “malocchio” o un influsso malefico a opera di spiriti o entità malefiche locali (nel capitolo “il potere del male, gli intermediari del bene”)
  • “settimini” in grado di estirpare porri o verruche
  • persone in grado di “mettere a posto” il corpo attraverso la sua manipolazione

Infine, va fatto un accenno alla parte quarta del volume, incentrato sul disagio psicologico nella cultura popolare. In questo senso, questo volume rappresenta una delle poche testimonianze relative alla realtà Piemontese che si addentrino all’interno del disagio psichico letto attraverso la lente della cultura popolare. Vengono citate diverse problematiche, dalla “picundria” (mal d’amore), alla follia intesa in senso di “scompenso psicotico”, allo spavento (che potremmo rileggere oggi come “trauma” o evento traumatico).

A proposito dello spavento (“sboi” in piemontese), viene osservato dalla Dutto che, nelle parole dei testimoni, allo spavento vengono attribuite pesanti conseguenze a livello di salute sia psichica che fisica dell’individuo, sia negli adulti che nei bambini. Allo sboi consegue un “ribollimento del sangue” e una successiva sopraggiunta “fragilità” dell’individuo, “soggetto a disordini fisici e mentali”. Qui la Dutto cita un altro testo curato da Tullio Seppilli del 1989 (“Le tradizioni popolari in Italia. Medicina e Magie”), in cui I.Signorini scrive, a proposito dello spavento:

“ il primo immediato effetto è quello che può essere definito una “desunstanziazione” dell’elemento dinamico fondamentale della vitalità, il sangue, che secondo la teoria popolare subisce un arresto al momento dell’incidente e che poi, alla ripresa del movimento, ha un flusso più lento, mentre la sua tinta sbiadisce e la sua sostanza si fa più acquosa. A questi sintomi “interni” del decadimento della capacità vitale che il colpito sperimenta, corrispondono quelli della stanchezza, mancanza di appetito, insonnia, abulia, perdita dell’incarnato, squilibrio nervoso, arresto della crescita nei bambini, cessazione delle mestruazioni”

Gli stessi testimoni intervistati dalla Dutto, sottolineano come lo spavento sia in grado di prostrare l‘individuo conducendolo a una condizione simil-depressiva “da esaurimento”:

“un forte spavento può sfasare la persona, può arrecare danno nel senso che la persona arriva a farsi delle fissazioni e a continuare a vedere ciò che l’ha spaventata. Può essere un animale selvatico o altro, che ti rimane impresso nella mente e prima di guarire ci vuole tanto tempo. La persona resta ossessionata, ha paura di vederlo vicino a sè..insomma devasta un po’ la persona”. 

Il che ricorda molto da vicino il problema dello stress post traumatico inteso come disturbo inerente la memorizzazione di un certo evento, in grado di condurre chi ne è colpito a una condizione appunto di sfinimento o di estrema “stanchezza psichica”.

Lidia Dutto tiene una rubrica di etnografia alpina su Psychiatry On Line.

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12 March 2020

LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI


di Raffaele Avico

Il volume La mente ossessiva di Francesco Mancini rappresenta un’opera completa e approfondita relativa al trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo. Prende in esame, tra l’altro, modalità molto nuove di fronteggiamento del problema, come la mindfulness e l’EMDR. Grande spazio viene dato all’analisi dei processi di pensiero che impegnano il paziente DOC in pesanti elucubrazioni e ruminazioni inerenti il tema della colpa e della responsabilità.

Vengono presentate sia le forme dell’ossessione, che i suoi contenuti. La forma di un’ossessione riguarda il modo con cui si esprime (dubbio, paura, impulso, immagine e pensiero); il contenuto invece, il tema intorno al quale si muove il pensiero ossessivo.

A riguardo dei contenuti, abbiamo:

Nel volume viene giustamente sottolineata la differenza tra ossessione e ruminazione:

  1. l’ossessione è il pensiero circolare che si ingenera, con le forme e i contenuti sopra esposti
  2. la ruminazione, è il tentativo di “risolvere” o disincagliare l’ossessione creatasi, per via del pensiero stesso (a cui farà seguito la compulsione, più “agìta”, come il ripetere per dieci volte il gesto di chiudere la macchina per risolvere la ruminazione riguardante, appunto, il tema della chiusura o meno della sua serratura)

A riguardo della compulsione, viene osservato prima di tutto l’intenzionalità del gesto (differente quindi da una stereotipia comportamentale tipica di altri quadri patologici di matrice, per esempio, neurologica); in secondo luogo si osserva come essa possa venire ascritta alla classe di conflitti chiamata delle akrasie. L’akrasia è, per definizione, un “fallimento della volontà”: l’individuo in questi casi cede a un comportamento per lui/lei svantaggioso, rendendosi conto che potrebbe fare “altro”, tuttavia partecipando in modo attivo allo stesso fallimento della sua volontà.

Per quanto riguarda le cause del disturbo, gli approcci alla questione -compresi i diversi filoni di ricerca annessi- sono:

  • approccio neurologico (aspetti biochimici e anatomo/funzionali)
  • approccio neuropsicologico (deficit cognitivi e deficit di neuromodulazione)
  • approccio psicologico (scopi, rappresentazioni e credenze a riguardo della realtà esterna)

Il libro mette l’accento sugli aspetti psicologici, per lo più incentrandosi su una serie di studi e teorie riassumibili in quella che viene chiamata Appraisal Theory.

Alcuni aspetti da tenere in considerazione sono:

  1. una delle tematiche centrali, è la tematica della colpa. La colpa è qui intesa in modo duplice: la colpa altruistica viene esperita in ragione di possibili danni agli altri; la colpa deontologica, invece, in ragione di violazioni morali in senso lato. L’obiettivo del paziente DOC, è di garantirsi una completa estraneità da ogni vissuto di colpa, spesso molto difficile. Anzi, la tesi sostenuta in tutto il volume, è che il sintomo DOC possa essere interpretabile come un sovrainvestimento finalizzato a prevenire una colpa.
  2. altro tema, quello della contaminazione. In questo caso, viene centralizzato il tema del confine e dell’”igiene” corporeo/psicologica in senso lato. Contaminazione è da intendersi in senso ampio, come qualcosa che arriva e sovverte la realtà soggettiva dell’individuo in modo definitivo (quindi una malattia, ma anche appunto un “modo di essere nuovo” che destituirà l’individuo a sè stesso, come l’”essere pedofilo” od omosessuale).
  3. Esistono alcuni errori grossolani della cognizione tipici del DOC, per esempio la fusione pensiero/azione (se lo penso, allora lo farò), la fusione pensiero/realtà (se lo penso, allora è reale ed esiste e accadrà), la fusione pensiero/desiderio (se lo penso, allora lo desidero), la fusione pensiero/identità (se lo penso, lo sono), la coincidenza tra possibilità e probabilità; questi bias cognitivi puntellano la sovrastruttura para-delirante, più grande, che regge il DOC (costruita come dicevamo sui temi di iper-responsabilità e colpa supposta perenne)
  4. la consapevolezza del disturbo è oscillante: è presente “da lontano”, e scompare “da vicino”; questo significa che la consapevolezza di malattia affievolisce quando vi sia un episodio DOC in atto
  5. il mantenimento di un DOC sembra poggiare su rapporti di forza: un dovere morale “superiore” potrà vincere su un dovere morale “inferiore” (viene portato l’esempio di una donna ossessionata dal cancro: a seguito dell’ammalarsi del marito -di cancro- il dovere morale inerente il suo accudimento vinceva sulle sue strategie di evitamento e compulsioni attuate per evitare di ammalarsi lei stessa); l’ossessione polarizza il pensiero su argomenti “unici” che, come magneti, lo tengono a sè: trovarne di nuovi e più potenti, riuscirà a scollare la mente dai primi.

In senso psicoterapeutico, la direzione dell’intervento andrà verso:

  1. riduzione dei tentativi di soluzione di primo e secondo livello (compulsioni e ruminazioni/tentativi di “allontanare” dalla mente il pensiero ossessivo)
  2. accettazione del rischio (esposizione progressiva al rischio e familiarizzazione con una minaccia più grande)
  3. trasformazione del conflitto in una scelta (dal dubbio ossessivo al compromesso, dal blocco alla responsabilità dell’azione; in questo senso occorre acquisire potere sul sintomo: pensiamo per esempio alle strategie paradossali strategiche finalizzate al fatto che il soggetto decida di mettere in atto e aumenti in modo volontario il rituale)
  4. lavoro sull’ambiente (lavoro con i familiari, finalizzato a far sì che la famiglia non alimenti la costellazione di rituali o compulsioni – famiglia accomodante VS famiglia antagonista)

Infine, nel volume viene ampiamente consigliato il ricorso alla creazione di uno “schema” visivo del disturbo DOC, come riportato qui di seguito:

Per approfondimenti:

  1. la scala di valutazione più usata e affiabile per una valutazione del DOC, è la Yale Brown
  2. qui un approfondimento in PDF di alcuni capitoli del volume di Mancini La mente ossessiva (27 pagine)
  3. intervista a Francesco Mancini
  4. Avrò chiuso la porta di casa?

