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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

9 May 2018

LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)

di Raffaele Avico

La letteratura in ambito psicotraumatologico che riporta dati rigorosi che attestino l’impatto dell’attività fisica sul PTSD, è in espansione ma ancora poco consistente in termini di protocolli standard e linee guida dettagliate su cosa possa giovare a pazienti affetti da PTSD conclamato. E’ noto l’impatto del PTSD sul corpo, evidenziato in molteplici studi su riviste di grande autorevolezza in senso scientifico, e ben spiegato nel lavoro di luminari nell’ambito che tracciano la via della psicotraumatologia del presente, come il famoso “The body keeps the score” di Onno Van Der Kolk.

Alcune riviste maggiori, come l’American Journal of Psychiatry (https://focus.psychiatryonline.org/doi/abs/10.1176/appi.focus.20170026?journalCode=foc), o il Journal of Clinical Psychology (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jclp.22549), fanno riferimento a studi condotti di recente su pazienti affetti da PTSD, attraverso l’applicazione di esercizi inerenti il corpo: emerge l’importanza generica di effettuare attività fisica di natura aerobica e mirata a sviluppare “resistenza”, al fine di mitigare gli effetti somatici del PTSD (un ulteriore esempio qui, uno studio del 2015 che indagava gli effetti del praticare surfing su veterani di guerra affetti da PTSD: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25189537).

Lo studio prima citato pubblicato sul Journal of Psychology, presentava un protocollo standardizzato di 12 settimane su pazienti con PTSD, incentrato su attività fisica costante, yoga e mindfulness, con risultati sensibili sui sintomi del PTSD a fine percorso. Questo ulteriore studio del 2018 pubblicato su Journal of Thraumatic Stress (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jts.22253), ha indagato l’effetto dell’esercizio fisico aerobico sull’attivazione del sistema endocannabinoide, evidenziando un aumento della produzione di endocannabinoidi a seguito di attività fisica prolungata, ma a quanto pare con minore intensità per i soggetti affetti da PTSD. Questo studio meta-analitico pubblicato nel 2017 su Disability and Rehabilitation (https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/09638288.2016.1226412?journalCode=idre20) ha ricapitolato 5 diversi studi per un totale di 192 pazienti affetti da PTSD, evidenziando benefici e suggerendo un generico “2 sessioni settimanali di resistance-training a settimana insieme a un 150’ di esercizio moderato o 75’ di esercizio vigoroso a settimana diviso in più sessioni”.

Su Acta Psychiatrica Scandinavica, questo studio randomizzato del 2014 (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/acps.12371) indaga la differenza tra un trattamento con o senza esercizio fisico su un gruppo di 81 pazienti con PTSD primario (diagnosticato sul DSM-IV, escludendo i casi in cui sarebbe stato meglio parlare di trauma complesso, o gli individui affetti da patologiche croniche a livello fisico che avrebbero confuso il processo di analisi), evidenziando un miglioramento maggiore tra chi trattato anche con l’ausilio di esercizio fisico (in questo caso 30’ di cardio-fitness a settimana supervisionato da un istruttore nel contesto dell’ospedale, due sessioni da effettuare a casa e un programma controllato di camminata minima -fino a 10000 passi- da fare al giorno per ogni soggetto). Questo studio rappresenta il primo tentativo sistematizzato di offrire una risposta ultima alla domanda se l’integrare un approccio incentrato sul corpo al trattamento usuale per il PTSD (formato solitamente da psicoterapia, approccio farmacologico e interventi di gruppo), offra risultati clinici duraturi nel tempo. L’articolo risponde, con i suoi risultati, in modo affermativo, con enfasi particolare posta sugli esercizi di resistenza e sugli esercizi aerobici, da usare di preferenza con questo tipo di pazienti.

L’impressione generale è che si vada verso una sempre maggiore integrazione di approcci a ispirazione cognitivista (quindi tecniche mutuate dalla CBT, come l’esposizione progressiva agli stimoli fobici per via immaginativa, oppure tecniche più recenti come l’EMDR), con approcci di natura somatica che funzionino in direzione bottom-up. C’è ottimismo in tal senso, vista anche la natura grandemente somatizzata dei sintomi del PTSD. Non esiste tuttavia in letteratura un protocollo di esercizi fisici standardizzato (cosa fare e con quale tipo di paziente)  da applicare con pazienti affetti da PTSD. La maggiorparte degli studi rilancia a future esplorazioni la questione specifica di “cosa far fare” ai pazienti nel corso di un percorso di riabilitazione integrata che metta insieme psicoterapia, approccio psicofarmacologico e terapia incentrata sul corpo.

Per un approfondimento autorevole a rigiardo degli effetti sul corpo dello stress (in senso lato, non solo post traumatico): “Perchè alle zebre non viene l’ulcera?” di R.M. Sapolsky

Article by admin / Generale

6 May 2018

DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE

di Raffaele Avico

Discutendo con Eddy Chiapasco, psicologo psicoterapeuta, docente in Psicologia e Nuove Tecnologie presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, esperto di nuove dipendenze e fondatore del Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie di Torino (http://www.csptech.org/), sono emerse alcune considerazione a proposito delle nuove forme di dipendenza:

  • Internet si sviluppa ad una velocità superiore a quelli che sono i tempi umani e biologici: la velocità di sviluppo dell’informatica, qualcuno ha detto, viaggia 7 volte la velocità dell’uomo: i cambiamenti sono rapidi e modellati intorno a stili di vita sempre nuovi, sempre mutevoli. Le sfide che dobbiamo affrontare come individui, genitori, clinici e ricercatori sono rese estremamente difficili dalla velocità dei cambiamenti e delle problematiche connesse. Ogni anno lo sviluppo di nuove applicazioni modella nuovi stili di vita, nuove passioni, nuovi modi di giocare, lavorare e stare in relazione. Tutto accade in modo estremamente veloce e tutti noi ci stiamo abituando a questo tipo di velocità. Si sono accorciati i tempi di risposta alle mail, i tempi di consegna degli acquisti online, i tempi che siamo disposti a concedere a qualcuno per inviarci una risposta dopo aver letto il nostro messaggio. Non siamo più abituati, a fronte di questo, ad aspettare e tollerare la frustrazione derivante dall’”attendere” qualcosa.
  • Il problema della dipendenza da Internet non si limita alla classificazione di un comportamento patologico in alcuni soggetti. È in realtà un problema che coinvolge tutta la società e che ha alla base il fatto che tutti utilizziamo questi strumenti -e che probabilmente lo faremo in futuro- per un tempo sempre crescente e in un numero di contesti sempre maggiore (sveglia-foto-social-mappe-giochi-viaggi-agenda-attività fisica-incontri-sesso-etc.)
  • Cosa ci porta a farci coinvolgere così tanto dal mondo virtuale? Il mondo virtuale è accessibile, spesso gratuito e immediato; senza dubbio, per certe cose, ci semplifica la vita. Ha tuttavia un prezzo “sociale” importante che stiamo pagando: togliamo tempo all’allenamento delle nostre competenze sociali (che Stephen Porges, direttore del Brain-Body Center di Chicago, chiama Social Engagement System). Siamo in grado, ancora, di rapportarci vis a vis con i nostri interlocutori, senza sentire e reggere il profondo imbarazzo per i silenzi vuoti, le difficoltà a comprendersi, i momenti di noia?
  • Il problema si sposta perciò dalla dipendenza da Internet in sé al tema, più grande, della tolleranza alla frustrazione relazionale e alla necessità di creare situazioni di condivisione che ci consentano di migliorare le nostre competenze sociali
  • Volendo semplificare all’eccesso potremmo dire che, essendo esseri sociali, abbiamo un profondo bisogno di relazioni che nella vita reale non sempre sono disponibili. Se in passato creavamo in noi una rappresentazione stabile del legame e riuscivamo a tollerarne la temporanea assenza, oggi stiamo andando nella direzione della connessione costante online. La connessione online, tuttavia, non appaga completamente il nostro reale bisogno di legame. Questo ci porta a ripetere infinite volte la ricerca di contatti, l’attesa del “mi piace”, la ricerca di seguaci forzandoci a “tornare” ripetutamente al monitor del telefono e a trascurare quello che accade intorno a noi
  • Il meccanismo di “ritorno al device”, inteso come movimento fisico di riavvicinamento all’oggetto tecnologico, è paragonabile a quello che alimenta il gioco d’azzardo patologico: otteniamo un breve intrattenimento videoludico in cui non è mi è richiesta una particolare abilità, ma un semplice “gesto di controllo” (pensiamo ai giochi in rete in cui chi gioca non deve fare alcunché di complicato, ma semplicemente ripetere una certa azione per crescere e procedere nel gioco), che ci procura una gratificazione temporanea e immediata.
  • Il ritorno all’oggetto tecnologico è talmente attraente da riempire quello che fino a pochi anni fa sarebbe stato un semplice momento di noia. E’ proprio in questi momenti di noia, tuttavia, che eseguiamo un lavoro di “integrazione”, cioè colleghiamo pensiero ed emozione, o associamo pensiero a pensiero, di fatto facendo (auto)psicoterapia. Questi momenti sono necessari per renderci consapevoli di noi: escludendoli, staremo male senza sapere il perchè, vivremo forti pulsioni senza collegarle ad altri aspetti della nostra vita.
  • Questo “ritorno” si nutre di un bisogno relazionale di base: il bisogno di contatto con gli altri. Essendone però il surrogato, rappresenta un allontanamento dall’esperienza: la distanza che esiste tra leggerlo in un libro e vivere un innamoramento dal vivo, destituendo il corpo dal suo ruolo centrale per l’esperienza in sé.

Chiapasco, a fronte di questi punti, considera come la questione sia ancora nella consapevolezza di pochi. Il problema, nel nostro Paese, è ancora sotto-soglia, per così dire ancora underground anche se in altre realtà tecnologicamente più avanzate come ad esempio la Corea è già emergenza sanitaria da anni.

Conclude “sembra davvero importante l’impegno di tutti a far si che lo smartphone continui ad essere solo uno strumento che ci semplifica la vita e non un concreto pericolo alle nostre capacità di stare insieme socialmente. Ricordiamocene quando siamo a cena con amici, con il partner o con i nostri figli, guardiamoci negli occhi e lasciamo il telefono lontano dal tavolo, spento.”

Alcuni centri, in Italia, portano avanti con costanza il lavoro di divulgazione e sensibilizzazione al problema, come il centro romano coordinato dal Dott. Tonioli (http://www.policlinicogemelli.it/Ambulatorio_scheda.aspx?a=12B0F1BC-82D6-4252-A6A9-EFE7CC970AC5)

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30 April 2018

L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana

di Matteo Respino

L’articolo “The evolution of distrubuted association networks in the human brain”, i cui contenuti sono qui sintetizzati, è stato pubblicato nel 2013 sulla rivista Trends in Cognitive Sciences. Gli Autori, Randy Buckner e Fenna Krienen, sono noti scienziati che lavorano nel dipartimento di psicologia della Harvard University. Link all’articolo via PubMed: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24210963

Vi siete mai chiesti, nello specifico, cosa rende il cervello di noi umani capace di pensare nel modo in cui pensiamo? Cosa ci rende capaci, rispetto ad ogni altra creatura nel mondo animale, di tale potenza cognitiva? Una risposta che sia allo stesso tempo definitiva, certa, specifica e unica non esiste, quantomeno non al momento attuale. Esistono però numerose evidenze circa il fatto che alcuni aspetti della cognizione umana siano legati all’attività di aree cerebrali chiamate “associative”, che sostanzialmente svolgono la funzione di integrare informazioni provenienti da altre aree cerebrali.

Per capirsi, il nostro cervello è composto da diverse aree, alcune di esse sono “le prime” a ricevere informazioni (inputs) dalla periferia, ad esempio la corteccia visiva primaria. Altre sono “le ultime”, quelle che ricevono i “dati elaborati”, e sono infatti quelle che inviano gli outputs (i comandi finali) ai nostri organi periferici (ad esempio, la corteccia motoria primaria che fornisce i comandi finali su come muoversi nello spazio). Ecco, in mezzo a questi due estremi si trovano aree in cui le informazioni provenienti da diversi sistemi sensoriali (da tanti inputs diversi) vengono elaborate con un grado di complessità crescente. Si parla in questo caso di “aree associative”.

Lo sviluppo del cervello umano

Il cervello umano possiede circa 86 miliardi di neuroni ed un’immensa potenza computazionale (pensate al numero, quasi inimmaginabile, di connessioni tra questi neuroni). Non è stato sempre così. Noi umani siamo passati relativamente in fretta, in poche centinaia di migliaia di anni, dall’uso di strumenti banalissimi alla soglia dell’intelligenza artificiale. Questo sviluppo di abilità “cognitive”, in proporzione rapidissimo, si spiega quantomeno in parte con l’evoluzione altrettanto rapida dell’anatomia del nostro cervello. Si è trattato di uno sviluppo esponenziale, “in crescendo”: per passare dal volume cerebrale dei nostri antenati mammiferi più antichi al volume cerebrale dell’Homo Erectus ci sono voluti 6 milioni di anni, ma solo un ulteriore milione è quello che separa noi, oggi, dal suddetto Homo Erectus, e noi possediamo un cervello che è sostanzialmente due volte più grande. Ricapitolando, su un totale di 7 milioni di anni di sviluppo, il grosso della crescita del nostro cervello è avvenuto nell’ultimo settimo, quando tale volume è raddoppiato. Si tratta solo di una questione di volume? Ovviamente no. Se così fosse, le balene sarebbero molto più intelligenti di noi. Altri fattori sono ad esempio:

  1. il volume cerebrale in rapporto alla dimensione corporea (anche chiamato il “quoziente di encefalizzazione”)

  2. la densità neuronale (quanti neuroni per unità di volume cerebrale).

