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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

13 February 2018

IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT

di Raffaele Avico

Il lavoro con i pazienti gravi comprende il confrontarsi con problematiche psichiatriche che non sono totalmente spiegate, né totalmente sotto controllo da parte della scienza medica. Avere a che fare per esempio con pazienti che soffrono di disturbi gravi dell’umore ci confronta continuamente con l’impotenza dei mezzi che la psichiatria e la psicologia clinica hanno a disposizione come strumenti di intervento elettivo. Genericamente sappiamo che gli interventi più efficaci paiono essere gli interventi multi-professionistici, in cui si tenta di attaccare i sintomi più invalidanti da più direzioni contemporaneamente, che è una sorta di compensazione al fatto che non si conosce l’origine unica del disturbo. Si tenta dunque di mettere più risorse in campo e di usare approcci in prima linea farmacologici (mediati dalla figura dello psichiatra), quindi psicoterapici ed educativi, che possano aiutare la persona a trovare un equilibrio sia in senso neurofisiologico, che psicologico, insieme a un discreto e auspicabile inserimento in società e quindi un supporto nei termini di appartenenza a una comunità (elemento questo trascurato ma centrale, purtroppo lontano dall’essere attuabile).

ALCUNE RIFLESSIONI

Uno dei quadri clinici più frequentemente riscontrato, e più complesso nelle sue sfumature nosografiche e di difficile gestione, è il “disturbo borderline”, che un tempo veniva definito come a cavallo tra la psicosi e la nevrosi, e che oggi ha acquisito una caratterizzazione più complessa. Alcuni suoi aspetti sono:

  • l’instabilità del soggetto, che si manifesta sul piano relazionale e del tono umorale, come elemento diagnosticamente centrale
  • la predominanza della rabbia come emozione prevalente che regola e caratterizza la vita del paziente, rabbia che interviene a regolamentare l’andamento delle relazioni del soggetto, che si presentano come esplosive o bruciate. A tal proposito, i pazienti borderline hanno difficoltà a mantenere i rapporti duraturi perchè è tanto forte l’intensità dell’investimento sull’altro, da rendere ogni relazione troppo intensa e troppo carica di aspettative-emozioni in gioco: il tutto finisce spesso con una rottura, come un’onda anomala che ricade su se stessa
  • i manuali di psichiatria psicodinamica parlano del soggetto borderline facendo riferimento alla posizione schizo-paranoide teorizzata da Melanie Klein, psicoanalista inglese che osservò in questi soggetti la tendenza a comportarsi in senso relazionale usando modalità primitive o infantili (non riuscendo a integrare le parti buone con le parti cattive all’interno dello stesso oggetto relazionale, e oscillando quindi tra emozioni di segno opposto, per esempio tra una forte passione e sentimenti di svalutazione e rabbia): Melanie Klein chiamava la posizione alternativa a quella schizo-paranoide “depressiva”, ovvero che consente di integrare i diversi aspetti di uno stesso oggetto in una visione più allargata e adulta tale da consentire l’instaurare di rapporti di durata maggiore
  • i soggetti borderline paiono aver familiarità con tutto ciò che riguarda la gestione corporea dell’impulsività e l’uso del corpo a fini regolativi (cioè di regolazione, o di “normalizzazione” dell’emotività): c’è un ricadere della malattia sul corpo (autolesionismo, familiarità con le sostanze d’abuso e spesso dipendenze in corso -che peggiorano l’andamento irregolare del tono dell’umore-, problematiche di tipo alimentare soprattutto per le donne)
  • La difficoltà per un paziente borderline è cavalcare il tumulto emotivo senza procurarsi enormi sbalzi d’umore (passando per esempio da una gioia euforica a un senso di vacuità e depressione abissale): in questo senso l’uso di farmaci prescritti da uno psichiatra che conosca a fondo la situazione clinica del paziente può aiutare a regolare meglio un’emotività vissuta come troppo veemente e di cui si è in “balia”
  • la gestione delle emozioni veementi procura la difficoltà di mantenere e alimentare relazioni durature, visto l’alternarsi di momenti di grande entusiasmo e sentimenti di svalutazione, rancore e distruttività
  • esiste un senso di non-amabilità (cioè il non credere di poter essere compresi e amati per quello che si è), che concorre a rendere complessa la gestione delle relazioni, che sembrano seguire sempre lo stesso schema: idealizzazione, rottura, distruttività, ripresa, rottura, etc.
  • spesso il ricorrere a comportamenti distruttivi è un tentativo di gestire le emozioni, sperimentate come troppo intense: “distruggere” un rapporto o provocare l’altro, portandolo a un contraddittorio acceso e violento, può rappresentare un paradossale tentativo di gestire e modulare emozioni intense che faticano a essere auto-gestite: prendendo a prestito la teoria di Freud, possiamo immaginare una quota di energia psichica in eccesso che in qualche modo deve essere smaltita/evacuata.

LA TERAPIA DIALETTICO COMPORTAMENTALE DI MARSHA LINEAN

La terapia psicodinamica non ha risolto del tutto le problematiche del borderline, e ha nel tempo lasciato spazio ad altre soluzioni più complesse e articolate, per esempio la DBT (dialectical behavior therapy) di Marsha Linehan, metodologia pensata per la presa in carico di soggetti borderline e affetti da abuso di sostanze riconducibile -ma non ascrivibile in toto- al gruppo delle terapie comportamentali, e incentrato su quattro interventi:

  1. psicoterapia individuale (con uso di farmaci dove necessario)
  2. terapia di gruppo incentrata sulla psicoeducazione e sullo sviluppo delle “skills”, ovvero delle competenze necessarie a gestire il disturbo
  3. consultazione telefonica e reperibilità di un operatore formato
  4. psicoterapia erogata al terapeuta stesso

Come si nota, lo strumento viene complessificato in ragione della complessità fenomenologica del  disturbo stesso. Così come accade per altri tipi di terapie di stampo comportamentale, gli obiettivi hanno priorità diverse e sono propedeutici l’uno all’altro (se non si è prima fatto un lavoro sulla stabilizzazione dei sintomi più invalidanti o dell’ideazione suicidaria, per esempio, non si potrà lavorare sulle skills relazionali). Nel caso per esempio dei pazienti che oltre al quadro borderline, soffrono anche di disturbo da abuso di sostanze, il primo obiettivo sarà quello di incentivare l’astinenza, e così via. Il lavoro a fasi si basa sul pensiero piuttosto intuitivo di regolarizzare un paziente prima di poter fare, con lui, un lavoro di approfondimento sul suo mondo “interiore”.

LAVORO D’EQUIPE

La terapia dialettico-comportamentale si struttura come una terapia erogata da un’equipe di lavoro, e non da un singolo terapeuta. Come prima evidenziato, uno degli obiettivi è la trasmissione di skills relazionali: si tratta in questo caso quindi di un intervento di tipo psico-educativo di gruppo, non finalizzato dunque a un lavoro di tipo esplorativo (come invece fa il terapeuta individuale).

Lo skill training contempla quattro moduli diversi (che si realizzano attraverso 8 incontri di gruppo, ognuno, con una partecipazione di 8/10 persone):

  1. MINDFULNESS, per il recupero della presenza nel momento presente per mezzo di pratiche mutuate dalla meditazione buddhista, attraverso la ri-educazione dell’attenzione focalizzata e il controllo del respiro
  2. LA REGOLAZIONE EMOTIVA, incentrato su tutto ciò che concerne la manifestazione sregolata dell’emotività (per esempio vengono prese in considerazione le manifestazioni esplosive di rabbia in concomitanza a una sensazione di rifiuto o di abbandono percepito, oppure i momenti di profonda apatia vissuta dal soggetto, cercando di ragionare sulle strategie soggettive per fuoriuscire dalla tirannia dell’emozione veemente)
  3. I RAPPORTI INTERPERSONALI, per un’acquisizione delle buone prassi di comunicazione e convivenza
  4. LA TOLLERANZA AL DOLORE PSICHICO, costruito intorno al concetto di accettazione. Questo punto è connesso al primo (1); attraverso l’osservazione della propria emotività si ricerca uno stato di dis-identificazione dai propri vissuti emotivi, e si fugge dall’impulso (i pazienti borderline, ma in generale chi soffra di disregolazione emotiva, sono così in balia della veemenza dell’emotività, da ricorrere a forme di auto-cura per mezzo di azioni che coinvolgono il corpo -per esempio attraverso l’uso sregolato del cibo, o l’abuso di sostanze, o il ricorso ad altri tipi di strumenti auto-regolativi, come la masturbazione compulsiva usata a fini ansiolitici-). Questo modulo di skill training insegna a procrastinare l’impulso, dato che abbandonarvisi ha per il paziente, spesso, l’unico realistico effetto di peggiorare ulteriormente i sintomi e il malessere, come in un circolo vizioso in senso psicopatologico.

L’evidenza dell’importanza di un trattamento non solo psicoterapico, ma anche psico-educativo, ha una particolare centralità soprattutto con pazienti di questo tipo, che vivono con sofferenza non solo la propria emotività, ma anche le ripercussioni in senso sociale di quella stessa emotività fuori controllo. Parliamo di “cicli interpersonali problematici” per descrivere le ripercussioni (sempre in negativo) di un’emotività di cui si è in balia, che provoca rotture e scoppi relazionali (proprio quando si avrebbe maggiore bisogno di vicinanza e supporto).

Su Jama Psychiatry uno studio randomizzato ha dato consistenza a quest’evidenza, in particolare appunto nei termini dell’importa del lavoro sulle skills. Qui l’approfondimento: https://jamanetwork.com/journals/jamapsychiatry/fullarticle/2205835?resultClick=1


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Generale

4 December 2017

INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG

di Raffaele Avico

La psicoterapeuta Kimberly Young, americana, da anni lavora in ambito di dipendenza da Internet. Compie un costante lavoro promozionale per informare e divulgare a riguardo di un fenomeno di cui ci si sta accorgendo, ma di cui non si rilevano totalmente i rischi.

Alcune osservazioni a proposito del fenomeno, mutuate dal suo lavoro divulgativo:

  • Questa forma di dipendenza viene discussa e teorizzata già dalla fine degli anni ’90, sostituendosi a quella che per anni era stata la questione a proposito, invece, della “tele-dipendenza”, ovvero dei rischi connessi alla permanenza prolungata di fronte alla TV
  • Essendo un fenomeno giovane, è difficilmente inquadrabile. E’ indubbio che Internet garantisca  in modo democratico enormi vantaggi di accesso alle informazioni, però la cosa sembra presentare rischi soprattutto per i ragazzi più giovani o tendenti a sviluppare forme (altre) di dipendenza
  • A differenza delle altre forme di dipendenza, l’obiettivo per Young non è arrivare a un’assenza dell’oggetto di dipendenza -come si fa invece per le sostanze, per le quali è preferibile l’astinenza-, quanto a un “utilizzo moderato positivo”, cioè a un uso consapevole e sotto il controllo della volontà. Non è quindi prioritario diminuire il numero di ore, ma capire cosa di Internet crei compulsività e ragionare su quello (il focus di una dipendenza da internet può essere il gioco d’azzardo, la pornografia, i Social Network, le informazioni, gli stimoli continui, etc.)
  • Young paragona la dipendenza da Internet alla dipendenza da cibo: a proposito di questo parla non tanto di “dieta” digitale (che prevederebbe cambiamenti rapidi di abitudini, digiuni e disintossicazioni) quanto di “digital nutrition”, ovvero di “educarsi” a un uso consapevole dello strumento
  • L’uso consapevole deriva da un approccio duplice, che prevede da un lato il mettere dei paletti esteriori (Young dice “check the checking”, ovvero prestare attenzione a quante volte si controlli il telefono, oppure praticare momenti di lontananza dal telefono -”disconnect to riconnect”), e insieme osservare i bisogni che Internet, in quel momento, sembri soddisfare in noi
  • per alcune forme di dipendenza, esiste una valenza auto-curativa: il gesto legato alla dipendenza (qualunque essa sia) sembra risolvere un conflitto interno (provocato dai più svariati fattori, che hanno spesso a che fare con dinamiche di tipo relazionale), sopprimere alcune emozioni di difficile gestione o farle “nascere” dove sembrino mancare: stati mentali vissuti soggettivamente male, che in questo modo trovano una risoluzione o un sollievo momentaneo. In questo caso il problema da affrontare viene prima, e la dipendenza si configura come tentativo che il ragazzo o la persona mette in atto per evitarlo (per esempio lo smartphone come tentativo di evitare picchi di ansia)
  • La soglia che distingue un problema da una patologia, è soggettiva. Il criterio da adottare per capire quanto un problema stia assumendo forma di patologia, è quanto il sintomo abbia intaccato la qualità della vita della persona, costringendola a comportamenti nocivi o fuori dal controllo della volontà (per esempio sentirsi forzati, obbligati a controllare il telefono mentre si guida, o mentre si ascolta una persona, deviando costantemente l’attenzione altrove)

Qui  il Ted Talk di Kimberly Young:

 

Article by admin / Generale

4 December 2017

EMDR: LO STATO DELL’ARTE

di Raffaele Avico

L’EMDR (acronimo che sta per Eye Movement Desensitization and Reprocessing), è una tecnica usata in ambito di psichiatria e psicoterapia riconosciuta pratica efficace per contrastare l’insorgere di sintomi post- traumatici, pensieri intrusivi, insonnia conseguente a grandi shock, etc. Viene usata primariamente per i casi di cosiddetto trauma con la “T Maiuscola”, ovvero grandi traumi singoli (uno shock anafilattico vissuto come mincaccioso per la prorpia vita, un singolo attacco di panico potente, un singolo incidente, etc.).