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24 November 2019

SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”


di Raffaele Avico

Il modello sulla coscienza di Liotti trova il suo testo di riferimento in La dimensione interpersonale della coscienza, del 1994.

In questo testo, Giovanni Liotti formula la teoria interpersonale della coscienza, muovendo dalla Teoria dell’Attaccamento di Bowlby (che Liotti stesso considerava suo maestro).

Sintetizzando al massimo, questo testo ci racconta di come, nel corso dello sviluppo di un bambino, non solo le sue funzioni corporee basiche (come la termoregolazione, la regolazione degli sfinteri, la gestione dell’attivazione neurofisiologica in condizioni di frustrazione e la nutrizione) ma anche le “forme” della sua coscienza, muovano da dinamiche interpersonali e congiunte. Ovvero, Liotti in questo saggio ci suggerisce come lo stato di coscienza di quella che chiama FDA (figura di attaccamento) possa determinare un corrispettivo stato di coscienza nel figlio, in termini sia di normalità che di patologia.

Per fare questo, Liotti procede da un’osservazione attenta della diade madre-bambino in interazione, in particolare nei casi in cui sia presente quello che la Teoria dell’Attaccamento definisce attaccamento D. In questi particolari casi, è possibile che uno stato iniziale di alterazione della coscienza portato dalla madre per propria storia personale, riverberi nella stato di coscienza del figlio per via di pattern di interazione “problematici”.

Sappiamo infatti che la caratteristica centrale dell’attaccamento di tipo D, è di forzare il bambino a far coesistere due predisposizioni comportamentali opposte (scappare e attaccarsi) in ragione del carattere traumatico/spaventante della FDA stessa. Questo produrrebbe nel bambino, come in un effetto domino, una contraddizione in termini di modelli di sè e una sostanziale molteplicità nella rappresentazione di sè, che risulterebbe in uno stato di coscienza alterato -anche nel bambino.

Questo, ci racconta Liotti, è perché, potremmo dire, la coscienza è un “oggetto” che si crea nell’interazione (da qui il termine “interpersonale” a indicare la dimensione della coscienza; la coscienza cioè si creerebbe in quest’ottica da un’interazione tra soggetti, non all’interno dell’individuo nel corso del suo sviluppo). La coscienza, in questo senso, “sta sotto la volta celeste, non sotto la scatola cranica”.

Da questa concettualizzazione iniziale, essendo vivo il conflitto interiore tra parti di sè/rappresentazioni di sè opposte, Liotti teorizza due tipologie di dissociazione: uno stato alterato di coscienza come il detachment (visibile per esempio in un bambino che, sgranando gli occhi, precipiti in una sorta di distacco dalla realtà o di assorbimento momentaneo), e una dissociazione più strutturale, avente a che fare con la personalità stessa. Liotti considerava il detachment (chiamandolo anche “trance ipnotica spontanea” come uno stato alterato di coscienza intervenuto a segnalare l’impossibile integrazione tra rappresentazioni divergenti di sè -quindi, per così dire, uno stato “transitorio”, di passaggio, propedeutico o minore rispetto alla dissociazione strutturale profonda, primeva). In quest’ottica lo stato di “trance ipnotica spontanea” andrebbe considerato quindi un “segno” di una presenza, in sè, di modelli rappresentazionali opposti e di difficile integrazione (in particolare Liotti parla dei conflitti ingenerati in un bambino da un attaccamento di tipo D con una figura d’attaccamento spaventante ma insieme necessaria alla sopravvivenza).

In aggiunta a questi aspetti, Liotti ragiona sulla comunicazione umana nelle sue diverse dimensioni e forme, elencando i “suoi” Sistemi Motivazionali Interpersonali (pattern di interazione da considerarsi come predisposizioni innate, trasversali a ogni cultura – attaccamento, accudimento, sessualità, agonismo ritualizzato, cooperazione paritetica, appartenenza), ragionando sulla cooperazione in quanto “punta di diamante” dell’interazione umana, esplicazione perfetta della coscienza come oggetto interpersonale, “alfa e omega” di ogni alleanza (psico)terapeutica.

L’alleanza terapeutica può essere considerato il leit motiv di tutta la produzione scritta in ambito clinico di Liotti, dato che attraverso di essa si esprimono molteplici “scopi” interpersonali e cognitivi (creazione di una base sicura da cui intraprendere l’esplorazione clinica specialmente nel caso di traumi protratti da esplorare, creazione di un “campo” di coscienza interpersonale e lucido, raffinamento della sintonizzazione interpersonale, empowerment del paziente). Partire da una solida alleanza e mirare costantemente all’assetto cooperativo (riportando il paziente ai suoi obiettivi, coinvolgendolo, forzandolo all’”auto-interpretazione”) permette, secondo Liotti, di superare diverse impasse cliniche (per esempio rovesciando rapporti troppo asimmetrici in cui il paziente si ponga in modo controllante o iper-richiedente, o troppo passivo).

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4 November 2019

IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi

di Raffaele Avico

Sul signore delle mosche è già stato detto molto. L’autore costruì un impianto narrativo sottoforma di favola per adulti, per rappresentare, a suo stesso dire, l’oscurità della natura umana. La trama si dipana nelle vicende di un gruppo di bambini naufraghi su di un’isola deserta, in assenza di figure adulte, sospinti a una sopravvivenza urgente e terrificante al cospetto di una natura insofferente, indifferente e neutrale.

Ogni elemento narrativo può essere letto su diversi piani: lo stesso autore ammette, nella postfazione all’edizione edita da Mondadori, il suo intento, in fin dei conti “ammonitivo”, di prevenzione verso possibili derive “oscure” dettate dalla parte “in ombra” dell’animo umano (lo sviluppo di totalitarismi in primo luogo).

L’Autore visse a cavallo delle due guerre mondiali, patendone la violenza morale e tentó, con questo libro, di illuminarne alcuni aspetti “psicologici” in primo luogo pertinenti al singolo individuo, ma anche alla “massa”.

Il libro è spaventosamente attuale.

In primo luogo, la mancanza di persone adulte sull’isola, vuole rappresentare lo stato di assenza di “idoli” dell’età moderna, consumatosi l'”omicidio di dio” a opera dello stesso uomo. I bambini (che siamo noi) si trovano scaraventati in una natura selvaggia e brutale, in un primo tempo percepita di una bellezza abbacinante, in seguito riconosciuta come estremamente minacciosa e in grado di produrre timori irrazionali e infantili. Subito il gruppo si costituisce in tribù, eleggendo un capo carismatico e buono e assurgendo a talismano una conchiglia bianca, a simbolizzare l'”anima buona” e la tensione alla libertà e alla verità dell’animo umano.

Al dilagare tuttavia di paure di maggiori dimensioni in seno al gruppo di bambini (a seguito dell’incontro con una “bestia” immaginata pericolosa, che in realtà scopriremo essere un paracadutista rimasto impigliato in una roccia con il suo paracadute), il gruppo si scinderà in due, rovesciando la democrazia e costituendosi in una dittatura regressiva e violenta, che si opporrà a un ristretto gruppo di “fedeli all’antica idea” della preservazione del fuoco.

Vedremo qui come il rovesciamento della dittatura (in ragione di una sopravvivenza resasi più che mai necessaria e a causa di una serie di paure generate dalla stessa isola), verrà fomentato e rinforzato dalla creazione di un “idolo negativo” contro il quale il gruppo si schiererà e compatterà, opposto all’idolo/feticcio originario (la bianca conchiglia). Sull’altare dell’idolo negativo (una testa di maiale impalata su una picca pervasa da nugoli di mosche: il Signore delle Mosche), verranno sacrificati due personaggi importanti della storia: Simon l’epilettico (l’unico a sapere che la “bestia” era in realtà un semplice uomo con il suo paracadute, quindi l’unico depositario della verità e intenzionato a rivelarla agli altri, che ne sarebbero stati salvati), figura -a detta dello stesso autore-cristologica, e Piggy il razionale (unica figura pseudo-adulta del gruppo portatore di buonsenso e razionalità).

Osserveremo a seguito di questi eventi  un processo di radicalizzazione della violenza e un funzionamento del gruppo sempre più regressivo, che verrà interrotto solo dall’arrivo di un “adulto” sull’isola, a terminare il gioco perverso divenuto, per la mente dei bambini, terribilmente reale.