Ad esempio, uno scimpanzè ha un volume cerebrale molto inferiore di una balena, ma un maggiore quozione di encefalizzazione ed una maggiore densità neuronale: nel complesso lo scimpanzè possiede un maggior numero di neuroni ed una maggiore “potenza computazionale” di una balena.

Come sottolineato dagli Autori, è verosimile che alcuni eventi genetici “chiave” (in termini evoluzionistici) siano stati coinvolti in questo rapido sviluppo. Di fatto, in confronto ai nostri antenati, nei mammiferi più evoluti (quindi anche e soprattutto in noi umani) avviene che lo sviluppo embrionale delle cellule cerebrali si “allunghi” su un maggiore raggio temporale, e pertanto quelle cellule che saranno i nostri neuroni hanno più tempo a disposizione per replicare, aumentando di numero, e per organizzarsi in strutture più complesse.

Veniamo quindi a tale organizzazione, ponendoci una semplice quanto fascinosa domanda: le aree cerebrali si sono sviluppate allo stesso modo, o alcune più di altre? La risposta, non così sorprendente a questo punto, è che lo sviluppo anatomico del cervello umano ha riguardato primariamente la “corteccia associativa” citata all’inizio.

Lo sviluppo della corteccia associativa

Sull’onda di quanto appena scritto, ciò che caratterizza la corteccia cerebrale umana è di presentare uno sviluppo abnorme delle “aree associative”. Se immaginassimo un albero dell’evoluzione della corteccia cerebrale nei mammiferi, fino ad arrivare a quella umana ai rami più alti, osserveremmo come la corteccia “associativa” aumenta costantemente di volume, di specie in specie, fino a raggiungere il massimo grado di sviluppo negli umani. Viceversa, le nostre aree più semplici, come quelle motorie (che inviano comandi) o sensoriali (che ricevono informazioni), non sono poi tanto diverse da quelle di altre specie.

Una risposta al “perché”, o al “come”, le aree associative si siano sviluppate maggiormente delle altre non è ancora stata trovata. Un’ulteriore domanda, particolarmente interessante, è se le aree associative siano semplicemente aumentate di volume rispetto alle altre o nel tempo abbiano acquisito nuove, speciali proprietà. Tale domanda interroga un’altra questione radicale: la cognizione umana deriva da un semplice “potenziamento” della capacità computazionale presente in strutture più primitive? In altre parole, si tratta di una questione “quantitativa” per cui “più neuroni = più pensiero = essere umani”? O deriva piuttosto dallo sviluppo di qualcosa di nuovo, qualitativamente diverso in termini di struttura e funzione, che renderebbe quindi anche il nostro pensiero “qualitativamente diverso”? Il nostro cervello, a livello delle aree associative, ha in effetti visto sviluppo di qualcosa di nuovo: le reti neurali non-canoniche, il “miracolo” su cui si fonda la nostra capacità pensare.

Reti neurali “non-canoniche”

Premessa: le aree cerebrali ed i neuroni al loro interno, anche se posti a grande distanza, comunicano tra loro attraverso i “cavi elettrici” del cervello, i cosiddetti assoni neurali, che si organizzano i “fasci di sostanza bianca”. Questo rende il cervello un intrigo infinitamente complesso di “reti neurali” intersecate tra loro, che oggi si possono studiare attraverso tecniche specifiche di risonanza magnetica. Evidenze provenienti da questo contesto ci dicono che la corteccia cerebrale si organizza in molteplici “reti neurali” o “network cerebrali”: insiemi di aree cerebrali, anche distanti tra loro, che tendono ad attivarsi in sincronia. Come si organizzano queste rete neurali? Come si “passano le informazioni”? Con quale gerarchia? Sulla base di quali principi? Domande complesse che oltrepassano lo scopo di questo articolo. Ciò che ci è utile sapere ora è che, in generale, negli umani osserviamo la compresenza di reti neurali “non-canoniche” e di reti neurali “canoniche”. Cerchiamo di capire di cosa parliamo.

La corteccia animale è dominata da “reti neurali canoniche”. Anche alcune parti della nostra corteccia sono organizzare in tal modo, ad esempio le aree della corteccia coinvolte nell’elaborazione dello stimolo visivo. Ecco un esempio di rete neurale canonica che può aiutare a capire il concetto: lo stimolo visivo di un pericolo viene percepito nell’area visiva A, passato alla successiva area B, elaborato in serie nelle aree C e D (ed in nessun’altra possibile area, non c’è variazione) ed infine una risposta motoria fuga viene inviata dall’area E agli organi periferici che ci consentono in effetti di fuggire.

Una rete neurale canonica è una rete di elaborazione dei dati con limitata flessibilità, organizzata secondo principi gerarchici rigidi, “lineari”, in cui l’informazione viene elaborata “in serie” secondo fasi prestabilite. Tale tipo di rete presenta questi limiti poiché è “costretta” anatomicamente ad aree non associative. Sono reti tethered, ovvero “costrette”, “legate”.

Viceversa, una rete neurale non-canonica, come le reti che si costituiscono nelle aree associative, ha maggiore flessibilità, una gerarchia indefinita, si organizza “in parallelo” o “circolarmente” attraverso circuiti rientranti, e così riverbera l’informazione quanto necessario alla sua processazione e allo sviluppo di capacità mentali superiori (umane). Sono reti untethered (“slegate”, poiché si fondano sulla corteccia di tipo associativo). Difficile come concetto? Pensate a quando una serie di stimoli provenienti dall’ambiente producono in voi una certa sensazione, come qualcosa che non va, ma non inducono immediatamente una reazione di fuga. Piuttosto, in quel contesto (una festa, una lezione, a casa in famiglia) comincerete a pensare, pensare e ancora pensare. Cercherete di capire qual è il problema, di identificarlo e poi di risolverlo più o meno logicamente. Nel frattempo, integrerete questi processi con la memoria di situazioni passate simili, e automaticamente sarete influenzati a scegliere una cosa o un’altra anche sulla base della vostra esperienza. Inoltre, penserete a voi stessi nel futuro, a come vorreste uscire da quella situazione. Tutto ciò avviene contemporaneamente grazie a molti processi neurali che avvengono in parallelo all’interno di tali reti neurali non-canoniche.

In sostanza, le reti neurali non-canoniche sono strutturalmente “adeguate” a sostenere la cognizione umana nella sua forma più alta, ovvero quella di una internal mentation, la capacità di “pensarsi”.

Conclusione: l’ipotesi del tethering

Tale ipotesi, avanzata dagli Autori, riassume sostanzialmente quanto detto finora integrandolo in un’ipotesi specifica che si può riassumere come segue:

in seguito a uno sviluppo evoluzionistico massivo della corteccia associativa, la maggior parte della corteccia cerebrale umana non sarebbe più “costretta” a seguire le gerarchie sensori-motorie. Piuttosto, in virtù della struttura di tale “nuova” corteccia, si svilupperebbe invece una vasta attività intermedia (tra i segnali in ingresso e quelli in uscita) con caratteristiche di riverbero circolare del segnale, sulle cui proprietà si fonderebbe l’unicità della cognizione umana.

D’obbligo usare il condizionale poiché, per quanto verosimile e per quanto accertati siano molti dei suoi assunti, si parla di una “teoria complessiva” che in quanto tale, pur fornendo una cornice utile in cui comprendere lo sviluppo della cognizione, è ancora in attesa di conferme o disconferme.

Article by admin / Generale

26 April 2018

COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017

 

di Luca Proietti

Il testo si apre con un’analisi sull’inflazione diagnostica ed il conseguente aumento della prescrizione di psicofarmaci, verificatasi in concomitanza con il passaggio dal DSM-III al DSM-5 e l’entrata in commercio di nuovi psicofarmaci, come gli antidepressivi SSRI (inibitori specifici della ricaptazione della serotonina) e gli antipsicotici atipici.

Gli autori sostengono, in accordo con Allen Frances, direttore della task force del DSM-IV, che all’aumento prescrittivo possa aver contribuito la medicalizzazione eccessiva di alcune “condizioni parafisiologiche”, ovvero condizioni cliniche a cavallo tra normalità e malattia. Tra queste, la depressione reattiva, il lutto, il disturbo disforico premestruale. Altro esempio portato è il disturbo oppositivo provocatorio, in cui spesso “le norme sociali e culturali vengono confuse con quelle biologiche, trasformando un comportamento socialmente fastidioso in una psicopatologia”.

Gli autori procedono con citazioni controcorrente rispetto a quelle della letteratura scientifica e opinioni di esperti. Tra questi vi sono Matthias Angermeyer e appunto Allen Frances che criticano il DSM-5 per le sue potenziali conseguenze in termini di inflazione diagnostica. Proprio in ragione di ciò, il libro è consigliato a tutti coloro che desiderano integrare le loro conoscenze sull’argomento con questo tipo di letteratura, e costruirsi una visione completa sul tema trattato.

Il filo argomentativo inciampa solo quando, in alcune occasioni, gli autori traggono a sostegno delle loro ipotesi considerazioni eccessive dagli articoli citati. Ad esempio, quando per dimostrare che i livelli cerebrali di dopamina e serotonina sarebbero normali nella Schizofrenia e nella Depressione, citano il lavoro di Post del 1975. Da questo studio in realtà si evince che solo i livelli dei metaboliti nel liquido cefalorachidiano risultano normali, e che correlano con il metabolismo dei neurotrasmettitori – ma non con i loro livelli cerebrali.

Di seguito alcuni temi riportati nel libro che ho apprezzato sia per il modo in cui sono stati affrontati sia per la loro peculiarità.

  • Troverete un’agile descrizione dei due approcci alla psicofarmacologia: il modello centrato sul farmaco e quello centrato sul disturbo, con le rispettive evidenze.
  • Gli Autori non risparmiano le critiche mosse dalla comunità scientifica e da psichiatri esperti ai nuovi antidepressivi, agli antipsicotici di seconda generazione e alla metodologia dei trial clinici di questi farmaci.
  • Nel capitolo 5 troviamo le strategie per prescrivere eticamente e strategicamente una psicopillola. La regola dei tre di Ippocrate è utile nel valutare il rapporto rischi-benefici di un trattamento: “Vi sono pazienti che guariscono da soli, quelli che hanno bisogno di cure e quelli che non rispondo ad alcun tipo di trattamento”. Nella valutazione ricordiamoci anche che il costo economico è minore per alcuni tipi di psicoterapie che per la terapia psicofarmacologica, e di discutere con il paziente, ove possibile, sulle sue preferenze riguardo la terapia da adottare.

Psicoterapia, farmacoterapia o entrambe? Gli autori rispondono a questo interrogativo discriminando tra i disturbi in cui il farmaco risulta la parte centrale della cura, quelli in cui il farmaco facilita, sostiene la cura, e quelli in cui il farmaco è sopravvaluto (questi ultimi sarebbero, secondo gli Autori, i disturbi d’ansia, del comportamento alimentare, e il DOC).

Gli autori evitano, a mio avviso, la trappola in cui spesso si cade, per cui ogni professionista tende utilizzare la propria impostazione per tutti i pazienti, indipendentemente dal disturbo che presentano.  Chi ha un approccio semplicemente biologico rischia di ricondurre tutti i quadri patologici a stati misti dell’umore del Disturbo Bipolare, i terapeuti psicodinamici a disturbi di personalità e gli strategici a casi da psicoterapia.

Caputo e la Milanese ci ricordano che la prescrizione di un farmaco ha importanti implicazioni non solo a livello biochimico ma anche a livello relazionale-comunicativo per il significato che trasmette, aspetto che troppo spesso è tralasciato. Con la terapia automaticamente si veicolano anche una diagnosi e una prognosi, che in alcuni casi possono divenire una condanna di cronicizzazione, tramite il meccanismo della “profezia autoavverante” (Watzlawick et al., 1971).

L’ultimo capitolo è dedicato alla fase della prescrizione, con il richiamo ai tre aspetti della cura Ippocratica: il tocco, il rimedio e la parola. A tal proposito gli Autori riportano che troppo spesso, soprattutto in psichiatria, il focus sulla “scientificità” ha come conseguenza una perdita in capacità di comunicazione. Sono in particolare gli aspetti emotivi, non-verbali e ipnotico-suggestivi a essere scotomizzati: questi potrebbero aumentare la compliance del paziente e potenziare l’effetto placebo, attivando le stesse vie neurochimiche dei farmaci (Carlino & Benedetti, 2016).