A proposito della sua scientificità e della sua validità come pratica medica,  è in corso un dibattito acceso tra chi vede l’EMDR come uno strumento che trova la sua efficacia nel potere suggestivo che esercita (e quindi senza peso in termini scientifici) e chi invece lo decanta come nuova tecnica in ambito psichiatrico destinata a grandi successi clinici. E’ indubbio che psicotraumatologi di fama mondiale (come Bessel Van Der Kolk, olandese), ne appoggiano e consigliano l’utilizzo, a partire da risultati ottenuti nella propria attività di psicoterapeuti e psichiatri.

La tecnica prevede un protocollo standardizzato, con delle domande specifiche a proposito del trauma (il suo svolgersi, il contesto, le immagini più pesanti, i pensieri su di sé prodotti in quell’occasione, etc.), seguite da una “stimolazione bilaterale” che viene fatta o facendo seguire al paziente il movimento di due dita (del terapeuta) che passano di fronte al suo volto orizzontalmente, oppure attraverso un tamburellamento ritmico e alternato effettuato dal terapeuta sulle ginocchia o sulle mani del paziente. Si torna poi a una parte verbale, chiedendo spiegazioni su come il paziente si senta (in modo molto aperto e libero), si torna a focalizzare sulle immagini relative al trauma e si riprocede a una stimolazione bilaterale, in una sequenza dalla durata variabile.

Dei sintomi post-traumatici, la parte peggiore dell’esperienza è la riattivazione delle memorie traumatiche, che faticano ad essere elaborate e collocate nel passato: permangono intatte nel flusso dei ricordi, come intaccate dal tempo. Ogni qualvolta vengano evocate, il paziente rivive (verbo importante e preciso, che denota un’esperienza differente da quella del semplice ricordare) in pieno il trauma, con il corrispettivo attivarsi allarmato del corpo, imprigionato dal ricordo stesso. Quindi sudorazione, tachicardia, panico, ansia forte che cresce, senso di impazzire e tendenza della mente a dissociare, cioè a “scollarsi” dal momento presente precipitando in un vuoto simile a quando, come si dice nel linguaggio comune, ci si “incanta”.

MECCANISMO

L’EMDR pare efficace nel contrastare questa riattivazione forte sul piano somatico, perchè sembra aiutare a elaborare le memorie che precedono questa stessa riattivazione. Esistono alcune ipotesi che sono state formulate per spiegare il suo funzionamento:

  1. l’ipotesi integrativa, per cui il ricordo traumatico verrebbe trasferito da un emisfero all’altro del cervello, trovando un’elaborazione più ampia e armonica.
  2. l’ipotesi del doppio distrattore, per cui “distrarre” la memoria “somatica” (quella che conduce a una forte attivazione del corpo al momento del ricordo del trauma) mantenendo il focus dell’attenzione sul corpo o sull’esterno (seguendo il movimento delle dita o percependo il tocco sulle ginocchia), consentirebbe al ricordo traumatico di tornare alla mente senza provocare scompensi fisici, per poi quindi essere “visto” e infine elaborato.
  3. l’ipotesi connessa al movimento dei bulbi oculari, che è stato osservato essere presente anche durante la fase REM del sonno (il momento del sogno). In questo caso un effetto benefico dell’EMDR potrebbe essere connesso al sollecitare questo tipo di movimento. Questa ipotesi trova poca credibilità soprattutto visti i risultati clinici ottenuti da altre forme di stimolazione bilaterale, come i tamburellamenti sulle ginocchia.
  4. L’ipotesi dell’esposizione immaginativa, che assimilerebbe la tecnica a quella di “desensibilizzazione espositiva” (che viene usata per trattare i disturbi di natura fobica): esponendoci progressivamente alla nostre paure, il potere i quelle immagini hanno su di noi, progressivamente cala. L’EMDR in questo caso sarebbe una sorta di evoluzione di questa tecnica, essendo meno guidata dal terapeuta, più libera e flessibile.

In questo studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry (http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0103676), viene effettuata una meta-analisi (cioè una ricapitolazione di altre analisi) riferita agli studi scientifici che, a partire dal 1991 fino al 2013, hanno indagato l’efficacia della tecnica EMDR a riguardo dei sintomi cosiddetti post-traumatici (conseguenti, per l’essere umano, a traumi gravi come cataclismi, abusi, incidenti mortali, etc.). Altri studi, come quello pubblicato sulla rivista Frontiers of Psychology del 2017,(https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5623122/), illustrano una review degli studi fatti fino ad ora nell’ambito dell’applicazione clinica dell’EMDR, su pazienti con problematiche diverse. Qui viene in particolare evidenziato come l’uso di questa pratica produca miglioramenti nei pazienti che presentano un aspetto post-traumatico nell’ambito di un altro quadro diagnostico (per esempio pazienti bipolari o psicotici, questi ultimi da sempre ma senza una reale ragione clinica esclusi dall’applicazione di EMDR-si veda: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25607833), ad eccezione dei pazienti affetti da DOC (ossessivo-compulsivi), ambito clinico non ancora esplorato in relazione all’uso di EMDR.

I risultati parlano chiaro evidenziando un’efficacia che è a tutt’ora sapere comune nella società psichiatrica e psicoterapeutica, ma di cui non si capiscono fino in fondo le ragioni scientifiche, e quale delle ipotesi prima elencate sia la più plausibile. La questione resta quindi aperta.

Un articolo inglese che approfondisce molto e con cura l’argomento, si trova qui: http://jep.textrum.com/dl_art.php?art_id=113. Per ulteriori approfondimenti: http://emdr.it/.

Article by admin / Generale

4 December 2017

PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO

di Raffaele Avico

Lo stress post traumatico (PTSD) potrebbe essere genericamente definito come un insieme di sintomi che si presentano nel periodo conseguente un trauma (unico e grande, o minore ma ripetuto), tra cui problemi di insonnia, flashback vividi in cui ci si trova mentalmente immersi nel ricordo o scena traumatica, e una serie di sintomi riguardanti il corpo e le ripercussioni somatiche del rivivere le memorie traumatiche (ricordi che, usando una terminologia informatica, divengono embedded, incarnati).

UN VIDEO ESPLICATIVO

In questo breve video filmato negli Stati Uniti, è stato fatto un tentativo di rappresentare in soggettiva quello che significa attraversare un PTSD:

In questo caso la ragazza, che è anche la regista del video ed essa stessa affetta da PTSD, racconta di essere stata vittima di un episodio di revenge porn (video a contenuto erotico diffuso in rete per vendetta) da parte dell’ex compagno. Da qui le ripercussioni in senso post traumatico.

SINTOMI

Nel filmato sono ben rappresentati alcuni dei più comuni sintomi del PTSD:

  1. incubi vividi (e risveglio precoce)
  2. pensieri intrusivi (che si presentano cioè contro la nostra volontà) che in questo caso hanno forma di immagini di commenti letti ai video postati in Rete dall’ex-compagno: la lettura dei commenti aveva innestato una memoria traumatica
  3. il senso di mancata permanenza nel momento presente, con la difficoltà a concentrarsi su quelli che, nel qui ed ora, sarebbero i compiti a lei assegnati (dopo pochi secondi, non ricorda ciò che deve fare, la memoria e la coscienza stessa assumono una forma frammentata, intermittente: in alcuni momenti è presente a sé stessa, in altri la mente viene risucchiata dall’accesso post-traumatico, portandola al mondo interiore traumatizzato e distaccandola a forza dal presente). Questo ha la conseguenza di renderle difficoltoso e impegnativo portare a termine un compito (il momento in cui la compagna le chiede per esempio per quanto tempo abbia lavorato su una singola e-mail)
  4. la ragazza non riesce a vivere nel momento presente: è più forte il pensiero che torna alla “questione” traumatica (il frangente in cui parla tra sé e sé chiedendosi quante persone abbiano visto il filmato: è necessario che le amiche la chiamino con foga per riportarla “sulla terra”, tanto è forte il potere ipnotico e seducente del disturbo, che attira sempre l’attenzione su di sé)
  5. iper-acusia: i suoi nervi sono accesi, ipervigili: sente i rumori come forti e violenti; percepire i rumori come disturbanti e troppo forti è un sintomo di stress che troviamo anche in assenza di un vero e proprio PTSD
  6. il momento del contatto con un uomo (un semplice passante) si trasforma in una potenziale minaccia: la ragazza si prepara a scappare e difendersi. La mente della ragazza appare costantemente impegnata nel prevenire un potenziale attacco da parte di un predatore: si mantiene come in un continuo stato di allarme, che precipita infine in uno stato di insonnia con cui si conclude il filmato.

UN APPROCCIO INTEGRATO

Per ridurne l’impatto sulla vita, è opportuno per la persona affrontare un percorso di psicoterapia integrato, quando necessario, a un approccio farmacologico mediato dalla figura dello psichiatra.

 

Article by admin / Generale

4 December 2017

FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO

di Raffaele Avico

Articolo originariamente pubblicato per La Stampa Web: http://www.lastampa.it/2017/11/27/scienza/benessere/flashbulb-memories-i-ricordi-traumatici-scolpiti-nella-nostra-mente-che-ci-condizionano-la-vita-waX2T5DsbhLLNIxpw3LyaN/pagina.html

Un termine che usano gli psicologi clinici per descrivere le memorie traumatiche, è “flashbulb memories“. Per flashbulb memory si intende un particolare tipo di ricordo bizzarramente vivido, che rimane nella memoria come intaccato dal tempo. Le flashbulb memories stazionano nel flusso dei ricordi come pietre dure, senza che la mente riesca a svuotarle del loro potere attivante su di noi nel momento del loro affaccio alla coscienza. Facciamo un esempio concreto: ricordiamo le dure parole di un nostro professore che ci umiliò in classe per un comportamento da noi tenuto in un determinato momento. L’avvampare della vergogna e il senso di mortificazione prodotto da un rimprovero così bruciante da parte di una figura per noi autorevole, è il momento dell'”immagazzinamento” di un ricordo traumatico che anni dopo potremo scoprire vivido e attuale in noi, come fosse successo ieri. Questo è tipico delle memorie traumatiche: ricordiamo il luogo in cui quel determinato evento ci capitò, l’emozione che ci suscitò, come reagimmo, etc. La cosa sorprendente è che, magari anni dopo, nel rievocare questo ricordo, ci potrà capitare di sperimentare le stesse identiche sensazioni ad esso correlate.