Cosa ci vuole dire Golding con questo lavoro? Il libro è di una potenza devastante in termini simbolici, e acutissimo in termini psicoanalitici; alcuni aspetti da tenere a mente per capire il libro sono:

  • la scissione del gruppo e la radicalizzazione verso la violenza, rispondono a potenti spinte centripete interne al gruppo stesso, costretto a stringersi intorno a qualunque capo/padre/idolo che funzioni da contenitore/rassicuratore. L’indifferenza ogni volta rinnovata di una natura fredda e bellissima, spinge l’uomo a fare gruppo per non soccombere a paure irrazionali
  • queste paure irrazionali sono in parte considerate “vere” dal gruppo, in parte sono usate attivamente da una parte del gruppo per instaurare un totalitarismo con funzione di scioglimento dei timori atavici; prevale la logica della forza
  • la morte di Simon, l’unico a conoscere la verità (sul fatto che la natura di per sè NON contenga al suo interno elementi terrorizzanti e sovrannaturali), è strumentale a garantire il mantenimento della scissione verticale del gruppo; contemporaneamente, con Simone muore la “tensione alla verità”. A seguito della sua morte, il percorso di radicalizzazione subirà un’accelerata improvvisa, con la morte prima di Peggy, poi con il tentato omicidio di Ralph.
  • caduta la democrazia, cambieranno gli idoli: se in una prima fase l’obiettivo unico del gruppo era alimentare il fuoco (per poter essere salvati), instauratasi la dittatura l’obiettivo sembra spostarsi sulla “carne”, cioè sul cibo, come a indicare una sopraggiunta miopia sul futuro, un restringimento del campo cognitivo sul qui e ora, e in fin dei conti una regressione a modalità di funzionamento primitive dell’essere umano, governate dalla logica del “tutto e subito”
  • l’avvento del capitano sulla spiaggia, e il ritorno degli adulti, spezzerà il gioco, evidenziando al contempo come lo stesso gioco fosse il risultato di una dinamica forzata, drammatizzata, generatasi come a seguito di una serie di “cortocircuiti” ed escalation di bias cognitivi, interpretazioni (errate) e paure irrazionali portate ai limiti; l’impressione sarà quella di un ritorno alla realtà, come il risveglio da un incubo

L’autore ci vuole mettere in guardia, con questo lavoro, dall’avvento di ogni fascismo, narrandocelo come il risultato di un movimento in fin dei conti regressivo e istintuale, primordiale in quanto “svuotato” della cultura (intendendo la cultura come un dispositivo simbolico finalizzato a imbrigliare e governare la natura stessa). Sono frequenti i riferimenti al mondo del “prima dell’isola” dei bambini, ancora governato da leggi simboliche e culturali con funzione ritualizzante e di “limite”.

L’avvento dell’uomo adulto è di complicata interpretazione.

Sicuramente uno dei possibili significati simbolici della sua comparsa, è quello del “ritorno” al pensiero razionale, usato come strumento di comprensione e normalizzazione della brutalità del reale; oppure ancora, il ritorno a qualunque forma di idolatria (per via di un Dio qualunque, di un totem buono, di un oggetto assunto a divinità). Infine, Golding ci mette in guardia rispetto alla capacità di accettazione e comprensione della nostra stessa natura brutale, sfidandoci a saperla governare in assenza di un “dispositivo religioso” (discorso aperto e approfondito da Nietzsche quando parlò di un oltreuomo, cioè di un senzadio auto-determinato e completo), nella prospettiva di un futuro tutto da inventare e, in fin dei conti, “aperto”.

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24 September 2019

PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA

di Raffaele Avico

Il modello sul cambiamento di Prochaska e DiClemente contempla una ruota idealmente formata da step/fasi così riassumibili:

  • fase di precontemplazione (nessuna consapevolezza in merito alla possibilità o al desiderio di cambiare)
  • fase di contemplazione (messa in discussione dello status quo, primi segni di intenzione di cambiamento, ambivalenza)
  • fase di determinazione (volontà di cambiamento, risoluzione dell’ambivalenza)
  • fase di azione (prime azioni svolte, creazione di abitudini nuove)
  • mantenimento (mantenimento di nuove abitudini)
  • (eventuale) ricaduta

Come tutti i modelli esplicativi inerenti la motivazione e il cambiamento, questo modello si presta a essere utilizzato in particolare quando si prendano in considerazione problematiche di addiction.

Alcuni punti a rigurdo del tema addiction possono aiutare a comprendere perchè la questione “cambiamento” sia così pregnante in questo genere di disturbo:

  • il disturbo da addiction coinvolge piani diversi dell’individuo; sappiamo che il sostrato neurobiologico è potentemente coinvolto (vengono innescate dipendenze sia prettamente fisiche, che neuro-psicologiche, per via del coinvolgimento del circuito di reward); sappiamo anche tuttavia che, nascosto tra le pieghe degli aspetti più fisiologici, esiste una libera scelta o almeno una scelta semi-volontaria relativa alla produzione del comportamento di addiction. Esistono cioè delle cattive abitudini attivamente messe in atto, che andrebbero modificate.
  • Il fatto che l’arbitrio sia coinvolto, sposta la questione su un piano di gran lunga più complesso, visto che sono messi in gioco aspetti etici inerenti la vita dell’individuo (ci si potrebbe chiedere, perchè un individuo sceglie deliberatamente di procurarsi danno?). Questi aspetti, neuro-etici, sono approfonditi esaurientemente da Stefano Canali sul suo blog Psicoattivo
  • L’addicition sembra un qualcosa di inizialmente apparentemente volontario, che poi diventa involontario; qualcosa che prima si governa, poi si subisce; diviene un lento assoggettarsi all’oggetto stesso della propria dipendenza, come nella storia della rana bollita; tutto il processo sembra un lento perdere il controllo sul proprio comportamento.
  • Il lavoro di recupero di soggetti colpiti da addiction, è un lavoro fatto nel tentativo di recuperare senso di controllo/mastery; ogni metafora riguardante questo lavoro, pertiene al campo semantico per così dire militare/agonistico (battaglie vinte, vittoria sull’oggetto dell’addiction). Ci si configuri un paziente “piccolo” al cospetto del suo demone/oggetto di addiction “grande” a inizio percorso, e lo stesso paziente “grande” dinnanzi al suo demone “piccolo”, a fine percorso. Questo tipo di confronto è un tipo di confronto che non può che assumere i tratti di una lotta di potere, un gioco di forza muscolare: in fin dei conti, è una lotta contro i propri meccanismi di reward più istintivamente basici e potenti.
  • Se il lavoro psicoterapeutico che si fa con un paziente colpito da addiction, è un lavoro incentrato sul recupero di un senso di controllo, possiamo definire l’addiction come una “patologia della scelta“, una scelta resa difficoltosa sia in termini orizzontali (il mio bene Vs il mio male) che verticali (non posso scegliere, sono vittima di automatismi), complicata da profonde implicazioni neurobiologiche e prospettive di astinenze disincentivanti e spaventose.

Il modello sul cambiamento prima accennato si sofferma sulle diverse fasi di pre-contemplazione e contemplazione a riguardo della propria ambivalenza e a riguardo di quella che viene chiamata frattura interiore (stato di malessere e oggettivo connesso al sentire di essere in balia di qualcosa esterno a sè).

Il lavoro di un terapeuta, in questo ambito, dovrà essere quello di supportare l’individuo ad avviare il cambiamento. Un maggiore senso di controllo, non potrà che passare da un diverso posizionamento dell’individuo nei confornti della sua stessa addiction. In presenza di una motivazione forte (maturato quindi un sano senso di disprezzo e astio verso il proprio oggetto della dipendenza), il cambiamento avverrà tramite azioni concrete, qualunque sia il dispositivo usato per attuarle (un gruppo di autoaiuto, un ricovero, un esercizio solitario di rinuncia, un percorso di psicoterapia).

Si veda anche:

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14 August 2019

IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO

di Raffaele Avico

Il tarantismo affonda le sue radici in forme di ritualità pagane addirittura pre-cristiane; la presenza di una moltitudine di santi a cui chiedere grazia, oltre che alla divinità principale, ci racconta del sopravvivere di un politeismo che il cristianesimo non riuscì a sopprimere ma che anzi, più probabilmente, dovette accogliere. A riguardo dei riti, si racconta di come la stessa Chiesa si ponesse in modo ambiguo e spesso contrario a questo genere di rituali, accogliendo nelle sue chiese lo svolgersi dei rituali stessi, ma discostandosene in senso ideologico. Con la sua riscoperta, bonificato dagli aspetti più morali, assunto a forma folkloristica da preservare e anzi promuovere, il tarantismo è oggi oggetto di fascino e ricerca.

Il lavoro di documentazione viene portato avanti da studiosi appassionati che ne studiano le radici storiche e gli aspetti etno-psichiatrico/medici (come Luigi Chiriatti e Sergio Torsello, insieme a molti altri). Esistono anche molti blog sul tema, curati con attenzione.

Dal punto di vista fotografico, si sono succeduti apporti di assoluto spessore, anche se la quantità di materiale a nostra disposizione è poca. Per un esauriente approfondimento sul tema fotografia etnografica sul tarantismo, questo lavoro è ottimo (PDF in download). Vi si chiarifica come lo stesso DeMartino fosse stato ispirato da una serie di fotografie fatte da un fotografo francese:

“È lo stesso De Martino, dunque, che, nell’introduzione de La terra del rimorso, attribuisce alle immagini di André Martin il merito di aver scatenato in lui l’interesse nei confronti del tarantismo”

In seguito, durante la spedizione del 1959 (da cui originò il libro La terra del rimorso), venne prodotto molto materiale fotografico, tra cui il celebre lavoro di Franco Pinna.