Nell’ultima parte del testo sono presentati concetti utili come: la “Reticenza Autorizzata” in cui si chiede al paziente il consenso a tacere i possibili effetti collaterali di un farmaco per evitare il rischio di indurglieli con effetto nocebo; vengono descritte alcune strategie per informarlo sugli effetti collaterali senza produrre effetto nocebo e vengono esplorate le “giuste leve” da ricercare per motivare un paziente al trattamento.

L’invito è quindi a dosare scrupolosamente la terapia psicofarmacologica e la psicoterapia per ogni specifico disturbo, ma ancor più importante è praticare entrambe in maniera corretta, liberandosi da pregiudizi e condizionamenti non scientifici.

Carlino & Benedetti, Different contexts, different pains, different experiences, Neuroscience 2016.

Post et al., Cerebrospinal Fluid Amine Metabolites in Acute Schizophrenia, Archives of General Psychiatry, 1975.

Watzlawick et al., Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1971

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20 April 2018

L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI

di Raffaele Avico

Per ergonomia cognitiva intendiamo la scienza che studia come modellare gli oggetti tecnologici (preposti all’elaborazione di informazioni) alla mente dell’uomo: il suo obiettivo è sintonizzare la mente umana alla tecnologia nel migliore dei modi. Per fare questo, studia dapprima il funzionamento della mente dal punto di vista delle funzioni cosiddette cognitive (la memoria, la struttura del linguaggio, i processi di ragionamento, le scorciatoie mentali da noi usate, etc.), quindi cerca di adattarvi la tecnologia al meglio.

Un qualsiasi reminder, un’agenda elettronica, vengono incontro ai limiti della mente umana, supportandoci nell’attività del nostro ricordare. I moderni sistemi operativi che troviamo sui nostri telefoni, che ci aiutano e che noi chiamiamo non a caso “intuitivi”, sono pensati e progettati seguendo criteri di questo tipo: devono aiutarci nel nostro pensare, fornendoci scorciatoie e accorgimenti che ci aiutino nel nostro lavoro quotidiano.

Il famoso studio che Maria Montessori fece a proposito dell’acquisizione della scrittura nel bambino, scaturì in un esperimento di ergonomia cognitiva. Sua fu infatti l’invenzione del metodo dell'”alfabetario mobile“, un dispositivo con cui la scienziata dimostrava come l’intelligenza del bambino fosse viva e potente già dalla nascita. Osservando il metodo di insegnamento della scrittura verso bambini in età pre-scolare o appena scolare (quindi dai 3/4 ai 6 anni), si rese conto di come nelle scuole dell’epoca il linguaggio fosse insegnato da zero, come si insegnerebbe a uno straniero la nostra lingua, trascurando quello che il bambino aveva assorbito nell’interazione con la realtà fin dalla nascita.

La Montessori chiamava “assorbente” la mente infantile, tanto assorbente e viva da possedere in sè avanzate cognizioni in termini di linguaggio già da poco dopo la nascita. Decise quindi di costruire un alfabetario formato da delle tessere, ognuna delle quali con una lettera scritta in bella calligrafia sopra. Attraverso l’uso delle tessere, il bambino imparava a combinare le lettere toccandole, mettendole una accanto all’altra, senza soffermarsi sui pesanti esercizi di apprendimento calligrafico, utilizzati all’epoca, che la Montessori riteneva frustranti e confusivi. Imparando lo spelling delle parole, e riproducendo la sequenza delle lettere sull’alfabetario, il bambino imparava a giocare con le lettere usando un metodo concreto e semplice. L’apprendimento di come scrivere in bella calligrafia le lettere e le rifiniture grammaticali, erano lasciate a uno stadio successivo del processo educativo.

L'”alfabetario mobile” di Montessori sortì risultati impressionanti sui bambini delle sue scuole, divertiti nell’apprendimento della scrittura e velocizzati nel farlo. La Montessori riteneva che dentro la mente del bambino ci fosse, dalla nascita, una “nebula” di conoscenze tacite a proposito di come usare la lingua. Queste conoscenze venivano apprese nel corso dell’interazione del bambino con la realtà fin dalla nascita per mezzo dei genitori: si trattava di usare questa conoscenza tacita come piattaforma per apprendere quello che sulla lingua c’era da sapere di più evoluto.

Questo dispositivo è molto in linea con quello che la famosa educatrice pensava a proposito dell’educazione. La sua idea era quella di lasciare ai bambini la libertà di sperimentare, trovando una propria via verso le proprie soggettive attitudini: sarebbe stato poi compito degli educatori, promuovere la crescita in quella direzione assecondando e raffinando le pulsioni manifestate dal bambino. Un’educazione quindi promossa “dal basso”, sulla scia della famosa immagine prodotta da Socrate dell’educatore come “ostetrico“, avente cioè il dovere di far uscire dall’allievo quello che già in sè, naturalmente, era contenuto, senza ignorarlo o inquinarlo con conoscenze erogate “dall’alto”.

Negli anni ’40, Montessori divulgava un metodo educativo che oggi trova applicazione nelle scuole di tutto il mondo, e in particolare negli istituti a ispirazione “libertaria“. Il suo metodo partiva da una diversa rappresentazione che la scienziata faceva del bambino in sè. Montessori sosteneva che le linee psico-pedagogiche del futuro dovessero essere tracciate su un modello di bambino pensato come detentore di qualità innate e naturalmente tendente a uno sviluppo individuale. Dal suo punto di vista, per troppo tempo si era considerata la mente del bambino come una sorta di contenitore vuoto da riempire: era quindi necessario ri-fondare il metodo educativo in modo differente, partendo “dal basso”.

Consideriamo che gli anni in cui la Montessori lavorava erano caratterizzati da un’attitudine punitiva e militaresca usata nella scuola, sul modello “bastone/carota”, con i bambini sottoposti a un regime disciplinare e di indottrinamento che la Montessori criticò con forza.

Una interessante intervista al prof. Raniero Regni, di ruolo a Palermo, a proposito del metodo Montessori e del personaggio, per chi volesse approfondire:

Article by admin / Generale

18 April 2018

SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone

di Luca Proietti

Il costruttivismo è una teoria filosofica e psicologica che rifiuta l’idea per cui la Scienza potrebbe e dovrebbe ricercare la conoscenza di una realtà oggettiva. Per i costruttivisti l’unica conoscenza utile e ottenibile è quella operativa, essendo priva della velleità di attingere all’essenza ontologica di una supposta realtà oggettiva, per essere applicabile alla realtà che percepiamo al fine di raggiungere i nostri obiettivi concreti. La ricerca non è più del vero quanto dell’utile per il cambiamento terapeutico, per il progresso scientifico e per il benessere dell’uomo. Il costruttivismo, lungi dal negare l’esistenza di una realtà oggettiva, afferma fermamente che essa sia inconoscibile indipendentemente dalle influenze dell’ osservatore.

CONTESTO

“Il Costruttivismo radicale, ovvero la costruzione della conoscenza” è la versione riveduta di un discorso tenuto in occasione di un convegno a Buenos Aires nel 1991, di Ernst Von Glaserfeld, filosofo e professore di psicologia. Il brano è contenuto nel “Manuale di Terapia Breve Strategica” a cura di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone. Glaserfeld ci spiega come secondo l’ottica costruttivista la conoscenza sia in realtà una costruzione dipendente dall’osservatore. Accettare questo punto di vista porta alla rinuncia della pretesa della conoscenza definitiva di una realtà oggettiva, ma apre alla possibilità di costruire una conoscenza pragmatica. Questo tipo di conoscenza, definita operativa, è in grado di aiutarci nella gestione della realtà da noi percepita e nel risolvere i problemi che questa ci presenta.

REPORT

Ernst von Glaserfeld afferma all’inizio del suo discorso: “il costruttivismo è una teoria della conoscenza che può causare una rottura radicale con il modo di pensare tradizionale del mondo scientifico”, io aggiungerei anche di tutto l’occidente.

Questo cambiamento porta infatti a una nuove modalità e contenuti del pensiero. Il costruttivismo infatti:

  • E’ un modo di pensare diverso riguardo al nostro fare esperienza e alla conoscenza scientifica.

  • Non ha l’obiettivo il descrivere una realtà assoluta, né il mondo, ma ci suggerisce un nuovo modo di pensarli.

  • Non nega la realtà, ma afferma che non si possa conoscere una realtà indipendentemente dall’osservatore.

  • Rifiuta quindi l’idea che la conoscenza debba essere la rappresentazione di un mondo esterno.

  • E’ dunque un tentativo di separare l’ontologia (lo studio di un’essenza apriori) dall’epistemologia (lo studio di ciò che è conoscibile e dei processi conoscitivi).

  • Ha come scopo il produrre una conoscenza operativa, cioè applicabile al nostro mondo percepito, l’unico che ci interessa, per gestirlo nella maniera più funzionale possibile.

Consapevole dello scompiglio che tali novità possono causare, l’Autore ci spiega i motivi che lo hanno spinto a proporle. Si tratta di quattro fonti sia storiche che autobiografiche: 1) il linguaggio; 2) la posizione filosofica degli scettici dagli inizi della teoria occidentale; 3) un concetto chiave della teoria dell’evoluzione di Darwin; 4) la cibernetica.

Le evidenze della Neurofisiologia

“Ti dico quanto, ma non cosa”. H.V. Foerster

Prima di analizzare ognuna di queste fonti, l’autore riporta una scoperta dei neurofisiologi che avvalorerebbe la teoria costruttivista. Heinz Von Foerster, uno dei padri del costruttivismo, ha evidenziato la scoperta dei neurofisiologi per cui non vi è alcuna differenza qualitativa tra segnali diretti alla corteccia, anche se provenienti da diversi recettori. Un segnale trasmesso dalla retina alla corteccia visiva ha la stessa struttura di uno proveniente dai recettori acustici o olfattivi etc.: essi variano tutti per ampiezza e frequenza, ma non vi è alcuna indicazione circa la qualità del segnale. In maniera analoga i recettori che percepiscono il colore rosso (la luce di lunghezza d’onda che corrisponde al rosso) inviano segnali identici a quelli inviati dai recettori per gli altri colori.

Dunque la distinzione tra i colori avverrebbe a livello della corteccia, ma non sulla base di “semplici differenze qualitative, poiché tali differenze non esistono”. Pertanto, non sarebbe corretto affermare che distinguiamo gli oggetti del mondo reale sulla base delle informazioni proveniente da “quello che è tradizionalmente considerato il mondo esterno”. Sarebbe da preferire dunque un epistemologia che faccia riferimento non a una realtà esterna, ma a una costruita dall’osservatore: da qui la parola “costruttivismo”.

  1. Il Linguaggio

“Come mai quando parlo italiano mi sembra di vedere il mondo in modo diverso che non quando parlo inglese o tedesco?”

L’autore ha parlato fin dalla nascita più di una lingua, e davanti allo specchio oltre alle prime domande esistenziali si è posto un’altra domanda “Come mai quando parlo italiano mi sembra di vedere il mondo in modo diverso che non quando parlo inglese o tedesco?”. Qual’è quindi la visione del mondo più giusta? Ovviamente ognuno pensa che il suo modo di vedere il mondo sia quello giusto. Ma se si fanno abbastanza esperienze e si vive in un ambiente di persone aperte, che riescono accettano diversi modi di vedere il mondo, si arriva alla conclusione che: ogni gruppo ha ragione -dal suo punto di vista.

  1. Gli Scettici

“Siamo quindi intrappolati in un paradosso: vogliamo credere di poter conoscere qualcosa del mondo esterno, ma non siamo in grado di affermare la verità di questa conoscenza”

Gli scettici, filosofi dell’antica Grecia (VI secolo a.C.) hanno proposto un modo di approcciarsi alla conoscenza che è rimasto essenzialmente immutato fino ad oggi: uno può concordare o meno con la loro teoria, ma le loro argomentazioni sono logicamente incontrovertibili. L’Autore riporta l’affermazione degli scettici per cui noi conosciamo quello che è passato attraverso i nostri sistemi sensoriale e cognitivo. L’interazione tra questi due sistemi ci fornisce un’immagine della realtà. Ma non siamo in grado di sapere se tale immagine corrisponde realmente al mondo esterno, perché ogni volta che guardiamo la realtà la percepiamo sempre attraverso i nostri organi sensoriali e attraverso i filtri del nostro sistema cognitivo.

“Siamo quindi intrappolati in un paradosso: vogliamo credere di poter conoscere qualcosa del mondo esterno, ma non siamo in grado di affermare la verità di questa conoscenza”

I sensi potrebbero essere ingannevoli, e anche se non lo fossero non avremmo modo di verificarlo. La filosofia occidentale ha prodotto un sacco di “bei sogni” che raccontano come il mondo dovrebbe essere, ma non sono in grado di rispondere a una domanda radicale: quella che chiamamo conoscenza può essere considerata “vera”, cioè congruente a una conoscenza oggettiva che preceda l’esperienza?

E’ stato il Cardinale Bellarmino, convinto che ci fosse un modo migliore di trattare gli eretici intelligenti, a proporre a Galileo, per salvarlo dal rogo, di presentare le proprie teorie astronomiche in forma ipotetica, cioè come strumenti per fare dei calcoli e predizioni, piuttosto che come descrizioni del mondo di Dio. Questo anticipava il dialogo sulla separazione tra le conoscenze che potremmo chiamare “mistiche” e quelle “razionali”.