RIVIVERE IL TRAUMA

In psicotraumatologia è popolare affermare che “il trauma non viene ricordato, ma rivissuto”. Questo è un dato osservato in relazione al corpo: è il corpo infatti il teatro in cui quella scena madre/traumatica si riattualizzerà. Nel momento in cui cioè si affaccerà alla memoria quel ricordo, sarà il corpo a reagire per primo, “alterandosi” in senso difensivo (ricordiamoci che il trauma è percepito come una minaccia reale alla vita) e preparandosi ad un’eventuale risposta (osservando gli animali, gli etologi hanno osservato che in questi momenti ci prepariamo a due tipi di risposta, ovvero a una risposta di fuga oppure, quando questa non è possibile, a un attacco). Il corpo si prepara alla risposta e il cuore accelera, il respiro si fa più corto, la circolazione del sangue cambia –sentiamo mani e piedi freddi, etc. Rivivere il trauma significa ri-sperimentare in definitiva quello che vivemmo all’epoca, senza che il tempo ci sia stato d’aiuto nell’elaborare la potenza di quell’episodio e del suo ricordo.

GLI INDIZI/I TRIGGER  E IL LORO EVITAMENTO

Ma quali sono i momenti in cui il ricordo di un determinato episodio per noi traumatico si affaccia alla coscienza? Gli “indizi” che ci ricordano del nostro trauma vengono chiamati trigger (“grilletto”) e li troveremo sia fuori da noi, che dentro di noi. Sempre per stare sull’esempio, capita di osservare come chi voglia sfuggire al ricordo di una relazione passata e finita male, decida per un po’ di evitare determinati luoghi, o di togliere da casa certe fotografie, etc. Questo è perchè vuole nascondere dalla vista i trigger che gli innescheranno il “turbamento” legato al trauma prodotto dalla relazione finita. Questi sono indizi “grandi”, visibili: sono richiami eclatanti; pensiamo però ai “micro” indizi che hanno il potere di rievocare in noi il nostro personale trauma: potrà essere la sfumatura nella voce di una persona che conosciamo che ci riporterà ad altre persone o situazioni, un atteggiamento di qualcuno a ricordarci qualcuno che ci manca, per esempio, o di cui abbiamo avuto paura.

I trigger sono potenzialmente molti, e li troveremo in ciò che ci circonda ma anche dentro di noi. Anche solo immaginare “quel determinato frangente”, per esempio, può rappresentare per chi abbia subìto un trauma un forte attivatore. L’evitamento è dunque non solo esterno, ma anche interno (per questo si parla di “fobia degli stati interni”: cercherò dentro di me di evitare di posare il mio pensiero su certi contenuti; il risultato è in definitiva l’indossare una sorta di paraocchi interiore, evitando attivamente certi contenuti).

IL MODELLARSI DELLO STILE DI VITA

E’ chiaro quindi come nel tempo, l’evitare i trigger e fronteggiare lo stress post-traumatico (di questo si tratta), conduca a un rimodellamento dello stile di vita fino a una compromissione della libertà individuale quotidiana. Per questo si dice che spesso il trauma segna un prima e un dopo: diviene uno spartiacque tra due stili di vita diversi.

Il film di Roberto Faenza “I Giorni dell’abbandono” descrive bene queste dinamiche e questo senso di rottura. Così come descritto nel film, occorrerà attraversare la tempesta post-traumatica armandosi di pazienza e coraggio. Genericamente le indicazioni cliniche più recenti suggeriscono di approcciare la problematica a partire dal corpo. Perché? Il trauma è un momento in cui il nostro corpo vorrebbe agire, ma è impossibilitato a farlo. E’ quindi come se il corpo fosse immobilizzato nella sua “tendenza all’azione”. A differenza degli animali, che sanno scrollarsi di dosso lo spavento e il trauma subìto senza conservarne memoria duratura, l’uomo non riesce a farlo e rimane per lunghissimo tempo memore della devastante esperienza, ed è come se fosse il corpo a ricordarsene (qui un approfondimento autorevole: http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/j.2051-5545.2010.tb00254.x/full).

Fronteggiare lo stress post traumatico passando dal corpo è una via caldamente promossa dagli psicoterapeuti che usano una pratica chiamata sensory-motor e di cui consiglio, per chi fosse interessato, il recente lavoro -molto completo- di Pat Ogen  e Janina Fisher “Psicoterapia Sensomoria”. Una psicoterapia fondata sui metodi della CBT (cognitive behavioral therapy) e un supporto farmacologico per stabilizzare i sintomi più invalidanti, consentiranno poi di accedere alle memorie traumatiche per poterle destituire del loro potere “attivante”. Lo sport praticato in modo costante aiuterà, insieme al resto, a “svincolare” il corpo.

Article by admin / Generale

4 December 2017

NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI

di Matteo Respino

articolo originariamente apparso su Psychiatry Online: http://www.psychiatryonline.it/node/7064

In tempi recenti si è assistito all’emergere di un nuovo approccio allo studio delle malattie mentali chiamato Research Domain Criteria o RDoC (Insel, 2010), promosso in USA dal National Institute of Mental Health. Esso si costituisce come una rete di ricerca con lo scopo di integrare dati provenienti da diverse linee di studio (dalla genomica alle neuroimmagini, senza dimenticare la ricerca clinica in senso stretto) ed in tal modo di “comprendere meglio le dimensioni di base del funzionamento sottostante lo spettro completo dei comportamenti umani dal normale al patologico” (NIHM, RDoC). Questo approccio si propone, in lungo termine, di fornire degli elementi di precisa caratterizzazione fisiopatologica di quegli elementi clinici, notoriamente transnosografici, che caratterizzano le malattie mentali per come le conosciamo e classifichiamo oggi.

In tal senso l’attuale sistema nosografico, ovvero il DSM-5 (APA, 2013), non sarebbe che “un ponte” tra i precedenti sistemi (categoriali) e quelli venturi, i quali si proporranno di identificare, enucleandoli, elementi clinici transonografici che siano “sufficientemente” validati dalla conoscenza dei loro fondamenti fisiologici e fisiopatologici. Per quanto tale obiettivo appaia lontano ed il DSM-5 sia ancora molto più vicino ai precedenti sistemi di classificazione nosografica piuttosto che a quelli futuri, il progetto RDoC sembra porsi come il primo, concreto passo in tale direzione. La spinta in tale direzione si accompagna ad un’eccitazione immaginaria che nel mondo accademico é palpabile, e che mi sembra legata, piu’ che a fantasie scientiste su scoperte di schizococchi a venire, ad una (quantomeno in parte) genuina curiositá su “quel che verrá”. In fondo, anche Jacque Lacan affermava che la fantascienza va considerata una scienza seria. Il fatto è che, in questo caso, tali cambiamenti sono letteralmente all’orizzonte: se ne vedono, pur in controluce e sfumati, i contorni, e con la creazione degli RDoC si sta compiendo un passo importante in tale direzione.

La prospettiva degli RDoC si basa su tre assunti:

  1. Le malattie mentali sono malattie del sistema nervoso centrale. A differenza delle patologie neurologiche, che si caratterizzano solitamente per la presenza di lesioni identificabili di certe aree cerebrali, le malattie mentali possono essere considerate come perturbazioni, più o meno strutturali e transitorie, di intere “reti neurali”. La dialettica neurologia-psichiatria ha interpretato queste due diverse prospettive come separate, specialmente nel corso dell’ultima parte del Novecento. Queste prospettive sono anche state chiamate rispettivamente “segregationist” e “integrationist”. A partire dall’Ottocento la prima prospettiva ha del tutto prevalso (dall’ “area di Broca” alla sostanza nera della malattia di Parkinson), in parallelo ad un avanzamento delle conoscenze di fisiopatologia che ha riguardato specialmente la neurologia. Viceversa, la psichiatria è sembrata “in attesa” di un paradigma solido su cui fondarsi  e che le consentisse di affrontare la maggiore complessità dei suoi fenomeni d’interesse, rimanendo pertanto in balia di ogni moda passeggera. Dai primi anni duemila la prospettiva integrationist si è giovata dello sviluppo di tecniche sempre più raffinate di neuroimmagini, e più in generale di avanzamenti in modelli computazionali, che hanno consentito l’avvio dello studio dei “circuiti cerebrali”, complesse strutture con funzioni fisiologiche altamente flessibili e dinamiche. Quest’ultimo approccio vede il sistema nervoso centrale come un potente strumento di computazione, altamente flessibile e (neuro)plastico: una prospettiva che consente di affrontare la complessità della psicopatologia sul piano sia speculativo che sperimentale. In tale, specifica direzione si muove anche il cosiddetto Human Connectome Project, volto a delineare le specificità del “connettoma” umano e comprenderne i molti livelli organizzitivi (NIH, 2009).
  2. La prospettiva degli RDoC assume poi che le disfunzioni dei circuiti cerebrali possano essere identificate con strumenti a nostra disposizione, quali ad esempio l’elettrofisiologia e la risonanza magnetica funzionale.
  3. Viene assunto infine che l’integrazione di dati provenienti dalla genetica e dalle neuroscienze cliniche porteranno a identificare delle biosignatures, delle tracce biologiche altamente replicabili che aiuteranno la psichiatria nella gestione clinica, reale dei pazienti.

Nel contesto dell’approccio proposto dal progetto RDoC, lo studio delle reti neurali è supposto progredire in due possibili direzioni (Insel, 2010): “verso l’alto”, ovvero da anomalie nei circuiti neurali a variazioni cliniche rilevanti, e “verso il basso”, da anomalie nei circuiti neurali alle varianti genetiche e molecolari che sottostanno allo sviluppo e alle funzioni dei circuiti stessi. Le reti neurali, quindi, intese come un fenotipo intermedio situato tra molteplici fattori di vulnerabilità/protezione (genetici, ambientali precoci, relazionali, sociali) ed i comportamenti.

In tutto ciò, che spazio rimane per la “soggettività”?

Credo che pur nel suo fondarsi sui concetti di empirismo, verificazionismo e logica, il progetto RDoC e la psichiatria in generale debbano tenere conto dell’esperienza soggettiva, intesa come parte consistente ed ineludibile dell’analisi conoscitiva operata dallo psichiatra reale. Voler conciliare gli RDoC con l’esperienza soggettiva sembra essere un’operazione difficile, quasi come quella di voler conciliare filosofia analitica e filosofia continentale. Una possibile strada è pensare che esistano due diverse soggettività: 1) la soggettività come dato “soggettivamente esperito”, che sembra essere al di là delle possibilità del linguaggio e pertanto totalmente inaccessibile al discorso scientifico. Questa soggettività si avvicina al concetto di “qualia” (ovvero i “modi in cui ci sembrano le cose”) descritti dal filosofo Daniel Dennett (Dennett, 1988), che sarebbero ineffabili (relativi solo al soggeto che li esperisce), intrinseci (elementi semplici, non riducibili), privati (relativi solo al soggetto che li esperisce e quindi non paragonabili a quelli esperiti da altri) e apprensibili direttamente (esperienze immediate della coscienza). Questa “visione da dentro” sembra sfuggire in ogni modo ai tentativi di colonizzazione da parte della neuroscienza. 2) Soggettività come amalgama di affetti (dall’affetto di base dell’ “esserci” a sentimenti maggiormente complessi e, nel caso della nostra specie riportabili, in una certa misura, a mezzo del linguaggio. Come affermato da Solms e Panskeep (2012), “comprendere le funzioni cognitive superiori richiede strategie che investano anche un approccio neurofenomenologico. Il cervello umano ha la capacità di generare dei self-reports sui propri stati soggettivi interni, reports che sono evidenze uniche sul’organizzazione della mente” (Solms & Panksepp, 2012).

In quest’ultima direzione si orienta la “neuropsicoanalisi”, o “metaneuropsicologia”, che nel rispetto del rigore metodologico dell’empirismo si propone di “comprendere la mente umana, specialmente nella misura in cui si parla di first-person experience” (Solms & Panksepp, 2012).

Forse non sarà possibile delineare in tabelle e grafici tutta la sfera della soggettività, ma in fondo nessuno sano di mente ambirebbe a tale risultato. Viceversa, sostanziare il nostro lavoro clinico con elementi transnosografici che siano scientificamente validi (riproducibili, prevedibili), come anche dettagliare i meccanismi con cui si sviluppano e deperiscono le reti neurali che sostengono lo sperimentare soggettivo di certi affetti, sembrano oggi obiettivi sostenibili.