Prima di costoro, nel 1954, una fotografa barese trasferitasi a Milano, Chiara Samugheo, aveva pubblicato su di una rivista dell’epoca, Cinema Nuovo, un “foto-documentario” su un rituale di taranta, ritratto nel suo divenire narrativo, primo vero contributo fotografico divulgato in tutta Italia a proposito di questo tipo di fenomeno.

Le foto di Carla Samugheo, qui in seguito riprodotte, antecedenti a quelle prodotte da Franco Pinna, furono di grande ispirazione per lo stesso De Martino.

Per una rassegna esaustiva di tutte le immagini presenti sul tarantismo a eccezione di quelle di Franco Pinna, esiste un libro dedicato curato da Luigi Chiriatti e Maurizio Nocera, dal titolo “Immagini del tarantismo“.

Per quanto riguarda la documentazione video a proposito del tarantismo, qui è presente una catalogazione dei contenuti più importanti da consultare o vedere.

Ecco le fotografie di Chiara Samugheo:

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8 July 2019

THE MASTER AND HIS EMISSARY: PERCHÉ ABBIAMO DUE EMISFERI?

di Raffaele Avico, Marta Erba

The Master and his Emissary è un testo di neurobiologia scritto da Iain McGilchrist, psichiatra e ricercatore di Oxford, che affronta la questione della divisione del cervello in due emisferi aventi funzioni e compiti differenti. Il libro contiene puntuali approfondimenti in senso neurobiologico che riguardano le diverse peculiarità dei due emisferi, e si svolge intorno a un pilastro concettuale centrale: sulla scia di altri autori, McGilchrist presenta con forza la tesi secondo cui l’emisfero destro debba esser considerato il vero emisfero dominante, spodestato nel tempo da un progressivo intercedere dell’emisfero sinistro. Il titolo rimanda a una novella scritta da Nietzsche nella quale viene descritto un lento “golpe” operato da un delegato ai confini dell’impero, ai danni del suo stesso sovrano committente -il che sarebbe quello che è successo all’emisfero destro, detronizzato dall’emisfero sinistro per cause storico/culturali.

Iain McGilchrist ci racconta di come la raccolta di informazioni “ambientali” e la lettura in generale della realtà, debbano essere pensati come processi sottoposti a un costante rimbalzare da un emisfero all’altro, prendendo coloriture di significato diverse. Per esempio, al primo ascolto di un disco musicale, l’emisfero destro ci consentirà di intuire se il disco sarà di nostro gradimento, e ci spingerà a un eventuale riascolto dello stesso. Con il tempo, il disco verrà assunto dall’emisfero sinistro, imparato e sottoposto a un’analisi più accurata. L’emisfero destro “sa”, quello sinistro, invece, “conosce”.

Il libro prende in considerazione l’intera storia umana dal punto di vista artistico, leggendo i prodotti artistici dell’uomo attraverso la lente della doppia modalità emisferica: esistono cioè periodi in cui l’uomo pare aver dato maggiore spazio all’analisi dell’emisfero sinistro, altri invece in cui ha prediletto quello destro, con risultati artistici molto diversi. La dialettica, in questo percorso, è quindi quella tra impulso/approccio sensoriale e tra analisi logica più stretta, e si riflette, secondo l’autore, in un preciso alternarsi tra epoche “destre” e “sinistre” in termini di primato emisferico.

Per ora il libro è reperibile solo in lingua inglese. Qui un video che riassume in breve il contenuto del libro:

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NOTA 2023: a distanza di anni, nel frattempo, il libro è stato tradotto e pubblicato anche in italiano. É reperibile qui. Pubblichiamo di seguito un articolato e approfondito articolo di Marta Erba, reperibile in originale sul sito dell’autrice (R. Avico)

Perché abbiamo due emisferi (di Marta Erba)

Uno psichiatra scozzese, Iain McGilchrist, formula un’ipotesi affascinante: l’emisfero cerebrale destro è connesso alla realtà, il sinistro la interpreta. Ma che accade se l’interprete prende il potere?

Perché il cervello è diviso in due? Perché non possediamo un unico groviglio sferico di neuroni interconnessi, bensì due emisferi distinti, collegati tra loro da un fascio di fibre  (il “corpo calloso”)? Può sembrare una domanda oziosa, ma non lo è. La tesi di Iain McGilchrist, psichiatra scozzese autore del libro Il padrone e il suo emissario (Feltrinelli), è che questa divisione è necessaria non tanto per una “divisione di compiti” – come si riteneva in passato – quanto per una “divisione di ruoli”. Per essere ciò che siamo abbiamo bisogno di entrambi gli emisferi, evitando che uno prevalga sull’altro. Cosa niente affatto facile perché, avverte McGilchrist, l’emisfero sinistro sta usurpando il potere al destro. Con conseguenze potenzialmente gravi.

Proviamo a capire perché.

Sul funzionamento dei due emisferi le ricerche sono tante e parzialmente contraddittorie. Gli esperimenti negli anni ’60 di Roger Sperry sullo split-brain (il cervello di persone con rescissione del corpo calloso, in cui è stato possibile studiare i due emisferi separatamente) hanno mostrato alcune differenze. Da lì si è sviluppata la teoria, molto promossa da una certa divulgazione popolare, secondo cui ogni emisfero svolge compiti diversi: il sinistro è stato descritto come quello razionale, analitico, matematico, mentre il destro come quello creativo, immaginativo, emotivo. Un’ipotesi, questa, molto contestata nei decenni successivi da molti neuroscienziati: benché alcune attività appartengano più a un emisfero che all’altro (per esempio il “centro del linguaggio” è collocato generalmente a sinistra mentre la capacità di interpretare le espressioni umane risiede soprattutto a destra), la connessione tra le due parti è tale che la teoria della spartizione dei compiti ha poco senso. I dati sperimentali dimostrano infatti che la stragrande maggioranza delle nostre attività mentali coinvolge entrambi gli emisferi.
Resta il fatto che gli emisferi sono due, e che il corpo calloso è composto soprattutto da fibre che inibiscono la connessione più che favorirla. Perché? Ecco dunque l’ipotesi che sta emergendo, ben illustrata e documentata da McGilchrist: i due emisferi non differiscono tanto per i compiti eseguiti, quanto per la modalità con cui percepiscono la realtà. Anche se collaborano strettamente, ciascuno entra in relazione con il mondo in un modo sostanzialmente diverso. Per essere ciò che siamo servono entrambi, e la sintesi migliore si ottiene quando tra loro si verifica un buon equilibrio.

Padrone e servo

Ma come funziona questo equilibrio? Anzitutto McGilchrist ribalta una delle convinzioni più diffuse. Si è sempre detto che l’emisfero sinistro sia quello “dominante”, poiché guida la mano destra, cioè la mano che utilizziamo in modo preferenziale (va chiarito che le fibre provenienti dai due emisferi si incrociano nel tronco encefalico, quindi l’emisfero sinistro controlla la parte destra del corpo e quello destro la parte sinistra). Di tutt’altro avviso è lo psichiatra scozzese, che ritiene che sia l’emisfero destro il vero “padrone”, poiché è quello che si è formato per primo dal punto di vista evolutivo; il sinistro si è sviluppato in un secondo momento proprio per aiutare il “padrone” a muoversi nel mondo, è quindi un emissario, un servitore, quello che “fa ciò che è utile”. Purtroppo l’emisfero destro fatica a muoversi in una realtà sempre più complessa, e per placare l’angoscia cerca stasi, certezza, fissità: ha quindi bisogno di fidarsi del suo emissario, che però tende ad “allargarsi”.
Insomma, avverte McGilchrist, l’emisfero sinistro si è progressivamente impossessato del potere. Eppure è, per alcuni aspetti, il più “stupido”, quello che capisce meno la realtà anche se crede di capire tutto. È a causa di questo “squilibrio” di potere nella nostra mente che si è imposto, nel corso dei secoli, un modo di vedere il mondo sempre più meccanicistico, frammentario, decontestualizzato, segnato da un ottimismo ingiustificato misto a paranoia e a un senso di vuoto.
Non sarà facile spiegare tutto ciò, anche perché è soprattutto con l’emisfero sinistro che McGilchrist ha scritto il suo libro, io scrivo questo articolo e voi lo state leggendo. In altre parole, stiamo tutti provando a “smascherare l’inganno” e ad “aprire gli occhi” usando quella parte della mente che di quell’inganno è l’artefice e che, per sua natura, vede solo quello che vuole vedere. Ma proviamoci.