Su tale scia la filosofia scettica del XVI-XVII e XVIII con Montaigne, Gasendi e Marsenne hanno affermato che i modelli razionali dell’indagine scientifica possono essere considerati “modelli del nostro mondo esperienziale ma non di un mondo oggettivo”. L’Autore, riconoscendo due funzioni diverse alla visione “mistica” e a quella “razionale”, ma considerandole di pari dignità, cita Giambattista Vico: “Dio è l’artefice del mondo, l’uomo il Dio dei manufatti”.

  1. Un concetto evolutivo

“Una conoscenza efficace può essere prodotta solo attraverso un passaggio dal concetto di conoscenza come rappresentazione della realtà “oggettiva” a quello di conoscenza come rappresentazione della realtà più adatta”

Il modello di conoscenza mistico è giustificato dal dogma o dai libri sacri, mentre quello razionale, incrinatasi l’illusione di una conoscenza oggettiva della realtà, sembrava aver perso la sua ragione di essere. La teoria evolutiva di Darwin dice che un organismo per sopravvivere deve avere una struttura fisica e un comportamento adatti all’ambiente. L’adattamento, che non è altro che la “capacità di esistere” e sopravvivere in un ambiente, “non è in relazione con una rappresentazione vera del mondo esterno, ma alla capacità di far fronte alle circostanze”. Così anche un nuovo pensiero “per essere capace di esistere deve imporsi all’interno di uno schema di strutture concettuali esistenti in modo da non causare contraddizioni”. Per Piaget la conoscenza è un’attività di adattamento e “può essere prodotta solo attraverso un passaggio dal concetto di conoscenza come rappresentazione della realtà “oggettiva a quello di conoscenza come rappresentazione della realtà più adatta”. In questa prospettiva la conoscenza ci fornisce una mappa utile per orientarsi nell’ambiente, così come è percepito, non la riproduzione di un mondo oggettivo e indipendente.

  1. La Cibernetica

“Possiamo conoscere solo ciò che noi stessi abbiamo fatto”.

La cibernetica è una disciplina che studia gli organismi autoregolati e autorganizzati. L’Autore si domanda se anche la conoscenza non sia in realtà il risultato di un processo di autoregolazione, per rispondere a questo interrogativo è nata la “cibernetica di secondo ordine”, che si è interessata più dell’osservatore che delle cose osservate. I cibernetici dicono che : “la conoscenza comunque la si intenda, deve essere prodotta o costruita sulla base di un materiale accessibile al conoscitore”, che non è altro che una riformulazione di ciò che Gianbattista Vico diceva : “possiamo conoscere solo ciò che noi stessi abbiamo fatto”. Pertanto i cibernetici hanno iniziato a investigare su che cosa potesse essere accessibile al soggetto conoscente e che cosa invece fosse logicamente irraggiungibile. La conclusione a cui giungono è che i sistemi autoregolati sono chiusi per quanto riguarda la ricezione di informazioni, per dimostrare ciò si rifanno a Claude Shannon, il quale ha dimostrato che: “il significato delle informazioni non viaggia dall’emittente al ricevente; viaggiano solo i segnali; e i segnali risultano tali solo nel momento in cui qualcuno li può decodificare, e per fare ciò il ricevente deve conoscerne il significato.” Dunque la comunicazione può funzionare solo quando si sia precedentemente stabilito un codice comunicativo: quello che avviene nel caso della lingua; purtroppo, non abbiamo un codice pre-stabilito per i sensi, che ci permetta di decodificare i segnali che ci giungono da un ipotetico mondo esterno; ci è possibile pertanto guardare i segnali solo dall’interno, dalla parte del ricevente. Non possiamo dunque definire delle informazioni, supposte esistenti, al di là della nostra barriera percettiva.

LA CONOSCENZA È UN’ATTIVITÀ DEL SOGGETTO COSCIENTE

L’autore esamina i concetti di “differente” e “uguale”. Le nozioni di differenza e uguaglianza sono tra i primi ed indispensabili mezzi per costruire la conoscenza, ma sono essi stessi delle costruzioni. Vi sono due differenti tipi di uguaglianza: l’equivalenza -cioè due elementi uguali rispetto a tutte le caratteristiche esaminate-, e quello di “identità individuale” con cui indico una cosa che “non è del tutto o non solo” la cosa vista ieri, pur essendo lo stesso individuo. L’equivalenza ci aiuta a costruire la conoscenza classificando l’identità/entità individuale tramite la continuità. Pensiamo a una busta chiusa che abbiamo lasciato ieri sulla nostra scrivania: oggi, riprendendola in mano, diamo per scontato che sia la stessa busta di ieri, ma se qualcuno ci chiedesse come possiamo affermare che quella di oggi sia la medesima lettera di ieri… avremmo tutti delle difficoltà.

TEMPO E SPAZIO

Durante la notte i miei sensi non hanno fatto esperienza di nessuna lettera, eppure il giorno dopo affermo che questa sia la lettera di ieri. Sto assumendo che esista una continuità fuori dal mio mondo percettivo, che esista uno spazio al di là della mia esperienza dove le lettere e gli oggetti possono stare mentre non presto loro attenzione o percepisco altre cose.

L’autore chiama questo processo costruzione di un proto-spazio, una sorta di deposito dove possono essere messe le cose perché conservino la loro identità individuale mentre non vengono percepite. Sorge allora spontaneo chiedersi cosa fanno gli oggetti nel proto-spazio mentre io ne percepisco altri. Essi conservano la loro esistenza, durante lo scorrere della mia esperienza attuale, in modo che siano disponibili quando volgerò nuovamente la mia attenzione verso di loro. Questo parallelismo di due estensioni viene definito proto-tempo, differisce dal proto-spazio perché contiene le nozioni di “prima” e “dopo”. “Prima” e “dopo” non sono altro che proiezioni dell’esperienza di elementi all’interno del deposito proto-spaziale che non sono al momento nel campo della percezione. E’ questo parallelismo che ci permette di scegliere un’“esperienza standard” , come il movimento della lancetta di un orologio e proiettarlo su altre sequenze percettive, cioè la misura del tempo. Il tempo dunque non è un’illusione ma una costruzione.

Se tutto il mondo è una costruzione come posso ancora distinguere tra illusione e realtà? Ciò è possibile grazie alla ripetibilità, alla conferma di un altro metodo sensoriale o di un altro osservatore, ma non sulla base di una presunta verità. L’Autore conclude sostenendo che Il tempo e lo spazio sono materiali indispensabili per costruire una realtà razionale, e come piuttosto sia un’illusione la pretesa di una conoscenza razionale di una realtà assoluta e oggettiva che trascenda la nostra esperienza.

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10 April 2018

IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI

di Raffaele Avico

Ci ha lasciato ieri un luminare della psicoterapia e della psichiatria italiana, Giovanni Liotti, che insieme a Vittorio Guidano negli anni 80 contribuì a diffondere e promuovere la cultura cognitivista in Italia, in primis attraverso al fondazione della SITCC, Società Italiana per la Terapia Comportamentale e Cognitiva. Liotti è stato per noi un grande maestro e ispiratore, tanto potente intellettualmente quanto facile alla comprensione. Chi ha avuto la fortuna, come me, di ascoltare sue lezioni dal vivo, ne ricorda il senso di ricchezza e vitalità intellettuale, ma anche la grande organizzazione di pensiero che traspariva dalle sue parole. Si diceva, di Liotti, che fosse tanto difficile da ascoltare a lezione, quanto facile da approcciare nei suoi testi scritti (l’opposto invece di quanto si diceva di Guidano, i cui testi sono molto complessi): al contrario, io ricordo una grande organizzazione nei contenuti e un’efficacia comunicativa abbastanza unica: semmai, la difficoltà era, con Liotti, riuscire a contenere mentalmente tutto quello che portava (salti concettuali, riferimenti ad autori della psichiatria e psicologia clinica che pareva possedere totalmente, citazioni dotte in ambito letterario/poetico -per esempio la sua passione per il poeta nordico Transtromer). Dalle interviste presenti su Youtube, si troverà molto materiale a conferma di queste parole.

Liotti aveva indole gentile, ma modi fermi e il senso di padronanza dei concetti tipico dei grandi maestri. Il suo percorso di ricerca medico/scientifica ha spaziato negli anni entro molteplici ambiti, arrivando nell’ultimo periodo ad abbracciare una visione sistemica mutuata da più apporti teorici, culminata nel suo recente e bellissimo “Sviluppi Traumatici”. Questo libro propone una rilettura dell’eziologia dei principali e più diffusi disturbi psichiatrici alla luce di una conoscenza vasta e approfondita, precisissima, della Teoria dell’Attaccamento di Bowlby, unita alla teoria dei Sistemi Motivazionali Interpersonali che usava per leggere e rileggere gli atteggiamenti umani.

Questo volume ha il grande pregio di mostrare come nel contesto di uno sviluppo traumatico, l’essere umano è evolutivamente portato ad adattarsi al contesto problematico mettendo in atto delle strategie di controllo che nel tempo prendono la forma di sindromi psichiatriche. Accodandosi agli autori di riferimento in ambito di psicotraumatologia (come Van Der Hart), e contribuendo egli stesso ad ampliare e diffondere la cultura della psicologia dell’attaccamento e della psicotraumatologia, Liotti proponeva di rileggere certe forme di depressione, come dei tentativi esausti di evitare penosi attaccamenti problematici, o di vedere certe forme ansiose incentrate sul controllo, come degli attaccamenti invertiti (in cui il bambino è costretto a diventare genitore contenitivo del proprio genitore).

La portata culturale del suo lavoro è immensa.

Altri apporti teorici sono “La dimensione interpersonale della coscienza”, in cui già dal titolo cercava di mostrare come crescere in un ambiente problematico produca non solo una turbolenza in termini di senso di continuità relazionale, ma anche un vero e proprio modificarsi della continuità della coscienza intesa in senso più neurologico, fino all’ultimo “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali”, dove si spese a riguardo dell’aggressività umana non modulata.

Liotti fu un grandissimo studioso della psiche umana, con l’umiltà e il senso critico rigoroso dello scienziato, e l’amore di un bambino devoto al proprio gioco. Sarà un riferimento centrale per chiunque voglia approcciarsi allo studio della psicologia clinica usando categorie post-freudiane. E’ da notare tra l’altro che l’intelligenza di Liotti gli permise di mantenere un atteggiamento post-ideologico e non giudicante anche verso il sapere psicoanalitico, notoriamente avviso ai cognitivisti: Liotti rileggeva concetti simili, usando categorie diverse, largamente in grado di mantenere, dentro di sé, qualunque teoria o visione clinica, “a patto che funzioni”, come dovrebbe essere per chiunque ragioni in modo realmente scientifico.

La vita gli concesse grandi soddisfazioni in termini scientifici, e il riconoscimento della paternità, insieme a Vittorio Guidano, del cognitivismo italiano. Si apre ora l’epoca dell’esplorazione del vasto territorio culturale da lui donatoci in eredità.

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9 April 2018

ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT

di Luca Proietti

La Psicoterapia Cognitivo Comportamentale (CBT) è indubitabilmente quella su cui si sono concentrati i maggiori sforzi per una validazione scientifica. Se da un lato l’impegno posto negli anni per validarla scientificamente abbia portato “buoni frutti” e sia da prendere come riferimento, d’altra parte assumere assolutisticamente che la CBT sia il trattamento Gold Standard in psicoterapia risulta pericoloso, o quantomeno prematuro. Due ricercatori tedeschi mostrano come molti degli studi che supportano l’efficacia della CBT siano in realtà viziati da errori che ne minano la validità. Pertanto, oggi più che mai, memori dell’era psicoanalitica, appare importante lavorare per una pluralità in psicoterapia. Questa è l’unica strada per giungere, tramite un confronto continuo e arricchente, ad un miglioramento della qualità e dell’efficacia dei trattamenti. Il mondo scientifico deve evitare il rischio di re-instaurare una dittatura monopolistica della validità in psicoterapia, ciò infatti andrebbe solo a scapito del progresso e della cura.

CONTESTO

La psicoterapia è uno dei trattamenti più dibattuti in ambito scientifico e non solo. La necessità di conformarsi ai criteri di validazione della medicina moderna, basati sulla evidence-based medicine, è sicuramente una garanzia nella valutazione dell’effettiva efficacia di trattamenti che, in passato, si fondava solamente sulla descrizione di serie di casi clinici, riportati da terapeuti di differenti approcci. Ad oggi la CBT è la psicoterapia che più facilmente, anche per le sue prerogative, si è interfacciata con il mondo evidence-based e degli studi scientifici. Questo, unito alle dimostrazioni di efficacia ottenute, ha fatto sì che la CBT sia stata eletta (quantomeno al contesto accademico della medicina) come il trattamento psicoterapeutico “Gold Standard”. Ma Gold Standard per chi, per cosa, e perché? Il rischio è quello di un “ritorno dell’uguale”, ovvero di rivivere predomini ideologici già vissuti e superati. Infatti, un tempo, quando si parlava di psicoterapia si pensava solo alla psicoanalisi. Oggi, viceversa, la tentazione è che guardando alla CBT si scotomizzino le altre forme di psicoterapia presenti.