BIBLIOGRAFIA:

APA. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders: DSM-5. Washington, D.C: American Psychiatric Association.

Dennett, D. C. (1988). Quining Qualia. In A. Marcel, & E. Bisiach (A cura di), Consciousness in contemporary science (p. 44-77). Oxford: Clarendon Press.

Hahn, H., Neurath, O., & Carnap, R. (1979). La concenzione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna. (A. Pasquinelli, A cura di) Roma-Bari: Laterza.

Insel, T. C. (2010). Research Domain Criteria (RDoC): toward a new classification framework for research on mental disorders. American Journal of Psychiatry(167, 748-751).

NIH. (2009). Human Connectome Project. Tratto da http://www.humanconnectomeproject.org/

NIHM RDoC. Tratto da https://www.nimh.nih.gov/research-priorities/rdoc

Solms, M., & Panksepp, J. (2012). What is neuropsychoanalysis? Clinically relevant studies of the minded brain. Trends in cognitive sciences, 16(1), p. 7-8.

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4 December 2017

JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016

di Matteo Respino

Autore: Massimo Recalcati

Recensione originalmente pubblicata su Psychiatry on line Italia

http://www.psychiatryonline.it/node/6096

INTRODUZIONE

Il celebre filosofo e psicanalista sloveno Slavo Zizek ha recentemente tenuto una lezione sulla teoria dei quattro discorsi di Jacques Lacan, di cui è possibile prendere visione sul canale Zizekian Studies, su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=PMZRdahvMuA). In tale occasione il filosofo racconta un aneddoto dalla grande forza chiarificatrice, condito dal suo stile immancabilmente irriverente, che ben introduce alla prospettiva sulla quale si fonda il lavoro scientifico-letterario di Massimo Recalcati, con particolare riferimento all’opera in oggetto. Tale fondamento è un concetto che il Lettore dovrebbe avere chiaro per non cadere nei fraintendimenti su cui si basano alcune delle critiche allo stile dell’Autore, nonché per procedere alla lettura del testo consapevole di ciò che lo attende.


Zizek racconta il privilegio di cui poté avvalersi partecipando in prima persona, all’inizio degli anni ’80, ad alcuni seminari settimanali tenuti da Jacques-Alain Miller_l’unico lettore_di Lacan, come Lacan stesso lo nominava, nonché maestro e riferimento teorico di Recalcati durante la sua formazione parigina. Zizek si pronuncia così, in riferimento alla lettura del testo lacaniano Kant avec Sade:


“This was the miracle of Miller: you read the page, you understand nothing. Then you listen to Miller for two hours and it becomes so transparent […] Why was I so stupid? Everything is self-evident […] He is the only absolute pedagogical genius that I know. Lacan was happy to have him because […] Miller made Lacan readable.”

Un “genio pedagogico”, così Zizek inquadra il cuore del lavoro di Miller, ovvero “rendere Lacan leggibile”. E’ su questa linea di pensiero e di lavoro che si può e si deve inquadrare lo sforzo di Recalcati, che in tale prospettiva raggiunge l’apice con questo Volume dando al testo il carattere di pietra miliare del suo lavoro. Il “miracolo” di Miller, come lo chiama Zizek, diviene qui, traslato, il “miracolo” di Recalcati: articolandosi lungo un asse duplice di decifrazione e di sistematizzazione del pensiero clinico di Jacques Lacan, improvvisamente “everything is self-evident”. L’insegnamento del grande psicoanalista francese appare chiaro nel suo rimandare ad una verità che non è universale, ma soggettiva. I concetti della sua produzione divengono più che leggibili, divengono comprensibili, in molti passaggi semeioticamente e clinicamente concreti. Più di tutto, divengono trasmissibili: lo stile di Recalcati non si limita a favorire l’introiezione di contenuti grandemente complessi, ma ne sostiene la ritenzione e la trasmissibilità. Contenuti che si spostano dal contesto elitario delle società psicoanalitiche agli “addetti ai lavori”, ovvero coloro che lavorano nella clinica istituzionale, e ad una parte di “non addetti” appartenenti alla cultura borghese di centro sinistra. Questa diffusione è un fatto, come lo è il ruolo primario di Recalcati e delle sue Opere nell’avere determinato questo cambiamento radicale del lacanismo in Italia.
Ciò accade peraltro senza la pretesa, e ad essere onesti nemmeno la possibilità, di produrre una sostituzione dei Seminari o degli altri Scritti di Lacan.


L’opera dello psicoanalista francese rimane infatti un unicum insostituibile, fenomeno in grado di trasmettere un sapere “bucato” che incarna, con il suo insegnamento, il linguaggio come “muro”, come evento di separtition, come struttura che separa il soggetto between something and nothing, che evoca l’amore del transfert e rimanda metonimicamente ad un Desiderio Altro. Fare innamorare del desiderio di verità (la verità del soggetto) è l’effetto del transfert indotto dal soggetto-supposto-sapere Jacques Lacan come lo dovrebbe essere quello del dispositivo analitico, in una coincidenza di funzione che giustifica la natura testimoniale di Lacan psicoanalista, insegnante, clinico.
Pur con tutti i dubbi storiografici del caso, Zizek sostiene che Lacan fosse felice di Miller “unico lettore”, di Miller che dà corpo alla lingua (straniera) del suo insegnamento e che aiuta gli allievi ad apprenderne i fondamenti.  Da allievo, sostengo che lo stesso valga per lo stile di Recalcati, e che sia esattamente questo il merito maggiore del suo lavoro. Ma tornerò su questo punto in conclusione.

ASPETTI GENERALI DEL TESTO

Con quest’ultima, attesa opera Recalcati conclude il dittico esordito nel 2012 con “Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione”. Se la prima parte approfondiva il contesto ed il contenuto teoretico del lavoro del grande psicoanalista francese, il passo compiuto con questo secondo Volume è nella direzione, fondamentale, del consentire al Lettore la possibilità di incarnare l’immane corpus teoretico del pensiero di Jacques Lacan nelle membra vivissime, cocenti, della Clinica. E’ questo il perno centrale dell’Opera, come sottolinea l’Autore introducendola: 

“Il rigore dell’insegnamento di Lacan […] raggiunge indubbiamente il suo vertice nel ripensare e aggiornare rigorosamente la clinica della psicoanalisi. Questo rettifica immediatamente un luogo comune: Lacan-filosofo, Lacan-intellettuale, Lacan-topologo, Lacan-linguista, Lacan-scrittore, Lacan-pensatore stravagante. Egli è stato prima di tutto uno psicoanalista che passava le sue giornate a ricevere pazienti afflitti dai sintomi più diversi […]”. 


Il nodo della centralità della Clinica percorre tutto il testo, dal primo all’ultimo capitolo, sostenuto dall’integrazione sistematica della lezione teorica con un numero poderoso di casi clinici: dai più noti di Freud e Lacan fino a casi clinici di altri Autori postfreudiani o dello stesso Recalcati.
Appare poi utile sottolineare altri aspetti generali, alcuni trasversali alla struttura dell’Opera: l’approccio logico-didattico, il taglio cronologico, il (ri)ritorno a Freud, l’inquadramento storico-filosofico e il confronto con la critica post-strutturalista, il rapporto e la differenza con la psicoanalisi postfreudiana, la dialogica e la distinzione dal discorso medico. Andiamo con ordine:

  1. Lo scheletro dell’Opera si articola con un approccio più logico che cronologico, sebbene anche quest’ultimo non manchi ed anzi, assuma una posizione trasversale al testo (vedi punto 2). La logica seguita dall’Autore è riassumibile come una descrizione sistematica a scopo didattico. Si sviluppa dalla visione del “bambino lacaniano”, segue nella disamina delle principali organizzazioni patologiche della clinica psicoanalitica e culmina nei due capitoli finali, nucleari sul piano pratico, che propongono l’insieme dei suggerimenti che Lacan ha trasmesso circa la pratica della psicoanalisi e la direzione della cura.

  2. Il taglio cronologico del testo si delinea come puntuale ricorrenza nel riportare lo sviluppo di determinati concetti alla biografia del pensiero di Lacan, aiutando il Lettore ad orientarsi, appunto cronologicamente, nell’evoluzione storico-biografica che ha avuto sviluppo nei decenni del suo insegnamento. Un esempio su tutti, a cui potrebbero seguirne molti altri, è l’evoluzione del concetto sovrano del pensiero di Lacan, il Desiderio: il testo non manca infatti di rimandarne con costanza allo sviluppo intercorso negli anni. Da Funzione e Campo  e la dialettica intersoggettiva del desiderio come desiderio dell’Altro, come “desiderio di riconoscimento”, per arrivare al La Direzione della Cura con il desiderio come “pura metonimia” e infine al Seminario VII con il desiderio come “desiderio di Altra Cosa” e l’introduzione del concetto di jouissance.

  3. Fin dalle prime pagine, complice la trattazione dello sviluppo psichico del bambino, l’Autore riprende elementi centrali della psicoanalisi freudiana, quali la distinzione tra Istinto e Pulsione, la struttura perverso-polimorfa del bambino ed il concetto fondante di Rimozione. Lo stile con cui questi concetti vengono riletti è quello del “ritorno a Freud” inaugurato da Lacan e non manca della stessa sistematicità che l’Autore dedica all’insegnamento dello psicoanalista francese. La rilettura lacaniana del testo freudiano accompagnerà il Lettore per tutto il testo, tanto nei nodi coincidenti quanto negli sviluppi inediti.

  4. Recalcati, da didatta, non dà per scontate quelle nozioni pertinenti l’idealismo tedesco, l’esistenzialismo ontologico e lo strutturalismo da cui Lacan ha sviluppato il proprio lavoro. Hegel riletto attraverso Kojeve, Heidegger, Sartre e de Saussure trovano quello spazio sufficiente di trattazione che consente tal Lettore, non necessariamente in confidenza con la storia del pensiero, di comprendere da dove arrivano i concetti alla base della psicoanalisi lacaniana. Altresì, sono numerose le occasioni in cui Recalcati riprende la critica dell’Antiedipo di Deleuze-Guattari.

  5. Un aspetto trasversale al testo è poi il confronto (critico) con elementi più o meno marginali delle altre scuole di psicoanalisi. Alcuni esempi sono il frequente riferimento alla distanza polare con la psicologia dell’Io ed il suo programma pedagogico-riabilitativo di colonizzazione e bonifica dell’Es da parte dell’Io, come centrale è la critica all’utilizzo del controtransfert come “sonda emotiva”, introdotto da P. Heimann e sostenuto da gran parte delle scuole postfreudiane. Non mancano i punti di contatto, quali l’intuizione di D. Winnicott delle sedute a tempo variabile, portata alle sue estreme conseguenze da Lacan o la vicinanza tra il concetto dell’analista senza memoria e desiderio di matrice Bioniana con quello freudiano di specchio opaco e di desiderio dell’analista come vuoto singolare concepito da Lacan.

  6. E’ con una costanza martellante che l’Autore ricorre a distinguere finalità e metodologia del discorso medico da quello psicoanalitico. La perseveranza di Recalcati su questo punto sembra voler eliminare nel Lettore ogni possibile dubbio su che cosa è e soprattutto su che cosa non è la psicoanalisi. Non una riparazione, non una restituito ad integrum, ma semmai, coniugando due delle definizioni usate da Lacan e riportate da Recalcati, un trucco per avere la possibilità di ricominciare. Il tentativo è certamente riuscito. In tal senso, unica porta aperta sul dubbio rimane quella contraddizione implicita che rende peraltro l’Opera tanto unica quanto preziosa, espressa dal tentare (con successo) una sistematizzazione didattica, “chiusa”, “positiva”, di un pensiero viceversa “aperto”, “negativo”, di un linguaggio manifestamente bucato come quello lacaniano. Non è forse questa la specificità dello stile dell’Autore? La mia idea è che questo sviluppo singolare del lacanismo tragga la sua forza espressiva e comunicativa (inedita) proprio dal fatto che in queste contraddizioni si esprime chiaramente una soggettività singolare, un desiderio autentico. Ciò a connotare la differenza tra il fenomeno Recalcati, che nel concreto sta diffondendo il lacanismo in Italia, e fenomeni tristi quali Verdiglione e affini, dove lo scimmiottare Lacan di alcune élite psicoanalitiche altro non è che il rimanere intrappolati in un transfert speculare-immaginario che, di certo, non ha granché contribuito alla conoscenza e alla diffusione della dottrina lacaniana nel nostro paese.