Il mistero del neglect

Per formulare questa tesi McGilchrist è partito da alcuni quadri clinici che interessano le persone che subiscono un esteso danno all’emisfero destro, in cui cioè è solo l’emisfero sinistro a funzionare (sul tema avevo scritto anch’io in passato in questo articolo al paragrafo “Stranezze… sinistre”).
Questi casi sono stati approfonditi, tra gli altri, dal neuroscienziato di origine indiana Vilayanur Ramachandran, colpito da due fenomeni bizzarri e apparentemente inspiegabili. Il primo è l’anosognosia: chi subisce un ictus all’emisfero destro, e quindi perde l’uso di braccio e gamba sinistri, nega la propria malattia; sostiene anzi di stare bene e che tutto funzioni perfettamente, facendo anche battute sciocche e divertite in proposito.
Il secondo fenomeno enigmatico è il neglect. Chi subisce un danno all’emisfero destro può ostinarsi a negare l’esistenza della parte sinistra del campo visivo (quella che non riesce a vedere): quindi, per esempio, mangia solo quello che trova a destra del piatto, o legge solo le pagine destre di un libro, o ritrae solo ciò che si trova a destra. Un comportamento assurdo, che non accade a chi subisce un danno all’altro emisfero.
In altre parole, l’emisfero sinistro sembra avere la tendenza a ignorare le discrepanze se non corrispondono ai suoi schemi. Non vedo una parte del mondo? Allora non esiste. Non riesco a muovere il braccio? Si sarà solo addormentato, fra un po’ riprenderà a funzionare come sempre. Insomma, l’emisfero sinistro sembra coltivare la convinzione distorta che quello che vede è corretto, che non c’è motivo di preoccuparsi, che c’è una buona spiegazione per tutto. “Se la racconta” ed è molto convinto di sapere ciò che in realtà non sa. È ingenuamente ottimista, inconsapevole dei propri limiti.
Da queste osservazioni ha origine la tesi di McGilchrist: è l’emisfero destro quello connesso con la realtà, in grado di valutarla nella sua interezza e di rilevarne le anomalie; l’emisfero sinistro si limita a interpretarla per poterla controllare. Per questo, quando viene meno il contributo dell’emisfero destro, la persona con il solo emisfero sinistro funzionante perde il contatto con la realtà, pur continuando a illudersi di averne il controllo e di poterla manipolare.
Ma vediamo nei dettagli come funzionano i due emisferi.

L’emisfero sinistro: la parte “osservante”

Possiamo immaginare l’emisfero sinistro come la “parte osservante”, emotivamente distaccata, che non si immischia con le cose ma cerca piuttosto di decifrarle e analizzarle. Il suo ruolo è quello di aiutarci a cogliere la realtà, guardandola per così dire dall’esterno, attraverso un’attenzione ristretta (che esclude il “superfluo”) e focalizzata. Per assolvere al suo compito tende per sua natura a cercare una coerenza a ciò che accade, a trovare risposte chiare e lineari a problemi complessi, e infatti non tollera le ambiguità e le contraddizioni (è l’emisfero dell’aut aut). Per capire le cose le spacchetta, le divide, le classifica, le categorizza, le analizza, le concettualizza. Per esempio il movimento, che per l’emisfero destro è un fenomeno continuo e fluido, per il sinistro è costituito da una sequenza di tanti momenti statici.
È l’emisfero che parla (l’area di Broca, sede del “centro del linguaggio”, si trova a sinistra): e in effetti il linguaggio è uno strumento formidabile per decifrare il mondo e per comunicarlo a sé e agli altri. Ed è autoreferenziale: tende ad autoconvincersi delle cose che pensa e che dice, si innamora dei propri ragionamenti trascurando le contraddizioni.
È anche l’emisfero che “manipola” le cose, sia con le parole, sia con le azioni. Poiché la sua funzione è quella di supportare il destro, il suo interesse principale è l’utilità: vede il mondo come risorsa da sfruttare ed è più interessato alle cose che alle persone. Vuole avere il “potere” sulla realtà, non connettersi con essa.
L’emisfero sinistro tende a percepirsi vincente, destinato al successo. È ottusamente ottimista: non vede i pericoli di ciò che fa e che dice.

L’emisfero destro: la parte “incarnata”

Se l’emisfero sinistro osserva in modo distaccato, quello destro “vive”, è “incarnato”, è strettamente connesso con i sistemi inconsci automatici di regolazione del corpo. Se il sinistro percepisce il corpo come diviso in parti (come se fosse qualcosa di inanimato, una “macchina”), il destro lo percepisce nella sua interezza.
È fondamentale in ogni aspetto del comportamento sociale: ha un ruolo centrale nel riconoscimento di sé e degli altri, sia facciale sia vocale, e distingue gli individui (e i luoghi) per la loro unicità, e non per le categorie a cui appartengono. Da lui dipendono l’autoconsapevolezza, l’empatia, i processi intersoggettivi e la comprensione emotiva: è il destro che interpreta le espressioni facciali, la prosodia, la gestualità. Ha un ruolo essenziale nell’espressione delle emozioni (con l’unica eccezione della rabbia, che è più connessa con l’emisfero sinistro).
È più interessato agli esseri viventi che agli oggetti creati dall’uomo. Non vede niente in astratto ma valuta sempre le cose nel loro contesto. Ha un’attenzione ampia, vigile e flessibile, sta “all’erta”: è sintonizzato sulla rilevazione delle anomalie e delle novità.
L’emisfero destro non “parla”, o meglio: non possiede la “lingua”. Il suo linguaggio è onirico, immaginativo, ineffabile. È comunque grazie all’emisfero destro che comprendiamo le poesie, le metafore, il senso dell’umorismo, gli aforismi basati sul paradosso, perché tutte queste esperienze richiedono di uscire dagli schemi della logica e del linguaggio, e di connettersi con la “realtà fuori di noi”. A differenza del sinistro, infatti, l’emisfero destro riesce a tollerare le ambiguità e le contraddizioni, tanto che è con il destro che riusciamo a cogliere il significato profondo e illuminante contenuto in alcuni aforismi o nei koan del buddismo zen.

It takes two to tango

Per non incorrere nell’errore di pensare che il cervello funzioni a compartimenti stagni, è utile ricordare che normalmente ogni attività umana coinvolge entrambi gli emisferi, anche grazie al corpo calloso e alle altre strutture che li connettono, ma che al contempo li tengono separati, proprio perché hanno due ruoli diversi e complementari. Il modo in cui operano ricorda una danza, o il movimento oscillante di un pendolo, o quello sinuoso di un serpente (come noterebbe Jung). È un po’ come se i due emisferi (il destro che si occupa della realtà, il sinistro che si occupa della sua astrazione) si passassero continuamente a vicenda la palla.
L’emisfero destro entra nel flusso dell’esperienza, è coinvolto in una relazione profonda con la realtà, vede le cose nella loro mutevolezza e impermanenza e nella loro interconnessione. L’emisfero sinistro permette di uscire dal flusso dell’esperienza e di vedere la realtà in una forma meno vera ma apparentemente più chiara, e soprattutto più utile.
In pratica ci sono due modi opposti di porsi nei confronti del mondo, entrambi necessari per il nostro equilibrio. Quello dell’emisfero sinistro è isolato, manipolatorio, competitivo, sicuro di sé, immotivatamente ottimista; il suo valore prevalente è l’utilità. Quello dell’emisfero destro punta a un’interconnessione e a un coinvolgimento con il mondo; favorisce la cooperazione, la sinergia e il vantaggio reciproco. L’emisfero sinistro osserva, controlla, usa, sfrutta; l’emisfero destro risuona, si connette, si prende cura e non ha mire di alcun tipo. Il mondo dell’emisfero sinistro è astratto, statico, frammentato, meccanico, decontestualizzato, esplicito, disincarnato, privo di vita. Il mondo dell’emisfero destro, invece, è mutevole, imprevedibile, in continua evoluzione, interconnesso, implicito, incarnato, inafferrabile e vivo. L’emisfero sinistro è rivolto a se stesso, il destro è rivolto all’altro. Il sinistro dice “mangia o sarai mangiato”, il destro condivide il pasto intorno al fuoco.

Come un mandala

Potremmo forse dire che l’emisfero sinistro è intelligente ma non è saggio, quello destro è saggio ma non è intelligente. L’emisfero destro vive l’esperienza, la incarna, mentre l’emisfero sinistro la estrapola dal contesto e la trasforma in concetto, esplicitando ciò che prima era implicito. L’emisfero sinistro offre un quadro preciso e dettagliato del mondo, e da un punto di vista distaccato che potrebbe sembrare per questo più attendibile, inducendoci a pensare che quello che osserva corrisponda alla verità. Ci tranquillizza ci rassicura. Mentre ciò che percepisce l’emisfero destro è più simile a un essere vivente, a un tutto interconnesso, e può sembrarci confuso e angosciante per la sua inafferrabilità.
Tuttavia ogni esplicitazione operata dal sinistro (compresa quella che sto facendo io ora nello scrivere e voi nel leggere) riduce la complessità da cui parte, è comunque una semplificazione della realtà, non coincide con la realtà. Anche per questo dopo la divisione operata dall’emisfero sinistro, occorre sempre perseguire una nuova unione, una sintesi, cioè riportare il processo nell’emisfero destro perché “prenda vita”, arricchendosi del “linguaggio” dell’emisfero destro, che è immaginativo, onirico (i sogni sono parte importante del processo) e corporeo. L’esperienza resa più “fruibile” dall’emisfero sinistro va cioè reintegrata nell’emisfero destro, al fine di vivere in modo sempre più consapevole. Non si arriva mai a comprendere la realtà, ma ci si avvicina progressivamente, come in un eterno processo circolare, “mandalico”, che tende verso il centro senza mai poterci arrivare.