Recentemente la rivista JAMA Psychiatry ha pubblicato una breve articolo di F. Leichsenring e C. Steinert, due ricercatori dell’università di Giessen in Germania, dal titolo “Is Cognitive Behavioral Therapy the Gold Standard for Psychotherapy? The Need for Plurality in Treatment and Research”.

A seguire un breve report su quanto sostenuto dagli Autori nell’articolo.

Link alla pagina pubmed https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28975264.

REPORT

Gli autori esordiscono sottolineando come circa il 75% dei pazienti preferisca la psicoterapia al trattamento farmacologico. Vi sono molti approcci di psicoterapia, ad esempio la terapia cognitivo comportamentale (CBT), la psicoterapia interpersonale o la psicoterapia psicodinamica. La CBT è generalmente considerata come il gold standard, la psicoterapia più efficace per il trattamento della maggior parte dei disturbi psichici. La divisione 12 della task force dell’American Psychological Association ha indicato la CBT come l’unica psicoterapia fortemente supportata da evidenze scientifiche, e lo sarebbe in almeno l’80% dei disturbi psichici.

Tuttavia gli autori evidenziano alcune criticità degli studi scientifici che supportano l’efficacia della CBT, in particolare: 1) la limitata qualità degli studi; 2) la debolezza dei test di confronto per il controllo dell’efficacia; 3) il fenomeno della devozione dei ricercatori (Researcher Allegiance); 4) I meccanismi che sono ipotizzati essere alla base del cambiamento non sono corroborati e infine 5) La CBT non è risultata efficace su tutti i disturbi. Vediamoli uno ad uno.

  1. Limitata qualità degli studi.
    Una meta-analisi recente, basata sui criteri della Cochrane, sottolinea come solo il 17% degli studi di efficacia (trial clinici randomizzati o RCT) sulla CBT nei disturbi d’ansia e depressivi siano di alta qualità (Cuijpers et al., 2016).
  2. Debolezza dei test di confronto per il controllo dell’efficacia.
    Per testare l’efficacia di un intervento lo si confronta con diversi comparatori, in ordine decrescente di validità scientifica (sono un trattamento definito, il trattamento abituale, un placebo o l’inserimento in lista d’attesa). La CBT è stata confrontata con liste d’attesa in più del 80% dei 121 studi sui disturbi d’ansia e nel 44% di quelli sulla depressione maggiore. Ciò potrebbe aver portato ad una sovrastima della validità del trattamento, soprattutto se si considera che l’inserimento in lista d’attesa può anche rappresentare una condizione di tipo nocebo.
  3. Devozione dei ricercatori.
    La Researcher Allegiance (letteralmente devozione del ricercatore) è la credenza da parte del ricercatore nella superiorità di un dato trattamento. La devozione dei ricercatori, se non adeguatamente considerata, può influenzare i risultati dei trial clinici tramite scelte non pienamente consapevoli. In particolare i clinical trial sui traumi o sulla fobia sociale presentavano condizioni vantaggiose per la CBT, ma sfavorevoli per gli altri approcci (Wampold & Imel, 2015).
  4.  I meccanismi fondamentali ipotizzati alla base del cambiamento non sono corroborati.
    Le psicoterapie a impronta cognitivista assumono che il miglioramento della sintomatologia si ottenga attraverso cambiamenti dei processi chiave di cognizione (come la triade negativa della depressione: visione negativa del sé, degli altri e del futuro). Una revisione della letteratura conclude che sebbene della CBT si sia dimostrata l’efficacia, l’assunto sul suo “meccanismo” di funzionamento sia ancora da corroborare. In altre parole, la psicoterapia è efficace ma non sappiamo completamente il perché (Kazdin et al., 2007).
  5. La CBT non è una panacea per tutti i mali.
    Diverse revisioni riscontrano una limitata efficacia della CBT. Ad esempio, studi di alta qualità sui disturbi d’ansia e depressivi dimostrano un’efficacia della CBT inferiore a quelli di bassa qualità (Cuijpers et al.,2016). Inoltre, negli studi di alta qualità la CBT ha mostrato una limitata differenza di efficacia rispetto al trattamento abituale (Cuijpers et al.,2016; Wampold & Imel, 2015). Infine, i tassi di risposta e remissione sono risultati moderati: quello di risposta nei disturbi depressivo-ansiosi è intorno al 50%, e quelli di remissione sono ancora minori.

Gli autori affermano come dopo la fase storica di prevalenza di un modello psicoanalitico in psicoterapia sia iniziata l’era CBT-centrica. La CBT è sicuramente di beneficio per molti pazienti ma non risulta “nettamente più efficace” degli altri approcci nel trattamento dei disturbi depressivo-ansiosi, di personalità o alimentari. E’ pertanto improprio, o quantomeno azzardato, considerarla “il” gold standard in psicoterapia.

Molti dei risultati riportati dagli Autori in questa disamina sono stati ottenuti da ricercatori CBT o indipendenti, per cui non dovrebbero risultare viziati da pregiudizi ideologici, inoltre non derivano da studi individuali ma da meta-analisi e revisioni sistematiche, aspetto che ne incrementa la validità. Dichiarare la CBT sia “il” gold standard in psicoterapia risulta dannoso non solo per le possibili implicazioni cliniche ma anche per il progresso scientifico, poiché i ricercatori di altri approcci potrebbero non avere opportunità uguali di finanziamento.

Ad oggi nessuna psicoterapia può essere dichiarata il gold standard e ciò sottolinea l’importanza della pluralità nei trattamenti e nella ricerca. Ogni psicoterapia basata sull’evidenza ha propri punti di forza, sia essa focalizzata su processi cognitivi, emozionali, interpersonali o inconsci. Un approccio plurale nella ricerca e nel trattamento è quello che permetterà di superare i limiti propri di ciascun modello, stimolando l’apprendimento reciproco in una dinamica di confronto volta a migliorare quello che è il fine ultimo di ogni trattamento: la cura del paziente.

BIBLIOGRAFIA

Cuijpers et al., How effective are cognitive behavior therapies for major depression and anxiety disorders? ameta-analytic update of the evidence. World Psychiatry. 2016;15(3):245-258.

Wampold & Imel. The Great Psychotherapy Debate: The Evidence for What Make Psychotherapy Work. 2nd ed. New York, NY: Routledge; 2015.

Kazdin. Mediators and mechanisms of change in psychotherapy research. Annu Rev Clin Psychol. 2007;3:1-27.

 

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5 April 2018

COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon

di Matteo Respino

In questo Commentary, recentemente pubblicato su Nature Neuroscience, JA Gordon fornisce una descrizione accurata di quella che sembra essere una delle strade oggigiorno percorse dalla ricerca in psichiatria, con le sue possibili direzioni, obiettivi, ma anche limiti e difficoltà. Così facendo, accenna ad una nuova figura che pare pronta a entrare in campo, dopo lungo tempo in panchina, nella partita contro la sofferenza mentale. Questo nuovo attore sarà il Circuit Psychiatrist.

Costui utilizzerà strumenti innovativi per l’identificazione e la manipolazione di specifici circuiti cerebrali. Una volta passata l’era della frenologia, quando si pensava che ad un’area cerebrale corrispondesse una funzione complessa, per molto tempo si è ritenuto folle poter associare specifici corrispettivi anatomo-funzionali a funzioni cognitive “di alto livello”. Con l’avvento della Circuit Psychiatry tale ambizione non può più essere ritenuta fuori portata: tale avvento corrisponde infatti alla nascita di un nuovo approccio allo studio delle funzioni mentali complesse: lo studio delle reti neurali. Utilizzando questa prospettiva “di circuito funzionale”, o “di rete”, sono stati sviluppati strumenti con la potenzialità di “accendere” o “spegnere” circuiti neurali che sottendono a specifici vissuti o corrispettivi comportamentali. L’Autore cita l’esempio dell’amigdala e dell’immenso contributo fornito allo studio dei suoi circuiti da diversi gruppi di ricerca, in primis dal gruppo di J. Le Doux. Oggi, infatti, sappiamo che a livello amigdaloideo alcuni circuiti consentono l’attribuzione di valenza positiva a situazioni/oggetti (sostenendo la “motivazione”), mentre altri sono alla base dell’attribuzione di valenza negativa (che sostiene ansia e i corrispettivi comportamentali di evitamento o fuga). L’Autore ci invita a immaginare una situazione in cui nuovi strumenti terapeutici, fondati su questo nuovo modello delle malattie mentali, consentiranno di ridurre l’attivazione dei circuiti che sostengono la valenza negativa, riducendo l’ansia, senza per questo spegnere/disattivare quelli che sostengono la valenza positiva e quindi la motivazione.

Innanzitutto tali circuiti potrebbero essere oggetto primario di manipolazione diretta. Un esempio è l’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica (TMS), già ampliamente usata in contesto clinico. Nonostante la TMS sia già un trattamento disponibile e praticato, è come se oggi venisse praticata “alla cieca”. Infatti, poco ancora si conosce circa l’attivazione downstream di circuiti specifici indotta dalla stimolazione transcranica di un’area corticale o di un’altra. Per colmare questa lacuna, alcuni gruppi di ricerca stanno lavorando proprio all’identificazione delle conseguenze “circuitali” (e dei suoi corrispettivi comportamentali) secondarie alla stimolazione di alcuni aree corticali ben definite. La Circuit Neuroscience consentirà quindi di identificare target mirati per un ventaglio di possibili trattamenti “anatomo-specifici”. Un altro esempio, che in questo caso tocca il livello dell’azione molecolare, è l’utilizzo di vettori virali per ottenere effetti terapeutici agendo sui circuiti di livello sottocorticale, come nel caso della malattia di Parkinson.

Nonostante i grandi (e realistici) entusiasmi, la strada è ancora lunga. Sarà infatti necessario aumentare la consapevolezza sul “come” certi circuiti cerebrali degenerano, o “malfunzionano”, in certe patologie, e quantificare l’efficacia di eventuali nuovi interventi terapeutici fondati su queste basi. Infatti, per quanto tale ambito sia, di fatto, un’affascinante frontiera della psichiatria contemporanea, non è affatto detto che gli interventi sviluppati a partire dalla Circuit Psychiatry avranno la capacità/opportunità di divenire “costo-efficaci”: questo richiederà la dimostrazione di un’efficacia reale, un costo accessibile, e una semplificazione degli interventi che ne consenta la diffusione anche al di fuori di contesti altamente specializzati. Una strada sicuramente lunga da percorrere, ma molto promettente.

Link pubmed all’articolo: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27786177

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25 March 2018

KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2


di Matteo Respino

LA PERSONALITÀ SECONDO OTTO KERNBERG

Tutti noi, indipendentemente dal grado di preparazione, abbiamo una certa idea di cosa sia la “personalità”. Si tratta infatti di una parola che veicola un concetto immediato: una sua definizione di getto potrebbe essere “l’insieme delle caratteristiche comportamentali che rendono una tal persona quello che è”. Definizione tanto chiara in apparenza quanto esoterica ad un’osservazione più minuziosa! A ben vedere, se è pur vero che il significato di “personalità” potrebbe apparire colloquiale, alla portata, finanche un po’ scontato, una sua definizione tecnica è invece tutto tranne che ovvia. La difficoltà sta nel fatto che la personalità è un concetto generico, ampio, che raccoglie ed organizza una serie di sistemi minori (tipo il carattere, o il temperamento, eccetera) secondo una serie di regole, producendo un risultato finale che coincide con le specificità peculiari del singolo individuo. Per approfondire l’argomento useremo un articolo di Otto Kernberg. Nel saggio “What is Personality?”, pubblicato sulla rivista Journal of Personality Disorders nel 2016, l’Autore offre infatti una visione tanto sintetica quanto completa sul concetto di personalità.

Link all’articolo: https://guilfordjournals.com/doi/abs/10.1521/pedi.2106.30.2.145

Secondo Kernberg, il concetto di personalità si riferisce all’ “integrazione dinamica della totalità delle esperienze soggettive e dei pattern comportamentali, includendo sia 1) comportamenti consci, concreti e abituali, esperienze del sè e dell’ambiente circostante, pensiero conscio, esplicito, desideri e paure abituali oltre a 2) esperienze, stati affettivi e pattern comportamentali inconsci”. Nel suo complesso, la personalità funziona come un “organizzatore dinamico”, integrando (o disintegrando) singole componenti, di diversa natura, che collaborano ad un risultato finale dotato di coerenza e specificità.

L’Autore sottolinea inoltre come in tempi recenti si stia assistito allo sviluppo di una visione sempre più integrata dei vari “fattori determinanti” della personalità, grazie alla comunicazione sempre più stretta tra aree di investigazione differenti: dagli avanzamenti scientifici nel campo della neurobiologia degli stati affettivi, all’osservazione delle interazioni bambino-caregiver e dello sviluppo psichico dall’infanzia all’età adulta.