IL BAMBINO LACANIANO

In questa prima parte Recalcati ripercorre le tappe dello sviluppo del soggetto. A partire dalla sua costituzione eterodeterminata, situata nel campo dell’Altro, l’Autore si concentra su alcuni nodi quali il ribaltamento della visione postfreudiana dell’onnipotenza dell’infante, interpretata piuttosto come un totale assoggettamento ad un’onnipotenza che é viceversa dell’Altro, specificatamente materna. E’ la condizione oggettuale (bambino-oggetto, assujet, assoggettato) su cui si fonda ogni dipendenza. Allo stesso tempo l’Autore evolve il concetto di Edipo freudiano: prima che alla madre, il potere di assoggettamento è in mano al campo del Linguaggio, preliminare e strutturale l’esistenza umana. Ciò che “castra” è prima di tutto l’iscrizione del corpo vivente nelle leggi del linguaggio. Prosegue, riprendendo Freud, con una chiarificazione grandemente didattica tra istinto e pulsione, nonché con il concetto di bambino “perverso-polimorfo”, mostrando la persistenza di un residuato pulsionale anarchico, non iscritto nel linguaggio, che resiste a ogni tentativo di governo fallico. Segue la critica al concetto di “personalità genitale” intesa come ideale normativo e un’introduzione al concetto, fondante la clinica delle nevrosi, di Rimozione. La concezione del “bambino-fallo”, oggetto atto a completare il godimento materno, risulta determinante, in senso preliminare, al successivo approfondimento delle psicosi, intese come evento che si instaura alla mancanza del significante del Nome-del-Padre. Non solo, la descrizione del caso del piccolo Hans proposta nel testo mostra come il sintomo fobico si costituisca ad “argine simbolico”, a super-investimento di significazione-separazione, a paradigma simbolico, a difesa di un godimento materno altrimenti soverchiante. Oltre a questo “bambino-oggetto” piccolo (a), atteso dal soggetto dell’inconscio materno come colui che potrà colmarne la mancanza, Recalcati descrive poi il “bambino-sintomo” della verità familiare, di coppia, e conclude ricordando ai Lettori le diverse specificità della funzione paterna e materna.

LA CLINICA DELLE PSICOSI

Recalcati introduce la clinica psicoanalitica delle psicosi descrivendo i tre movimenti teorici a cui Lacan ha dato corpo occupandosi, sin dalla sua tesi di laurea, di questi fenomeni.

Il primo movimento intende la follia come cifra umana per eccellenza, come atto estremo di libertà nei confronti della schiavitù imposta dal programma della Civiltà e dal linguaggio come struttura. E’ una prospettiva “attiva”, una scelta etica, una “decisione insondabile”.

Il secondo movimento è, viceversa, quello dell’incatenamento del soggetto al linguaggio, della sua prigionia in un linguaggio che non gli appartiene. Questo essere “più parlato che parlante” si manifesta in relazione a un eccesso di attività del registro immaginario rispetto a quello simbolico, contesto che rimanda alle “nevrosi narcisistiche” freudiane.

Il terzo movimento ha invece a che fare con l’in-operatività del significante del Nome-del-Padre, per cui il simbolico, escluso dal soggetto, ritorna persecutoriamente “al soggetto” dall’esterno come un evento reale. E’ su questa dinamica che si basa la luminosa teoria lacaniana sull’allucinazione, intesa appunto come fenomeno di “ritorno” ed esaustivamente descritta nel testo. Di altrettanto valore clinico è poi l’argomentazione circa lo scatenamento delle psicosi, il ruolo in tale evento del “terzo” come agente che scompagina la compensazione immaginaria del soggetto e lo confronta con quella mancanza che c’è da sempre. Il valore clinico sta, qui, nell’accurata descrizione delle condizioni pre-psicotiche, a rischio, le cui caratteristiche di irrigidimento sul piano immaginario ricordano, come citato dall’Autore, le “personalità come se” di Helen Deutsch. Conclude con il contributo di Joyce alla concettualizzazione del Sinthomo come alternativa al significante del Nome-del-Padre nella tenuta del nodo Borromeo.


I capitoli che seguono descrivono nel dettaglio le tre principali formazioni di adattamento psicotico. La paranoia, descritta con il complesso ed esaustivo caso di Aimée, la cui formula è “tutto è segno”. Segno della certezza che abita il paranoico, il cui Io è irrigidito, congelato al punto inabilitare ogni possibile dialettica con l’Altro. Nell’antidialettica della “totale non-credenza” della propria responsabilità, l’Io paranoico vive il luogo dell’Altro come il luogo del godimento più maligno, una forza distruttrice che “mi guarda”, che “mi vuole”. Nell’identificazione con questo luogo dell’Altro maligno il paranoico si fa persecutore, agisce questo godimento. In tal senso, la descrizione del caso delle sorelle Papin e del loro omicidio appare come un contributo fondamentale alla clinica psicoanalitica delle psicosi e, più in generale, alla comprensione della natura dei crimini più efferati.
La schizofrenia, descritta come una psicosi caratterizzata da un difetto nello stadio dello specchio: il soggetto schizofrenico non accede all’immaginario, non beneficia dell’Ideale dell’Io, non struttura un’immagine completa, unitaria, positiva del sé, il quale rimane “a brandelli” (le corps morcelé), totalmente in balia di una spinta pulsionale originaria destrutturante e ingovernabile.
Nel caso della melanconia, Recalcati riparte dovutamente da Freud e dal suo lavoro Lutto e Melanconia, dove quest’ultima è descritta come un lavoro di anti-lutto legato all’identificazione pervicace del soggetto all’oggetto perduto, del quale rivive, fantasmaticamente, la relazione. E’ il “trionfo dell’oggetto”: il melanconico si identifica massicciamente all’oggetto perduto, rifiuta la vita per consentire alla “Cosa materna” di essere piena, completa. Reificandosi, il soggetto diviene reale, e ne assume le proprietà. Reificazione e rifiuto della vita spiegano molti dei sintomi tipici della condizione melanconica, dal rifiuto del cibo alla cacosmia all’atto suicidario, il ritorno definitivo nel reale.

CONCLUSIONE

Cosa caratterizza l’approccio di Recalcati ed emerge prepotentemente in quest’Opera è senza dubbio il rigore con cui l’insegnamento lacaniano viene organizzato in rapporto alla Clinica. Questa tensione positiva (positivista?) a strutturare un corpus di sapere solidamente organizzato, linneano, esprime tutta l’influenza della pedagogia e dell’educativa sul pensiero dell’Autore, non casualmente concentrato in alcune sue opere proprio sul ruolo dell’erotica dell’insegnamento. Inoltre, implicitamente, questa tensione evoca atmosfere legate alla più classica tradizione psicoanalitica, rappresentata dal lavoro, sistematico, di Freud con il suo Progetto di un psicologia nonché, mi verrebbe da aggiungere, dalla Psicopatologia Generale di Jaspers.

In un tempo in cui la psichiatria è dominata dal discorso scientifico al punto da rischiare una nuova forma, tanto speciale quanto grigia e triste, di analfabetismo lessicale ed emotivo, appare utile trovare una qualche forma di stratagemma o di trucco del linguaggio con cui trasmettere il sapere psicoanalitico a chi si trova dentro tale discorso e vorrebbe, in una certa misura, “imparare una nuova lingua”, coerentemente con le possibilità concrete di approcciarsi a tale Lezione. Queste “possibilità concrete” (tempo a disposizione e letture accessibili sarebbero sufficienti) appaiono oggi come gli unici presupposti plausibili per colorare lo scientismo del mondo psichiatrico, tanto nel contesto della clinica quanto in quello della ricerca, dei colori della parola, delle meraviglie del linguaggio e dei suoi buchi.


Nel giugno 2013 Recalcati tenne una lezione su “Lacan e la clinica della Schizofrenia” presso l’Ateneo di Genova, ed io, in qualità di specializzando in Psichiatria al primo anno di formazione, vi partecipai insieme a gran parte dei miei colleghi:

https://www.youtube.com/watch?v=NJzXB85_7k4

Al termine della lezione lo sconcerto era palpabile. Formati come medici e giustamente usi al discorso scientifico, pochi tra noi si sarebbero aspettati di rinvenire, in una lezione di psicoanalisi lacaniana, elementi di concretezza semeiotica e clinica. Ricordo nel dettaglio il commento di una collega: “Finalmente, spiegata è tutta un’altra cosa!”. Il Lettore che non abbia ancora approfondito il testo originale di Lacan per mancanza di tempo o di altro genere di possibilità, o quello in tutto o in parte scettico ma comunque desideroso di approfondire questa riflessione, si troverà facilitato dall’approccio sistemico qui adottato e, alla fine del libro, potrebbe trovarsi a pronunciare una o entrambe le seguenti: “Why was I so stupid? Everything is self-evident”  e “Finalmente, spiegato è tutta  un’altra cosa”. Ritrovarsi poi a traslare, anche solo marginalmente, questa teoria nella clinica, sarebbe la gioia di Kurt Lewin, che affermava: “There is nothing so pratical as a good theory!”

https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=PMZRdahvMuA

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4 December 2017

DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica

di Raffaele Avico

La delibera regionale 29 del settembre 2016, primariamente ideata per far fronte all’esigenza di un ridimensionamento in termini di spesa pubblica, e che impone perciò una revisione sostanziale della realtà psichiatrica regionale, ha suscitato perplessità tra gli operatori impegnati nel lavoro della Salute Mentale, in riferimento ad alcune questioni:

  • La delibera si pone come obiettivo principale un “riordino” e una riorganizzazione degli enti di erogazione di servizi psichiatrici nella Regione Piemonte, e si mostra a favore dei servizi “domiciliarizzati” (in questo senso, un servizio come lo IESA dell’AslTo3 -l’unico servizio citato per nome- ne risulta favorito: http://www.lastampa.it/2017/01/24/scienza/benessere/ospitare-un-malato-psichico-lui-torna-in-contatto-con-la-vita-la-famiglia-ottiene-mille-euro-K71KxdbtEjqycEyvySFqVI/pagina.html).

  • Domiciliare i servizi, portandoli “a casa” e “alle persone”, ha vantaggi sia economici (i pazienti domiciliarizzati costano meno) che socio-assistenziali; sulla scia di molteplici realtà europee (per esempio il servizio di welfare sanitario “polverizzato” sul territorio olandese), i servizi sanitari andranno nella direzione di una sempre maggiore capillarità sul territorio.

  • Il secondo obiettivo è costituito dall’esigenza di distribuire meglio i pazienti entro le strutture del territorio: è importante che un paziente in fase acuta venga ricoverato in una struttura adibita a tale scopo, e che poi venga dimesso; questo obiettivo origina da una lunga ricognizione e indagine (in appendice al testo della delibera) sulla tipologia di pazienti nelle diverse strutture, e dall’aver notato come i pazienti non sempre fossero “al loro posto” (per esempio pazienti acuti venivano trattenuti per troppo tempo dentro strutture deputate al solo periodo di crisi, di fatto creando confusione in termini di “chi deve fare cosa”).

  • Il messaggio generale è che “non arriveranno nuove risorse, occorre far funzionare meglio quello che già si ha”(questo in senso economico)

  • E’ stata creata una griglia di suddivisione delle strutture, al fine di meglio inserire i pazienti a seconda dei disturbi, con criteri specifici: questo per evitare, per esempio, che pazienti psichiatrici finiscano in una residenza per anziani (RSA).