Pillola rossa o pillola blu?

L’emisfero destro è dunque quello davvero connesso con la realtà, il sinistro si limita a “tradurla” in un linguaggio comprensibile (il neuroscienziato Michael Gazzaniga lo ha definito “l’interprete”) ma non la capisce veramente. Come si è detto, è con l’emisfero destro che comprendiamo la morale di una storia, o una metafora, o una barzelletta, o una poesia, cioè è col destro che riusciamo ad andare oltre il significato letterale (al di là della lingua) e a comprendere ciò che è implicito.
Tuttavia il ruolo del sinistro è fondamentale: è  molto utile avere una parte autocosciente, emotivamente distaccata che analizzi freddamente e lucidamente le cose, mettendo a punto le strategie di sopravvivenza migliori, e un linguaggio “disincarnato” è lo strumento migliore per farlo.
Il problema è che, in questa attività di supporto, l’emisfero sinistro si è fatto un po’ prendere la mano. L’abbiamo chiamato “emisfero dominante”, anzi, si è autodefinito “dominante” (perché è con l’emisfero sinistro che scegliamo le parole…), tradendo in fondo le sue naturali intenzioni: l’emisfero sinistro non è il più importante dei due, ma quello che, per propria natura, tende a manipolare la realtà per “dominarla”, e lo fa ignorando i propri limiti (abbiamo detto che è ottusamente ottimista e autoreferenziale: sa trovare spiegazioni piuttosto plausibili, benché false, per ciò che non rientra nella sua versione dei fatti), fino ad autoconvincersi di bastare a se stesso, di poter fare a meno della connessione con la “realtà vera” (che resta ineffabile e indecifrabile). Così finisce per usurpare il potere del destro senza rendersi conto che così si autocondanna alla propria rovina. Un po’ come nella favola della rana e lo scorpione: la rana (l’emisfero destro) attraversa il lago (l’esperienza) reggendo lo scorpione (l’emisfero sinistro) convinta che a lui non convenga farle del male perché morirebbero entrambi; ma lo scorpione segue ottusamente la propria natura e punge a morte la rana.
Il problema, insomma, è che noi, come individui e come specie, di fronte a una realtà sempre più complessa (anche per via della progressiva tecnologizzazione e burocratizzazione), tendiamo sempre più a cadere nella tentazione di dare retta al solo emisfero sinistro, che ci restituisce un’illusione di controllo tanto rassicurante quanto lontana dalla realtà. Come nel film Matrix, preferiamo scegliere la “pillola blu” (l’emisfero sinistro), che ci consente di vivere in un mondo immaginario e di cullarci nell’illusione di poterlo controllare, perché scegliere la “pillola rossa” (l’emisfero destro) ci porterebbe a “sprofondare nella tana del Bianconiglio”, cioè in un mondo che ci appare sempre più incomprensibile e imprevedibile, e quindi cupo e minaccioso.
La tesi di McGilchrist, insomma, è che l’emisfero sinistro sia diventato lo “stadio conclusivo” del processo di rimpallo. Invece che vivere, ci fermiamo alla rappresentazione del reale, alla sua frammentazione analitica, in un circolo vizioso ricorsivo come le figure di Escher: siamo sempre più inconsapevoli, e sempre più convinti di essere consapevoli.

Il musilinguaggio

Ma come è potuto succedere? McGilchrist cerca di mettere insieme i pezzi ripercorrendo i passi evolutivi del nostro cervello.
Prendiamo il linguaggio. Alcuni studi sembrerebbero suggerire che, prima che con la parola, la specie umana comunicasse attraverso la “musica”. Un po’ come gli uccelli, un tempo comunicavamo con l’intonazione, il fraseggio, il ritmo e la musicalità dei suoni emessi con le corde vocali, che oggi come allora sono pertinenza dell’emisfero destro, e che infatti sono alla base della comunicazione emotiva. Insomma, prima abbiamo imparato a comunicare con i suoni, i gesti, il canto, la danza. Se ci pensiamo, l’esperienza della musica e della danza (come, più in generale, l’esperienza artistica) è profondamente “vitale”, “incarnata”, emotiva. Aiuta a entrare in connessione con gli altri e con noi stessi. Ballare e cantare sono comportamenti spontanei, privi di scopo, che non hanno alcun fine ulteriore se non esprimere qualcosa che va oltre noi stessi.
La sintassi e il lessico sono arrivati dopo, con lo sviluppo dell’emisfero sinistro, la parte della mente osservante e analizzante. Gradualmente il linguaggio si è separato dalla musica e dal suo legame con il corpo (e qui vale la pena spezzare una lancia a favore della “gestualità italica”: benché fonte di ironia all’estero, di fatto favorisce l’integrazione tra i due emisferi). Una lingua “disincarnata” è infatti uno strumento più utile per un’analisi emotivamente distaccata, che dà un senso di chiarezza, precisione e lucidità. Ed è un mezzo più adatto a processare qualcosa che non è presente, che è lontano nel tempo e nello spazio. La lingua contribuisce a fissare i pensieri, ma può anche restringerli, plasmarl. Lo sviluppo poi della lingua scritta, sempre più autoreferenziale e finalizzata, ha inevitabilmente favorito l’affermarsi di un mondo competitivo (è più facile attaccare e abbattere un “nemico” con cui non si è emotivamente connessi), specialistico e compartimentalizzato.

Il mito di Prometeo: un presagio “sinistro”?

Nel corso della Storia, i due emisferi hanno favorito l’evoluzione dell’uomo permettendo il passaggio continuo dalla connessione con il mondo, a un’astrazione dal mondo, e di nuovo a un maggior coinvolgimento empatico con il mondo. Un esempio di buon equilibrio tra i due emisferi è la nascita del teatro nell’Antica Grecia, che segna la presenza di una parte osservante, che guarda a distanza per comprendere meglio, ma anche di una parte che empatizza con ciò che vede, poiché la rappresentazione risuona emotivamente dentro a chi vi assiste.
Del resto, come poi approfondì il filosofo Friedrich Nietzsche, i miti di Apollo e Dioniso ben esemplificano la contrapposizione e la collaborazione dei due emisferi. Apollo –  associato all’ordine, alla razionalità, alla chiarezza, alla perfezione, al controllo della natura – ricorda l’emisfero sinistro. Dioniso – associato all’intuizione, al superamento dei confini, al senso di totalità, al piacere e al dolore fisico, al contatto con la natura – ricorda l’emisfero destro. Le due divinità erano entrambe importanti, e avevano i loro templi e i loro rituali.
Il mito di Prometeo, che rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, sembra invece un’efficace metafora di ciò che sarebbe poi avvenuto progressivamente nella mente umana: Prometeo è un po’ come l’emisfero sinistro che prende il potere, applicando alla natura un metodo ristretto e decontestualizzato, “oggettivo” (che guarda cioè alla realtà come un “oggetto” da sfruttare, allontanando dalla esperienza di connessione alle cose). Un mito che da una parte sottolinea i benefici di questo “furto”: è grazie all’astrazione operata dal sinistro che abbiamo la scrittura, le leggi, la filosofia, la cartografia, l’architettura, la scienza, la tecnologia. Ma che, d’altro canto, sembra avvertirci dei rischi: la hybris, la tracotanza di questo gesto viene infatti punita con la sofferenza eterna. Il dio incatenato e soggetto all’erosione dei visceri non ricorda forse la condizione umana incatenata negli schemi dell’emisfero sinistro, sempre meno connessa con la realtà e, per questo, internamente erosa?

Oscillazioni storiche

La prevalenza del sinistro, tuttavia, non è avvenuta in modo graduale, sembra piuttosto riportare continue oscillazioni nel corso della Storia. Durante il Rinascimento, per esempio, sembra esserci un “risveglio” dell’emisfero destro (nella Creazione di Adamo di Michelangelo, nota McGilchrist, Dio si connette con la mano sinistra dell’uomo, e quindi con il suo emisfero destro): nella scienza si tornò a guardare le cose come sono, nella pittura ciò che si vede. Si rivalutò l’individuo, la forza espressiva del volto umano, si rappresentò la profondità spaziale con la prospettiva, si diede importanza a ciò che è inconscio, involontario, intuitivo e implicito.
La Riforma protestante ha invece esaltato l’emisfero sinistro: è la prima grande espressione della ricerca di certezza, che ristabiliva il primato della parola, eterna e immutabile, mentre il corpo veniva rifiutato e mortificato. Mentre la Chiesa romana incoraggiava il movimento (i cammini spirituali, le processioni), la riforma impose la stasi, l’ordine e la gerarchia, enfatizzò l’azione individuale sminuendo ciò che è comunione e tradizione.
Ma è soprattutto con l’Illuminismo, “l’età della ragione”, che si affermò l’emisfero sinistro. La razionalità richiede l’esplicito, il chiaro, il compiuto, la luce che evoca chiarezza e precisione e la messa al bando di ciò che è implicito, ambiguo e irrisolto. L’emisfero sinistro tende a imporre ideali come la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, invece che lasciare che emergano insieme a una disposizione tollerante verso il mondo, come farebbe l’emisfero destro. E quindi fallisce: la rivoluzione francese, benché attuata in nome della ragione, dell’ordine e della giustizia, fu irrazionale, disordinata, ingiusta, e per niente fraterna.
Il Romanticismo rappresentò un ritorno dell’emisfero destro: l’idea della differenza individuale tornava centrale e la riscoperta di Shakespeare (“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”) riportava a una maggior connessione con la realtà: lo stupore nei confronti della vastità e della bellezza della natura, la poesia, l’affinità con la malinconia e la tristezza, l’attrazione per ciò che è mutevole, implicito ed essenzialmente inconoscibile, l’amore per la foschia e per il chiaro di luna, per la penombra e il crepuscolo, sono tutti aspetti cari all’emisfero destro.