La Personalità viene descritta da Kernberg come una sovrastruttura che contiene ed allo stesso tempo organizza una serie di sistemi minori: temperamento, relazioni oggettuali, carattere, identità, sistema di valori e intelligenza.

  1. Il temperamento è la “struttura costitutiva fondamentale” della personalità. Si tratta di un concetto strettamente legato alla genetica e alla biologia, e corrisponde ad una modalità, particolarmente stabile nel tempo, di rispondere/reagire agli eventi. L’Autore descrive il temperamento come la “reattività generale fisiologica” del nostro organismo. Tale “reattività di fondo”, prima di tutto affettiva ma anche psicomotoria e cognitiva, sarebbe alla base delle interazioni con l’ambiente che potenzialmente inducono stati affettivi positivi (stimoli gratificanti) o negativi (stimoli aversivi). In tal senso il temperamento costituirebbe l’elemento fondante del cosiddetto “sistema motivazionale”. La reattività di fondo del nostro organismo ha poi un ruolo centrale nel delineare le caratteristiche delle modalità di “attaccamento-separazione”, le quali, nel bambino, guidano la ricerca del contatto con il corpo materno stabilendo così le caratteristiche della primissima relazione oggettuale, o relazione oggettuale “prototipo”.
  2. Il carattere consiste in una “struttura di pattern comportamentali dinamicamente integrati”. Se ci pensate tutti tendiamo a ripetere, in situazioni piu’ o meno simili, gli stessi “tipi di comportamenti”: su questa base si sostiene che “quello sia proprio il carattere di Tizio”.  Procedendo con ordine (anche cronologico o di sviluppo): sul temperamento si fonda lo sviluppo e la qualità dei sistemi motivazionali, e pertanto il modo con cui le prime relazioni oggettuali vengono a costituirsi; il carattere si sviluppa invece a partire dall’interiorizzazione di quelle stesse relazioni oggettuali (buone o cattive, idealizzate o persecutorie), essendo quindi “successivo” al temperamento. Tale interiorizzazione avviene nella forma di rappresentazioni (di nuovo, idealizzate o persecutorie) che influenzeranno radicalmente lo sviluppo di certi “modelli interni di comportamento” e, a cascata, di certi pattern comportamentali, ovvero del “carattere propriamente detto”. In parallelo allo sviluppo del carattere avvengono anche l’integrazione ed il consolidamento delle varie rappresentazioni mentali del sé e degli altri: da questa “ricostruzione”, nel suo complesso, origina l’identità dell’Io: la rappresentazione integrata, globale e cristallizzata di se stessi nel contesto delle relazioni abituali con gli altri.
  3. Anche lo sviluppo di un sistema integrato di valori (Super-Io), per la cui descrizione Kernberg si rifà al lavoro di Edith Jacobson, deriva dalle relazioni oggettuali interiorizzate. Specificamente, esso deriverebbe da un particolare aspetto delle relazioni oggettuali, ovvero da un ampio spettro di richieste e proibizioni (inizialmente parentali, il “No!” della mamma, poi sociali) che danno avvio all’identificazione del bambino con i principi etici e morali che governano in primis la propria casa, e poi l’ambiente sociale. Questo sviluppo di un set di principi etici interiorizzati è parte fondamentale di una personalità sana, tanto che molti “disturbi gravi di personalità”, ovvero disturbi di personalità scarsamente trattabili, a prognosi negativa, presentano anomalie di questa componente specifica. Ad esempio, questo può avvenire nella forma di una mancata o insufficiente integrazione di questi valori nel contesto dell’identità, dinamica che clinicamente si esprime nello sviluppo di comportamenti antisociali.
  4. Il potenziale cognitivo individuale, o intelligenza, ha un ruolo rilevante nell’influenzare gli altri sistemi e, quindi, la personalità nella sua “manifestazione completa e finale”. In linea generale, tale influenza avviene attraverso la maggiore capacità di astrazione e di lettura dell’ambiente circostante posseduta dalle persone intelligenti. Non si tratterebbe però di un beneficio “a 360 gradi”, quantomeno in termini di “clinica dei disturbi di personalità”: l’Autore sottolinea infatti come si trovino soggetti con personalità patologica per ogni livello di intelligenza. Se da un lato infatti un grande potenziale di controllo cognitivo potrebbe, ad esempio, mitigare gli effetti negativi precoci di un ambiente traumatizzante, dall’altro la “razionalizzazione” di aspetti patologici del carattere può essere fortemente rinforzata da un alto potenziale cognitivo.

 

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19 March 2018

IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.

di Luca Proietti

Koukopoulos e Ghaemi ribaltano la visione tradizionale per cui la mania sarebbe una reazione alla depressione. Il “core” della psicopatologia ed il target terapeutico dei disturbi dell’umore potrebbe essere dunque la mania o in generale l’arousal psicomotorio. Secondo la teoria del primato della Mania, la depressione consisterebbe in un esaurimento conseguente a una fase di eccitamento, e la cura dei disturbi dell’umore dovrebbe quindi essere volta alla prevenzione delle fase di iperattivazione.

Nel 2009 è stato pubblicato sulla rivista European Psychiatry l’articolo “The primacy of mania: A reconsideration of mood disorders” di Athanasios Koukopoulos e Nassir Ghaemi. Un articolo da non perdere assolutamente poichè capovolge la visione tradizionale del disturbo Bipolare in cui la mania altro non sarebbe che una reazione difensiva, una “fuga”, dalla depressione.

A seguire un breve report su quanto sostenuto dagli Autori nell’articolo. Link alla pagina pubmed: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18789854.

REPORT

Gli autori propongono una visione dei disturbi dell’umore per cui la Mania e la Depressione sarebbero strettamente connesse, in maniera unidirezionale e opposta alla concezione tradizionale che vede la Mania come una reazione, una lotta alla Depressione. Koukopoulos e Ghaemi sostengono che la Depressione deriverebbe dall’ “esaurimento neuropsichico” conseguente ai processi eccitatori della Mania: Primato della mania (PM), ovvero “mania is fire and depression its ash”.

Secondo gli autori la Psichiatria moderna assume infatti una concezione troppo ristretta della “Mania” e troppo ampia della “Depressione”. La Mania, secondo loro, comprenderebbe anche l’ampio spettro di quei comportamenti “non esplicitamente euforici” ma comunque caratterizzati da attivazione o agitazione psicomotoria. Ciò spiegherebbe il verificarsi della maggior parte degli episodi depressivi, in particolare nei disturbi bipolari, nelle persone con labilità emotiva e nei quadri ansioso-depressivi.

I due autori riportano le evidenze della Psicopatologia e della Psicofarmacologia a sostegno della loro ipotesi, per poi dibattere le questioni che sembrerebbero invece contraddirla.

Alcuni brevi cenni di evidenze a sostegno di questa ipotesi:

  1. Il pattern di ciclicità Mania-Depressione-Intervallo libero (MDI) mostra la migliore risposta alla terapia: se si tratta in primo luogo la fase di mania, quella successiva di depressione tende a non comparire.

  2. L’eccitamento psicomotorio, più frequentemente di quanto si pensi, comprende o è parte di stati depressivi: più del 50% degli episodi diagnosticati come maniacali (Cassidy et al., 1998) e fino al 50% di quelli depressivi maggiori (Benazzi 2001) sarebbero in realtà stati misti.

  3. Le persone con disturbo bipolare riportano l’ esperienza soggettiva per cui la Depressione seguirebbe la Mania piuttosto che viceversa.

Gli autori sostengono che l’efficacia del Litio e degli antiepilettici nella profilassi delle ricadute depressive del Litio e degli antiepilettici deriverebbe dalla loro attività antimaniacale, questi farmaci non dimostrano infatti attività antidepressiva diretta. Gli episodi depressivi che rispondono agli antipsicotici sarebbero invece stati misti depressivi. Il trattamento più efficace della depressione nel D. Bipolare è quindi quello indiretto, cioè la prevenzione degli episodi maniacali, mentre in acuto sarebbe indicata la riduzione del dosaggio di stabilizzatore, e l’eventuale aggiunta di un antidepressivo, solo se necessario, per poi sospenderlo appena raggiunta l’eutimia.

Obiezioni all’ipotesi del primato della mania:

a) La depressione unipolare non è preceduta da periodi di eccitamento della psicomotricità. Potrebbe essere un altro disturbo rispetto a quella del D. bipolare o essere conseguente a:

  1. Periodi di ansia intensa, come nel caso delle “depressioni ansiose” (Kendler et al., 1992; Silverstone & Von Studnitz, 2003)
  2. Non riconoscimento di episodi ipomaniacali precedenti (Cassano et al.,2004)
  3. Alcune depressioni avvengono in persone con temperamenti ipertimici (Cassano et al., 1992)

b) La presenza di pattern di ciclicità Depressione-Mania-Intervallo libero (DMI) nel 25% dei pazienti (Koukopulos et al 1980). In questo caso da notare come tale pattern sia frequentemente “indotto” dalla terapia antidepressiva. Inoltre, nei periodi precedenti la depressione, spesso sarebbero presenti:

  1. Sintomi di eccitamento o attivazione psicomotoria non riconosciuti (Whitman & Leitenberg, 1990; Akiskal & Benazzi 2005),

  2. Abuso di sostanze eccitanti come la caffeina (Veleber & Templer 1984; Wehr et al., 1988)

  3. Disturbi del sonno (Frank et al., 2006)

c) La sospensione degli antidepressivi nel 5-10% dei casi può portare inspiegabilmente a episodi maniformi (Ali & Milev, 2003). Secondo alcuni autori questi casi contraddirebbero il primato della mania (Goldstein et al. 1999). Sono però casi rari e sembrano dovuti a meccanismi da iper-attivazione da rebound di alcuni sistemi neurotrasmettitoriali (Dilsaver et al., 1994).

In conclusione, l’ipotesi che la Mania anticipi ed in certo senso determini la fase successiva di depressione potrebbe essere un indirizzo promettente per future ricerche volte a chiarire i meccanismi del Disturbo Bipolare. Detto questo, è evidente come ci sia ancora molta strada da fare prima di poter definire se, tra mania e depressione dei pazienti bipolari, “venga prima l’uovo o la gallina”.

BIBLIOGRAFIA

Akiskal HS, Benazzi F. Optimizing the detection of bipolar II disorder in outpatient private practice: toward a systematization of clinical diagnostic wisdom. J Clin Psychiatry 2005;66(7):914-21.

Ali S, Milev R. Switch to mania upon discontinuation of antidepressants in patients with mood disorders: a review of the literature. Can J Psychiatry 2003;48(4):258-64

Benazzi F. Depressive mixed state: testing different definitions. Psychiatry Clin Neurosci 2001;55(6):647-52.

Cassano GB, Rucci P, Frank E, Fagiolini A, Dell’Osso L, Shear MK, et al. The mood spectrum in unipolar and bipolar disorder: arguments for a unitary approach. Am J Psychiatry 2004;161(7):1264-9.

Cassidy F, Murry E, Forest K, Carroll B. Signs and symptoms of mania in pure and mixed episodes. J Affect Disord 1998;50:187-201.

Dilsaver S, Chen Y, Swann A, Shoaib A, Krajewski KJ. Suicidality in patients with pure and depressive mania. Am J Psychiatry 1994;151: 1312-5.

Frank E, Gonzalez JM, Fagiolini A. The importance of routine for preventing recurrence in bipolar disorder. Am J Psychiatry 2006;163(6): 981e5.

Goldstein T, Frye M, Denicoff K, Smith-Jackson E, Leverich G, Bryan A, et al. Antidepressant discontinuation-related mania: critical prospective observation and theoretical implications in bipolar disorder. J Clin Psychiatry 1999;60(8):563-7.

Kendler KS, Heath AC, Martin NG, Eaves LJ. Symptoms of anxiety and symptoms of depression. Arch Gen Psychiatry 1987;44:451-7.

Kendler KS, Neale MC, Kessler RC. Major depression and generalized anxiety disorder: same genes, (partly) different environment? Arch Gen Psychiatry 1992;49:716-22.

Koukopoulos A, Koukopoulos A. Agitated depression as a mixed state and the problem of melancholia. Psychiatr Clin N Am 1999;22(3):547-64.

Koukopoulos A, Reginaldi D, Minnai G, Serra G, Pani L, Johnson FN. The long-term prophylaxis of affective disorders. In: Gessa G, Fratta W, Pani L, Serra G, editors. Depression and mania: from neurobiology to treatment. New York: Raven Press; 1995.

Koukopulos A, Reginaldi D. Does lithium prevent depressions by suppressing manias? Int Pharmacopsychiatry 1973;8(3):152-8.

Kukopulos A, Reginaldi D, Laddomada P, Floris G, Serra G, Tondo L. Course of the manic-depressive cycle and changes caused by treatment. Pharmakopsychiatr Neuropsychopharmakol 1980;13(4):156-67.

Silverstone PH, von Studnitz E. Defining anxious depression: going beyond comorbidity. Can J Psychiatry 2003;48(10):675-80

Veleber DM, Templer DI. Effects of caffeine on anxiety and depression. J Abnorm Psychol 1984;93(1):120-2.