  • A partire dall’emanazione della presente DGR, educatori e tecnici della riabilitazione psichiatrica dovranno possedere titolo di studio appropriato (non sarà più possibile quindi ri-convertire titoli “vecchi”, come potrà fare chi oggi lavora in struttura ed è assunto da almeno 2 anni)

  • Psicologi e laureati in scienze dell’educazione e della formazione potranno continuare a lavorare dove lavorano, purchè assunti da almeno 2 anni; dal momento dell’attuazione della presente DGR, potranno essere assunti rispettando un monte ore diverso e specificato in seguito. L’attuazione della DGR comporterà un aumento massivo delle ore erogate da parte di, in particolare, due sole tipologie di professionisti:

    a) educatori professionali

    b) tecnici della riabilitazione psichiatrica

  • Dal punto di vista delle strutture, la DGR configura due tipologie di intervento clinico: un intervento intensivo (legato a interventi più psichiatrico-infermieristici per pazienti in fase acuta, per esempio in crisi psicotica) e un intervento estensivo, per il quale è maggiormente rilevante l’aspetto di risocializzazione, rispetto a quello di riabilitazione.

  • Per le strutture a carattere intensivo, il monte ore totale settimanale prevederà:

    • Medico psichiatra: 38 ore a settimana;

    • Psicologo: 28 ore a settimana;

    • Capo sala: 20 ore a settimana;

    • Infermiere: 168 ore a settimana;

    • Pronta disponibilità infermieristica: 84 ore a settimana;

    • Educatore / Tecnico della riabilitazione psichiatrica: 160 ore a settimana;

    • Ausiliari (OSS): 168 ore a settimana.

  • Per le strutture a carattere estensivo invece, il monte ore totale prevede:

    • Medico psichiatra: 21 ore a settimana;

    • Psicologo: 15 ore a settimana;

    • Infermiere: 116 ore a settimana;

    • Pronta disponibilità infermieristica: 84 ore a settimana;

    • Educatore / Tecnico della riabilitazione psichiatrica: 168 ore a settimana;

    • Ausiliari (OSS): 145 ore a settimana

  • si riducono le rette giornaliere (con un massimo di 160€ al giorno), in funzione di un ridimensionamento di budget.

RIFLESSIONI

Come si nota dai quadri relativi al monte ore di ogni singolo professionista, pare che la DGR29 apra a un nuovo modo (che in realtà è vecchio) di fare psichiatria, aumentando l’apporto dei professionisti “sanitari” (tecnico della riabilitazione psichiatrica, OSS, infermiere), a scapito del personale specificatamente formato a offrire servizi/consulenze psicologiche

Cosa significa questo? Se immaginiamo un paziente con un disturbo di personalità grave, che entra in una struttura che lo accoglierà per un tempo sicuramente superiore a un anno, potremo figurarci che questo paziente accederà a un ventaglio di strumenti di cura nettamente inferiore a quello che, dal punto di vista clinico, potrebbe giovargli.

In ambito psicopatologico, gli interventi più efficaci e duraturi nel tempo si sono rivelati gli interventi multi – professionistici, con una struttura a rete. Tanto più il caso del singolo paziente è complesso e di difficile approccio, tanto più è richiesta un’equipe multi professionale che contrasti il sintomo psichico da più direzioni contemporaneamente. Questo vale in particolare nei casi poli-diagnostici, quadri clinici in cui coesistono molteplici disturbi(per esempio casi psico-traumatologici, casi borderline, casi di doppia-diagnosi, ecc.).

I fattori patogenetici dai quali si origina una sindrome psichiatrica/psicopatologica sono da ricercare in 3 ambiti differenti: l’ambito neuropsichiatrico, l’ambito cognitivo/psicologico, l’ambito relativo all’inserimento nella società/comunità di appartenenza. Un disturbo può originarsi in ognuno di questi ambiti, per poi estendersi agli altri territori. Chi abbia profonde difficoltà di inserimento sociale, può sviluppare sintomi psicopatologici di varia natura; chi abbia uno squilibrio transitorio in ambito neurobiologico (come succede nelle sindromi bipolari), può trovare grande difficoltà nell’inserirsi all’interno del contesto sociale.

Viene facile intuire come l’attuale DRG29 riporti la psichiatria pubblica a un modello maggiormente centrato sull’assistenza infermieristica coordinata dal personale medico, e come preveda il parziale sacrificio di alcuni altrettanto importanti strumenti nella lotta alla malattia mentale (gruppi terapeutici, psicoterapie strutturate, intensive e continuative, attività di riabilitazione basate sull’espressione creativa, possibilità di lavorare sulle “social skills”, percorsi di psicoanalisi): un passo indietro i cui effetti “concreti” andranno osservati nei prossimi anni, con l’adeguamento delle strutture regionali, costrette ad un’involuzione in termini di servizi erogati al paziente.

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2 December 2017

L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet

di Raffaele Avico

Nel corso del famoso Congresso di Medicina tenutosi a Londra nel 1913 Pierre Janet aveva profetizzato che il futuro della psicologia clinica sarebbe stato da ricercarsi nell’ambito della psicotraumatologia, ovvero nello studio delle ripercussioni che un trauma (singolo o cumulativo, cioè protratto e ripetuto nel tempo) produce sulla psicologia dell’individuo nel corso del suo sviluppo. Profezia precocissima, che al tempo fu oscurata e bollata come poco ortodossa da parte della Società Psicoanalitica del tempo, egemonizzata dalle teorie freudiane allora particolarmente in voga.

Le  tendenze più attuali relative alla psicologia clinica hanno confermato molte delle intuizioni che Janet aveva promosso nel corso di quel famoso convegno, a cui aveva fatto seguito il suo allontanamento dalla comunità scientifica e l’oscuramento delle sue teorie. Per un approfondimento consigliamo “La Psicoanalisi” di Janet stesso, la trascrizione del suo discorso in quell’occasione.

Le teorie di Janet sono attuali perchè rispecchiano un’idea di sofferenza mentale fondata sull’assunto di base che in un’ipotetica assenza di eventi traumatogeni, tutti noi si vivrebbe in modo pacifico e lineare, come placidi animali intenti a sopravvivere, e sopravvivere bene. La vita però mette alla prova già dagli inizi questa idilliaca pace, e ci troviamo quotidianamente ad affrontare problematiche più o meno complesse e più o meno protratte nel tempo. Crescere con una mamma violenta, o un padre affetto da sindrome bipolare o tossicodipendente, obbliga il bambino a compiere piroette adattative che in senso clinico rappresentano un miracolo evolutivo, un vero e proprio emblema dell’adattabilità dell’intelligenza umana al suo contesto. Continuando nel percorso della vita, tutti noi siamo costantemente potenzialmente soggetti a sviluppare stress post-traumatico, ovvero stress prodotto dal tentativo di far fronte a eventi di vita che ci stancano e di cui dobbiamo “gestire” le conseguenze.

Janet nel suo discorso riprende idee già sviluppate a fine ‘800 da fenomenologi e proto-psicologi dell’epoca, per esempio Moebius che addirittura nel 1888 aveva valutato l’ipotesi che i disturbi allora chiamati “isterici” non fossero altro che conversioni sul corpo di emozioni veementi collegate a precisi ricordi o a idee. All’interno del suo famoso intervento l’autore sostiene inoltre che per diventare “morboso”, un ricordo o una memoria traumatica debba germogliare su un terreno già predisposto, ovvero uno stato di “lassismo psichico” o di depressione. Secondo Janet sarebbe questo “abbassamento della tensione psichica” a creare i presupposti affinché un ricordo traumatico si impianti nella memoria in modo indelebile e duraturo.

Esiste secondo l’autore un meccanismo definito “doppia emozione”, ipotizzato per spiegare la patogenesi dello stress post-traumatico.  Dal suo punto di vista il paziente psicotraumatologico viene dapprima “colpito” da un avvenimento (anche solo mentale) che abbassa il suo livello di difesa psichica: in seguito incorre un secondo avvenimento -sempre traumatico- che dà origine all’idea “fissa”, cioè al ricordo traumatico intrusivo -di cui oggi spesso si parla. Janet compie un giusto paragone tra il meccanismo psicotrumatogenetico e ciò che avviene al corpo nel corso di un’infezione: non è la sola forza del virus a essere centrale nello sviluppo del disturbo, ma il terreno sul quale attecchisce, più o meno fertile (metafora per indicare lo stato generale dell’organismo nel momento della lotta verso la possibile invasione da parte di un virus).

Queste teorie furono da lui formulate nel 1913, anticipando di un secolo le questioni che attualmente vengono discusse e considerate alla base di molteplici meccanismi inerenti la patologia psichica. All’interno del libro “La psicoanalisi” è approfondita e sviscerata la matassa teorica portata da Janet a sostegno delle sue idee in ambito clinico, solo oggi veramente riscoperte nella loro plausibilità ed efficacia esplicativa.

L’esperienza clinica ci mostra quotidianamente l’esattezza delle intuizioni di Janet a riguardo degli “embrioni” di malessere psichico che sono le idee intrusive, ricorrenti, e le memorie traumatiche, che resistono dure e stazionarie al trascorrere del tempo nella mente del paziente.

E’ la gestione della loro comparsa, spesso, a produrre “stanchezza” (termine usato da Janet stesso) e sintomi genericamente definibili depressivi, sensazione di poco controllo sulla propria vita ed un’enorme ricaduta in termini di minor grado di libertà percepita (esistono filoni di pensiero che vedono la patologia psichica come relativa a quanto il paziente percepisca di avere libertà -e controllo- all’interno della propria vita; a minore quantità di libertà percepita, corrisponde un maggior grado di malessere sperimentato).

Janet aveva intuito che i sintomi intrusivi e le ossessioni post-traumatiche portassero il paziente a un rapido esaurimento emotivo connesso al senso di una completa impotenza, creandogli uno stato di “stanchezza” psichica foriera di ulteriori, potenziali innesti di memorie traumatiche, come all’interno di un circolo vizioso. Sarebbe stata infatti la debolezza psichica, la “stanchezza” appunto, a generare l’humus psichico fertile a nuove traumatizzazioni, essendosi indebolito, per usare una metafora usata da Janet stesso, il “sistema immunitario” psicologico in un momento di particolare fragilità del paziente.

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2 December 2017

PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)

di Raffaele Avico

La letteratura a riguardo dell’aggressività richiama a sè elementi di etologia, psicologia evoluzionista e Teoria dei Sistemi Motivazionali Interpersonali. L’ipotesi che entro ognuno di noi esista un istinto di morte, il freudiano Thanatos, è affascinante ma poco utile a una reale spiegazione di come funzioni, entro la specie umana, la spinta ad aggredire l’altro. In natura, ci insegna l’osservazione degli animali, esiste un’aggressività difensiva (destinata a sottomettere l’altro senza però ucciderlo) e un’aggressività predatoria (l’animale uccide l’altro per cibarsene). All’interno della stessa specie, quasi mai si verificano episodi di aggressività predatoria, tranne che per l’uomo.

La presenza di aggressività predatoria tra umani, la si osserva nei casi di psicopatia (il limite estremo dell’antisocialità: durante l’uccisione non è avvertito nè rimorso nè paura, come succede nei casi di aggressività a scopo difensivo, ma un senso di eccitamento e di soddisfazione per l’atto in sè).

Si discute molto a proposito di quello che potrebbe stare alla base di questi comportamenti predatori; in natura esiste un meccanismo di interruzione del comportamento predatorio, una volta che l”avversario” è sottomesso. Durante, per esempio, una lotta in termini di rango, quando l’animale dominante sottomette a sè un altro membro del branco, non lo uccide per istinto (poichè punta non a ucciderlo, ma a sconfiggerlo).

Solo nella specie umana si assiste all’uso di aggressività predatoria tra conspecifici, come se le leggi di natura fossero state, qui, “sospese”. Uno dei padri dell’etologia attuale, Konrad Lorenz, sostenne in modo molto acuto l’ipotesi secondo la quale lo sviluppo del cervello nell’uomo, il pensiero concettuale e la comunicazione verbale avessero derubato l’uomo della sicurezza che gli forniva l’istinto (come se l’evoluzione in termini cognitivi dell’uomo avesse slegato e “ingannato” l’istinto, non più trattenuto nella sua valenza utilitaristica).

Laddove si manifesta la mancata inibizione di un meccanismo di controllo dell’impulso predatorio, nell’uomo emergono quei tratti che lo rendono ai nostri occhi “psicopatico”, ovvero predatorio con i suoi conspecifici senza che ci sia colpa o rimorso.