Dove ci troviamo

Tornò tuttavia a prevalere il sinistro con il materialismo scientifico e il positivismo, che si basava sulla visione della scienza come unico fondamento della comprensione del mondo, con un senso di superiorità dell’Occidente, con il mito del metodo scientifico e di un progresso inarrestabile.
Ma è la rivoluzione industriale a permettere all’emisfero sinistro di sferrare al destro un attacco senza precedenti, costruendo un mondo a propria immagine e somiglianza: competitivo, tecnologico, basato sull’idea ingenuamente ottimista di un progresso inarrestabile, fondato su macchine che producono macchine, in un’autoproliferazione che è una parodia della vita pur mancando di tutte le qualità degli esseri viventi, e con un attacco al mondo naturale attraverso lo sfruttamento, l’inquinamento e l’urbanizzazione.
Accontentano il sinistro i totalitarismi (basati su un’ammirazione per la potenza più che per la bellezza, sulla mancanza di compassione e sull’erosione della pietà umana; perfino l’arte non era un valore di per sé ma aveva una finalità politica), è ancora di più il capitalismo e il consumismo, basati quasi esclusivamente sull’utilità, l’avidità e la competizione, con la perdita del senso di appartenenza portato dalla globalizzazione, la pervasività di un modo di pensare razionalistico, tecnico e burocratico, con la frammentazione promossa anche dai media, che ha svuotato progressivamente la vita di relazioni, di legami con l’altro, di significato. Anche l’arte oggi è prevalentemente concettuale (deve veicolare un messaggio), e la musica classica è diventata incomprensibile perché troppo astratta.
Ecco, dice McGilchirst, noi ci troviamo qua.

Un mondo sinistro

Solitari, annoiati, ansiosi, distaccati, passivi: questo siamo diventati. L’eccesso di consapevolezza e di esplicitazione ha preso il posto di ciò che dovrebbe restare intuitivo e implicito, portandoci a un’alienazione dal corpo e dal sentimento dell’empatia, alla frammentazione dell’esperienza e alla perdita della connessione con il mondo.  Siamo sempre più interessati alle cose che alle persone, al possesso che alla vita, al capitale che al lavoro. Le persone vengono giudicate per le proprie capacità di guadagno, e classificate come “vincenti” e “perdenti”.  Il rapporto tra persone è più improntato sullo sfruttamento che sulla cooperazione. Le individualità vengono appianate per far posto a un’identificazione per categorie, implicitamente o esplicitamente in competizione tra loro.
Abbiamo smesso di coinvolgerci in modo spontaneo e intuitivo con la vita per diventare passivi, iperconsapevoli ma sempre più alieni dal mondo, che diventa sempre più frammentario, inconsistente, privo di significato. Tendiamo a fuggire dal corpo e dalle emozioni: ci sentiamo svuotati se non per un pervasivo senso di ansia o di nausea di fronte all’esistenza (del resto nell’ansia, in particolare nella fobia sociale, c’è un eccesso di autocoscienza, un occhio che osserva e che paralizza rendendo impacciate e artificiali le normali abilità che dovrebbero restare intuitive e inconsce). Viriamo tra due posizioni apparentemente opposte ma che in realtà sono due aspetti della stessa posizione: l’onnipotenza e l’impotenza. Entrambe sono proprie dell’emisfero sinistro (quello polarizzato) e portano gradualmente a un ritiro dal mondo esterno e a un ripiegamento dell’attenzione verso l’interno.

La mente si ammala

La maggior diffusione della malattia mentale registrata negli ultimi anni sarebbe dovuta, secondo McGilchrist, a questo squilibrio emisferico. Del resto molti studi dimostrano che l’urbanizzazione e la globalizzazione favoriscono un aumento delle malattie mentali, e che la connessione sociale (i balli di gruppo, i riti collettivi) le riduce.
“L’emisfero sinistro, che avrebbe dovuto essere l’interprete, è diventato il creatore ottuso e presuntuoso di una realtà che di fatto è una rappresentazione senza vita, in un circuito autoreferenziale” avverte McGilchrist. “Siamo immersi in una cultura che mima certi aspetti tipici di un deficit dell’emisfero destro, con il risultato che le persone che hanno una propensione intrinseca a fare eccessivo affidamento sull’emisfero sinistro saranno meno indotte a correggerla. Questo spiegherebbe l’aumento della malattia mentale”.
Quali malattie stanno aumentando? Per esempio la schizofrenia, alla cui base c’è un eccesso di razionalità, che porta a un distacco dalla realtà per ritirarsi in una dimensione autoconsapevole, disincarnata, alienata e delirante. L’assenza di un coinvolgimento affettivo porta alla sensazione che il mondo sia una recita e induce a comportamenti bizzarri; l’aumento dell’attenzione focalizzata, particolaristica, intellettualizzante conduce all’idea – angosciosa – di essere l’unica cosa che esiste e di non essere niente.
In aumento anche il narcisismo, che segna lo stesso tipo di ritiro ma in una dimensione meno delirante e più strumentale: il narcisista manifesta un’assenza di sentimenti agghiacciante anche verso temi che suscitano spontaneamente forti emozioni umane; vuole controllare gli altri, farli sentire vulnerabili, mira cioè al potere e non alla connessione.
O ancora l’anoressia, che è un desiderio di disincarnarsi, di scomparire. O i disturbi dissociativi, caratterizzati da una perdita del senso di appartenenza al mondo: ci si sente automi, marionette, meri spettatori.
Del resto le osservazioni di McGilchrist sono in linea con la ricerca in psicoterapia e con i metodi che si stanno progressivamente affermando per far fronte alla crisi dell’uomo post-moderno. Se un tempo a dominare questo mondo erano le “terapie della parola” (dalla psicoanalisi al cognitivismo), oggi si stanno affermando terapie che coinvolgono il corpo e l’espressione delle emozioni (come l’emdr o la psicoterapia sensomotoria) e che danno importanza alla relazione “intersoggettiva”, cioè alla connessione tra terapeuta e paziente, oltre che alla connessione interna tra le varie parti di sé (come nel lavoro con le parti). A conferma che oggi il lavoro della psicoterapia punta a favorire l’integrazione dei due emisferi, e in particolare a stimolare l’emisfero destro.
Anche l’occidentalizzazione della meditazione buddista, la mindfulness, va in quella direzione: mira infatti a sviluppare una visione duale, a tenere insieme la parte osservante e la parte incarnata della mente (“porta la tua attenzione sul tuo respiro”). La meditazione, che tende a portare la mente sul corpo, sulla realtà del qui e ora, è una sorta di esercizio di “equilibrio emisferico” quotidiano.

Da dove ripartire

Più in generale, di fronte a questo scenario apocalittico, da che cosa possiamo ripartire? Si è parlato della meditazione buddista, ma per noi occidentali è anche possibile, suggerisce McGilchrist, riscoprire la religione, che è stata espulsa dalla nostra società in quanto generatrice di false illusioni, ma con il risultato “che è stato buttato via il bambino con l’acqua sporca”. Il cristianesimo (non quello gestito dalla chiesa occidentale, che si è convertito in parte al materialismo, ma quello raccontato nei vangeli, compresi quelli apocrifi) concepisce un divino che non è estraneo, ma coinvolto e vulnerabile, incarnato (“il Verbo che si fa carne”) e che accetta di soffrire (è solo attraverso l’esperienza della sofferenza che possiamo “rinascere”): il ritratto dell’emisfero destro. Riconosce il divino dentro di sé (“Il regno di Dio è dentro di voi”) e nell’altro (“Ama il prossimo tuo come te stesso”). Molte parabole parlano all’emisfero destro (“Gli ultimi saranno i primi”, “Bisogna ritornare come bambini”, “Abbandona tutto e seguimi”).
Anche le religioni orientali, come il buddismo zen, sono legate all’emisfero destro: vedono il mondo più come un processo che un insieme di cose, hanno un approccio più olistico e dialettico. In generale, le culture orientali sono più interdipendenti, più portate alla connessione e al senso di appartenenza; non sovrastimano le proprie abilità come gli occidentali.
Le religioni non portano certezze e il loro linguaggio può risultare ambiguo, contraddittorio e incomprensibile all’emisfero sinistro, che tende a rifiutarle perché non restituiscono chiarezza e certezze, o a strumentalizzarle per fini che nulla hanno a che fare con il messaggio originale (come nelle guerre di religione). La certezza è la più grande delle illusioni, ed è alla base di qualsiasi fondamentalismo (non solo religioso, ma anche, per esempio, scientifico o politico). Per gli antichi greci, la tracotanza di chi pensa sempre di aver ragione, la hybris, era la cosa peggiore, la più pericolosa, quella da cui guardarsi: chi crede di essere certamente nella ragione è certamente nel torto.