Whitman PB, Leitenberg H. Negatively biased recall in children with self-reported symptoms of depression. J Abnorm Child Psychol 1990; 18(1):15-27.

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15 March 2018

IL CESPA

di Raffaele Avico

IL CE(S)PA è uno strumento che in psicoterapia cognitiva viene usato per fare degli zoom su quella che è l’esperienza del paziente, usando la memoria episodica.

La memoria ha molti registri, ma di solito viene suddivisa in:

  • memoria episodica (che riguarda singoli momenti, specifici, che si allenta nel tempo e con cui ricordiamo noi stessi o altri, in un determinato contesto
  • memorie semantica (che riguarda concetti e conoscenze apprese, e che ci permette di ricordare come si fanno le cose, per esempio guidare la bicicletta una volta appresi i passaggi necessari)
  • memoria autobiografica (con cui osserviamo noi stessi nel passato fare cose o sentire emozioni)
  • memoria somatica o procedurale (incarnata e pre-cognitiva, non verbale, che si imprime nel nostro corpo attraverso sensazioni che sentiamo e ci ricordiamo nel tempo, sia in positivo che in negativo – è il senso percepito di sicurezza sperimentato da bambini in un determinato ambiente di casa, o il senso al contrario di terrore che sperimentammo e che rimase “incarnato” nei nostri muscoli nel tempo).

Il CESPA si applica cercando di lavorare su episodi singoli, non distanti nel tempo (in modo che la memoria episodica non sia allentata, appunto), e serve a scandagliare quelli che in psicoanalisi verrebbero definiti Modelli Operativi Interni, che la psicoterapia evoluzionistica e cognitiva chiama invece Sistemi Motivazionali Interpersonali (Accudimento, Attaccamento, Cooperazione, Sessualità, Agonismo ritualizzato, Appartenenza, Gioco), ovvero tendenze innate all’azione che hanno “scopi” interpersonali e che “producono” diverse e molteplici emozioni (per esempio, l’attaccamento si accompagna alla paura esperita quando non viene trovato se ricercato, l’agonismo ritualizzato alla rabbia, etc).

CESPA è un acronimo che significa:

C – contesto

E – emozione

S – sensazione somatica

P – pensiero

A – azione

Chiedere a un paziente di fare un CESPA significa chiedergli di rievocare nella sua memoria episodica un singolo evento (per esempio, essere in auto, imbottigliato nel traffico, in preda a una crisi d’”ansia” – dove “ansia”, per un terapeuta, è molto generica come sintesi).

Il lavoro consiste nel dirigere l’attenzione al Contesto (perché ero lì, cosa stavo facendo), all’Emozione sperimentata (come mi sentivo, come definirei l’emozione che stavo sentendo), alla Sensazione esperita (nel corpo, cosa mi stava succedendo?), al Pensiero (cosa pensavo in quel preciso momento?) e all’Azione (cosa mi veniva da fare, cosa sentivo di voler o dover fare?).

Rispondere a questi quesiti non è sempre semplicissimo, richiede un lavoro di focalizzazione.

Sentire le emozioni, in particolare, per alcuni pazienti può risultare particolarmente difficile: in questo senso portare l’attenzione agli indicatori corporei delle emozioni (la S di ceSpa) aiuta a fornire una risposta più esauriente (la paura, per esempio, ricade nel corpo in modo molto diverso dalla rabbia, o dal disgusto: tutte emozioni collegate ai Sistemi Motivazionali prima citati, emozioni quindi primarie, non troppo elaborate o “epistemiche” -come potrebbe essere, per esempio, l’emozione della noia).

Lavorare con lo strumento del CESPA consente di fare quindi dei piccoli zoom su delle situazioni di vita reali del paziente, per aiutarlo in due modi:

  1. aiutarlo a formulare dei collegamenti tra piani diversi dell’esperienza vissuta (aiutandolo a focalizzare meglio sull’emozione sperimentata, per esempio, collegandola in termini “narrativi” alla tendenza all’azione messa in atto, e ai pensieri fatti), nell’ottica di un allargamento della consapevolezza metacognitiva
  2. condurlo a una maggiore consapevolezza sulle motivazioni sottostanti alle emozioni sperimentate: tornando alla crisi d’ansia in mezzo al traffico, poter comprendere la richiesta che l’ansia portava in sé (per esempio se fosse connessa al rivivere qualche esperienza passata di mancato attaccamento sperimentato, o mancata appartenenza, o se fosse stato elicitato in modo ipertrofico il sistema agonistico). Interrogarsi a proposito della motivazione “interpersonale” dell’ansia, sposta l’attenzione e la domanda clinica sul significato relazionale del sintomo: ci obbliga a chiederci – in questo caso attraverso l’applicazione del CESPA – se dietro il sintomo non si nascondano richieste di natura interpersonale. Questo interessante articolo, scritto dagli operatori del centro Austen Riggs, negli USA, chiarifica come dietro ogni “agìto” si nasconda un enactment relazionale: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19591566.

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9 March 2018

COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD

di Raffaele Avico

Il saggio breve Lutto e Melanconia di Freud rappresenta un eccezionale documento ed esempio di lucidità descrittiva intorno al tema che porta in oggetto, oltre essere una testimonianza unica del talento narrativo di Sigmund Freud.

L’autore apre facendo una breve descrizione della differenza tra il lutto e la melanconia. Freud descrive il lutto come:

“la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via”,

che ha come conseguenze

“un doloroso stato d’animo, la perdita d’interesse per il mondo esterno – fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c’è più- , la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l’avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria”.

Freud spiega inoltre come per compiere il lavoro del lutto debba essere effettuato uno spostamento di investimento libidico su un altro oggetto che non siano l’oggetto perso. Strutturalmente, tuttavia, l’uomo pare essere portato a mantenere per più tempo possibile l’adesione libidica verso l’oggetto (“gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica”), e quindi il lavoro del lutto richiede tempo e richiede dei passaggi (per esempio, Freud sottolinea, il sovra-investimento di tutti i ricordi e le aspettative connesse all’oggetto perduto, che devono essere uno per uno abbandonati). Solo allora, Freud scrive, “l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito”.

Per quanto riguarda invece la melanconia, Freud sottolinea che i pazienti melanconici paiono soffrire del lutto (intenso come perdita) per un qualcosa che però rimane “enigmatico”. Ovvero, sembra che il lavoro del lutto venga svolto al di sotto del livello della coscienza. Si sa che qualcosa si è perso, ma non si capisce bene cosa. Questo avviene in altri termini quando la perdita è “inconsapevole”. Le conseguenze di questo lavoro di elaborazione del lutto a livello sub-cosciente, Freud afferma, sono un progressivo svuotamento del senso dell’Io: in questo caso non è tanto il mondo a essersi svuotato di qualcosa (come nel lutto), quanto il senso dell’Io.

Freud afferma:

“ll quadro di questo delirio d’inferiorità (prevalentemente morale) è completato da insonnia, rifiuto del nutrimento e da un tratto notevolissimo sotto il profilo psicologico, ossia dal superamento di quella pulsione che costringe ogni essere vivente a restare fortemente attaccato alla vita“.

Freud prosegue notando come nel paziente melanconico esista una grande lucidità nel descrivere il suo stato interiore, come una limpidezza acquisita che gli consente ora di osservare dentro di sé la natura più psicologica e morale del suo essere. In questo caso, Freud dice, avviene una divisione verticale dell’Io, che si configura ora come scisso, e con una parte che critica l’altra: la coscienza (che rappresenta una delle parti dell’Io diviso) interviene a giudicare l’Io stesso da un punto di vista morale:

“Nel quadro morboso della melanconia emerge in primo piano, rispetto alle altre rimostranze, la riprovazione morale nei confronti del proprio Io; la valutazione di sé si basa assai più raramente su imperfezioni fisiche, bruttezza, debolezza, inferiorità sociale; solo l’impoverimento assume una posizione di rilievo fra i timori o le dichiarazioni del malato“

Inoltre, Freud sostiene, questo meccanismo di auto-accusa proverrebbe, a sua volta, da un atteggiamento di “rivolta” verso qualcosa di esterno, messo in piedi dal soggetto, solo in seguito rivolto a sé. A ben guardare la sintomatologia del paziente melanconico, Freud sottolinea, si nota che il soggetto melanconico rivolge a sé delle accuse che in realtà vorrebbe indirizzare all’esterno di sé:

“tutto ciò è possibile soltanto perché il loro modo di reagire continua a derivare da una costellazione psichica di rivolta, la quale poi, in virtù di un determinato processo, è evoluta fino a trasformarsi in contrizione melanconica“

Il processo citato in questo passaggio, Freud lo descrive come un passaggio anomalo dell’investimento libidico del paziente: trovandosi a dover abbandonare l’oggetto d’amore iniziale, e non riuscendo a investire in tempo breve su un altro oggetto, il soggetto melanconico sarebbe stato obbligato a far ricadere su di sé l’investimento libidico (lasciato “libero di fluttuare”), con però la conseguenza dell’instaurarsi di una “identificazione” con l’oggetto perduto (da qui la famosa espressione “l’ombra dell’oggetto [abbandonato] cade così sull’Io”).

A questo punto, si instaura secondo Freud un conflitto tra la parte critica dell’Io e l’Io stravolto dall’identificazione con l’oggetto abbandonato. In questo senso la melanconia si rivela essere il risultato di un investimento sull’Io di tipo narcisistico (che aiuta in qualche modo a preservare il legame con l’oggetto perduto, portando tutto “in casa dell’Io”)

Freud scrive:

“Quando l’amore per un oggetto si è rifugiato nell’identificazione narcisistica –ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all’oggetto stesso – accade che l’odio si metta all’opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento”.

Freud dunque vede la melanconia come una distorsione del lutto, la quale prevede un ritiro narcisistico dell’energia libidica, energia poi riflessa sull’Io e che lo conduce, quando troppo potente, a comportamenti anche apertamente anti-conservativi come il suicidio (l’odio verso l’oggetto perduto viene riflesso sull’Io): in questo senso paragona la malattia melanconica ad una ferita aperta che attira su di sé “da tutte le parti energie di investimento e svuota l’Io fino all’impoverimento totale”.

A proposito invece dei sintomi della malattia melanconica, Freud cita l’insonnia (prodotta da un eccesso di investimento energetico rivolto su di sé) e il curioso fenomeno di riduzione della portata dei sintomi nelle ore serali. In conseguenza di questo, passa poi a descrivere lo stato contrapposto alla melanconia, ovvero la mania, che avviene in questo modo:

“in questi casi avviene qualcosa che fa sì che un grande spiegamento di energia psichica, sostenuto a lungo o trasformatosi in abitudine, a un certo momento diventi superfluo, talché questa energia è resa disponibile per molteplici impieghi e possibilità di scarica. Ciò si verifica ad esempio quando un povero diavolo è sollevato improvvisamente –perché gli piove addosso una grande quantità di denaro –dalla cronica preoccupazione per il pane quotidiano; o quando una lotta lunga e difficile è coronata infine dal successo; o quando,d’un tratto, riusciamo a liberarci da una pesante costrizione o da una posizione falsa in cui avevamo indugiato a lungo; e così di seguito. Tutte queste situazioni sono caratterizzate da un umore allegro, dai segni di scarica dati da un affetto gioioso e da un’accresciuta disponibilità a compiere ogni sorta di atti proprio come nella mania, e in assoluto contrasto con la depressione e l’inibizione tipiche della melanconia. Possiamo azzardarci a dire che la mania non è altro che un trionfo di questo genere, solo che anche questa volta l’Io ignora quali prove ha superato e perché sta cantando vittoria”

Come si nota, la mania rappresenta una cambio di posizione psichica in termini economici: le risorse vengono spese, reindirizzate, altrove, spostandosi dall’Io verso l’esterno, e producendo un senso di trionfo e di alleggerimento. Freud, tuttavia, conclude il breve saggio rimandando ad ulteriori approfondimenti che possano chiarire perché alla melanconia segua spesso una fase di mania, e non così, invece, nella fase di risoluzione del semplice lutto.

Per una lettura integrale: http://www.idipsi.it/it/wp-content/uploads/2014/09/lutto-e-malinconia.-S-Freud.pdf


NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

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2 March 2018

LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO

di Matteo Respino

Non esiste “la depressione”, quanto piuttosto molti tipi di depressione. Le classificazioni usate più comunemente sono basate sui sintomi: per esempio, si parla di depressioni melanconiche, agitate, ansiose. Oggi esiste la possibilità di distinguere le depressioni basandosi su dati biologici, nello specifico sull’attività cerebrale a riposo dei malati, e a partire da queste nuove classificazioni fondate biologicamente muoversi verso la distinzione di tipi di depressione clinicamente rilevanti.

Recentemente la rivista Nature Medicine ha pubblicato un articolo che sta riscontrando un grande successo nella comunità scientifica: si tratta di uno studio multicentrico che titola “Resting-state connectivity biomarkers define neurophysiological subtypes of depression”, promosso dal gruppo di Conor Liston della Weill Cornell Medicine, che ha coinvolto oltre 1000 soggetti in studio.