Ciò che Giovanni Liotti, nel suo ultimo bellissimo lavoro (“L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali”, 2017), porta come ipotesi, è un deficit in termini di integrazione di parti diverse del cervello. Immaginiamo il cervello come composto da parti più antiche/profonde (più istintuali) e zone evolutivamente più nuove (come la neo-corteccia): nei casi gravi di psicopatia molteplici studi di neuro-imaging (tra cui http://www.jneurosci.org/content/jneuro/31/48/17348.full.pdf) descrivono un funzionamento cerebrale in cui le parti più antiche (istinto) sono direttamente collegate a quelle più nuove (ragionamento freddo), senza la mediazione del sistema limbico (affettività, contatto con l’altro). In altre parole è come se l’istinto si riversasse direttamente nel ragionamento, senza tenere i considerazione l’altro nella sua soggettività. Tutto questo si osserva anche nei bambini con problematiche di tipo autistico (che è una sindrome dell’intersoggettività): qui però sembra essersi mantenuto il senso di ciò che è giusto o sbagliato in termini etici (per esempio “non far soffrire l’altro”, “non torturare l’altro”, etc.).

Liotti inserisce tutto questo discorso nel quadro di uno sviluppo individuale altamente problematico e dove il trauma è un evento ricorrente.

Purtroppo allo stato attuale non si conoscono a fondo le ragioni sottese allo sviluppo di una personalità psicopatica, di fronte alla quale la psichiatria e la psicologia clinica si sono arrese, in passato, etichettandola come “non trattabile”.

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2 December 2017

LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD

di Raffaele Avico

CONTESTO

Le tecniche di brain imaging consentono di osservare in tempo reale le zone del cervello che vengono coinvolte durante particolari accadimenti. In questo studio del 2012 i ricercatorindagarono la gestione del contatto oculare e le conseguenza di essere sottoposti a uno sguardo “diretto” tra persone con e senza stress post traumatico (PTSD).

L’ARTICOLO

Lo stress post traumatico potrebbe essere genericamente definito come un insieme di sintomi che si presentano conseguenti a un trauma (unico e grande, o minore ma ripetuto), tra cui problemi di insonnia, flashback vividi in cui ci si trova mentalmente immersi nel ricordo o scena traumatica, e una serie di sintomi riguardanti il corpo e le ripercussioni sul corpo del rivivere le memorie traumatiche (ricordi che, per usare una terminologia informatica, divengono embedded, o incarnati).

In questo esperimento, che utilizzava un software con un avatar che volgeva uno sguardo diretto al partecipante, veniva in tempo reale osservata la risposta al contatto oculare diretto. Si osservava che i due gruppi avevano risposte diverse: nel gruppo senza PTSD veniva coinvolta una zona del cervello più recente ed evoluta, con cui rappresentiamo la mente dell’altro e ci mettiamo in connessione. Nel gruppo con i soggetti soggetti a PTSD, invece, si osservava l’intervento di zone più antiche e profonde, all’interno del tronco dell’encefalo, che si attivano solitamente in caso di pericolo di vita e minaccia.

L’attivazione di queste zone più profonde, tra l’altro, disconnette le altre parti del cervello che ci permettono di entrare in contatto con gli altri, rendendoci di fatto a-sociali nel senso più letterale del termine, ovvero “non in grado” di affiliarci e creare connessione agli altri.

Questo studio ben evidenzia come, per coloro che sopravvivono a un trauma o più traumi cumulativi, la gestione del contatto oculare può rappresentare un primo ostacolo verso la possibilità di introdursi all’interno di un gruppo di pari, di creare un legame. Quando anche solo uno sguardo diretto è in grado di allarmarci, poiché percepito come intrusivo e violento, la gestione del rapporto nel suo divenire (che dovrebbe avvenire in un contesto di sicurezza percepita e assenza di ansia), diviene problematico e difficoltoso.

Uno sguardo, per chi sopravvive a storie traumatiche, è in grado di riattivare vissuti di minaccia: viene caricato di significati che spesso non trovano giustificazione nella situazione presente, ma hanno senso se pensati come connessi a qualcosa di passato, antico e mai veramente elaborato e digerito in senso relazionale.

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2 December 2017

MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI

di Raffaele Avico

CONTESTO

E’ di pochi mesi fa la notizia di un importante documento rilasciato dalla comunità psichiatrica statunitense a riguardo dell’utilizzo della ketamina in psichiatria, in merito alla lotta ai disturbi dell’umore (depressioni gravi, disturbo bipolare, alterazioni forti del tono dell’umore non controllabili dall’individuo).

L’ARTICOLO

Il consensus statement è stato rilasciato, come si osserva a questo link (https://jamanetwork.com/journals/jamapsychiatry/article-abstract/2605202), su Jama Psychiatry, una rivista americana con fattore d’impatto scientifico alto, cosa che conferisce alla notizia rilevanza e dà un’idea di quello che potrà succedere nel prossimo futuro in ambito di “avanguardia” psichiatrica.

Il consensus statement consiste in una review completa e approfondita di ciò che la ketamina ha rappresentato in termini scientifici negli ultimi anni, nel contesto della lotta alle depressioni gravi e ad altri disturbi dell’umore a base organica, e potrebbe essere schematizzato per punti come segue:

  • è necessario fare un attento assessment e una selezione approfondita dei pazienti, per isolare i casi su cui un trattamento di questo tipo sia indicato (per questo è previsto che ogni paziente sia sottoposto a un pre-trattamento introduttivo e di preparazione)
  • la dose di ketamina da somministrare, secondo i dati raccolti fin’ora, è di 0,5 mg/Kg (calcolando i Kg però a a partire dal BMI, cioè l’Indice di Massa Corporea), con un’infusione endovenosa della durata di 40 minuti.

Essendo la ketamina foriera di possibili complicazioni cardiovascolari e respiratorie, è raccomandato che la somministrazione del farmaco avvenga sotto stretto controllo medico; nel consensus statement è inoltre chiarito che ci si debba preparare alla comparsa di sintomi transitori (della durata all’incirca di un’ora) di natura psicotico-mimetica o dissociativi (la ketamina è una sostanza che riproduce in modo fedele uno stato mentale “psicotico”, con sensazione di avere mente e corpo scissi, oppure di essere all’infuori del proprio corpo, etc.).

  • per quanto riguarda la frequenza del trattamento, 2 volte a settimana per un periodo fino a 4 settimane pare essere la soluzione migliore in termini di miglioramenti clinici osservati su pazienti categorizzati “gravemente depressi”, con una percentuale di risposta fino al 69%
  • la somministrazione prevede uno stretto monitoraggio di tutti i parametri vitali, prima, durante e successivamente all’infusione; è previsto che il paziente torni a uno stato di “normalità” dopo un certo tempo successivo al trattamento, e che venga accompagnato da una figura adulta di supporto nel caso debba allontanarsi dal luogo dell’intervento
  • la letteratura non contiene riferimenti a studi effettuati su un periodo superiore alle 3/4 settimane: nel consensus statement si raccomanda quindi di limitare al minimo l’uso di questo tipo di intervento visti anche i rischi in termini di possibili deterioramenti alle capacità cognitive (che andranno monitorate con il paziente nel corso del periodo di trattamento)

Nella parte finale dell’articolo, si richiede prudenza nell’allungare a più di 4 settimane il ciclo di trattamenti: allo stato attuale delle conoscenze, non si è in grado di prevedere quali potrebbero essere gli effetti sulla psiche del paziente in cura.

PROSPETTIVE

Le linee future, andranno quindi in direzione di un maggior numero di studi che indaghino gli effetti a lungo termine di questo tipo di intervento, andando oltre quindi l’entusiasmo per gli effetti positivi -definiti “robusti”- osservati a breve termine su pazienti che non rispondono a nessun altro tipo di trattamento (depressioni gravi). Sarebbe anche auspicabile, l’articolo conclude, la creazione di un registro da usare per raccogliere dati a proposito di questo nuovo ma promettente approccio.

 

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2 December 2017

IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN

di Raffaele Avico

A tutti è capitato di sperimentare come in alcuni momenti il nostro cervello sembri accelerare e farci prendere decisioni fulminee che non hanno a che fare con il ragionamento cosciente. Ci rendiamo conto che non tutto ciò che viviamo proviene dal ragionamento, non tutto è cognitivo: esiste un mondo di sensazioni ed emozioni che ci consente di approcciare la realtà in modo emotivo, non solamente in modo razionale. Una teoria che ci aiuta a fare chiarezza e a dare un senso a queste diverse velocità e modalità, è la teoria del cervello tripartito (o “trino”) formulata da Paul MacLean nei primi anni ’70, una “semplificazione accademica” (nelle parole di Panksepp) del funzioanamento del cervello, ma molto utile a fare chiarezza e a intuirne i meccanismi.

Essa trova le sue basi negli studi della psicologia evoluzionista (che cioè studia il comportamento dell’uomo a partire da ciò che in termini di evoluzione sia stato per lui più o meno utile). MacLean distingue tre parti del cervello, ognuna con funzioni distinte. Le tre parti funzionano in modo gerarchico, seguendo un principio chiamato di “principio di Jackson”: gli impulsi più basici vengono progressivamente raffinati e infine razionalizzati, “risalendo” dalle parti più antiche del nostro cervello fino alla neo-corteccia, più recente.

LA STRUTTURE

IL COMPLESSO RETTILIANO, che reagisce

La parte più antica dal punto di vista evoluzionistico è anche la più profonda in termini anatomici e viene definita “cervello rettiliano” dal momento che è paragonabile, per finalità e modalità di funzionamento, al cervello di un rettile. Si attiva nei momenti che ci richiedono massima velocità di esecuzione (per esempio nei casi di rischio di vita), non ci rendiamo conto di usarlo dato che è pre-cognitivo e funziona in termini relazionali secondo una logica di attacco/fuga (in inglese fight/fly), ovvero ci predispone a scappare o ad attaccare di fronte a un predatore (reale o immaginato). Quando ci troviamo in mezzo a una situazione di emergenza come un’aggressione o un incidente, è questa parte a essere coinvolta perchè ci consente di muoverci in modo molto più rapido, al limite della consapevolezza. Si nutre di impulsi, che non vengono modulati secondo un criterio di intensità: l’impulso o si esprime o resta silente.

IL SISTEMA LIMBICO, che sente

Procedendo verso la parte più esterna del cervello, esiste nella teoria di MacLean il “sistema limbico”, che si occupa di quello che concerne la nostra vita relazionale ed emotiva: ci permette di sentire emozioni e di provare sentimenti. Un bambino piccolo usa questa parte, provando emozioni e sentimenti, senza esserne totalmente consapevole. Il percorso di sviluppo di un essere umano ricapitola l’intero percorso evolutivo della specie: quando nasce, il bambino usa e risponde alle parti più antiche del cervello, per poi, crescendo, evolvere ed accedere a livelli più alti della coscienza e della consapevolezza. Il cervello di un ragazzo adolescente è prevalentemente limbico nel senso che, più che pensare, “sente” (e chi ha a che fare con gli adolescenti, di questo si rende conto).

LA NEO-CORTECCIA, che coordina

Proseguendo verso i livelli superiori e più recenti in termini di evoluzione, dell’anatomia del nostro cervello, MacLean illustra le proprietà della neo-corteccia, l’ultima in termini evolutivi e la sola che ci distingue realmente dagli altri mammiferi. La neo-corteccia ci consente di sapere di esistere, di impegnarci in progetti complessi e creativi che esulano dal semplice bisogno affettivo, riproduttivo o di sopravvivenza, e di dedicarci all’etica, alla filosofia, al ragionamento puro e astratto. Questa parte è la più recente in termini di evoluzione. Quando le cose funzionano bene, in modo integrato, coordina le attività delle altre parti e ne è allo stesso tempo impressionata: grazie alla neo-corteccia “razionalmente” possiamo inibire gli istinti o le pulsioni; allo stesso tempo ci accorgiamo di come il contenuto dei pensieri si moduli su quali emozioni stiamo sperimentando, a prova di quanto siamo suscettibili e perturbabili da ciò che “sentiamo”.