Senza parole
La vera difficoltà, oggi, è abbandonare la visione dell’emisfero sinistro, che è per molti versi vantaggiosa in quanto seduttiva e rassicurante. Permette infatti di ignorare il quadro generale, troppo nebuloso e inafferabile, per concentrarsi sulle parti che conosciamo e maneggiamo bene, e infatti spinge all’iperspecializzazione e alla tecnicizzazione della conoscenza. Il mondo amato dall’emisfero sinistro è virtuale e tecnologico: del resto la tecnologia permette di manipolare e controllare il mondo. Al sinistro non interessano la coesione sociale, i legami fra le persone, ma anche fra le persone e i luoghi, troppo complessi e destabilizzanti. Il suo focus è sulle cose materiali, più “controllabili” .
Il problema è che questa rassicurazione è illlusoria, perché porta a evitare la realtà, che diventa così sempre più minacciosa e incomprensibile. La paranoia e la sfiducia stanno perciò diventando atteggiamenti pervasivi. È paranoico perfino l’atteggiamento del governo nei confronti del popolo, nota McGilchrist, con il rischio che si affermino politiche che mirano al controllo totale, partendo dalla limitazione delle libertà individuali. I ruoli che trascendono la quantificazione e dipendono in una certa misura dall’altruismo, come i sacerdoti, gli insegnanti o i medici, vengono costantemente sminuiti o visti con sospetto.
Resta una domanda: questo scenario apocalittico descritto da McGilchrist è reale o è l’ennesima mistificazione dell’emisfero sinistro? E, se così fosse, perché non pensare che prima o poi, come è sempre avvenuto nella Storia, l’emisfero destro possa accorgersi del “problema” e riprendere spazio e voce nella nostra mente? Oppure quest’ultima è solo un’illusione dettata dall’emisfero sinistro, che vuole sempre convincersi che alla fine “andrà tutto bene”?
Rispondere è impossibile. Intanto potremmo lasciar risuonare dentro di noi la tesi suggestiva di McGilchrist, che potrebbe essere un po’ vera e un po’ no, un po’ affascinante e un po’ angosciante. Forse queste riflessioni potrebbero spingerci a riscoprire ciò che abbiamo perduto o trascurato. Forse potrebbero cambiare il nostro sguardo sul mondo. Ma non inseguiamo certezze né coerenza logica. E nemmeno parole. Perché, come diceva Ludwig Wittgenstein (forse proprio per aprirsi all’ascolto dell’emisfero destro): “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

(Marta Erba)

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28 May 2019

ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA

di Raffaele Avico

Nel suo “la guerra di tutti”, Raffaele Alberto Ventura tenta una lettura “totale” del presente, integrata, mettendo in campo più aspetti, cosa che già aveva fatto con La Teoria della Classe Disagiata per descrivere il “problema millennials”: in quest’opera prima aveva descritto la classe media come incagliata in un doppio legame impossibile da sciogliere se non tramite un’auto-estinzione “morbida”: troppo ricca per poter considerare realmente un declassamento (la classe media, appunto), troppo povera per raggiungere le aspirazioni iniziali, di fatto destinata, appunto, a un’auto-estinzione demograficamente già in atto, almeno in Italia. Ventura, ora, tenta di fornirci una cornice simbolica più larga, utile a spiegare come mai il rischio sia quello di precipitare in una guerra di “tutti contro tutti”, senza più punti di riferimento su più piani (politico e culturale). Ventura si confronta con una realtà complessa e il tentativo di fornire una chiavi di lettura o anche solo una “big picture” rende La guerra di tutti un libro a suo modo “terapeutico”, o in ogni caso utile a chi voglia comprendere più a fondo il mondo che vive, nell’idea che possa essergli utile singolarmente come individuo.

Alcuni punti esposti nel libro sono particolarmente interessanti:

  • come esposto anche in questa intervista a radio Rai 3, catarsi può anche voler dire mimesi, soprattutto quando si parla di arte. Ventura parla di una generale sottovalutazione dell’impatto dei “segni” nella nostra società. Rappresentare un qualcosa, spettacolarizzarlo, potrebbe essere catartico, ok, ma potrebbe anche produrre comportamenti di “mimesi”, cioè di involontaria adesione a un certo modo di vedere la realtà o di pensarla: per raccontare questo Ventura usa il problema fake-news e la spettacolarizzazione della violenza tramite l’uso di social network: un uso dei “segni”, insomma, di fatto potenzialmente nocivo, in grado di “toccare” il cittadino che vi si imbatta, alimentando escalation di aggressività o paranoia. Nell’intervista prima citata Ventura descrive il problema del “confine permeabile” tra spettacolo e reale, intorno al quale spesso notiamo movimenti osmotici (il reale che entra nello spettacolo, come la politica -spettacolarizzata-, ma anche lo spettacolo che entra nel reale -pensiamo agli effetti del cyberbullismo o al proliferare di idee definibili “deliroidi” tramite fake news e cattiva informazione -complottismi, regressioni a posizioni pre-scientifiche, etc.)
  • Ventura usa la piramide dei bisogni di Maslow per ragionare su quanto in effetti il problema di oggi non necessariamente coincida con l’accesso alle risorse “di base”. Il problema della classe media (perchè in ultima analisi è questa, credo, il target/lettore di Ventura), andrebbe ricercato in un bisogno insoddisfatto di riconoscimento in termini di posizione sociale e “amor proprio”: l’autore descrive la “guerra di tutti” come una guerra scaturita da un bisogno di riconoscimento simbolico insoddisfatto, ancor più potente, in termini di “sofferenza” prodotta, di un eventuale limitato accesso alle risorse “di base”. In un certo senso, è come se (e questa tesi già la argomentava nel suo libro precedente), con il frigo pieno, il problema di “affermazione” della classe media si fosse elevato a un ordine superiore, divenendo un problema di riconoscimento di “status”, ora mediato dell’accumulo di quelli che Ventura chiama “beni posizionali” (sempre più prestigiosi titoli di studio, master accumulati, esperienze in grado di “sancire” l’appartenenza a una certa fascia sociale, etc.)
  • con “guerra di tutti”, Ventura definisce lo “stato di natura” teorizzato da Thomas Hobbes, ovvero uno stato di conflitto “tutti contro tutti” con la politica e la società stessa aventi la funzione di “freno” (permanente e costantemente da ricalibrare). La società, Ventura scrive, ha da sempre avuto la funzione di governare, sublimandola, questa guerra totale. Al momento attuale la situazione è, a quanto sembra, quella di un temporaneo spaesamento di intere fasce della popolazione, delegittimate nei propri sogni traditi e soprattutto non riconosciute, rappresentate da una classe politica funzionante insieme in modo catartico (sfogando paura e xenofobia) ma anche in modo tale da aizzare quelle stesse paure, alimentandole (si veda questa intervista). Ventura parla del Movimento 5 stelle come dell’”ariete” arrivato a sovvertire il sistema (riferendosi, per esempio, al Vaffanculo Day), e della Lega di Salvini giunta a riempire il vuoto creatosi, di fatto entrambi portavoce dello stesso bisogno -espresso in modo più o meno consapevole da un enorme bacino di persone-, di essere rappresentati e riconosciuti, come in un gioco di specchi.
  • la rabbia eccessiva richiede proiezioni esterne, il creare dei nemici (immaginari o meno) contro cui sfogarla e grazie ai quali “triggerarla”: Ventura descrive una progressiva paranoicizzazione della società italiana, sul modello di quella americana, storicamente orientata a trovare nemici altrove, esterni a sé. Il problema di fondo, tuttavia, rimarrebbe dal suo punto di vista il senso di “disagio” generazionale e di delusione per una crescita economica che si sperava eterna, costante, di fatto oggi rivelatasi impossibile, non più sufficiente a fornire un parametro con il quale misurare una propria “identità sociale”.

Il libro di Raffaele Alberto Ventura è stato tacciato di pessimismo o negativismo: insieme al precedente Teoria della Classe Disagiata (del quale si configura come ideale proseguo o “secondo volume”) è invece un tentativo di “allargare il campo” di pensiero, complessificando il problema dell’oggi senza giungere a una reale soluzione per fuoriuscirne (cosa che spesso gli si chiede: di fornire una risposta). L’obiettivo sembra quello, qui, di “decostruire”, più che non di fornire risposte, tentando insieme di montare una “cornice di significato” che possa rendere più comprensibile un presente difficile da interpretare e velocissimo, trainato dal progresso tecnologico, con la classe politica “ a seguire”. Catartico come uno specchio.

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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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a cura di Raffaele Avico ‭→ logo
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