Link alla pagina pubmed https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27918562

REPORT

La psichiatria, da sempre, cerca di comprendere quali siano i fondamenti naturali, biologici, della sofferenza mentale. Purtroppo, la complessità dei fenomeni in studio non consente di individuare un singolo, chiaro fattore determinante una singola, chiaramente distinguibile malattia. Piuttosto, quelle che chiamiamo “malattie mentali” sono entità più o meno artefatte, nel senso che la loro definizione deriva dall’accordo tra esperti in materia su quali siano i fenomeni con maggiore “autonomia nosografica”. Gli sforzi della psichiatria si sono fondamentalmente sempre mossi nella seguente direzione: definizione di malattia basata su un certo numero e tipo di sintomi, e successiva ricerca dei fattori biologici che sostengono quella malattia “clinicamente definita”. Questo articolo propone di muoversi in direzione opposta. Viene dimostrato infatti come sia possibile distinguere diversi tipi di depressione basandosi contemporaneamente su un dato fisiologico (l’attività cerebrale a riposo) e su certe caratteristiche sintomatologiche.

Gli Autori hanno reclutato oltre 1000 soggetti depressi: per ognuno di essi erano disponibili dati di risonanza magnetica e dati clinici sulla severità e sulle caratteristiche del quadro depressivo. L’attività cerebrale a riposo è stata misurata attraverso uno specifico tipo di scansione di risonanza magnetica chiamata resting-state, in cui si chiede al paziente di stare fermo durante la scansione e, pur rimanendo sveglio, di non pensare a nulla in particolare. Tale tecnica consente di identificare quali aree cerebrali sia più o meno attive a riposo. Queste informazioni sono state poi integrate con quelle cliniche in un’analisi statistica “di cluster”. Per quanto questi nomi possano intimorire, in realtà la statistica è spesso intuitiva da capire: cosa sono le analisi di cluster? Si tratta di identificare dei gruppi “omogenei”, ovvero di mettere insieme, all’interno di un gruppo (o cluster), quelle informazioni che sono allo stesso tempo 1) molto simili tra loro e 2) molto diverse da tutte quelle appartenenti ad altri gruppi. In questo caso tale processo è stato effettuato includendo nella stessa analisi sia i dati di risonanza, sia i dati clinici.

Il risultato è stata l’identificazione di 4 sottotipi di depressione, chiamati “biotipi 1-4”.

Alcuni esempi di come questi biotipi si distinguano per caratteristiche sia cliniche che fisiologiche, ovvero di attività cerebrale a riposo, sono i seguenti:

  • Una riduzione dell’attività cerebrale nei circuiti fronto-amigdaloidei (deputati al controllo cognitivo, frontale, su affetti negativi quali l’ansia e la paura mediati dall’amigdala), si osservava nei biotipi 1 e 4, caratterizzati da elevati livelli d’ansia.

  • Alterazioni dell’attività cerebrale in regioni talamo e frontostriatali (che mediano l’attività motoria, ma anche la motivazione) si sono osservati nel biotipo 3, caratterizzato da anedonia e ritardo psicomotorio.

PROSPETTIVE

Questo studio contribuisce a mostrare come la psichiatria non debba necessariamente fondarsi su classificazioni delle malattie basate “unicamente” sui sintomi, classificazioni che sappiamo essere non del tutto affidabili. L’accuratezza delle classificazioni di malattie in psichiatria potrebbe in futuro giovarsi di un’integrazione sempre maggiore tra dati clinici, ovvero i sintomi osservati quotidianamente, e dati biologici, espressione del funzionamento del nostro corpo.

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27 February 2018

BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI

di Raffaele Avico

link all’articolo originale: http://www.psychosystems.org/files/Literature/borsboomcramerannualreview.pdf

CONTESTO

In questo articolo, il ricercatore olandese Borsboom si spende in una sostanziale e un po’ caustica, ma molto reale, critica alla teoria attuale relativa alla patogenesi dei disturbi mentali, progressivamente arrivata a una omni-comprensiva teoria “bio-psico-sociale”, che è andata negli ultimi anni per la maggiore, ma che di fatto non risponde a nessuna domanda.

Borsboom esegue quindi un’analisi teorica intorno al concetto di sintomo e di disturbo, arrivando a dire che per decenni, seguendo l’idea medica per cui a disturbo corrisponde sintomo (come l’assenza di fiato consegue all’aver sviluppato un cancro ai polmoni), la psicopatologia si è appoggiata sul criterio di causalità lineare: questo, secondo Borsboom, sarebbe un modello troppo semplicistico e poco attendibile. Come esempio, Borsboom cita il disturbo depressivo maggiore, “responsabile” del fatto che il paziente soffra di attacchi di panico, come se appunto il “disturbo” sottostante (che è la depressione) conducesse allo sviluppo di anche quest’altro sintomo (l’attacco di panico). Questo modello esplicativo della psicopatologia, racconta il ricercatore, pare essere stato per molto tempo l’unico “gioco in città”: a un certo disturbo corrisponde il fiorire di certi sintomi, in modo causalmente quasi-determinato.

Questa riflessione teoretica fa da introduzione a un modello che il ricercatore intende presentare, fondato sul concetto di rete: il modello della network analysis.

IL MODELLO

La medicina occidentale, spiega Borsboom, ha nel concetto di diagnosi differenziale la sua maggiore risorsa: è possibile che un mal di testa origini sia da un tumore al cervello, che da una tensione muscolare. Distinguere queste due tipologie di problematica consente di andare a risolvere, in teoria, il problema alla base. Inoltre, esistono disturbi che non presentano sintomi. Questo permette alla medicina di postulare l’esistenza di due livelli di indagine:

  1. il livello dei segni e sintomi del disturbo (per esempio mal di testa, vista offuscata, etc.)
  2. il livello di disturbo in sé (contrattura muscolare, stress, cancro, etc.)

In ambito di psicopatologia, le cose si fanno enormemente più complesse: se usiamo il prima citato modello medico, andremo a supporre la presenza di un disturbo “sottostante” a produrre i sintomi (per esempio gli attacchi di panico o l’insonnia). Essendo però che 1) i disturbi sottostanti non possono essere osservati empiricamente, e che 2) non è possibile pensare in psichiatria un disturbo che non produca sintomi (in quel caso, non esisterebbe, o non verrebbe rilevato), Borsboom considera insensata, per l’ambito psicopatologico, la distinzione tra i segni/sintomi e il disturbo in sé: in psicopatologia, tutto ciò che andrebbe fatto è considerare e focalizzarsi sui sintomi e le relazioni tra di essi.

In psichiatria e psicologia clinica non esiste infatti l’asimmetria presente nel modello causale medico (per cui un problema di ordine maggiore come un cancro al cervello produce un sintomo minore come l’offuscamento della vista): i sintomi sono sullo stesso piano e causalmente legati tra di loro. Per esempio, Borsboom fa notare, la ricerca lega il disturbo da stress cronico al disturbo di insonnia, che a sua volta produce ricadute di tipo depressivo; pensiamo anche alla sterminata letteratura psicotraumatologica che osserva come la gestione di un disturbo post—traumatico conduca a prostrazione cognitiva e depressione (“stanchezza psichica” nei termini di Pierre Janet).

Borsboom propone dunque di passare, in ambito di psichiatria, dal modello costruito sui due livelli disturbo/sintomo, al modello di network di sintomi, in grado di influenzarsi a vicenda e di funzionare come una rete:

 

Qui i sintomi vanno a creare un quadro complesso e modellato sul concetto di causalità CIRCOLARE e non più lineare (ogni elemento del sistema è influenzato e può influenzare gli altri, come succede nei sistemi complessi).

Questo costituirebbe secondo Borsboom il cuore della fenomenologia psicopatologica, e aprirebbe un varco tra i metodi della medicina occidentale attuali e quelli che dovrebbero essere usati in ambito di salute mentale: due mondi diversi, con leggi diverse, esplorabili con mappe diverse.

Lo scarto è evidente: laddove nell’ottica “precedente” i sintomi rappresentano segni uniformi di un malessere che viene prima, questi vanno ora considerati come ingredienti del disturbo stesso e in grado di influenzarsi l’uno con l’altro. Passiamo dunque da un prospettiva verticalistica (con un disturbo gerarchicamente superiore che precede, e i sintomi dopo), a una visione sistemica e d’insieme, con disturbi sullo stesso piano che si influenzano a vicenda e a vanno a formare il quadro clinico. La psicoterapia dovrebbe essere quindi focalizzata sui sintomi e sulla relazione tra di essi, senza cercare qualcosa “dietro”, troppe volte solamente supposto.

Borsboom fa notare inoltre che questo modello di studio dei sintomi, può essere allargato per divenire un modello diffuso, in cui i sintomi di una persona A sono in grado di interferire sui sintomi di una persona B, come si osserva in quadri complessi come la folie à deux (reti complesse di sintomi che interferiscono tra di loro), oppure in ambito di psicopatologia infantile (per esempio nel caso di un bambino che viene costantemente a contatto con la mente e i sintomi dei genitori). Si notino le evidenti connessioni alla teoria che sta dietro la psicoterapia sistemico/famigliare.

APPLICAZIONI CLINICHE

Per costruire un modello complesso di una rete di sintomi, occorre che il paziente in prima persona sia in grado di narrare con precisione la sua storia sintomatologica: possedere un’idea della comparsa dei sintomi nel tempo, potrebbe aiutare a costruire, sostiene l’Autore, un modello esplicativo complesso del quadro clinico del soggetto, senza per forza usare un modello di causalità lineare, ma multi-direzionale e circolare.

Nel quadro clinico di Bob, per esempio, l’assenza di sonno consegue al sintomo “self-REPRoach”, a sua volta originato da WEIGHT (problematica relativa alla percezione di sé in termini di peso corporeo), ed è in grado di causare affaticamento (FATIgue)- e così via.

Il modello esplicativo è intuitivo e comprensibile e, come tutte le buone teorie, molto adeso alla realtà e facilmente sottoscrivibile dai pazienti.

Borsboom propone di inserire la variabile TEMPO in una rete complessa di sintomi che si producono/influenzano a vicenda. Le frecce colorate che si osservano nel video sopra riportato chiarificano “cosa viene prima di cosa”, e permetterebbero, se questo modello fosse applicato più frequentemente in psicoterapia, di focalizzare il sintomo più invalidante (quello più centrale) e più “potente” nel produrne altri (la forza e lo spessore della freccia colorata).

In conclusione, Borboom scrive:

[…] From both perspectives, it is a waste of time to search for the essence of MD or PD. The researcher who ignores the study of symptom dynamics to look for the essence of disorders could be likened to Ryle’s (1949, p. 16) visitor to Cambridge who, after being shown the colleges, libraries, scientific departments, and administrative offices, asked “But where is the University? I have seen where the members of the “Colleges live, where the Registrar works, where the scientists experiment, and the rest. But I have not yet seen the University. . ..” However, this does not mean that research, originally aimed at uncovering essences of disorders (e.g., genomewide association studies, serotonin dysfunction research in MD), is unimportant and unnecessary. To the contrary, from a network perspective, such research endeavors are highly important. Rather, the key questions of such endeavors should be rephrased. Thus, instead of searching for “genes the cause MD”we are searching for “genes that cause certain risky network structures in individuals” “(Crameret al. 2011)

(in italiano, sinteticamente, Borsboom usa l’immagine d un visitatore che arrivando a Cambridge si soffermi a chiedere “dov’è l’università?”, quando l’università è costituita dalla somma delle sue micro-strutture interne; questo come critica all’idea che dietro i sintomi ci debba essere sempre un disturbo maggiore)

Questo approccio supera come si legge il concetto freudiano del “rimosso”, spostando l’attenzione del clinico sul qui e ora del quadro psicopatologico del paziente, senza favorire dietrologie e interpretazioni su cause “primeve” tanto supposte quanto, Borsboom spiega, spesso inesistenti.

Inoltre, consente un’integrazione di elementi di natura neurologica o più attinenti alla sfera del corpo, entro una rete unificata, maggiormente esplicativa e completa del quadro clinico dei pazienti.

“However, in our view it is extremely likely that once researchers start taking the dynamics of symptomatology seriously, they will find feedback loops that cross the borders of traditional thinking. Naturally, genetic differences may predispose to the development of disorders, but persistent symptomatology (e.g., insomnia or loss of appetite) may cause differential gene expression just as well; in turn, such changes may affect a person’s brain state and ultimately feed back into the environment, as in the extended feedback loops discussed previously in this review (see also Borsboom et al. 2011)” […] Whichever theory of mental disorders one adheres to, they all share a deep desire to understand the inner workings of mental disorders. We all agree that finding out why some people are more vulnerable to developing mental disorders than others, how we can protect vulnerable people from harm, and how we can effectively treat people who have already fallen into the abyss of mental dysfunction are among the most pressing questions in the fields of clinical psychology and psychiatry. A disease model of mental disorders likely will not bring us any closer to finding answers to these questions. The network perspective very well might.”

(in italiano: Borsboom spinge a riconsiderare l’efficacia del modello classico, dietrologico, della psichiatria attuale, in favore del modello a rete, più pratico e spendibile in termini strettamente clinici)

Denny Borsboom, Amsterdam: https://dennyborsboom.com/

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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
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  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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