GERARCHIA

Il cervello funziona in modo gerarchico, secondo un principio attribuito agli studi del neurologo J. Hughlings Jackson, che teorizzò come le “funzioni mentali superiori” fossero gerarchicamente dominanti su quelle più istintive, e in grado di modularle “quando tutta va bene” (Jackson chiama Dissoluzione lo stato di mancato funzionamento delle funzioni mentali superiori -che coordinano-, con una dominanza di quelle inferiori).

Come prima si diceva, tuttavia, in situazioni peculiari è auspicabile e necessario che la neo-corteccia lasci il posto a livelli più istintivi di funzionamento, disattivandosi. Quando le funzioni sono integre e tutte accessibili, siamo nell’ambito del buon funzionamento psichico; dove c’è squilibrio e impossibilità a usare certe parti o difficoltà nel farlo (per esempio con una dominanza di razionalità -un uso prevalente della neo-corteccia-, o una forte impulsività fuori controllo -un utilizzo prevalente del cervello rettiliano), emergono difficoltà che si ascrivono all’ambito della psicopatologia.

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1 December 2017

IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA

di Raffaele Avico

Nella genesi di un problema di dipendenza, molteplici evidenze suggeriscono come sia implicato quello che viene definito circuito di reward (o “di ricompensa”). La dipendenza è figlia sia della psicologia in senso stretto, che della biologia.

Quando parliamo di circuito di ricompensa, parliamo di come funziona l’apprendimento umano. Apprendere dall’esperienza, per noi così come per gli animali, vuol dire rincorrere e ripetere quello che in noi produce sensazioni di gratificazione e benessere. Il nostro cervello, ogni qual volta sperimentiamo momenti di piacere (mediato dal cibo, dal sesso, dall’affetto, dal sentirsi a casa, ecc.), libera alcune sostanze che funzionano da rinforzo a quello stesso stimolo, rimarcandolo.

Questo circuito comprende alcune aree del cervello “profonde”, come il talamo e i gangli della base, e aree più recenti facenti parte della corteccia, come la corteccia prefrontale, unite in un meccanismo che trova il suo impulso centrale nel coinvolgimento del neurotrasmettitore dopamina (insieme ad altri). I primi studi inerenti il circuito di reward risalgono agli anni ‘50 per opera di Old e Milner, che osservarono come nei topi stimolare elettricamente alcune aree del cervello conduceva a risposte ripetute, ripetitive e “insistenti”: gli studi proseguirono a cascata e oggi siamo in grado di pensare non solo teoricamente, ma anche anatomicamente, la presenza di un circuito formato da reti neurali collegate che fa da sfondo ai comportamenti umani “intenzionali” e che riguardano la “ricerca di piacere” o la “ricerca di sensazioni”.

Per un approfondimento esauriente di tutte le zone cerebrali coinvolte nel circuito, consigliamo la lettura di questa review.

Nella genesi della dipendenza, c’è consenso sul fatto che sia centralmente coinvolta la dopamina. La spiegazione evoluzionistica, è che questa venga liberata al fine di procurare nell’individuo sensazione di piacere soggettivo e di “coinvolgimento sensoriale” (al di là di quale sia l’atto compiuto nella realtà esterna -l’assunzione di una sostanza, un rapporto sessuale consumato, un generico appetito, etc.-).

La dopamina produce senso di “intenzionalità”: quando aumenta la sua concentrazione nel vallo intersinaptico (lo spazio di comunicazione tra i neuroni del cervello), ci sentiamo più orientati ad “afferrare” la realtà, diveniamo più focalizzati su obiettivi specifici: è facile intuire come la ricerca spasmodica di una sostanza come la nicotina o l’alcol, possa essere in qualche modo connessa al livello di concentrazione, appunto, di dopamina.

L’IMPRONTA MNESTICA

Insieme a questo meccanismo di rinforzo neurochimico, nel provocare un meccanismo di “dipendenza”, è coinvolta la memoria, che imprime in modo potente l’esperienza “piacevole” nel ricordo del soggetto, per poterla in futuro ricercare e ricreare. L’evoluzione ci ha dotati di questo meccanismo per spingerci a ripetere esperienze per noi gratificanti, nella direzione del “meglio” per noi.

Questo è il motivo per cui ricordiamo così vividamente le prime volte (in una dipendenza, ma anche relativamente ad altri aspetti della nostra storia): le esperienze (soprattutto quelle molto gratificanti) si imprimono nei ricordi e ci fanno da “faro” nelle nostre esplorazioni future.

Alcune delle “memorie relazionali” impresse nella nostra mente nel corso dell’infanzia, se positive, sono così indelebili da guidarci, in seguito, a ciò che “là e allora” ci produsse senso di benessere soggettivo, il tutto mediato dal circuito di ricompensa, senza il quale, quelle esperienze, le scorderemmo nel tempo.

Capita spesso di osservare in chi usa sostanze, la ricerca e la volontà di tornare a quelle prime, bellissime esperienze, senza che questo possa avvenire nella realtà: la forza di quel ricordo, tuttavia, spinge a rimettere in atto, nuovamente, la ricerca di quel benessere.

AMBIVALENZA E DIPENDENZE

Il circuito di ricompensa viene chiamato così perché descrive il meccanismo di rinforzo di una determinata esperienza, che ci guida nel futuro, verso la sua ripetizione. Il problema di una dipendenza, però, sono gli effetti collaterali, spesso talmente gravi da far riconsiderare l’effettivo desiderare di quel piacere originario, tra l’altro difficilmente replicabile. La persona esegue una valutazione dei pro e dei contro, arrivando a uno stato di ambivalenza totale verso l’oggetto della propria dipendenza: la rincorre e ne ricerca gli effetti benefici, spesso però, contemporaneamente, conoscendone i rischi e gli effetti avversi: questo crea una situazione di amore/odio, uno stato di ambivalenza che può durare tantissimo, fino a che l’inganno non sia completamente disvelato, e l’esperienza riconsiderata. Come dire: il circuito di reward ci spinge in quella direzione, ma la testa può aiutarci a cambiare rotta (biologia e psicologia vanno, come si diceva, insieme, ognuna capace di interferire con l’altra).

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1 December 2017

OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE

di Matteo Respino

Otto Kernberg.

New York Presbyterian Hospital, White Plains (NY). Weill Cornell Medicine, Department of Psychiatry.

Il Professor Otto Kernberg è uno dei più importanti psichiatri e psicoanalisti della nostra epoca, forse anche di quelle precedenti. È riuscito ad apportare contributi insuperati alla comprensione delle “organizzazioni patologiche di personalità”, alla teorizzazione delle relazioni oggettuali e in generale alla sistematizzazione della psicoanalisi contemporanea. Tutto ciò senza mai allontanarsi dal mondo reale dei pazienti, mantenendo un approccio alla teorizzazione sufficientemente pragmatico da poter essere effettivamente applicato in contesti reali, e senza mai provocare fratture con la psichiatria biologica o il mondo accademico. Nel corso della sua carriera è stato Presidente dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi e ancora oggi, all’età di 89 anni, pratica la psicoanalisi privatamente ed insegna psichiatria all’università Weill Cornell Medicine di New York, supervisionando la formazione dei giovani specializzandi.

Per questo insieme di ragioni indiscutibili, oltre ad elementi personali che mi rendono particolarmente interessato al suo lavoro, ho deciso di scrivere una serie di brevi pezzi che ne riassumano il pensiero, o quantomeno alcune sue parti, procedendo con una logica “dal generale al particolare”. Rigorosamente seguendo in nostro stile, questi pezzi saranno il riassunto, semplificato ed accessibile, di articoli scientifici o d’opinione pubblicati dallo stesso Kernberg su riviste scientifiche di alta qualità.

Se siete all’inizio della vostra formazione o semplicemente curiosi, questi pezzi faranno per voi. Per coloro invece già formati, un adeguato approfondimento sarà disponibile accedendo alla fonte diretta presente ai relativi link.

Cominciamo con il primo, tratto da qui.

Le componenti fondamentali del trattamento psicoanalitico secondo Otto Kernberg.

Nell’articolo “The four basic components of psychoanalytic technique and derived psychoanalytic psychotherapies”, pubblicato nel 2016 sulla rivista World Psychiatry, Kernberg sintetizza efficacemente gli elementi centrali che caratterizzano il trattamento psicoanalitico e le cosiddette psicoterapie “ad orientamento psicoanalitico”, distinguendole da altre forme di trattamento della sofferenza mentale. Quando qualcuno, ad un esame o in una discussione davanti a un bicchiere di vino, vi chiederà che differenza c’è tra la psicoanalisi e la psicoterapia in generale (domanda classica, prima o poi arriva sempre se studiate o lavorate nel contesto “psi”), potrete rispondere come segue, citando il maestro e il suo articolo del 2016. Seguendo una logica “dal generale al particolare”, pare sensato partire da qui.

In sostanza ciò che caratterizza il trattamento psicoanalitico si riassume in quattro elementi: interpretazione, analisi del transfert, neutralità tecnica e analisi del controtransfert.

  • L’interpretazione è la comunicazione verbale, da parte dell’analista, di ciò che l’analista ipotizza sia il conflitto inconscio che domina il funzionamento del paziente. Kernberg sottolinea come questa definizione, piuttosto generica, includa di fatto diversi tipi di intervento verbale/comunicativo. Ad esempio, forme di intervento ascrivibili al contesto “interpretativo” sono la clarification (in cui l’analista cerca di far luce, di mettere ordine, su quello che sta avvenendo nella mente del paziente a livello conscio) e la confrontation (il portare cautamente alla luce aspetti non-verbali del comportamento del paziente). Vi è poi ovviamente l’interpretazione vera e propria, ovvero la comunicazione di ciò che l’analista ritiene sia il significato inconscio ed unitario dell’insieme di esperienze, comportamenti e comunicazioni che paziente mette in atto.
  • Il transfert è la ripetizione inconscia, nel presente, di un conflitto passato. Kernberg sostiene che la sua analisi sia la fonte principale del “cambiamento” indotto dal trattamento psicoanalitico. Inoltre, l’Autore sottolinea come il transfert operi come una “resistenza” (ovviamente al cambiamento) nella forma di patterns stabili di difesa caratterologica. In tal senso, l’analisi del transfert e la sua interpretazione sono una via possibile alla modificazione del carattere.
  • Cosa si intende per neutralità tecnica? Trattasi della disposizione dell’analista ad approcciarsi al paziente, citando l’Autore, “con naturalezza e sincerità […] nel contesto di comportamenti socialmente appropriati, parte dei quali include che l’analista eviti di riferirsi o focalizzarsi sui propri interessi o problemi”. Kernberg, trattando questo punto, prende le distanze da un approccio “anonimo” sottolineando come sia inevitabile che alcuni elementi personali propri dell’analista emergano nel corso del trattamento, e come questi non siano un male tout-court, ma anzi possano essere a loro volta elementi di analisi del transfert nel contesto della diade paziente-terapeuta. Attenzione però! L’Autore sottolinea anche come le reazioni del paziente ai comportamenti dell’analista non vadano lette costantemente come “reazioni di transfert”!! Esistono infatti anche reazioni “fisiologiche” (realistic reactions) che vanno distinte dal transfert, ovvero reazioni emotive a fatti/contesti/situazioni reali in cui il paziente e/o l’analista si possono trovare.
  • Il controtransfert è oggi definito come un concetto piuttosto allargato: si tratta “semplicemente” dell’insieme delle reazioni emotive dell’analista “momento per momento”. Queste reazioni includono a) reazioni al transfert del paziente; b) reazioni alla realtà della vita del paziente (ad esempio, la compassione per una perdita reale che il paziente può subire); c) reazioni alla realtà della vita dell’analista stesso; d) infine (definizione più ristretta e classica) le reazioni transferali attivate nell’analista dai contenuti espressi dal paziente. In questo sensoi, Kernberg puntualizza come serie difficoltà caratterologiche dell’analista possano portare a “distorsioni croniche” del controtransfert, implicitamente sottolineando il noto fatto che un analista dovrebbe essere “sufficientemente sano”.

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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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